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funzionale alle reali esigenze dell’economia toscana

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Academic year: 2021

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CA P I T O L O 4 IL C A S O T O S C A N O D E I V I L L A G G I E Q U A R T I E R I O P E R A I

4.1 L’industrializzazione in Toscana

Grazie a secoli di storia che l’avevano vista stato sovrano, alla proclamazione dell’Unità d’Italia nel 1861, la Toscana si presenta come un’entità territoriale saldamente e nettamente conformata. La regione, inoltre, è ricca di risorse naturali, dotata di buone infrastrutture e il suo sistema bancario è solido e ben articolato, quindi ha un potenziale molto alto per lo sviluppo industriale, ma i nobili, i borghesi, i piccoli imprenditori non riescono a sfruttarlo e si devono attendere gli investitori esteri per far partire l’era industriale in Toscana.

Alla metà del ‘700, i Lorena danno il via ad una serie di interventi sul territorio che hanno lo scopo di ricomporre i vistosi squilibri di natura ambientale, infrastrutturale, economica e sociale esistenti tra le diverse zone della Toscana.

L’obiettivo di questo processo di riforme non è solo l’unificazione del territorio da un punto di vista amministrativo e legislativo ma soprattutto economico e commerciale. In questo progetto, la questione delle comunicazioni diventa centrale, per cui, tra la metà del ‘700 e quella dell’800 si verifica un ingente sviluppo della rete sia viaria, a livello nazionale e transnazionale1, sia di quella ferroviaria, soprattutto tra gli anni ’40 e ’50 dell’800, per favorire il settore agrario e quello del commercio.

In particolare, la costruzione della rete ferroviaria avviene con l’utilizzo di capitali privati e questo consente un’«articolazione spaziale, […] funzionale alle reali esigenze dell’economia toscana […] e in grado di mettere in comunicazione le principali città e province lungo la trama di un ordito essenziale che, anche dopo l’affermazione della società industriale, non avrebbe richiesto radicali variazioni, ma solo opportuni completamenti»2.

L’insieme degli interventi di ordine politico e amministrativo, sociale ed economico e delle grandi realizzazioni infrastrutturali realizzate da Pietro Leopoldo

1 L’obiettivo è creare collegamenti efficienti da un lato con la Padania, Vienna e i porti adriatici, dall’altro all’interno delle città e dei borghi che appartengono al Granducato, per permettere l’unificazione del mercato nazionale.

2 Leonardo Romabai; Rossella Valentini, “I luoghi e le aree dell’industria alla metà dell’Ottocento,”

in Luoghi e immagini dell’industria toscana. Storie e permanenze, a cura di Carlo Cresti, Michele Lungonelli, Leonardo Rombai, Ivano Tognarini (Venezia, I: Marsilio, 1993), 40.

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prima e da Leopoldo II poi, attivano importanti cambiamenti soprattutto in due aree periferiche della regione, quella appenninica e quella maremmana.

In alcune zone dell’Appennino, le leggi liberistiche leopoldine e le nuove strade favoriscono la crescita di impianti per la trasformazione del ferraccio3, come ferriere, distendini, filiere e chioderie, mentre nel Casentino, grazie alla presenza di gualchiere, tintorie e purghi, si diffonde l’industria tessile lanaria, già presente nel territorio fin dal Tardo Medioevo attraverso il lavoro a domicilio di filatura e tessitura.

Nella Montagna Pistoiese, grazie ai collegamenti con Modena, si assiste al potenziamento dell’industria siderurgica statale, in particolare degli impianti di Mammiano, Sestaione, Cutigliano e Piteccio e al rafforzamento delle cartiere della famiglia Cini presenti sui fiumi Lima e Limestre nella bassa Val di Lima (alto Pesciatino).

La bonifica effettuata dai Lorena in Valdichiana, Valdinievole, Bientina e nelle Maremme litoranee attraverso opere di natura idraulica, stradale e idroviaria trasforma profondamente i connotati paesistici e le strutture economico-sociali esistenti. In particolare «in Maremma fu importante lo sviluppo della siderurgia statale (specialmente del polo di Follonica4) e la promozione delle attività minerarie, inquadrate dai Lorena nell’ambito della “bonifica integrale”, e viste come il fulcro integrato per il “risorgimento” di quella derelitta provincia»5.

Pietro Leopoldo, negli anni ’80 del ‘700, promuove una serie di ricerche nei settori delle acque termali, dei soffioni boraciferi e delle miniere di carbon fossile, per far fronte alla sempre maggiore richiesta di combustibile ad uso delle attività produttive e domestiche e per frenare il dilagante disboscamento, causa di danni ambientali e idrogeologici.

Il processo di impianto di una moderna industria mineraria prende avvio, però, solo tra gli anni ’30 e ’40 dell’800, grazie alla grande richiesta di materie prime sul mercato internazionale.

«Nella prima metà dell’Ottocento, allorché nell’Europa occidentale prende avvio la rivoluzione industriale, la Toscana Granducale si trovò di fronte ad una grossa occasione storica per sfruttare le sue notevoli – per il tempo - risorse minerarie e la sua buona, se non ottima, collocazione geografica, rafforzata dalla rete notevole delle comunicazioni (strade rotabili e ferrovie, porto di Livorno) che i Lorena avevano creato in una regione che, prima di altre, aveva maturato una sua specie di unità nazionale»6.

Purtroppo, però, i Lorena preferiscono portate avanti una politica economico liberista che sostiene l’ordinamento mezzadrile, anziché incentivare l’industrializzazione, e promuovono l’incremento produttivo e l’ammodernamento tecnico delle aziende agricole. Il mancato rilancio dell’industria porta allo sviluppo dell’esportazione delle materie prime e pone l’economia del Granducato in posizione complementare rispetto alle nazioni in via di industrializzazione.

3 È Il prodotto che si ottiene dalla prima fusione del ferro.

4 Si veda il paragrafo 4.2.

5 Romabai; Valentini, “I luoghi e le aree dell’industria alla metà dell’Ottocento,”42.

6 Ibid., 47.

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A causa della strategia di conservazione sociale ed economica fondata sull’agricoltura e sull’immobilismo dei rapporti mezzadrili, la Toscana conosce, nella seconda metà dell’800, una progressiva emarginazione economica nel contesto dell’Italia unita. L’assenza o scarsa rilevanza della grande industria capitalistica è da ricercare, essenzialmente, nella radicazione alla terra e nell’atteggiamento anti-industriale del ceto imprenditoriale, più che nella mancanza di capitali.

Quando, infatti, nella prima metà dell’800, in Italia si assiste ai primi segni della diffusione degli effetti dell’industrializzazione, in Toscana le attrezzature delle attività manifatturiere sono decisamente arretrate, la presenza delle conquiste tecniche della rivoluzione industriale è nulla e l’apparato produttivo si basa principalmente sul lavoro a domicilio procurato da mercanti-imprenditori. Sono largamente diffuse attività artigianali e manifatture di modeste dimensioni, distribuite in maniera puntiforme sul territorio. Centri industriali intesi come nuclei di più imprese, appartenenti anche a settori produttivi diversi, sono pochi e limitati ai comprensori della Montagna Pistoiese e del litorale maremmano, per quanto riguarda la siderurgia; al circondario di Colle Valdelsa e alle valli della Pescia del Lima per il settore cartario; alla Valle del Bisenzio e al Casentino per la lana e, per quanto riguarda le materie prime, l’Isola d’Elba per il ferro, la Val di Cecina per i lagoni boraciferi e le Alpi Apuane per il marmo.

Lo spazio utilizzato per la produzione è limitato e le trasformazioni indotte sul territorio sono modeste, al punto che le industrie si confondono con le unità abitative all’interno degli agglomerati urbani. Per avere delle trasformazioni paesistico-territoriali di rilievo si devono aspettare le grandi imprese minerarie e manifatturiere, che portano alla fondazione di veri e propri centri abitati.

In questo quadro di arretratezza, l’unica eccezione è rappresentata dalla produzione di acido borico, che costituisce un esempio di avanguardia per i procedimenti tecnici attuati nella lavorazione e che si sviluppa grazie all’iniziativa di un imprenditore estero, Francesco Larderel7.

Il sistema delle comunicazioni ha senza dubbio un ruolo determinate nella localizzazione dei singoli insediamenti industriali e nella distribuzione generale delle fabbriche. Per quanto riguarda il settore siderurgico, un’altra importante componente da tenere in considerazione è la plurisecolare tradizione che caratterizza alcune zone, come Follonica, Valpiana, Cecina e Capalbio, dove sono già presenti impianti per la lavorazione e maestranze professionalmente preparate.

Nel primo ‘800, un altro elemento fondamentale per la localizzazione delle industrie è, senza dubbio, la presenza di risorse naturali: si può notare, infatti, che gli opifici dove si usano macchinari funzionanti con forza idraulica o quelli in cui si effettuano operazioni come il lavaggio, la follatura8, la tintura e la conciatura sono

7 Si veda il paragrafo 4.4.

8 Trattamento di base per l’apprettatura dei tessuti di lana, consistente in una feltratura che si esegue in apposite macchine (folloni) in cui il tessuto, imbevuto di soluzioni alcalino-saponose oppure acide, subisce una compressione meccanica che salda fra loro le varie fibre conferendo al tessuto maggiore resistenza, compattezza e una certa impermeabilità.

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dislocati lungo corsi d’acqua e questo fenomeno è riscontrabile soprattutto nella parte centro settentrionale della Toscana, particolarmente ricca di acqua corrente.

Gli opifici “ad acqua” interessano diversi settori produttivi, dall’industria molitoria a quella cartaria a quella tessile a quella conciaria. Ad esempio, lungo la Pescia maggiore, tra il 1820 e il 1830 si censiscono, in 15 km, 75 fabbriche tra mulini da grano e da olio, cartiere, gualchiere, tinte per la lana, valichi e filande per la seta, concerie di pelle, ferriere.

Volendo fare una divisone delle varie industrie per aree geografiche, si può dire che il settore tessile si sviluppa prevalentemente nelle province di Lucca, Pisa e Massa, quello cartario nel pesciatino, il siderurgico lungo il litorale maremmano e l’isola d’Elba, la lavorazione del cuoio nel distretto di Santa Croce, la ceramica nella zona di Signa e Montelupo Fiorentino9 mentre nella conca fiorentina troviamo la lavorazione di trecce e cappelli di paglia.

Dopo l’Unità d’Italia, la Toscana mostra tutta la sua arretratezza nel campo industriale, confermata dalla presenza di manifatture in larga parte alimentate da forza motrice idraulica. Questo non toglie che si possa rilevare la presenza di alcuni opifici che hanno segnato la storia del territorio in cui sono sorti, dando luogo anche ad importanti episodi di urbanizzazione che hanno comportato la nascita di quartieri e villaggi intorno alla fabbrica.

«Un’analisi del processo dell’industrializzazione in Toscana tra Otto e Novecento evidenzia fin dalla fase di avvio la presenza di svariati esempi di one company town, cioè di esperienze di sviluppo manifatturiero profondamente segnate dall’insediamento di nuclei produttivi a forte monocoltura industriale»10.

Malgrado, quindi, l’iniziale arretratezza, alcune industrie iniziano piano piano ad impiantarsi in Toscana, grazie soprattutto agli investimenti di imprenditori stranieri. In alcuni casi lo sviluppo di questi impianti è così notevole da comportare la nascita di residenze e strutture per i lavoratori, organizzate in quartieri e villaggi operai. Non sempre si tratta di luoghi che presentano una precisa pianificazione iniziale, più spesso ci troviamo di fronte a casi in cui i nuclei si formano spontaneamente intorno alla fabbrica. Nel caso di Follonica, sarebbe, infatti, quasi più corretto parlare di città-fabbrica, anziché di villaggio operaio, perché, soprattutto il primo nucleo residenziale e di servizi è sorto in stretta e diretta relazione con lo stabilimento di lavorazione del ferro.

4.2 Follonica

Follonica, che si sviluppa su una superficie di circa 9 ettari, conserva nel cuore del centro st0rico l’area di quello che è stato lo stabilimento siderurgico più importante, per alcuni secoli, di tutta la costa maremmana, rimasto in funzione per almeno 500 anni, fino al 1960, quando l’ILVA, di cui faceva parte, ne decise la chiusura.

9 Degna di nota è la fabbrica Ginori di Doccia, specializzata nella produzione di porcellane, maioliche e stufe, nata nel 1737, che nel 1840 contava 110 lavoratori.

10 Michele Lungonelli, “Piombino: una città fabbrica nella prima metà del Novecento,” in Annali di storia dell’impresa (Venezia, I: Marsilio, 2002), 189.

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La cittadina rappresenta uno degli esempi tipici di insediamento stagionale11 sorti intorno al XVI-XVII secolo e cresciuti nel corso del ‘700. Con lo sviluppo dell’attività metallurgica, il nucleo originario si trasforma in un insediamento stabile, dove la presenza di popolazione maschile e femminile12 è condizione essenziale alla formazione e alla crescita della comunità e dove gli aspetti della vita sociale, economica e religiosa si intrecciano.

Figura 4.2.1. L’insediamento di Follonica

La fabbrica, che si sviluppa in un preciso contesto geografico-economico, è lo spazio fondamentale di tutto il processo formativo dell’insediamento che si trasforma in “villaggio”, è il primo elemento dello spazio urbano, che nasce come completamento dell’attività produttiva. All’interno del sito industriale, il villaggio diventa espressione concreta dello stretto rapporto tra attività lavorativa, residenza e collettività.

La storia industriale di Follonica inizia a metà del XVI secolo, quando Iacopo VI Appiani, signore di Piombino, decide di installarvi delle fonderie metallifere.

Data la scarsità di centri abitati vicini e la mancanza di infrastrutture che agevolino i collegamenti con la fabbrica, l’azienda della Magona13 decide di realizzare un insediamento abitativo, del tutto simile agli altri villaggi siderurgici toscani, in cui al centro si trovano i forni fusori e le ferriere e in prossimità di questi, le abitazioni e i servizi.

Il sito vive alterne fortune per circa due secoli, a causa dell’insalubrità dei luoghi paludosi e ha una nuova rinascita nel XIX secolo, sotto il dominio

11 Gli insediamenti stagionali sono operativi nel periodo di funzionamento degli impianti industriali, cioè da novembre ad agosto, perché con la stagione estiva la malaria impediva la lavorazione.

12 Fino ai primi decenni dell’800 i villaggi industriali che caratterizzano il panorama della siderurgia maremmana sono privi della popolazione femminile e le maestranze non sono fisse.

13 La Magona del Ferro è l’ufficio creato da Cosimo I dei Medici nel 1542 per gestire in regime di monopolio l’importante e strategica industria della fusione in vari altoforni dei minerali ferrosi estratti dall’isola d’Elba, nonché di raffinazione e lavorazione del ferro greggio in innumerevoli ferriere o distendini o altre officine, con la vendita nel Granducato e all’estero dei prodotti (ghisa, semilavorati, manufatti vari per usi civili e militari).

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napoleonico. Agli inizi dell’800, la fabbrica di Follonica presenta i seguenti ambienti adibiti a residenza: il camerotto del maestro del forno, strategicamente posizionato nella struttura del forno fusorio per controllare i sottoposti, il camerotto dei picchiavena, il camerotto dei gerlinai, il palazzo vecchio per i ministri, la bottega del fabbro con un camerotto, il camerotto dei chiodaioli; nella piazza dei carbonili, il camerotto dei segnasome, il camerotto detto “il granaio”, il camerotto “sotto”, la bottega del falegname, la stalla dei buoi presso i camerotti nuovi, il semolaio ed altri ambienti adibiti a dormitori, cui si aggiungono l’osteria, la macelleria, la stalla, il palazzo nuovo per i ministri e la chiesa. A questi spazi si uniscono il mulino e i diversi magazzini per la lavorazione del ferro.

Nel 1815, a seguito dell’annessione al Granducato di Toscana, le strutture di produzione e i forni, il primo già esistente alla fine del 1500, il secondo costruito nel 180614, vengono ammodernati e migliorati.

Nel 1831, Leopoldo II dispone la grande bonifica della Maremma e Follonica diventa sede dell’Imperiale e Reale Amministrazione delle Miniere di Rio e Fonderie del Ferro, succeduta alla Magona nella gestione degli impianti siderurgici maremmani, perché situata sulla costa, il più possibile vicina all’isola dell’Elba, luogo di estrazione del minerale. Si dispone un intenso programma di rinnovamento tecnologico degli impianti così da far diventare Follonica uno dei più moderni e funzionali poli della siderurgia a livello nazionale.

Tra il 1834 e il 1841 si realizza, su progetto di Henry Auguste Brasseur, il complesso della fonderia, che prevede due forni accoppiati, detti di San Leopoldo e Maria Antonia. Con lo sviluppo del centro siderurgico, intorno 1836, si avvia il disegno urbanistico di Follonica che, come primo atto fondativo, prevede la recinzione del perimetro della fabbrica: in questo modo si attua una specializzazione degli spazi, al di qua e al di là delle mura. Il complesso inizia ad assumere l’aspetto di un vero e proprio villaggio, racchiuso all’interno di mura, cui si accede attraverso un cancello ancora oggi esistente, che rappresenta la porta della nascente città e sottolinea la funzione di confine e di accesso alla fabbrica.

All’interno del recinto sorgono le case degli operai, una scuola, una panetteria, una farmacia e uno spedale-ricovero.

Ben presto, però, il recinto non è più in grado di contenere la progressiva crescita industriale e demografica e la città inizia ad espandersi al di fuori del recinto e il cancello, in ghisa, diventa così il simbolo della natura economica dell’insediamento.

Nel 1838 si costruisce, al di fuori dello spazio produttivo, la chiesa di San Leopoldo, progettata dagli architetti Giuseppe e Alessandro Manetti e Carlo Raishammer, che assume un ruolo paradigmatico e diventa l’elemento ordinatore cui rapportare l’intera struttura del nuovo centro. La chiesa rappresenta l’edificio pubblico per eccellenza, dove si svolgono anche corsi scolastici e racchiude quindi in sé sia la dimensione pubblica sia quella civile del villaggio in fieri15.

14 Si tratta del cosiddetto “Fornino”.

15Angela Quattrucci, “Stagionalità e stanzialità del lavoro di fabbrica,” in Ricerche Storiche, no. 1 Anno XXXIX (Gennaio-Aprile 2009): 207.

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Figura 4.2.2. Il cancello d’ingresso

Figura 4.2.3. La chiesa di San Leopoldo

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Il progressivo sviluppo demografico comporta l’introduzione dell’insegnamento scolastico nel villaggio16, che ha il duplice scopo di educare i lavoratori per aumentarne la produttività e di elevare il popolo. Accanto all’istruzione base, si iniziano a fornire nozioni organizzate all’interno di scuole di carattere tecnico, di disegno ed ornato, per formare addetti al reparto artistico della fonderia, anziché istruirli solo attraverso il tirocinio da svolgersi direttamente in fabbrica.

Nel 1851 la gestione del complesso passa al Banco Livornese di Pietro Bastogi e otto anni più tardi al francese Ponsard e in questo periodo si attuano ulteriori innovazioni, come il collegamento dello stabilimento ai pontili della marina mediante strada ferrata, la costruzione dei Forni delle Ringrane e quella dell’Altoforno n.4 o “Fornone”. Dall’Unità d’Italia al primo decennio del XX secolo si attuano diverse modifiche a livello societario e di proprietà, finché, nel 1918, la proprietà passa all’Ilva. Negli stessi anni, però, inizia un lento degrado per le fonderie, causato dallo sviluppo del polo siderurgico di Piombino.

4.3 La Briglia

Fin dagli inizi del ‘700 è testimoniato, in questo luogo della Val di Bisenzio, la presenza di un oratorio e di una locanda per quei viaggiatori che volevano raggiungere la pianura padana attraversando gli Appennini.

Nel 1730, Clemente Ricci, cartaio genovese, già detentore dell’Appalto della Carta per il Granducato di Toscana, decide di impiantare a Colle Val d’Elsa, in una delle aree principali toscane per la produzione di carta, una cartiera e molto probabilmente si deve proprio al marchio utilizzato da Ricci per contraddistinguere la sua produzione, cioè un cavallo imbizzarrito trattenuto da una briglia, il nome del villaggio.

Inizialmente il toponimo indica soltanto l’impianto produttivo e solo in un secondo tempo comincia ad indicare anche il tessuto urbano che si sviluppa intorno alla cartiera, a testimonianza di come l’impianto produttivo sia l’elemento generatore di tutto il paese.

La fabbrica misurava 80 braccia di lunghezza e 20 di larghezza ed si articolava su 4 livelli: nel seminterrato si trovano i macchinari della cartiera, mentre all’ultimo piano c’era lo spanditoio17 con grandi aperture su tutti i lati da cui prendeva accesso la sovrastante colombaia, mentre ai due piani intermedi si trovavano le abitazioni del conduttore della cartiera e di alcuni lavoratori. A piano terra, in prossimità della strada maestra, si trovava un grande locale adibito alle operazioni di rifinitura della carta con funzione anche di bottega.

16 Nella metà dell’800 trova posto nell’organico della fabbrica una donna come educatrice della scuola femminile.

17 Lo spanditoio è il locale collocato tradizionalmente all’ultimo piano della cartiera, generalmente ripartito in due aree distinte: lo spanditoio piccolo destinato all’asciugatura della posta bianca e lo spanditoio grande dove si stendevano le carte dopo il trattamento di collatura.

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Figura 4.3.1. Ricostruzione assonometrica del complesso della cartiera

La configurazione dell’edificio non è dissimile da altri analoghi impianti coevi: la sua eccezionalità, però, sta nel fatto che accanto ad esso si trovano due fabbricati che ospitano, oltre alle stalle e ai magazzini a piano terra, le abitazioni per i lavoratori ai piani superiori. Questo fatto ci dimostra che in qualche modo l’imprenditore si fa carico di trovare un alloggio alle maestranze specializzate che lavorano nel suo opificio e che vengono da distretti produttivi più avanzati, come quello di Lucca e Pescia. Si viene così a costituire una piccola comunità, avulsa dal territorio in cui si trova e che ruota tutta intorno all’impianto produttivo, a cui Ricci offre gratuitamente un alloggio.

Nel 1737, Ricci fa realizzare anche una cappella, direttamente collegata al suo appartamento, per consentire ai lavoratori di assolvere i loro compiti religiosi, senza dover perdere tempo recandosi altrove per assistere alle funzioni. In realtà, la vera motivazione ha più un carattere di controllo sulle maestranze, dato che nelle vicinanze dell’opificio si trova già il “Chiesino”, che in questo modo perde il suo ruolo e addirittura viene profanato e distrutto nel 1762, mentre la cappella eretta da Ricci acquista nel tempo carattere pubblico, tanto che rimane in funzione anche quando l’attività della cartiera diminuisce.

Ricci fa anche costruire un forno collettivo e impiantare la bottega di un maestro d’ascia, che oltre ad assolvere i fabbisogni della cartiera, estende i suoi servigi anche ad altri opifici della vallata. Ricci avrebbe anche voluto spingersi oltre nella costruzione del piccolo villaggio, realizzando un mulino e un’osteria, quindi strutture che vanno oltre il soddisfacimento dei bisogni primari di una comunità, ma i suoi soci si oppongono e il progetto non si concretizza.

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Dopo circa 100 anni di attività, agli inizi dell’800 la produzione è ridotta al minimo a causa dell’avvento di profonde innovazioni tecnologiche, come il cilindro olandese18, già adottato nella vicina cartiera della Lima.

Nel 1839 la cartiera, ormai dismessa, è acquistata da una società ango- italiana formata dai fratelli Orazio e Alfredo Hall, Francesco Giuseppe Sloane e Igino Coppi, che la trasformano in una fonderia, che rimane attiva dal 1845 al 1873.

La decisione di inserire questa lavorazione è da ricercare nel fatto che la società è proprietaria della miniera di Caporciano a Montecatini Val di Cecina19.

La scelta di localizzare alla Briglia la fonderia ha più motivazioni: la zona è ricca d’acqua, necessaria per azionare i meccanismi di pesta del minerale e delle soffiere, e di boschi, il cui legname è essenziale per alimentare i forni fusori, i mercati di smercio dei prodotti finiti sono vicini e i fratelli Hall sono nipoti di Sebastiano Kleiber, importante imprenditore della Toscana Granducale e membro dell’ultima società proprietaria della cartiera.

Figura 4.3.2. Vista del complesso della fonderia nella sua fase più matura

Per adattare il fabbricato al nuovo uso, viene chiamato l’architetto Tommaso Cini, che fa erigere l’imponente ciminiera quadrangolare in mattoni, ancora oggi simbolo del paese, e alla cui base colloca i forni fusori. La realizzazione di questo elemento, alto 43 metri, è stato oggetto, all’epoca, di enormi discussioni per il forte impatto sul paesaggio ma oggi costituisce una delle più importanti testimonianze italiane nell’ambito della storia della metallurgia, perché si è scoperto che il suo basamento, un massiccio parallelepipedo in pietra con spessore della muratura di

18 Il cilindro olandese è un macchinario cilindrico costituito da lamelle trasversali che strofinandosi l’una con l’altra tagliano e sminuzzano i pezzi di stoffa.

19 Anche nei pressi della miniera la società crea un villaggio operaio che presenta diverse analogie con quello della Briglia.

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1,80 m, altro non è che il corpo dei due forni a manica dove si fondeva il minerale, come attestano le numerose tracce di ossido di rame al suo interno e le bocche di carica in seguito rimurate.

L’origine inglese di alcuni membri della società proprietaria della fonderia, ha molto probabilmente fatto sì che si attuassero opere dal carattere paternalistico all’interno della Briglia, tra l’altro terreno fertile per l’impianto di questo genere di iniziative grazie alla precedente esperienza maturata con Ricci.

Per dare maggior corpo all’identità della comunità che ruota attorno alla fabbrica, si provvede ad un riassetto del tessuto urbanistico: si crea un’unica penetrazione da nord e si forma un’ampia piazza, davanti alla fabbrica, chiusa da un lungo fabbricato in stile neoclassico, che conferisce un senso di ordine ed unitarietà. Nell’edificio della fabbrica viene introdotto uno dei simboli dell’industrializzazione, cioè l’orologio, che trova posto sulla torretta che ha sostituito la vecchia colombaia.

Lungo la strada principale si realizza un fabbricato che al piano superiore ha alloggi per operai e al piano terra è usato come carbonile; sfruttando il dislivello del terreno, l’edificio ha due ingressi separati per le due funzioni: l’accesso alle residenze avviene, infatti, dal piano strada superiore, mentre quello al magazzino avviene dalla strada inferiore in continuità con la fabbrica.

Si realizzano poi edifici per impiegati, botteghe per i lavoranti di ferro e legno, un mulino, un frantoio e una fornace di laterizi, che rende autonomo l’insediamento nella costruzione degli edifici.

In posizione appartata rispetto al nucleo del paese, si costruisce la cosiddetta

“villetta”, cioè la residenza usata dal proprietario della fonderia o dal direttore.

Intorno al 1860 si assiste ad un aumento di produzione che comporta una riorganizzazione del nucleo del paese, mediante la costruzione di nuovi corpi fabbrica, di alloggi per operai e la demolizione dell’antico oratorio della cartiera, sostituito da una chiesa in stile neogotico20.

Nello stesso periodo si provvede anche a rafforzare il tessuto sociale all’interno del villaggio, già costituito con la creazione della cartiera. Si promuovono attività a favore dei lavoratori e delle loro famiglie, soprattutto nei momenti di difficoltà, come ad esempio quello dovuto ad un’epidemia di colera, e si presume che siano state istituite anche scuole per l’istruzione dei fanciulli, in analogia a quanto fatto nell’insediamento adiacente alla miniera di Caporciano.

Per assistere ad una nuova fioritura della Briglia bisogna attendere il 1882, quando Beniamino Forti, in società con Luigi Cecconi, acquista la fonderia e la trasforma in un opificio tessile. Grazie alla specializzazione nella produzione in lane rigenerate, Forti, insieme ai figli, incrementa notevolmente l’attività, fino a rilevare l’intero complesso della Briglia. Il forte sviluppo comporta la necessità di assumere nuova manodopera, che viene fatta arrivare da paesi vicini e quindi si presenta, ancora una volta, la necessità di realizzare nuovi alloggi. Inizialmente si riutilizzano i dormitori della vecchia fonderia collocati nell’edificio del “casone” e

20 La scelta dello stile architettonico è molto probabilmente dovuta al fatto che Sloane, negli stessi anni, finanzia il rivestimento della facciata della chiesa di Santa Croce a Firenze, che presenta gli stessi stilemi.

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si trasformano in mensa alcuni spazi del vecchio deposito della legna.

Successivamente si realizzano appartamenti per gli operai con famiglia nella struttura del “carbonile” e si recuperano per fini abitativi le strutture per il ricovero della legna, facendo attenzione a dotare questi spazi di un ingresso separato rispetto alla fabbrica, per evitare promiscuità tra spazi di lavoro e spazi privati.

Agli inizi del ‘900, a seguito di un nuovo incremento produttivo, si inizia un sistematico programma edificatorio di nuovi capannoni a shed lungo il fiume, dove i Forti installano una produzione a ciclo completo. Per far fronte alla richiesta di nuove abitazioni, si realizzano residenze nella parte nord-ovest dell’insediamento, dove sono presenti aree agricole di proprietà della famiglia Forti, mentre la fabbrica si espande nell’area sud-est. Si realizza un secondo “casone” di appartamenti e una serie di abitazioni unifamiliari21 lungo un nuovo asse di sviluppo che prende il nome di viale Regina Margherita. A piano terra del “casone” viene inserita una cooperativa, cioè un negozio di generi alimentari a servizio dello stabilimento, con prezzi calmierati e possibilità di credito per i lavoratori.

Il villaggio viene dotato inoltre di un bar, di un forno, di un tabaccaio, di barbieri, di un macellaio, di un circolo ricreativo e, negli anni ’30, di un campo da calcio.

A chi ne fa richiesta, viene assegnato un piccolo appezzamento di terreno per effettuare la coltivazioni di ortaggi rivolti essenzialmente all’autoconsumo.

Figura 4.3.3. Il secondo “casone” con la Cooperativa a piano terra e gli appartamenti ai piani superiori

21 La tipologia delle residenze è di tre tipi: a schiera, a ballatoio, in linea.

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I Forti, conoscenti diretti di Alessandro Rossi22, coinvolti nella vita politica della vicina Prato, si preoccupano di offrire servizi che vanno oltre le esigenze del semplice abitare, consci del fatto che gli operai hanno dato vita ad una vera e propria comunità. Per questo, nel 1917, costruiscono un asilo per i figli degli operai dello stabilimento e successivamente vi inseriscono anche una scuola elementare e una scuola di taglio e cucito e provvedono ad organizzare gli spostamenti per i ragazzi che desiderano approfondire la loro istruzione a Prato.

Negli anni tra le due guerre, si costruisce anche il teatro, fulcro della vita culturale della Briglia e più tardi, in un luogo apposito, si crea la “biblioteca circolante”, che riscuote un notevole successo e continua la sua attività anche dopo la chiusura dello stabilimento.

Figura 4.3.4. Il teatro, oggi distrutto, all’epoca della costruzione

Si istituiscono la “cassa malattie”, la “società per la dote delle fanciulle”, l’”istituto maschile di previdenza”, il corpo dei pompieri il bagno pubblico e una sorta di pronto soccorso, dove si provvede alle prime cure in caso di ferimenti.

Durante la Seconda Guerra Mondiale si verifica una brusca battuta di arresto, dovuta alle origini ebree della famiglia Forti, che è costretta a fuggire in America e a vendere la fabbrica. Alla fine del conflitto si assiste ad un progressivo decadimento dell’azienda e negli anni ’50 inizia lo sembramento del complesso, soprattutto dal punto di vista sociale.

22 Si veda il paragrafo 3.4.1, dove si analizza il quartiere di Nuova Schio, fondato da Rossi.

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Figura 4.3.5. Il complesso della Briglia nel periodo di massimo sviluppo

4.4 Larderello

Il villaggio di Larderello, a differenza della maggioranza dei casi visti fino ad ora, si sviluppa nell’ambito di un settore industriale diverso da quello tessile: le sue manifatture, infatti, sorgono in seguito allo sfruttamento dell’acido borico, impiegato in numerosi settori industriali, dalla ceramica alla metallurgia, dalla tintoria alla conceria.

Come i villaggi minerari sono costretti a svilupparsi in aree estremamente isolate e arretrate, dove si trovano i giacimenti da sfruttare, la particolare ubicazione di Larderello è dovuta alla scoperta, nella seconda metà del XVIII secolo dell’acido borico a Montecerboli, in Val di Cecina23. L’attività estrattiva inizia nel 1818 per iniziativa di Francesco Larderel24, un imprenditore francese arrivato in Italia durante la dominazione napoleonica, che riesce a convincere alcuni suoi connazionali a formare con lui una società che si occupi di questo settore. Nel 1835, De Larderel rileva la società, diventa proprietario unico della ditta e inizia a pianificare il primo insediamento residenziale per gli operai, che ipotizza accanto ai campi boraciferi e agli impianti industriali di Montecerboli.

23 Il parallelismo tra Larderello e i villaggi minerari è fatto sia da Cristiana Torti sia da Augusto Ciuffetti.

24 Francesco Larderel (1789-1858) è un ingegnere e imprenditore francese che si trasferisce a Livorno nel 1814. Il suffisso “De” davanti al cognome Larderel è successivo alla venuta di Francesco in Italia.

Nel 1837, infatti, il Granduca Leopoldo II, riconoscendo i meriti conseguiti dall’industriale, lo nomina Conte di Montecerboli, consentendogli di rafforzare il suo cognome col prefisso nobiliare.

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Figura 4.4.1. Planimetria ottocentesca di Larderello

Figura 4.4.2. Immagine storica dell’insediamento di Larderello

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La realizzazione del villaggio avviene nel momento in cui si registra una significativa trasformazione negli assetti produttivi dello stabilimento, a seguito dell’espansione dovuta alla conquista dei mercati europei, e il villaggio vive la fase di maggior espansione tra gli anni ‘40 e ‘50, periodo in cui acquista il nome di Larderello (1846), in onore del suo fondatore.

De Larderel, pur mostrandosi interessato a promuovere il benessere degli operai e delle loro famiglie, non è un riformatore sociale, ma piuttosto un abile imprenditore industriale, tenace sostenitore dell’ordine costituito, che con la fondazione del villaggio vuol rafforzare il legame di dipendenza e subordinazione dei lavoratori nei confronti dell’azienda.

Il villaggio è costituito da diversi dormitori e case operaie realizzate secondo la tipologia in linea, a 2 o 3 piani, dove gli operai alloggiano con le loro famiglie e dispongono di un piccolo appezzamento di terreno da utilizzare come orto. Con le residenze, si costruiscono vari servizi: asili, scuole, un’infermeria, la chiesa, lo spaccio alimentare e una fabbrica tessile, per permettere alle donne di lavorare.

Larderello non è costruito secondo un piano urbanistico colto e raffinato, piuttosto nasce per aggregazione spontanea accanto alle fabbriche; il centro è definito da due piazze, sulle quali si affacciano rispettivamente la chiesa e il palazzo padronale (1840), caratterizzato ai due lati da due torrioni in pietra. La posizione centrale dell’elemento religioso non è casuale, ma sottolinea la spinta etica e religiosa che anima il villaggio. Accanto al palazzo, viene fatto costruire l’ospedale e, di fianco, un grossa cisterna per l’acqua potabile.

Figura 4.4.3. Palazzo De Larderel

La costruzione dell’insediamento continua con Federico, figlio di Francesco, che, sulla base di una precisa zonizzazione di classe, fa costruire case per impiegati

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e case per operai in zone distinte. Il villaggio è completato con le abitazioni del medico, del ministro e del farmacista e nel 1856 si inaugura il teatro. Inoltre, vengono migliorati viabilità e collegamenti, con la costruzione di un ponte sul fiume Cecina.

Come per i villaggi minerari, Larderello è, per i lavoratori che vi abitano, una piccola oasi di benessere e di sviluppo all’interno di un contesto rurale arretrato e povero.

Anche De Larderel, come gli altri fondatori di villaggi, ha un atteggiamento paternalistico e con la sua presenza ingombrante e onnipresente, mira al controllo totale della popolazione. Egli usa esclusivamente manodopera maschile, riduce i turni di lavoro e garantisce un salario minimo, la pensione gli invalidi e alle vedove e i sussidi di malattia attraverso un fondo costituito con contributi obbligatori da parte degli stessi lavoratori.

Nel 1849, De Larderel pubblica un regolamento che determina una sostanziale chiusura del paese nei confronti della comunità vicine e che rimanda al codice di Ferdinando IV di Borbone per San Leucio: per spostarsi c’è bisogno dell’autorizzazione dell’imprenditore, che la concede con parsimonia, e si cerca di fare in modo che i matrimoni avvengano sempre tra persone legate alla fabbrica, per evitare che si inseriscano nel villaggio famiglie sconosciute, possibili portatrici di problemi.

L’attività industriale di De Larderel procede fino a fine ‘800, quando, dopo una fase di declino, conosce una nuova fase di rilancio grazie a Piero Ginori Conti, che, nel 1894, sposa Adriana De Larderel, nipote di Francesco. Piero Ginori Conti intuisce, infatti, che si può sfruttare l’energia geotermica prodotta dai soffioni convertendola in energia elettrica e nel 1904 iniziano le prime sperimentazioni per l’impiego termodinamico dei soffioni.

Larderello, così, dopo il primo sviluppo a metà del XIX secolo, conosce una seconda fase di crescita a metà del XX secolo, quando, passato già da alcuni anni all’ENEL per lo sfruttamento dei soffioni per produrre energia, viene ampliato dall’architetto Giovanni Michelucci. A seguito di un radicale rinnovamento aziendale, infatti, si decide di realizzare nuove abitazioni, scuole, teatro e centri ricreativi. L’incarico viene dato a Michelucci nel 1954 e per prima cosa si realizzano alloggi dotati di soggiorno, per favorire la socialità, e con diverse camere da letto separate, per garantire la privacy.

Nel nuovo centro residenziale si realizzano 6 case torri in muratura, da 4 a 9 piani, il grattacielo dei dirigenti con 8 piani e ascensore, case monofamiliari, bifamiliari e a schiera destinate ai lavoratori in base al ruolo ricoperto in fabbrica.

Tutte le abitazioni sono comunque dotate di riscaldamento, bagno, impianto elettrico e garage.

Si costruiscono poi una chiesa, che nella forma ricorda le torri di raffreddamento, numerosi impianti sportivi, un asilo, una scuola elementare, una scuola media e un complesso polifunzionale, contenete un cinema, una biblioteca, negozi, ecc., destinato ad attività sociali e di svago che diventa il cuore del nuovo villaggio.

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Figura 4.4.4. La chiesa di Michelucci

4.5 Rosignano Solvay

Nel 1861 Ernest Solvay25 brevetta un nuovo sistema per la produzione di carbonato di sodio26 e fonda l’omonimo gruppo. Nel 1863, a Cuillet, in Belgio, apre il primo impianto produttivo di soda insieme al fratello Alfred e nei successivi venti anni impianta stabilimenti in tutta Europa27, ubicandoli in prossimità di risorse di sale e di calcare, necessari nel processo produttivo.

Convinto del fatto che il benessere generale dipenda dal costante aumento di produzione e che occorra tenere costantemente collegati problemi economici e problemi sociali, Solvay punta al successo economico della sua azienda. Nel 1890 elabora un “piano sociale”, basato sulla protezione dell’infanzia, sull’istruzione obbligatoria, sulla formazione professionale, sull’assicurazione obbligatoria contro malattie, incidenti, invalidità e vecchiaia, sulla lotta alla disoccupazione, sulla formazione del risparmio, sulla riorganizzazione del sistema bancario e sull’imposta unica di successione, ma questo documento rimane solo un testo ideologico. Nelle sue aziende, Solvay applica solo in parte il “piano sociale”, principalmente per stimolare e quindi rendere più produttivi i suoi dipendenti. Egli introduce la giornata lavorativa di 8 ore, i sussidi di malattia, un fondo pensione, le

25 Ernest Solvay (1838-1922) è stato chimico, imprenditore, politico e filantropo belga.

26 Il brevetto prevede la fabbricazione industriale del bicarbonato di sodio a partire da sale marino, ammoniaca e acido carbonico.

27 Nel 1874 viene costruito un impianto a Dombasle-sur-Meurthe, in Lorena e altri stabilimento sono impiantati in Gran Bretagna, Russia, Austria e Germania.

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ferie pagate, le cooperative di consumo e provvede all’edificazione di case e attrezzature collettive per i lavoratori.

Figura 4.5.1. L’insediamento in un documento del 1924

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La localizzazione dell’insediamento livornese è dovuto alla presenza di depositi salini a Ponteginori, nel volterrano, e di calcare a Rosignano Marittimo, oltre alla disponibilità di acqua marina per la refrigerazione e alla posizione vantaggiosa per le ottime vie di comunicazione rotabili, ferrate e marittime.

Nel 1912 la società Solvay acquista i primi 160 ettari di terreno a sud di Livorno, ai piedi del colle di Rosignano Marittimo; nel 1913 si inizia la costruzione della fabbrica e nel 1914 la fondazione di un villaggio autonomo per i dipendenti, quasi tutti provenienti da altre zone della Toscana.

Nel 1915, a nord dell’ingresso principale dello stabilimento, sono già presenti 15 case per 70 persone ed sono in costruzione altri edifici popolari.

Sin dal principio, infatti, l’idea di Solvay è quella di costruire un grande complesso industriale affiancato da un vero e proprio villaggio, inizialmente denominato “Rosignano Nuovo” e successivamente modificato in “Rosignano Solvay”28.

Figura 4.5.2. L’impianto Solvay nel 1916

Nel 1919 si continua a costruire e si realizzano 5 case unifamiliari a 3 piani per impiegati e 4 per operai, a due piani con 4 appartamenti. In questo periodo l’urbanizzazione ha ormai coinvolto tre aree distinte intorno alla fabbrica, secondo modelli derivati dall’esperienza nord-europea. L’impianto del villaggio è segnato da lotti regolari definiti da una griglia ortogonale; le strade sono ampie, diritte e alberate, ci sono zone di verde pubblico anche intorno alla fabbrica e orti e giardini intorno alle abitazioni. Le prime realizzazioni, progettate dall’architetto belga Jules

28 Il nome dell’insediamento è deciso in una delibera comunale del 1917.

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Brunfaut29 in stile nordico, sono alcune villette bifamiliari in mattone faccia vista con incorniciature in pietra.

Nel 1929, a distanza di alcuni anni dalla morte di Solvay, si completano la casa unifamiliare per il direttore, 3 case monofamiliari per ingegneri, 44 case bifamiliari per impiagati di vario livello e 96 case per operai. Dal 1930 al 1939 sorgono 4 case per dirigenti, 3 per impiegati e 8 per operai.

L’insediamento residenziale della Solvay è caratterizzato dalla diversa concezione degli alloggi per dipendenti, identificati con una numerazione crescente che, dalla casa numero 1 del direttore, attraverso le case tipo 7 con un modulo bifamiliare per gli impiegati, arriva fino alle case tipo 9, a quattro appartamenti su due piani destinati agli operai, ubicate in via Malta, a nord dello stabilimento lungo via Genova e via Bologna e a sud della ferrovia, tra l’Aurelia e il mare. La tipologia delle abitazioni si differenzia per dimensione, qualità e posizione: le case dei dirigenti, unifamiliari, si trovano vicino alla fabbrica, quelle per impiegati, bifamiliari, si trovano oltre la ferrovia e quelle per operai, plurifamiliari, tra la ferrovia e il mare. Le abitazioni sono concesse in affitto agli operai e in uso gratuito a funzionari e impiegati: questo dimostra la politica discriminatoria portata avanti da Solvay, la cui preoccupazione è salvaguardare gli interessi della classe dirigente e impiegatizia, che garantisce alla società una valida garanzia di collaborazione.

Figura 4.5.3. La casa del direttore, 1918

29 Jules Brunfaut (1852-1942) è stato un architetto e ingegnere belga, le cui opere principali sono in stile Liberty.

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Figura 4.5.4. Pianta della casa del direttore

Figura 4.5.5. Abitazioni di tipo 7, destinate agli operai

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Figura 4.5.6. Pianta delle case operaie (abitazione di tipo 9, palazzoni)

Tra il 1920 e il 1924, insieme alle residenze, si realizzano diverse ed importanti opere pubbliche, che assicurano l’autosufficienza dell’insediamento.

Nel 1923 si costruiscono le scuole elementari, poi ampliate nel 1926 e nel 1929 per includervi corsi di avviamento professionale; la caserma dei carabinieri, l’ufficio postale, lo spaccio aziendale, il refettorio, il dormitorio, i bagni pubblici, la farmacia, il panificio, la fabbrica del ghiaccio e l’ospedale, ubicato al limite dell’area industriale, di fronte alla pineta.

Nel 1928, la produzione di carbonato di sodio arriva a coprire l’intero fabbisogno nazionale e, conseguentemente, i lavoratori aumentano: nel 1921 sono 702, nel 1928 sono 1.390 e nel 1938 arrivano a 1.531. In conseguenza di questo rapido incremento, oltre alle abitazioni per impiegati e operai, si implementano i servizi: nel 1929 si costruisce il teatro, nel 1931 la chiesa e tra il 1938 e il 1939 due campi sportivi.

Figura 4.5.7. Il teatro in un’immagine recente

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Lo storico villaggio industriale è composto da 199 edifici per un totale di 655 alloggi, è delimitato a sud dagli impianti della Solvay ed è attraversato in direzione nord-sud dal viale Ernest Solvay, lungo il quale si trovano la scuola, il teatro e lo stadio. Nella parte settentrionale il villaggio è unito al resto di Rosignano Solvay senza soluzione di continuità.

Le abitazioni mantengono tuttora l’aspetto originario grazie ad una rigida tutela e anche l’assetto viario è rimasto inalterato e l’industria continua tutt’oggi a produrre carbonato di sodio.

4.6 Industrializzazione in lucchesia30

La grande industria fa la sua comparsa sul territorio lucchese solo a partire dall’ultimo ventennio dell’800 e segue un lento processo di affermazione che ritarda il sorgere dei problemi e delle questioni sociali legate alla classe operaia, pur apportando cambiamenti nei modi di vita della popolazione, da secoli prevalentemente dedita all’agricoltura.

Le attività produttive dal carattere propriamente industriale nascono grazie a capitali e capacità individuali di figure imprenditoriali provenienti da altre parti d’Italia e d’Europa, come i Niemack, i Balestreri, gli Sciaccaluga, gli Smith. La scelta di investire a Lucca è influenzata sia dalla disponibilità di ingenti risorse idriche, fornite dal fiume Serchio e da un estesa rete di canali, che possono essere utilizzate sia come fonte di forza motrice, sia nei processi produttivi, e dalla completa rete stradale, che rende facili le comunicazioni e l’accesso al mare. Inoltre, la possibilità di reclutare manodopera tra la popolazione degli agricoltori e dei piccoli proprietari terrieri, caratterizzata da una proverbiale propensione alla laboriosità, alla tranquillità e alla moderatezza, rappresenta un fattore fondamentale per il successo delle imprese.

Nel corso della prima metà del XIX secolo iniziano a manifestarsi i primi segnali di un profondo cambiamento. Sebbene lo sviluppo industriale sia ancora in fase embrionale e l’economia sia caratterizzata da numerose piccole manifatture, dislocate principalmente lungo il Condotto Pubblico31, il governo inizia a promuove provvedimenti “illuminati” che pongono le basi della crescita economica futura:

dal punto di vista infrastrutturale, infatti, si realizza una rete stradale più efficiente e si costruisce la prima tratta della ferrovia Lucca-Pisa.

Dopo l’Unità d’Italia, iniziano ad arrivare a Lucca imprenditori con adeguati capitali, interessati a impiantare industrie di grandi dimensioni capaci di concorrere sui mercati nazionali e internazionali. Proprio in questi anni, si verifica in lucchesia una forte emigrazione che porta all’estero fino a 3.000 persone

30 Della provincia di Lucca fanno parte anche la Versilia e la Garfagnana, che entra a far parte della provincia di Lucca nel 1923, ma in questo lavoro si analizzano prevalentemente quartieri e villaggi operai presenti nel comune di Lucca.

31 Il Condotto Pubblico è un canale artificiale, derivato dal fiume Serchio, realizzato intorno al 1380.

Si estende per circa 13 km, partendo 8 km a Nord della città di Lucca e attraversandola da nord-est a sud-ovest. Per secoli ha fornito energia a molti opifici legati al settore tessile, a mulini e cartiere.

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all’anno32 e quindi si vede nell’industrializzazione un mezzo per poter fermare questa emorragia.

Una delle prime industrie impiantate è quella di Henry, Vignolo & C., che costruisce una fabbrica per la lavorazione del ferro lungo le sponde del Condotto Pubblico a Ponte a Moriano33, anche se il settore trainante per lo sviluppo industriale lucchese è quello tessile, già largamente presente sul territorio con piccoli opifici e nelle campagne con la lavorazione a domicilio. A questo settore si affianca quello della produzione cartaria, collocato prevalentemente nell’area di Pescia.

I primi grandi stabilimenti industriali con elevata concentrazione operaia, prevalentemente femminile, sono il cotonificio Sciaccaluga, poi Croce, al Piaggione, la ditta Niemack, che nel tempo assume diverse nomi fino a diventare, nel 1904, la Cucirini Cantoni Coats, che produce filati cucirini, e lo Iutificio Balestreri a Ponte a Moriano.

L’affermazione del settore tessile è confermata dal confronto tra i censimenti realizzati nel 1871 e nel 1881, da cui emerge che gli addetti a questo settore sono aumentati del 13,35%34. Il motivo di questa forte variazione è dovuto all’apertura dello Iutificio Balestreri, che vede impiegati all’interno della fabbrica un cospicuo numero di operai, tra cui molte donne e bambini. Per rispondere alle necessità delle maestranze impiegate nei grandi complessi industriali, gli imprenditori Sciaccaluga e Balestreri si fanno promotori di interventi urbanistici nei siti in cui insediano i propri impianti, realizzando residenze, dormitori e servizi.

Nel caso di Ponte a Moriano, la fabbrica e le annesse strutture si inseriscono in un tessuto abitativo preesistente, sopprimendo vie e risistemando, almeno in parte, l’area, interagendo con l’originaria identità del paese senza alterare completamente l’assetto precedente. Nel caso invece del Piaggione, si provvede alla costruzione di residenze e servizi ex novo, dato che l’area su cui viene impianta la fabbrica è isolata, dando così vita ad un vero e proprio villaggio operaio, sul modello di quelli inglesi tipo Lanark o italiani tipo Crespi d’Adda.

Infine, nel caso della ditta Niemack, poi, Cucirini Cantoni Coats, si assiste prevalentemente alla nascita di servizi per i lavoratori dell’azienda, posti nelle vicinanze della fabbrica e minore è l’impatto dell’edilizia abitativa, rispetto ai due casi precedenti, data la vicinanza alla città di Lucca, che può offrire adeguate soluzioni residenziali per gli operai.

4.6.1 Piaggione35

La storia di questo villaggio operaio inizia nel XVI secolo, quando i Boccella, prestigiosa famiglia di setaioli lucchesi, acquistano una vasta area denominata lo

32 In un primo tempo le mete dei lavoratori erano stagionali e vicine; successivamente iniziarono le migrazioni per la Francia, la Germania e soprattutto le Americhe.

33 Ponte a Moriano è una frazione del Comune di Lucca, che si trova a circa 8 km dal centro cittadino e più precisamente l’impianto si trova in località Saltocchio.

34 Gaia Petroni, “Il quadro economico lucchese tra il XIX e il XX secolo,” in La nascita della Camera del lavoro di Lucca, a cura di Francesco Petrini (Lucca, I: CGIL Provincia di Lucca, 2007), 21.

35 Il Piaggione si trova a 13 km dalla città Lucca, nella parte nord dl comune di cui rappresenta l’ultima frazione.

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“Spiaggione” per impiantarvi una coltura di gelsi per bachi da seta. In quel periodo la zona è prevalentemente boschiva e non ci sono vie di comunicazioni che permettono di raggiungere agevolmente la località.

Nel 1790, però, la Repubblica Lucchese decide di dotare la riva sinistra del fiume di Serchio di una strada carrozzabile per collegare Ponte a Moriano con Bagni di Lucca e si decide di bonificare la porzione meridionale dello Spiaggione.

L’andamento rettilineo della strada principale dell’insediamento è frutto della volontà dei principi Baciocchi, che dispongono la costruzione del rettifilo nel 1812.

A questo punto, quindi, l’area è dotata di un buon collegamento con la città ed è ricca di acqua, fonte di energia necessaria a far funzionare le macchine. Grazie quindi alle buone caratteristiche della zona, alcuni imprenditori genovesi decidono di impiantare qui un opificio per la lavorazione del cotone greggio.

Il 17 novembre 1873 la Società Anonima Credito dell’Industria Nazionale di Genova e il Marchese Boccella stipulano un compromesso di vendita per il terreno dello Spiaggione e, poiché il 14 febbraio 1875 viene rilasciata la concessione per la costruzione di una diga nella stessa località, due mesi più tardi si provvede a formalizzare l’atto di vendita.

Figura 4.6.1. Progetto generale parzialmente realizzato del Cotonificio del Piaggione, con la diga e il canale di derivazione delle acque del Serchio risalente al 1883

L’8 maggio 1880, però, la Società Anonima Credito dell’Industria Nazionale di Genova vende il terreno a Stefano Sciaccaluga. Tra il 1875 e il 1886, in soli 10 anni, vengono realizzate la diga sul fiume Serchio, il canale, la fabbrica e le case operaie.

Terminati i lavori edili, nel1886, le abitazioni vengono assegnate ai lavoratori del cotonificio. Le case erano, per l’epoca, moderne e funzionali , erano provviste di luce elettrica, cantine e orti.

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Figura 4.6.2. Mappa catastale del 1913

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Grazie all’abbondanza di acqua, lo stabilimento ha anche un impianto di luce elettrica, che, oltre ad essere un’innovazione per l’epoca36, costituisce una sicurezza per i lavoratori, dato che il cotone è un materiale che si infiamma facilmente.

Figura 4.6.3. Un’immagine d’epoca del Piaggione. In primo piano la fabbrica e sul retro le residenze

Insediamento produttivo e abitazioni sono separati dalla strada che attraversa il paese, in uno schema distributivo che già abbiamo incontrato in altri villaggi operai analizzati.

Le residenze sono tutte riconducibili alla tipologia a caserne e hanno numero di piani variabile da 2 a 4. Hanno forma di parallelepipedo semplice sul fronte e, attualmente, sul retro presentano un inserimento probabilmente dovuto alla presenza di servizi igienici.

Nella parte retrostante le abitazioni ci sono orti, curati dai lavoratori, che con i prodotti della terra integrano il salario di fabbrica.

Lo stabilimento presenta un ingresso molto curato e celebrativo; al suo interno, nella parte destra, era collocato l’ufficio postale.

Nel 1899, con il completamento del tratto di linea ferroviaria da Lucca a Bagni di Lucca, viene aperta la stazione ferroviaria del Piaggione, funzionale soprattutto per trasportare il cotone grezzo e il prodotto filato, dotata di un ampio scalo merci provvisto di magazzino necessario allo smistamento delle merci prodotte nel cotonificio.

36 Umberto Sereni (a cura di), Antonio Morosi -La città industriosa. Lucca alla fine dell’Ottocento. (Lucca, I: Maria Pacini Fazzi Editore, 1997), 101.

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Figura 4.6.4. Residenze operaie

Figura 4.6.5. Gli orti dietro le abitazioni operaie, ancora oggi presenti

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Figura 4.6.6. L’ingresso della fabbrica in una foto attuale

Figura 4.6.7. Capannoni

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