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In questo capitolo tratteremo di archi e volte in generale. Il primo paragrafo sarà dedicato alla geometria ed alle modalità costruttive di alcuni tipi fondamentali di volte.

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ARCHI E VOLTE

In questo capitolo tratteremo di archi e volte in generale. Il primo paragrafo sarà dedicato alla geometria ed alle modalità costruttive di alcuni tipi fondamentali di volte.

Nel secondo paragrafo verrà tracciato l’ideale percorso evolutivo delle teorie statiche fino all’avvento della teoria dell’elasticità. Infine, l’argomento degli ultimi due paragrafi riguarda le cause di dissesto e lo studio delle usuali tecniche di intervento presenti in letteratura.

1.1 G EOMETRIA E MODALITÀ COSTRUTTIVE DI ALCUNI TIPI DI VOLTE IN MURATURA

1.1.1 L A VOLTA A BOTTE

La forma più antica di volta, dalla quale derivano quasi tutte le altre, è del tipo a botte. Essa compare già in epoca remota in Assiria ed Egitto.

Geometricamente la volta a botte è un cilindro. La più semplice volta di questo tipo può considerarsi generata da un semicerchio come curva direttrice, la quale, posta in un piano verticale, si muova parallelamente a sé stessa su due linee di guida orizzontali e parallele, in modo che la sua proiezione sia una retta perpendicolare alle due linee di guida. L’intradosso e l’estradosso risultano formati da due superfici cilindriche circolari, le linee di imposta e quella di chiave risultano orizzontali e parallele all’asse, ogni sezione normale all’asse è un semicerchio di raggio costante e la saetta è uguale alla corda.

Come curva direttrice, al posto di un semicerchio, può essere assunta una curva qualunque per ottenere numerosi varianti tra cui la volta a botte ellittica e la volta gotica. Assumendo una curva ribassata come generatrice si ottiene la volta ribassata che viene detta volta a cappa o volta prussiana quando la saetta è piccola.

La volta a botte rampante simmetrica è caratterizzata dal fatto che le linee di guida

della curva generatrice possono anche essere inclinate. Le volte a botte rampanti

dissimmetriche sono costituite dalle volte zoppe e dalle volte a collo d’oca. Le prime

hanno i piani di imposta a differente livello e ammettono per una porzione un piano

verticale di simmetria, presentando una superficie piana per la rimanente porzione

dell’intradosso (fig. 1.1a); le seconde presentano i piani d’imposta a differente livello e

possono avere una porzione dell’intradosso simmetrica rispetto ad un piano passante per

una generatrice. La direttrice di intradosso può essere una curva a due centri oppure una

curva ellittica o una curva generica (fig. 1.1b).

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8

Fi. 1.1a-b: volte zoppe; volta a collo d’oca (Lorenzo 1992).

Le volte a botte oblique possono considerarsi generate da una curva direttrice (arco circolare, ellittico, policentrico, …) e da una retta generatrice orizzontale inclinata rispetto al piano della direttrice.

Fig. 1.2: proiezione ortogonale di una volta a botte semplice.

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9

“Si definisce apparecchio la maniera più opportuna e conveniente di suddividere la volta nei singoli elementi e conci che la costituiscono, maniera che riguarda sia la forma che la posizione di tali conci”

1

.

Una volta a getto, che può considerarsi monolitica, non origina alcuna questione di apparecchio dato che per reggersi ha bisogno degli appoggi laterali capaci di sostenerne il peso. Le altre volte (in pietra da taglio, in laterizio ed in pietrame) non possono reggersi se non per le particolari forme e conseguenti disposizioni delle singole parti o cunei di cui sono formate. Di qui la necessità dell’apparecchio, ossia della divisione delle volte in parti cuneiformi che si sostengono per reciproco contrasto.

I materiali più comunemente impiegati nella costruzione delle volte sono le pietre quindi la condizione a cui deve rispondere la loro forma e la loro disposizione sono analoghe a quelle che regolano l’apparecchio delle murature e sono le seguenti:

- “le superfici dei letti, ossia le facce secondo cui i due cunei consecutivi si applicano l’uno contro l’altro, devono concorrere ad un determinato punto e, in generale, per le volte ad intradosso curvo, devono essere normali all’intradosso della volta;

- due sistemi di commessure che intersecano la superficie dell’intradosso devono incontrarsi ad angolo retto;

- i cunei devono essere in numero dispari e collocati simmetricamente da ciascun lato rispetto al vertice della volta;

- la divisione della volta in cunei deve sempre essere fatta a seconda della curvatura dell’intradosso ed i giunti devono essere porzioni di superfici sviluppabili, formate da una serie di normali a tali superfici”

2

.

I modi con cui le volte a botte in laterizio possono essere realizzate sono:

- ad apparecchio longitudinale (fig. 1.4);

- ad apparecchio trasversale o normale (fig. 1.7);

- ad apparecchio diagonale (fig. 1.10);

- ad apparecchio a spinapesce dritta (fig. 1.12);

- ad apparecchio a spinapesce inversa (fig. 1.12).

L’apparecchio longitudinale consiste nel disporre i mattoni in filari longitudinali, con le loro facce maggiori parallele ai muri di piedritto (fig. 1.3).

1

F. Chiaromonte, “Elementi di costruzione edilizia”; E.P.S.A., Napoli 1942.

2

A. Lenti, “Corso pratico di costruzioni”; Chiari, Alessandria 1884.

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10

Fig. 1.3: pianta di una volta ad apparecchio longitudinale.

Fig. 1.4: vista assonometrica di una volta a botte ad apparecchio longitudinale.

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11

Utilizzando tale apparecchio, i piani dei giunti si estendono a tutta la sezione della volta e risultano normali all’elemento d’arco corrispondente. Gli spigoli superiori ed inferiori dei giunti stessi sono poi paralleli all’asse della volta e formano col loro inviluppo le superfici cilindriche d’estradosso e d’intradosso.

La direzione dei giunti si determina mediante una sagoma di legno limitata da un tratto della curva d’intradosso e da una normale a questa (fig. 1.5).

Fig. 1.5.

Nelle volte policentriche devono evidentemente essere usate tante sagome quanti sono gli archi che la compongono.

Nel caso di volte circolari il modo migliore e più sicuro consiste nel fissare al centro dell’arco una funicella e tenerla per avere in ciascun punto la direzione del giunto.

Quanto al modo di collegare i mattoni, sono da tener presenti le regole valide per i

muri. I giunti devono estendersi a tutto lo spessore dell’arco, essere concorrenti sul

fronte e paralleli all’asse all’estradosso, ma i giunti di due corsi successivi non devono

corrispondersi mai né sul fronte, né sul dorso, né all’interno dell’arco. Ne segue che per

il collegamento sono necessari per lo meno due corsi differenti che si alternino. I

differenti corsi dovrebbero essere cuneiformi. Questo però avviene raramente e soltanto

per volte di considerevole importanza, mentre comunemente lo scopo viene raggiunto

conformando a cuneo solamente lo strato di malta fra i diversi conci. Nel caso in cui gli

strati divengano assai cuneiformi si tagliano i mattoni vicino all’intradosso; questa

operazione presuppone però un buon materiale e, comunque, presenta lo svantaggio di

privare il mattone della sua parte superficiale più resistente. Talvolta si usa lasciare

integri i mattoni ed interporre delle schegge tra i diversi corsi all’estradosso; questa

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tecnica ha l’inconveniente di rendere troppo serrata la parte superiore dell’arco e di limitare quindi la pressione ad una parte relativamente piccola della sezione.

L’apparecchio longitudinale presenta, in alcuni casi, un inconveniente. Quando la corda è notevole e la monta depressa si ha con tale disposizione l’inconveniente che i giunti in chiave risultano pressoché paralleli e verticali, sicché nella parte centrale la resistenza è affidata, invece che al mutuo contrasto tra i filari, quasi unicamente alla coesione della malta. Qualche vantaggio si può ottenere dando alle volte ribassate una leggera monta in senso longitudinale, così che le linee dei filari non risultino perfettamente rettilinee ma leggermente arcuate.

L’apparecchio trasversale, detto anche normale o anulare, consiste nel disporre i mattoni in filari trasversali con le loro facce maggiori normali ai muri di piedritto invece che paralleli, cosicché i piani di giunto che si alternano sono quelli paralleli all’asse invece che quelli normali. La volta risulta in tal modo costituita da tanti archi o anelli elementari indipendenti, poggiati l’uno a ridosso dell’altro.

Fig. 1.6: pianta di una volta a botte con apparecchio trasversale.

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13

Fig.: 1.7: vista assonometrica di una volta a botte ad apparecchio trasversale.

Gli anelli possono essere situati in piani verticali con i mattoni disposti secondo una superficie conica oppure inclinati con i mattoni disposti in un piano avente la medesima inclinazione o disposti secondo superfici coniche (fig. 1.8).

L’idea di disporre i mattoni su piani inclinati nasce da una duplice esigenza:

- “evitare uno spostamento laterale dei diversi strati;

- risparmiare le armature provvisorie: infatti, disponendo i mattoni non più normalmente alla superficie d’intradosso ma inclinati rispetto a questa, gli stessi mattoni sono parzialmente sostenuti dal filare precedente”

3

.

Questo sistema, utilizzato per le vote ribassate, offre i seguenti vantaggi:

- “la muratura non presenta linee di rottura continue;

- i giunti discontinui longitudinali non presentano che il quarto dello sviluppo che hanno nella disposizione longitudinale con giunti radiali;

- vi è una maggiore superficie di contatto nel senso della spinta: l’attrito e l’aderenza della malta tendono per conseguenza a ridurre la spinta;

3

G. A. Breymann, “Trattato generale di costruzioni civili”; 1926.

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- si può fare a meno del manto ed anche di molte centine, poiché la posa dei filari si può eseguire sopra una sola centina che si sposta di mano in mano che la costruzione della volta avanza; la centina si fa scorrere sopra due longherine collocate alle imposte della volta e sostenute da ganci di ferro;

- la spinta sui piedritti viene alquanto diminuita, poiché, essendo i letti dei giunti trasversali leggermente convessi, una parte della spinta è trasmessa ai muri di testa”

4

.

Fig. 1.8: varianti nella disposizione dei mattoni nella costruzione di volte a botte (Lorenzo 1992).

Nonostante i pregi elencati l’apparecchio normale presenta un difetto che lo rende poco utilizzato. La questione è che non si realizza un’efficace collegamento fra i conci, come invece si ha nel sistema longitudinale, poiché la volta risulta costruita da una successione di archi semplicemente accostati e ciò va a svantaggio della solidità della volta stessa.

Per coprire locali rettangolari si preferisce realizzare le volte con l’apparecchio diagonale oppure con quello a spinapesce.

Questi due sistemi costruttivi hanno il vantaggio che le spinte invece di trasmettersi completamente sui muri d’imposta, come accade nelle volte a botte con filari longitudinali e normali, si trasmettono in parte anche sui muri di testa.

4

D. Donghi, “Manuale dell’architetto”; 1925.

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15

L’apparecchio sbieco o diagonale (fig. 1.9) è caratterizzato dal fatto che la volta risulta costituita da archi elementari, tutti paralleli, i quali non sono più disposti secondo la curva direttrice ma in direzione normale alle diagonali oppure alle bisettrici degli angoli della pianta.

Fig. 1.9: pianta di una volta a botte con apparecchio diagonale.

L’apparecchio a spinapesce comprende due diverse disposizioni. La prima, detta a spinapesce inversa (fig. 1.11), è caratterizzata dal fatto che la volta è realizzata da filari elementari inclinati a 45° sui lati d’imposta; questi si allineano secondo le rette partenti in senso contrario dagli estremi di ciascun lato, per incontrarsi a spina di pesce sulle mediane della volta. La seconda, detta a spinapesce diritta (fig. 1.12), è caratterizzata dal fatto che i filari hanno ancora la precedente inclinazione, ma sono allineati secondo le rette che partono dai punti di mezzo dei lati d’imposta, cosicché risultano ortogonali alla disposizione precedente.

La disposizione a spinapesce presenta il vantaggio che i singoli strati si sorreggono

da soli appena chiusi e che, inoltre, la volta può essere eseguita da abili muratori

soltanto mediante alcune centine di guida anziché portanti, dal momento che la forza di

coesione della malta è sufficiente per tenere i mattoni di uno strato fissi allo strato

precedente già compiuto e quindi portante.

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Fig. 1.10: vista assonometrica di una volta a botte con apparecchio diagonale.

Fig. 1.11: pianta di una volta con apparecchio a spinapesce inversa.

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Fig. 1.12: confronto tra l’apparecchio a spinapesce diritta ed inversa.

“Con queste disposizioni si evitano gli inconvenienti indicati nel caso di disposizione longitudinale e trasversale e si ottiene anche il vantaggio che i filari oltre a risultare arcuati, fatto che li rende più solidi, sono anche assai più solidi”

5

.

La costruzione delle volte si esegue quando è terminata la costruzione dei piedritti ed a tetto ultimato. Con questo ritardo di esecuzione il peso degli elementi agente al di sopra delle imposte fornisce il fondamentale contributo di deviare la risultante dei carichi entro lo spessore dei muri verticali. Inoltre si ottengono i seguenti vantaggi:

- “poiché i muri sono già in gran parte assestati, diminuisce il pericolo di screpolature;

- Dal momento che le volte restano al coperto, queste sono riparate dalla pioggia, la quale potrebbe scavarne le commessure, raccogliersi negli spazi profondi corrispondenti alle reni e permanervi in modo da bagnare i muri sottostanti”

6

.

La prima operazione da eseguire prima della costruzione della volta è quella di stabilirne l’armatura che deve servire da forma e da sostegno alla volta stessa. Queste armature consistono generalmente in una parte resistente, detta centinatura o incavallatura, composta di centine o di cavalletti, e in una parte completava, detta manto, che, sostenuta dalla prima, serve a costituire la superficie curva su cui deve appoggiarsi la volta. Le centine, che ordinariamente si adottano nella costruzione delle volte a botte, sono archi, formati con tavole di legno, semplici o doppie, riunite in

5

D. Donghi, “Manuale dell’architetto”; 1925.

6

Ibidem.

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spessore o in lunghezza con chiodature, le cui parti superiori sono segate secondo la curva di intradosso della volta.

Fig. 1.13: schemi costruttivi di centine in legno per la costruzione di volte a botte (Caleca 2000).

Fig. 1.14: centinature di volte a botte (Misuraca 1916).

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Passiamo adesso a riferire della costruzione effettiva della volta a botte distinguendo i diversi casi di apparecchio.

Nel caso in cui si adotti la disposizione dei mattoni a filari paralleli alle linee d’imposta, il lavoro si deve far procedere simmetricamente dalle imposte verso il vertice, in primo luogo, perché l’armatura risulti caricata uniformemente, in secondo luogo perché, acquistando la malta in ogni parte la stesse consistenza, l’assestamento totale della volta risulti uguale in ogni parte. Per dirigere con successo la costruzione di una volta è infatti necessario tener conto dei diversi movimenti che hanno luogo nelle centine durante e dopo l’esecuzione dei lavori, perché subito dopo la loro erezione le centine subiscono un calo sotto l’azione del proprio peso, mentre tendono a rialzarsi verso la chiave dal momento in cui vengono messi in opera i cunei dei fianchi della volta. Allo scopo di evitare questo innalzamento del vertice della curva di intradosso, conviene armare le centine con opportuni tiranti e caricare provvisoriamente le armature verso le loro vette con un certo numero di conci o con pesi amovibili, finché non rimanga che eseguire la chiusura della volta.

Nel caso in cui si adotti la disposizione dei mattoni a filari trasversali alle linee di imposta, diversamente dal caso precedente ove la costruzione è cominciata lungo i piedritti e terminata in chiave, la costruzione viene iniziata sulle fronti e proseguita nel senso dell’asse.

Qualora si adotti la disposizione a spinapesce diritta la costruzione della volta si inizia dagli angoli del vano e i diversi strati, ellittici nelle volte a botte circolari, salgono dal piedritto sul fronte dell’arco fino alla linea di vertice della dc (fig. 1.12) da un lato e alla linea mediana bc dall’altro, cosicché in chiave risulta una pietra prossimamente quadrata, posta al centro della volta. Ultimata la volta si tolgono le armature e, generalmente, risulta che lo spazio (1-1,5 cm) lasciato tra le armature e la volta è scomparso durante la costruzione a causa dell’assestamento, cosicché la volta combacia con le armature stesse.

Se invece la volta poggia direttamente sull’armatura, l’assestamento non può avvenire che tra i punti fissi causando delle gobbe sulla superficie della volta.

Infine, nel caso in cui si adotti la disposizione a spinapesce inversa, si inizia a costruire la volta dal suo centro, ponendo sul manto dapprima quattro mattoni (a) ad angolo retto fra loro e a 45° rispetto all’asse della volta (fig. 1.15), poi dei mattoni interi (b) e dei mattoni (c) tagliati per un quarto, fino a raggiungere i muri di contorno. Si procede, quindi, alla costruzione delle rimanenti parti con mattoni interi, iniziando dai mattoni (b) e (c).

Terminata la costruzione della volta a botte si può procedere nel suo disarmo.

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Quando si disarma una volta subito dopo la sua chiusura, difficilmente si riesce ad evitare una leggera compressione nella malta dei giunti, compressione che, quantunque completi la solidità della volta, produce tuttavia un abbassamento nella medesima, tanto più sensibile quanto più grande è la quantità di malta impiegata nei giunti.

Fig. 1.15: tecnica costruttiva della disposizione a spinapesce inversa.

“Nonostante molti costruttori si siano occupati di tale questione, non si può precisare l’abbassamento a cui è soggetta una volta dopo il suo disarmo; per questo motivo affinché la superficie d’intradosso della volta corrisponda approssimativamente a quella progettata, si usa rialzare di un tanto le centine impiegate per la formazione dell’armatura. Ma tale rialzamento viene fissato un po’ arbitrariamente e, nonostante tale precauzione, raramente si riesce ad avere il vertice della volta all’esatta altezza desiderata.

Riguardo al tempo in cui conviene eseguire il disarmo, non tutti i costruttori

sono d’accordo, dal momento che alcuni ritengono che si debba fare

immediatamente dopo la costruzione, altri che si aspetti finché la malta si sia

indurita. Pare, però, che vi sia convenienza a disarmare la volta quando la

malta non è ancora completamente asciugata e conserva, quindi, ancora una

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21

certa pastosità che le permette di comprimersi e di adattarsi alle leggere modifiche di forma causate dall’assestamento della medesima”

7

.

7

A. Lenti, “Corso pratico di costruzioni”; 1884.

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1.1.2 L A VOLTA A PADIGLIONE

Le volte a padiglione si possono considerare come formate dall’intersezione di volte a botte. Se, infatti, immaginiamo di tagliare con due piani verticali diagonali una volta a botte di pianta quadrangolare si ottengono quattro parti di cui le opposte sono uguali (fig. 1.16).

Fig. 1.16.

Con queste parti si possono costruire diverse forme di volte. Con le parti A e A’si ottiene la volta a crociera mentre con quelle B e B’ si ottiene la volta a padiglione, che, in definitiva risulta dall’unione di parti di volte a botte, detti fusi cilindrici.

Le volte a botte componenti le volte a padiglione possono avere le forme più svariate, possono essere ribassate, circolari, ellittiche, a sesto acuto, ecc…. Una volta a padiglione può essere costruita su uno spazio quadrato, rettangolare, parallelogrammico, trapezoidale, poligonale e circolare; in quest’ultimo caso la volta a padiglione diviene una cupola.

La volta a padiglione è quella più usata nelle costruzioni civili; tuttavia essa richiede che il vano da ricoprire sia regolare e presenta l’inconveniente di dover essere sostenuta da tutti i muri di perimetro.

Nella costruzione di queste volte in laterizio si adotta spesso l’apparecchio longitudinale, cioè la disposizione a filari paralleli alle linee di imposta (fig. 1.17).

Con questa tecnica si deve prestare particolare cura affinché negli spigoli i mattoni si addentrino alternativamente null’una o nell’altra porzione di volta in modo tale da non avere un giunto continuo lungo lo spigolo.

Un’altra disposizione molto utilizzata è quella a spinapesce diritta. I filari di mattoni sono normali agli spigoli diagonali e formano di conseguenza degli archi acuti ellittici.

Con questo apparecchio si evitano i giunti lungo gli spigoli; ogni giunto è poi

convenientemente coperto da ambo i lati dai mattoni dei filari adiacenti.

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La struttura a spinapesce presenta maggiore resistenza della precedente, poiché è più difficile il verificarsi di distacchi negli spigoli; nonostante ciò, presenta il grosso inconveniente che all'incontro dei filari nel centro dello spicchio rimangono facilmente delle fessure.

Fig. 1.17: schema di apparecchio longitudinale.

Nella costruzione di una volta a padiglione si deve prima di tutto stabilire la forma della volta in un piano normale ad uno dei piani perimetrali e quindi quella degli spigoli. La prima è generalmente un cerchio e gli ultimi, di conseguenza, ellissi. Le centine vengono costruite seguendo l’andamento di queste curve.

Fig. 1.18: esempio di centinatura per la costruzione di una volta a padiglione (Misuraca 1916).

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1.1.3 L A VOLTA A SCHIFO

La volta a schifo o a specchio è formata da due parti: quella inferiore, detta guscio, è una porzione di volta a padiglione, per lo più provvista di lunette, quella superiore, chiamata specchio, è una piattabanda o una cappa molto ribassata.

Fig. 1.19: viste di una volta a schifo.

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Le volte a schifo sono costruite su piante quadrate, rettangolari e su aree poligonali in genere e sono caratterizzate dal fatto che tutti i muri di contorno sono impegnati nel sostegno della volta. Questo tipo di volte si presta particolarmente alla decorazione pittorica e ciò spiega la sua frequente applicazione nel medioevo e nel rinascimento nelle grandi sale degli edifici signorili. La volta a schifo ha avuto grande diffusione anche nelle costruzioni civili ordinarie per un’altra ragione: essa è caratterizzata da una monta molto ridotta che consente di ridurre fortemente l’altezza della costruzione rispetto agli altri tipi di volte.

La struttura della volta a schifo è evidentemente molto artificiosa e staticamente poco soddisfacente. La zona centrale pianeggiante costituisce l’elemento debole.

Il guscio della volta è realizzato spesso con strati di mattoni orizzontali e filari longitudinali. Lo specchio è costruito a spinapesce con una freccia minima di 1/36 della sua diagonale e talvolta è collegato con il resto mediante quattro conci di pietra disposti agli angoli. Un altro tipo di apparecchio di cui si hanno testimonianze, consiste nel realizzare lo specchio ed il guscio con filari longitudinali, paralleli ai lati di imposta. In questo caso particolare attenzione va rivolta a far sì che negli spigoli i mattoni si addentrino alternativamente null’una o nell’altra porzione della volta, in modo tale che non si abbia un giunto continuo lungo lo spigolo.

Anche per la costruzione delle volte a schifo si predispongono delle centine. Le tavole del manto vengono disposte secondo le generatrici delle varie superfici cilindriche. Il manto corrispondente alla parte piana è costituito da tavole adagiate sul telaio ligneo e sostenute da travi e travicelli, secondo la grandezza della parte piana. Le dimensioni della parte piatta difficilmente superano i 3,5 metri.

Fig. 1.20: sintesi dei metodi di apparecchio delle volte a padiglione (Caleca 2000).

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1.2 E VOLUZIONE STORICA DELLE TEORIE STATICHE SULLE VOLTE

In questo paragrafo si presentano gli sviluppi della tecnica e della scienza del costruire. L’itinerario che verrà percorso volge alla comprensione del modo con cui le costruzioni erano intese dai costruttori del passato cercando di entrare nel loro modo di vedere e di concepire le varie soluzioni progettuali.

Una teoria statica sugli archi non fu mai stabilità in termini quantitativi fino alla fine del XVII secolo ma già in passato erano stati capiti alcuni aspetti salienti del comportamento strutturale che avevano orientato le tecniche costruttive. Nel sesto libro dei Dieci libri sull’Architettura, Vitruvio dimostra di aver intuito che le volte esercitano un effetto spingente sui muri o sui pilastri che la sostengono. Ancora più evidente appare l’attenzione per il funzionamento dell’arco rampante e della volta nervata simboli dei grandi edifici gotici. Secondo Viollet le Duc i costruttori medievali avevano la percezione di una teoria assai raffinata che consiglia di approssimare la forma dell’arco alla curva delle pressioni. Si deve agli stessi costruttori la regola empirica usata per lungo tempo per la determinazione dello spessore dei piedritti: con riferimento alla figura 1.21, dividendo l’arco in tre parti uguali si tracci il segmento CD, con centro in D ed apertura DC si descriva una semicirconferenza. L’intersezione tra il prolungamento del segmento CD e la semicirconferenza determina il punto E per il quale si traccia la verticale. Si nota come lo spessore del piedritto relativo all’arco a tutto sesto sia maggiore di quello relativo all’arco a sesto acuto. E’ dimostrato che se la luce dell’arco non supera i 4-5 metri e non siano presenti sovraccarichi la regola conduce agli stessi risultati di quelle più rigorose e motivate dai primi teorici del XVIII secolo.

Fig. 1.21 (Benvenuto 1981).

Alle numerose regole dimensionali degli antichi in cui non si scorge alcun riferimento

alla statica strutturale ed alla resistenza segue l’opera di Leonardo da Vinci secondo cui:

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“arco non è altro che una fortezza causata da due debolezze imperochè l’arco negli edifiti è composto da due quarti di circulo, i quali quarti circuli ciascuno debolissimo per sé desidera cadere e oponendosi alla ruina l’uno dell’altro, le due debolezze si convertono in una unica fortezza”.

Negli scritti di Leonardo sono stati trovati degli schizzi che sembrano voler indicare una misura empirica della spinta sui rinfianchi e della forza cui può essere soggetta la catena; tra gli appunti è particolarmente significativo il seguente:

“l’arco non si romperà, se la corda dell’archi di fori non toccherà l’arco di dentro”.

I primi progressi per una teoria statica sugli archi si devono all’opera del matematico e astronomo francese Philippe De la Hire (1640-1718). Nel medioevo l’arco era pensato in termini di leve e piano inclinato: De la Hire introduce la similitudine dei conci dell’arco a dei cunei. Nel Traité de Mécanique egli affrontò il problema dell’equilibrio di una volta indipendente dai piedritti a cui segue la determinazione della larghezza di quest’ultimi in funzione delle spinte provenienti dalla volta stessa (Memoria del 1712).

La lacuna principale che verrà sanata da Coulomb consiste nella mancata considerazione dell’attrito tra i cunei.

Belidor nel suo trattato (La science des Ingénieurs dans la conduite des travaux de fortification et d’architecture civile) espone una rilettura della teoria di De la Hire senza apportarne modifiche concettuali. Anche Claude Antoine Couplet (1642-1722) nelle sue memorie basa i suoi studi sulle ipotesi del De la Hire giungendo a risultati analoghi.

Nel 1734 Bouguer presenta all’Académie Royale des Sciences la prima memoria che tratti esplicitamente il problema delle cupole. Egli estese al caso bidimensionale un risultato che circolava negli ambienti scientifici dai primi decenni del secolo. Giacomo Bernoulli nel 1704 aveva dimostrato che un arco a forma di catenaria rovesciata resiste al proprio peso qualsiasi sia il suo spessore e Bouguer perseguiva l’idea che una cupola generata per rotazione di una particolare curva intorno al proprio asse potesse godere della medesima proprietà.

Negli anni successivi al 1770 la teoria degli archi e delle cupole subisce un repentino

sviluppo. Spesso gli scienziati che si confrontavano sul tema si addentravano in sottili

dimostrazioni matematiche e complicati ragionamenti tralasciano le indicazioni di

carattere costruttivo ed il problema strutturale. Coulomb costituisce l’eccezione di

questa generale tendenza in quanto, nel suo trattato del 1773, riuscì a sistemare le

nozioni che erano già note, a risolvere nuove questioni ed a indirizzare gli scienziati

verso nuove linee di ricerca. La trattazione specifica sulle volte inizia nel XVI capitolo

in cui l’autore definisce l’oggetto del suo studio: la volta a botte, peraltro affermando

che i medesimi principi “si potranno applicare ad ogni altra specie di volte”.

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Il capitolo XVII riguarda le volte i cui giunti non hanno né attrito né coesione.

Per la prima volta nel capitolo XVIII l’autore si occupò delle volte dotate di attrito e coesione. Il modello di riferimento si arricchisce diventando più simile alla realtà.

Il discorso inizia subito con l’esposizione del problema fondamentale:

“in una volta per la quale siano assegnate la curva interna AB e la curva esterna ab, sono dati anche i giunti Mm perpendicolari agli elementi della curva interna: si richiedono i limiti della forza orizzontale in S che sostiene questa volta, supponendo che essa sia sollecitata dal proprio peso, e sia trattenuta dalla coesione e dall’attrito dei giunti”.

Per conseguire il risultato Coulomb considera le quattro situazioni limite che immediatamente precedono la rottura (fig. 1.22).

Fig. 1.22: metodologie di rottura secondo Coulomb (Benvenuto 1981).

Con riferimento allo schema (1) si indichi con τ il valore massimo della tensione

lim

tangenziale sopportabile dal giunto Mm dove l’aderenza tra i conci è assicurata per esempio da un legante. Nella situazione limite si può supporre che ogni elemento di Mm sia sollecitato da , per cui, su una striscia di spessore unitario della volta, la risultante delle tensioni tangenziali è data da

τ

lim

lim

⋅ Mm

τ , ovvero, posto Mm= h, da . A questo punto nel saggio di Coulomb si legge:

lim

⋅ h τ

“io supporrò inizialmente che la porzione AaMm sia un tutt’uno solido, di

sorta che essa non possa dividersi se non seguendo Mm. Affinché questa

porzione di volta sia in equilibrio è dunque necessario che la forza P

orizzontale, applicata in S sia tale da impedirle di scorrere seguendo Mm; ma

la componente di P secondo Mm è P ⋅ sen ϕ , la componente di Q (ossia del

peso di AaMm) secondo Mm è Q ⋅ cos ϕ , la componente di P perpendicolare a

Mm è P ⋅ cos ϕ e la componente di Q perpendicolare a Mm è Q ⋅ sen ϕ ”.

(23)

29

D’altra parte, le leggi dell’attrito, stabilite dallo stesso Coulomb, affermano che alle componenti perpendicolari P ⋅ cos ϕ e Q ⋅ sen ϕ corrispondono le componenti tangenziali e (dove è il coefficiente di attrito) orientate in senso contrario allo scorrimento. La condizione di equilibrio è (fig. 1.23):

ϕ

⋅ P cos

f

s

f

s

⋅ Q ⋅ sen ϕ f

s

h cos

P f sen Q f sen P cos

Q ⋅ ϕ − ⋅ ϕ −

s

⋅ ⋅ ϕ −

s

⋅ ⋅ ϕ = τ

lim

⋅ , (1)

da cui deriva la:

( )

ϕ

⋅ + ϕ

⋅ τ

− ϕ

− ϕ

= ⋅

cos f sen

h sen

f cos P Q

s

lim

s

. (2)

Fig. 1.23 (benvenuto 1981).

“Ora, siccome per la sua costruzione, la volta non può soltanto scorrere sul giunto Mm, ma anche su ogni altro, ne segue che per ottenere la completa sicurezza, P non deve mai essere minore della quantità” posta al secondo membro della (2) qualunque sia il valore di ϕ . Si cerca di conseguenza il valore di ϕ che fornisce per P un massimo. La forza P così calcolata, chiamata , sarà sufficiente a sostenere tutta la volta. La condizione esclude la rottura secondo lo schema (1) di figura 1.22 ma non è sufficiente ad assicurare che la volta non si rompa, ad esempio, secondo lo schema (2) dove, cioè, lo scorrimento di Mm avviene in senso contrario. In tal caso mutano segno sia la tensione

A

I

A

I

P >

τ sia le forze di attrito

lim

f

s

⋅ P ⋅ cos ϕ e f

s

⋅ Q ⋅ sen ϕ ; con riferimento alla figura 1.24 si ha:

h cos

P f sen Q f sen P cos

Q ⋅ ϕ − ⋅ ϕ +

s

⋅ ⋅ ϕ +

s

⋅ ⋅ ϕ = − τ

lim

⋅ , (3)

da cui si trae:

( )

ϕ

− ϕ

⋅ τ + ϕ

− ϕ

= ⋅

cos f sen

h sen

f cos P Q

s

lim

s

. (4)

(24)

30

Fig. 1.24 (Benvenuto 1981).

Affinché non si verifichi lo scorrimento occorre, al contrario del caso precedente, che la forza P sia sempre minore della quantità posta al secondo membro della (4).

Perciò è necessario cercare il minimo della quantità a secondo membro il quale rappresenta la maggiore forza applicabile in S (fig. 1.22) senza rompere la volta secondo un giunto Mm. Questo minimo è chiamato A

I

.

Mediante la duplice disuguaglianza , Coulomb riesce a rispondere, almeno in parte, alle richieste del problema fondamentale; restano tuttavia da esaminare le modalità di rottura (3) e (4) (fig. 1.22). In questa la trattazione dell’autore diventa succinta; Coulomb si limita ad osservare che il momento di rottura della sezione Mm si può esprimere come grandezza proporzionale a . Per evitare la rottura secondo lo schema (3) deve essere (fig 1.25):

I

I

P A

A < <

M

R 2

lim

⋅ h σ

. (5)

I M M

R

Q d P d

M > ⋅ − ⋅

Analogamente per evitare il collasso secondo lo schema (4) dovrà essere:

. (6)

M I

M

R

P d Q d

M > ⋅ − ⋅ Se indichiamo con B

I

il massimo dell’espressione:

I M

R M

d M d Q ⋅ −

, (7) calcolata rispetto ad ogni possibile giunto Mm, e con B

I

il minimo dell’espressione:

I M

R M

d M d

Q ⋅ +

, (8)

l’equilibrio è assicurato se la forza P obbedisce ulteriormente alla duplice

disuguaglianza: B

I

< P < B

I

.

(25)

31

Fig. 1.25 (Benvenuto 1981).

In conclusione dice Coulomb:

“per unire insieme tutte le condizioni, se A

I

o B

I

fossero maggiori di A

I

o B , l’equilibrio non potrebbe aver luogo e la volta di tali dimensioni si

I

romperebbe necessariamente. Per ottenere i veri limiti di P è sufficiente prendere tra A

I

e B

I

la quantità più grande e, tra A

I

e B , la quantità più

I

piccola; ad esempio se B

I

fosse maggiore di A

I

e B fosse minore di

I

A ,

I

B

I

e B sarebbero i veri limiti delle forze che si possono applicare in S senza

I

rompere la volta”.

Il procedimento ideato da Coulomb consente di rimuovere l’arbitraria ipotesi secondo la quale la rottura si verificherebbe per un giunto inclinato a 45°; anzi, la ricerca del massimo e del minimo condurrà alla determinazione delle sezioni realmente più deboli individuando così il vero comportamento limite della volta.

B

I

B

I

(26)

32

Si passa nel seguito alla disamina della cultura scientifica italiana; sul tema degli archi, delle volte e delle cupole si svilupparono, nella seconda metà del settecento, numerosi studi che condusse alla redazione di trattati che oggi rappresentano una vera e propria sintesi delle conoscenze statiche del tempo sulle costruzioni in muratura.

L’opera maggiore è quella di Lorenzo Mascheroni che con le Nuove ricerche sull’equilibrio delle volte nel 1785 riuscì a conquistare la cattedra di algebra e geometria presso l’università di Pavia.

L’interesse dei matematici per i problemi statici inerenti alle volte era vivo in Italia già da tempo. Molto noto era il dibattito sulla cupola di San Pietro in Vaticano:

all’intervento dei tre “reverendi padri matematici” Ruggiero Giuseppe Boscovich, Francesco Jacquier e Tommaso Le Seur, chiamati da papa Benedetto XIV perché studiassero le cause di alcune lesioni e ne proponessero il rimedio, si aggiunse il contributo volontario di studiosi come Lelio Cosatti e Poleni.

Nel corso della sua vita Mascheroni si cimentò in diversi campi della ricerca scientifica risolvendo dei problemi lasciati aperti da Eulero (Adnotationes ad Calculum Integralem Euleri) pubblicando delle applicazioni trigonometriche (Problemi per Agrimensori con varie soluzioni) ed occupandosi di geometria (Geometria del Compasso di Lorenzo Mascheroni). Verso la fine del ‘700 egli fu invitato a Parigi per collaborare insieme ai maggiori scienziati europei alla definizione del sistema metrico decimale; nella città francese trovò la morte nel 1800.

Il trattato di cui ci occuperemo si compone di dodici capitoli nei quali l’autore intende dare forma analitica rigorosa ai problemi principali che intervengono nel progetto degli archi e delle cupole. Dopo una estesa trattazione sui sistemi articolati di aste rettilinee il Mascheroni tratta “de’ piani composti di cunei che hanno forza d’archi” ed a seguire “dell’equilibrio degli archi rampanti e caricati”. La seconda parte del saggio verte sulle cupole di cui si studia la forma ottimale in diverse condizioni di carico.

Per una comprensione della metodologia di approccio a questa particolare tipologia di problemi si riporta la trattazione riguardante il calcolo a rottura dell’arco.

Il ragionamento parte dallo studio dei sistemi di aste di figura 1.26. I carichi sono

rappresentati da forze Q

A

= Q

E

, Q

B

= Q

D

, 2 Q

C

applicate nei diversi vertici e derivanti,

ad esempio, dal peso delle membrature AB, BD, DE nel primo caso e da AB, BC, CD,

DE nel secondo. Il problema consiste nella determinazione della condizione di

equilibrio del sistema qualora siano note le lunghezze delle aste. Le variabili sono gli

angoli α e β .

(27)

33

Fig. 1.26.

Per la configurazione ABDE la componente orizzontale della reazione vincolare in A è data da:

α

= Q tg

H

A B

; (9)

mentre la componente verticale è:

B A

A

Q Q

V = + . (10)

Per lo schema ABCDE si ha:

α

⋅ +

= ( Q Q ) tg

H

A A C

; (11)

C B A

A

Q Q Q

V = + + ; (12)

ed inoltre:

α

⋅ +

= β

⋅ tg ( Q Q ) tg

Q

C B C

. (13)

Dalla (13) deriva che se 2 ⋅ Q

C

= Q

B

come avviene quando le aste sono uguali ed omogenee la condizione di equilibrio è:

α

= β 3 tg

tg . (14)

Il meccanismo di collasso ideato dal De la Hire secondo cui l’arco superiore BCD

discende tutto d’un pezzo (fig. 1.27) spostando con le sue spinte laterali i piani Bb e Dd

ha certamente attinenza allo schema ABDE sopra considerato. Le condizioni limite di

equilibrio riguardano la verifica allo scorrimento delle basi Aa ed Ee sul piano di

appoggio scabro e la verifica a ribaltamento intorno ai punti A ed E.

(28)

34

Sia il peso del solido AaBb applicato nel suo baricentro O e il peso del solido BbCc applicato nel suo baricentro G. La reazione orizzontale applicata in A, uguale e contraria della azione indotta dal peso dell’arco superiore BbDd, è data dalla condizione che in B la forza sia normale al letto Bb:

Q

o

Q

G

H

A

H

B

2 Q

G

BK Q K tg Q H

H

A

=

B

=

G

⋅ α =

G

⋅ Ω , (15)

mentre la reazione verticale V

A

è:

G o

A

Q Q

V = + . (16)

Fig. 1.27 (Benvenuto 1981).

L’equilibrio allo scorrimento si risolve nella condizione:

A s

A

f V

H = ⋅ , (17)

Avendo indicato con il coefficiente di attrito tra il piedritto e la superficie di appoggio. Dall’equilibrio al ribaltamento si ottiene:

f

s

0 BM H AM Q

AT

Q

o

⋅ +

G

⋅ −

B

⋅ = . (18)

Se nelle (17) e (18) si sostituiscono la (15) e la (16) si ottengono le due equazioni:

⎟⎟ ⎠

⎜⎜ ⎝

⎛ Ω −

=

⎟⎟ ⋅

⎜⎜ ⎝

⎛ Ω −

=

⋅ BM

AM BK Q K

BM Q AT ,

f BK Q K

Q

f

s o G s o G

. (19)

Supponiamo adesso che il meccanismo di collasso dell’arco sia quello già ideato da

Coulomb secondo cui si possono attivare delle cerniere nei punti B, C e D (fig. 1.28).

(29)

35

In questo caso è evidente il richiamo alla seconda configurazione di aste rettilinee di figura 1.22.

Fig. 1.28 (Benvenuto 1981).

Posizionando opportunamente le risultanti dei pesi degli elementi si ottiene:

BK . Q BR Q

BK , Q RK AM Q AT Q

AM , Q TM

Q

A

=

o

B

=

o

⋅ +

G

C

=

G

⋅ (20)

Le tangenti degli angoli α e β sono espresse dai rapporti:

CK . tg BK BM ,

tg α = AM β = (21)

Imponendo l’equilibrio limite allo scorrimento si ottiene:

β

=

= f V dove H Q tg

H

A s A A C

, (22)

mentre da quello al ribaltamento si ha:

α

⋅ +

= β

⋅ tg ( Q Q ) tg

Q

C B C

. (23)

Se nelle (22) e (23) si sostituiscono la (20) e la (21) si ottengono le due equazioni:

⎟⎟ ⎠

⎜⎜ ⎝

⎛ −

=

⎟⎟ ⋅

⎜⎜ ⎝

⎛ −

=

⋅ BM

AM CK Q BR BM Q AT ,

CK f Q BR Q

f

s o G s o G

. (24)

Le formule (19) e (24) possono apparire inusuali per la loro scarsa evidenza espressiva ma risultano di immediata applicabilità. Il progettista dell’epoca, senza bisogno di calcoli, dopo aver determinato i pesi in gioco e la posizione del baricentro degli elementi, misurava direttamente dal disegno le lunghezze dei segmenti da introdurre nelle formule. Per la verifica o il dimensionamento di un arco o di una volta botte

“converrà per varii punti B dell’arco calcolare l’equazioni proposte; nelle

quali se i primi membri che rappresentano l’azione della resistenza riusciranno

per tutto maggiori de’ secondi che danno l’azione della spinta, potremo

(30)

36

permetterci la totale sicurezza dell’arco. La sezione più debole di tutte corrisponderà a quel punto B, per cui l’eccesso della resistenza sulla spinta o de’ rispettivi momenti apparisca il minore. Che se fossero date le altre dimensioni, e volesse trovarsi la grossezza del piedritto, possono le stesse equazioni servire. Il modo più facile sarà l’assumere prima pel piedritto una grossezza arbitraria e quindi cercare il luogo B della sezione più debole. Allora per le equazioni relative al quel punto B troveremo facilmente la grossezza cercata”

1

.

1

G. Venturoli, “Elementi di meccanica e d’Idraulica”; 1806.

(31)

37

L’ampio trattato dell’ingegnere e matematico veronese Leonardo Salimbeni dal titolo Degli Archi e delle Volte (1787) si ispira agli studi dell’abate Bossut e del Mascheroni.

A differenza dei suoi predecessori il veronese si occupò anche di questioni relative alle fasi di costruzione degli archi. In particolare rispose a domande del tipo: come spingono i conci sulla centina? In che misura premono rispetto al loro peso? Fino a quale segno occorre prevedere una sovracentina per impedire lo sfiancamento dei conci prossimi alle imposte?

L’autore intraprese lo studio della componente trasversale della azione rispetto alla linea di estradosso. Come si nota dalla immagine il verso della forza può cambiare di segno in prossimità delle imposte.

Fig. 1.29 (Benvenuto 1981).

Nella seconda parte dell’opera Salimbeni estese le sue indagini agli archi di forma qualsiasi.

Con riferimento al saggio storico critico sulle principali teorie concernenti

l’equilibrio delle volte di J. V. Poncelet (1788-1867) si può seguire l’evoluzione del

pensiero durante l’800. Il modello rigido finora adottato non era più sufficiente per

soddisfare i quesiti degli scienziati e proprio in quel periodo iniziarono a svilupparsi le

teorie delle travi elastiche ad asse curvilineo e la teoria delle membrane e dei gusci.

(32)

38

Agli scienziati settecenteschi non era chiara la definizione del meccanismo di collasso e la reale applicazione della spinta orizzontale in chiave. Utilizzando le sole equazioni cardinali della statica il secondo problema non era risolubile, occorreva introdurre qualche considerazione attinente al comportamento deformativo della struttura e quindi alle proprietà del materiale.

Luigi Navier nel 1826 introdusse il concetto delle tensioni che si distribuivano in ogni punto dei letti trasversali. Coulomb si era occupato della condizione limite di equilibrio senza riguardo alla resistenza a compressione del materiale; così facendo egli poteva collocare la spinta orizzontale in chiave sull’estradosso e la forza di compressione per il giunto di rottura sull’intradosso. La distribuzione delle tensioni considerate da Navier sono quelle rappresentate in figura (1.30).

“Da ciò risulta: 1) che la risultante delle pressioni normali al giunto deve passare a una distanza dal lembo compresso uguale a un terzo della larghezza effettiva di tale giunto; 2) che la pressione in questo lembo è il doppio di quella che avrebbe luogo nell’ipotesi di una ripartizione uniforme sulla superficie intera del giunto. Questi risultati, in cui si fa completa astrazione dall’influenza delle componenti tangenziali e dalle deformazioni conseguenti (…), permettono al Signor Navier di calcolare nuovi valori della spinta orizzontale in chiave, un po’ più forti di quelli che derivano dall’equilibrio stretto o matematico relativo all’ipotesi di una resistenza infinita, e che offrono il mezzo di accertare (…) che nella volta progettata i materiali non corrano alcun rischio di schiacciamento”

1

.

Fig. 1.30 (Benvenuto 1981).

1

J. V. Poncelet, “Examen critique et historique des principales théories et solutions concernant

l’equilibre des voutes”; 1852.

(33)

39

F. J. Gerstner nel 1831 introdusse i concetti di linea di resistenza e di linea di pressione. La prima è il poligono che congiunge i centri di pressione su ognuno dei piani dei giunti; il poligono diventa una curva se i giunti sono infiniti. La seconda è l’inviluppo delle rette d’azione delle forze reattive tra giunto e giunto. Le due linee sono generalmente distinte (fig. 1.31).

Fig. 1.31 (Benvenuto 1981).

Perché vi sia equilibrio è necessario che la linea di resistenza passi all’interno dell’arco; se essa interseca l’estradosso con un certo angolo la rottura è immediata; se essa è tangente ad uno dei bordi la rotazione dei conci è imminente e corrisponde allo stato di equilibrio stretto che solo una resistenza infinita del materiale potrebbe sostenere. L’angolo col quale la linea di pressione interseca i giunti dev’essere messo in relazione con l’angolo di attrito: se esso si discosta troppo dall’angolo retto possono insorgere scorrimenti. Gerstner si accorse che il carattere iperstatico della questione consentiva il tracciamento di infinite linee di pressione passanti per i diversi punti della chiave e tangenti ai diversi punti delle reni. La scelta della curva “vera” era impossibile senza il ricorso a considerazione di carattere deformativi.

Si riportano nel seguito i metodi empirici di tracciamento delle curve di pressione che mirano a riconoscerne quella “vera”.

Negli Annales des ponts et chausées, pubblicati nel 1840, Méri introdusse per primo la costruzione del poligono delle pressioni nello studio delle volte. Egli esaminò il caso di una volta costruita con un materiale ipotetico con infinita resistenza a compressione.

Per la stabilità contro ogni rotazione intorno agli spigoli di intradosso o di estradosso la

curva delle pressioni doveva essere tutta compresa nello spessore della volta e, per la

verifica di scorrimento, la risultante relativa ad un giunto qualunque, nel caso in cui non

si tenga conto della coesione della malta, doveva formare con la normale al medesimo

un angolo minore dell’angolo di attrito.

(34)

40

La rottura di una volta poteva avvenire per scorrimento, rotazione o per la combinazione dei due fenomeni. Nella immagine seguente si sintetizzano questi modi di rottura già noti dal ‘700 (fig. 1.32).

Fig. 1.32.

Méri osservò che la verifica allo scorrimento era di secondaria importanza rispetto a quella alla rotazione per cui per la stabilità della volta bastava che la curva delle pressione fosse contenuta nello spessore dell’arco. Le posizioni limite della curva delle pressioni possono essere due: quella in cui tale curva risulta tangente all’estradosso in chiave e all’intradosso nei giunti di rottura e l’altra nella quale risulta tangente all’intradosso in chiave ed all’estradosso nei giunti di rottura. Secondo Méri, fra queste due posizioni limite, cui corrispondono rispettivamente il minimo ed il massimo valore della spinta in chiave, deve esistere la posizione nella quale si trova realmente la curva delle pressioni. In realtà, siccome la muratura offre sempre una resistenza a compressione limitata e non infinita come supposto da Méri, le curve limite precedenti non possono verificarsi; infatti, se la spinta si esercitasse sullo spigolo di un cuneo, non vi sarebbe ripartizione dello sforzo nel cuneo stesso e si avrebbero in tale punto pressioni unitarie infinite con conseguente schiacciamento del cuneo.

Il problema consiste nel ricercare i più probabili punti di passaggio della curva in

chiave e nel giunto di rottura. Nella sua opera Méri sostiene che il centro di pressione in

(35)

41

chiave debba essere più vicino all’estradosso e quello presso l’imposta più vicino all’intradosso. Si legge inoltre che per la stabilità è sufficiente che le corde dei giunti passanti per i centri di pressione dividano le superfici dei rispettivi cunei in modo che la parte minore delle due sopporti almeno la metà della pressione totale. Trascurando la resistenza a trazione di una eventuale malta interposta tra i giunti dei conci si applica il metodo di Méri scegliendo come punti di passaggio della curva l’estremo superiore del nocciolo centrale (terzo medio) in chiave e nell’estremo inferiore del nocciolo centrale nei giunti di rottura. Per poter costruire la curva delle pressioni rimane da fissare la posizione del giunto di rottura che seguendo nozioni empiriche: nelle volte circolari a tutto sesto è alle reni con inclinazione di 30° rispetto all’orizzontale mentre nelle volte circolari ribassate praticamente coincidono con le imposte.

Si applica il metodo ad una volta a botte a tutto sesto simmetrica e simmetricamente caricata (tutti i carichi applicati si considerano costanti lungo la sua lunghezza cioè nel senso delle generatrici). Con queste ipotesi il comportamento della volta non differisce da quello di un arco per cui lo studio si riduce a quello di metà volta con un metro di lunghezza.

Prendiamo in esame la porzione di volta compresa tra l’asse di simmetria verticale e il giunto di rottura situato alle reni, e delimitiamo graficamente la parte di muro sovrastante sostenuta dalla volta. Dividiamo la porzione di volta in n conci mediante giunti ideali, normali alla linea di intradosso, ed innalziamo le verticali dai punti di intersezione di questi giunti con la linea di estradosso; si è così divisa la muratura sovrastante in n blocchi ciascuno dei quali grava su un concio. Sull’estradosso della volta possono insistere carichi permanenti tra cui il riempimento in muratura o in altro materiale, il massetto per il pavimento ed il carico accidentale. Si ammette che tutto ciò che agisce sulla volta propriamente detta semplicemente come peso si possa trasformare in un carico equivalente di muratura della stessa natura di quella della volta stessa. Ciò si ottiene moltiplicando le ordinate comprese tra l’estradosso della volta e la linea che limita superiormente l’orizzontamento per:

n

n m

i

⎟⎟

⎜⎜ ⎞

⎛ Γ

∑ Γ

, (25) in cui la sommatoria è estesa a tutti gli n carichi permanenti agenti, è il peso

specifico del materiale del singolo carico permanente e

Γ

i

Γ è il peso specifico della

m

muratura (in caso di carico accidentale q bisogna aggiungere alla sommatoria

precedente il termine q/ Γ

m

e quindi dividere per n+1). Con riferimento alla figura 1.33:

(36)

42

h n

h

n m

i

i ' i

Γ Γ

= . (26)

Calcoliamo i pesi dei conci dell’arco ed i pesi dei blocchi di muratura sovrastante e applichiamoli rispettivamente al baricentro del concio e a quello del blocco di muratura resa omogenea di altezza . Si ricavano graficamente i risultati (in figura ) e tracciamo le rispettive linee di azione

. Con un poligono funicolare di polo arbitrario H determiniamo, con l’intersezione del primo e dell’ultimo lato, la retta di azione r della risultante R dei pesi . Si segnano adesso all’interno dell’arco le curve n (in figura tratteggiate) congiungenti gli estremi dei noccioli centrali d’inerzia dei giunti ideali. Si traccia la retta q orizzontale passante per il punto , estremo superiore del nocciolo della sezione in chiave; questa retta, che indica la direzione dell’azione Q esercitata dal mezzo arco simmetrico asportato, incontra R nel punto G. si traccia la retta a che congiunge G con il punto , estremo inferiore del nocciolo della sezione al giunto di rottura.

'

P

i

P

i''

'

h

i ''

i ' i

i

P P

P = + P

1

, P

2

, P

3

, P

4

, P

5

5 4 3 2

1

, p , p , p , p p

P

i

C

0

C

1

Le intensità di Q e di A si ricavano facilmente conducendo dai punti X e Y le parallele alla retta q ed alla retta a, che si incontrano nel punto H

1

.

A questo punto si unisce con gli estremi di e con polo si traccia il poligono funicolare che passa per .

H

1

P

1

, P

2

, P

3

, P

4

, P

5

H

1

C e

0

C

1

Si ottiene così la curva delle pressioni (in figura indicata con il tratto e punto) che deve risultare tutta interna alle curve n affinché sia verificata la condizione di stabilità della volta.

Questo metodo ha incontrato più di ogni altro il favore dei tecnici per la sua semplicità concettuale e la sua facilità applicativa. I risultati che si ottengono possono considerarsi attendibili per volte circolari a tutto sesto, ribassate, ellittiche o ovali.

Si ricorda infine che il metodo considera la volta come rigida trascurando le deformazioni elastiche subite dai materiali.

Per terminare questa succinta disamina dell’evoluzione sugli studi che esulano dalla

teoria dell’elasticità in merito ad archi e volte si riporta il metodo di Scheffler- Moseley.

(37)

43

Fig. 1.33 (Lorenzo 1992).

Il metodo di Scheffler si basa sul principio della minima resistenza che fu enunciato per la prima volta da Moseley nel 1833 nel Philosophical Magazine in questa forma:

“Allorché un gruppo di forze è in equilibrio e sviluppa un certo sistema di reazioni, ciascuna di queste ultime è un minimo, avuto riguardo alle condizioni nelle quali si trova l’intero sistema”

2

.

Scheffler ritenendo insoddisfacente l’enunciato del suo predecessore rivide il principio nei seguenti termini:

“Sia dato un sistema di corpi nello spazio, legati gli uni agli altri da superficie di contatto, per posizione e per forma tali che tutti i corpi del sistema formino un insieme di figura invariabile, finché le forze che li sollecitano non

2

Ibidem.

(38)

44

superino dei limiti determinati, e in tale sistema esistano dei punti fissi. Se P è la risultante di tutte le forze esterne applicate al sistema, decomponiamola in tante forze parallele a P, cioè , passanti per i punti fissi del sistema.

Sempre che le superficie di contatto dei corpi siano tali da poter sopportare le forze , quelle produrranno delle reazioni eguali e contrarie a queste; ma, se quelle superficie sono tali da potersi soltanto opporre a forze dirette in direzioni diverse fra loro e diverse da quelle delle P, le loro reazioni , avranno le direzioni compatibili con la posizione e la forma delle superficie di contatto ed avranno per componenti parallele a P le forze

, e per altre componenti, normali alle prime, delle forze ...

, ,

2 3

1

P P

P

...

, ,

2 3

1

P P

P

...

, ,

2 3

1

R R

R

...

, ,

2 3

1

P P

P

...

, ,

2 3

1

Q Q

Q

3

.

Scheffler osservò che, in generale, non vi è una direzione unica possibile per ciascuna delle R, da ciò nasce una prima indeterminazione; inoltre, sulle superfici di contatto, in luogo di punti fissi si possono avere superfici fisse. Le R, quindi, possono essere indeterminate, oltre che per la loro direzione, anche perché sono incogniti i punti di applicazione. Scheffler immaginò riuniti in classi tutti i gruppi delle R, le cui componenti Q siano per una stessa superficie di contatto, parallele fra loro ed enunciò il principio della minima resistenza nei seguenti termini:

“Fra tutti i gruppi di una stessa classe, quello solo è possibile, pel quale, in virtù delle proprietà fisiche del sistema, le componenti Q, perpendicolari a P, sono simultaneamente un minimo”

4

.

Ammesso tale principio, resta indeterminata soltanto la classe alla quale appartiene il gruppo delle reazioni effettive, ossia, la direzione delle Q in piani normali a P.tale indeterminazione viene eliminata nei casi particolari da considerazioni pratiche.

L’applicazione del principio alle volte non produce alcuna indeterminazione: le superfici di contatto sono due, rappresentate dalle spalle della volta, e le reazioni devono essere contenute nel piano mediano della volta. Il problema si riduce a determinare le reazioni in modo che le loro componenti orizzontali siano minime, dal momento che esse sono uguali fra loro; in conclusione, il principio porta a determinare la curva delle pressioni cui corrisponde la spinta minima.

Per determinare quale sia la curva corrispondente alla spinta minima, Scheffler dimostra i seguenti teoremi:

3

Ibidem.

4

Ibidem.

(39)

45

- la curva cercata deve avere necessariamente un punto in comune con l’intradosso ed uno con l’estradosso;

- i punti comuni alle due curve limiti di intradosso e di intradosso e alla curva di pressione, se non cadono nella chiave e nella sezione d’imposta, devono essere punti di tangenza;

- i punti precedenti sono sempre più bassi delle linea d’azione della spinta;

- il punto di contatto con l’estradosso è sempre più alto di quello di contatto con l’intradosso.

A questo punto Scheffler propose di costruire la curva delle pressioni che passa per l’estradosso in chiave e per l’intradosso nella sezione d’imposta. Può accadere che tale curva o non ha altri punti comuni con le curve contorno o interseca una di esse o entrambe. Si distinguono allora cinque casi:

1- se la curva costruita risulta tutta interna allo spessore della volta, allora essa è proprio la vera curva corrispondente alla minima spinta. Questo è il caso degli archi ribassati e con la tangente orizzontale in chiave;

2- se la curva costruita taglia l’intradosso, ma non l’estradosso, la vera curva è quella che, continuando a passare per il punto estradossale della chiave, risulta tangente all’intradosso, purché sia tutta compresa nello spessore dell’arco. Questo caso si verifica negli archi con intradosso verticale, o quasi, all’imposta e con estradosso orizzontale in chiave. Se la nuova curva, tangente all’intradosso, taglia l’estradosso più in alto, le deduzioni sono le stesse del quarto caso. Se, al contrario, taglia l’estradosso fra il punto di contatto con l’intradosso e l’imposta, l’equilibrio è impossibile e la volta si rompe, abbassandosi in chiave e spostando lateralmente le imposte. Il giunto che passa per il punto di contatto è quello di rottura;

3- se la curva taglia l’estradosso, ma non l’intradosso, la vera curva delle pressioni è quella che passa per il punto dell’intradosso all’imposta e tocca l’estradosso, purché sia tutta contenuta nello spessore dell’arco. Questo caso si verifica negli archi che non hanno all’imposta l’intradosso verticale, né in chiave l’estradosso orizzontale. Se poi la nuova curva non risulta compresa nello spessore dell’arco, ma taglia l’intradosso inferiormente nel punto di contatto, si rientra nel quarto caso. Se, viceversa, taglia l’intradosso superiormente nel punto di tangenza, l’equilibrio è impossibile e la volta si rompe con la caduta verso l’interno delle parti inferiori della volta e con il sollevamento della parte centrale.

Il giunto che passa per il punto di contatto è quello di rottura;

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4- se la curva taglia l’intradosso e l’estradosso, ciascuno in uno o più punti, senza però attraversare più di una volta lo spessore intero dell’arco. In tal caso la vera curva delle pressioni deve toccare entrambe le curve contorno, il punto di contatto con l’intradosso, però, deve essere più basso dell’altro. Questo è il caso degli archi con l’intradosso verticale all’imposta e con l’estradosso inclinato in chiave (archi ogivali). Se la nuova curva taglia l’intradosso in chiave fra la chiave ed il punto di contatto con l’estradosso, oppure taglia l’estradosso fra il punto di contatto con l’intradosso e l’imposta, o se si verificano i due casi insieme, l’equilibrio è impossibile. I giunti di rottura sono due e passano per i punti di contatto;

5- se la curva taglia l’intradosso e l’estradosso in un numero qualsiasi di punti, attraversando più volte l’intero spessore dell’arco. L’equilibrio è impossibile e la volta si rompe in più punti.

Fra le diverse ipotesi assunte come base dei metodi delle curve ipotetiche di pressione, gli studiosi sono concordi nell’attribuire la maggior considerazione proprio al principio della minima spinta. Si ritiene plausibile, infatti, che la spinta, che durante il disarmo della volta va crescendo, si arresti a quel valore minimo per cui è assicurata la stabilità della volta. Tuttavia, anche questo metodo presenta diversi difetti ed incertezze.

Il difetto più evidente è quello di considerare la volta come rigida. Infatti, proprio a causa delle deformazioni elastiche dei materiali reali costituenti la volta, è inammissibile che la pressione sopra un giunto possa concentrarsi in corrispondenza o dell’estradosso o dell’intradosso. Certamente essa deve distribuirsi sopra una certa superficie più o meno estesa e ciò comporta che il centro di pressione debba trovarsi ad una certa distanza dalle curve di contorno. Lo stesso Scheffler riconosce che, nella pratica, i centri di pressione nei giunti di rottura si allontanano dalle curve di contorno e consiglia perciò di situarli ad una distanza da queste pari ad ¼ dello spessore del giunto.

In definitiva, le posizioni determinate dallo Scheffler per le vere curve di pressione

devono considerarsi come posizioni limite, poiché esse possono realizzarsi solo quando

il materiale ha una resistenza infinita; la posizione reale della curva di pressione dipende

dalla forma, dalle dimensioni della volta, dalla natura del materiale e dalla distribuzione

del carico.

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