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Dalla legge delega al decreto delegato per il riordino della giustizia amministrativa. La (nuova) fase istruttoria del processo amministrativo e gli indispensabili elementi da desumere dai principi generali del processo. - Judicium

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www.judicium.it FABIO SANTANGELI

Dalla legge delega al decreto delegato per il riordino della giustizia amministrativa. La (nuova) fase istruttoria del processo amministrativo e gli indispensabili elementi da desumere dai principi

generali del processo∗∗.

Sommario: 1. La legge delega del 2009; 2. I principi processuali in materia di prova nel processo; A) Evoluzioni legislative precedenti alla riforma del 2009; B) Evoluzione giurisprudenziale; C) La riforma del 2009; 3. Segue: Conclusioni. I principi generali oggi desumibili dalle norme sul processo civile; 4. I principi generali desumibili dalle norme del processo civile, i principi processuali internazionali ed il nodo del coordinamento: considerazioni generali. Sulla necessità ma anche sui necessari limiti dell’armonizzazione; 5.

Segue: Sulla impossibilità di risolvere tramite il ricorso ai criteri generali del processo civile alcune tra le più complesse opzioni costruttive che denoteranno il nuovo processo amministrativo, dalle modalità di redazione del nuovo codice al rapporto tra il processo ordinario ed i riti speciali, all’unicità del rito ordinario ed al grado di differenziazione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo; 6. I principi processualcivilistici e le necessarie conseguenze sul nuovo processo amministrativo; A) Le prove prima del processo; 7. Segue:b.) Sul contenuto del ricorso introduttivo. Il contenuto del ricorso ed i poteri del giudice. L’allegazione dei fatti;

8. Segue: Il contenuto del ricorso e la necessità di elementi probatori già acquisiti per l’ammissibilità del ricorso; 9. Principi processualcivilistici e stesura delle regole sugli atti difensivi del convenuto, sulla trattazione e sull’istruzione probatoria. Il fatto non contestato; 10. Segue: le forme di trattazione; a) Modelli istruttori; b) Il divieto della terza via; c) Assunzione delle prove; 11. Segue: I mezzi di prova. I poteri istruttori del giudice; 12. Segue: Prove ai privati; 13. Segue: Valutazione ed onere della prova nel processo civile ed amministrativo.

1. La legge delega del 2009.

Questo lavoro è dedicato al Prof. Luigi Arcidiacono, mio Preside alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania, cui mi lega e mi legherà sempre un profondo vincolo di affetto e riconoscenza. Il presente testo riproduce le considerazioni effettuate nel corso della relazione svolta in data 31 ottobre 2009 a Siracusa nell’ambito del convegno, organizzato dall’Associazione nazionale magistrati amministrativi, dal titolo “La codificazione del processo amministrativo:

riflessioni e proposte”. Ciò giustifica la forma discorsiva e la sintetica rivisitazione di taluni temi che meriterebbero un più ampio approfondimento.

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Con l’articolo 44 della legge n. 69/2009, al Governo è stata conferita ampia delega per una riforma della disciplina del processo amministrativo.

Il primo comma del citato articolo stabilisce che “il Governo è delegato ad adottare, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per il riassetto del processo avanti ai tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato, al fine di adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di princìpi generali e di assicurare la concentrazione delle tutele”.

Scopo del presente intervento è quello di individuare - nella prospettiva di una codificazione che investa, alla luce della suddetta delega, interamente o quasi il settore della giustizia amministrativa - le possibili soluzioni legislative in ordine alla struttura di una ipotizzabile nuova fase istruttoria; indagine, questa, che verrà per lo più svolta asetticamente, senza cioè l’indicazione di quella che, ad avviso di scrive, potrebbe risultare la scelta maggiormente conveniente.

La legge delega si preoccupa di indicare con puntualità alcuni momenti che dovranno caratterizzare il nuovo processo, come ad esempio il rapporto ed il passaggio tra la fase cautelare e la fase di merito del giudizio amministrativo.

Non altrettanta attenzione è stata, viceversa, riservata alla fase dell’istruttoria.

In particolare, con riferimento a tale fase, il legislatore si limita a prevedere che i decreti legislativi dovranno “assicurare la snellezza, concentrazione ed effettività della tutela, anche al fine di garantire la ragionevole durata del processo,…nonché…l’estensione delle funzioni istruttorie esercitate in forma monocratica…”.

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Come è facile notare, si tratta di disposizioni ampie, generali se non direttamente generiche, ai limiti della incostituzionalità ex art. 76 Cost., per indeterminatezza della delega, ma che lasciano ampio spazio all’interprete.

Ma proprio per questo, il richiamo ai principi del processo civile può apparire come qualcosa di più di un richiamo quasi retorico e pleonastico, perché può essere realmente un modo di difendere la delega quello di affermare che i criteri direttivi a cui si deve ispirare il legislatore delegato vanno rinvenuti all’interno del codice di rito civile.

Il primo passo da compiere è, allora, quello di individuare i principi generali in materia istruttoria espressi dalle norme del processo civile.

2. I principi processuali in materia di prova nel processo civile.

Quali sono questi principi generali che si desumono dal codice di procedura civile?

È evidente che non sono quelli che ricaviamo esegeticamente dall’esame degli articoli del codice di procedura civile, ma quelli ricavati ed espunti da dottrina e giurisprudenza (i principi condivisi, ancorchè in ipotesi non condivisibili) in un intenso lavorio pluriennale, integrati da ultimo dalle recentissime disposizioni della l.

n. 69/2009.

Al fine di individuare tali principi, utile appare un rapido excursus dell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale che ha caratterizzato la materia de qua.

A) Evoluzioni legislative precedenti alla riforma del 2009.

Nel processo civile, ad onta delle ormai continue riletture legislative della fase della trattazione, le disposizioni riservate alla introduzione, alla valutazione ed all’onere

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della prova non sono state oggetto di modifiche, così che possiamo affermare che la fase dell’istruzione probatoria, salvo l’indispensabile adeguamento alle nuove modalità di formazione del documento (prova informatica1), è stata tra le fasi meno interessate da cambiamenti normativi; il che, vista la qualità e gli esiti delle modifiche che hanno interessato il processo di cognizione, non è poi detto che sia un male.

Se tuttavia dovessimo individuare delle linee coerenti di evoluzione legislativa, si potrebbe forse segnalare, quale elemento distintivo, la possibilità di anticipare la formazione della prova prima e dunque fuori dal processo2. Seguendo infatti una tendenza continentale, si permette legislativamente in molte ipotesi di “fare” la prova prima del processo con meccanismi integralmente giudiziali, utilizzando in pratica tale strumento non solo come elemento di accertamento della verità processuale, ma come vero e proprio tentativo deflattivo di superamento della necessità della tutela ordinaria (art. 696 bis c.p.c.); e una non inutile riflessione, ultronea rispetto al tema oggi trattato, potrebbe essere dedicata anzi allo scarsissimo successo che tale innovazione ha conseguito nella applicazione pratica.

Il legislatore mantiene per lo più l’impianto tradizionale nella disciplina della introduzione dei fatti costitutivi principali nel processo, che sono riservati alla parte;

per i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi rimane invece incerta, nelle determinazioni normative, la suddivisione tra parti e giudice quanto ai soggetti legittimati alla rilevazione.

1 Sul documento informatico, cfr. VERDE G., Prove nuove, in Le prove nel processo civile, Atti del XXV Convegno Nazionale (Cagliari, 7-8 ottobre 2005), Milano, 2007, 8 ss.;

2 Cfr. BESSO C., La prova prima del processo, Torino, 2004; NARDO G. N., Contributo allo studio della istruzione preventiva, Edizioni Scientifiche Italiane, 2005.

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Si mantiene, inoltre, alla disponibilità delle parti l’allegazione dei fatti sul cui accertamento il processo dovrà vertere.

E, ancora, una disposizione dei fatti oggetto della prova è affidata alle parti senza intromissioni possibili da parte del giudice anche all’interno del processo, per il tramite dei mezzi di prova confessione e giuramento decisorio, che permettono di determinare fatti oggetto della causa che il giudice dovrà utilizzare nella decisione senza poterne contestare l’esistenza. Ma questi poteri dispositivi vanno riferiti tuttavia esclusivamente a diritti disponibili, poiché il legislatore espressamente esclude l’utilizzo dei mezzi istruttori in questione in materie aventi ad oggetto diritti indisponibili.

Quanto invece alla introduzione delle prove nel processo, si conferma il principio dispositivo, nel senso che si mantiene il pieno diritto delle parti di richiedere l’assunzione dei mezzi necessari per provare il fatto, laddove ammissibili e rilevanti;

principio dispositivo, tuttavia, “attenuato”, nel senso che il legislatore concede in realtà al giudice il potere di assumere d’ufficio determinati mezzi istruttori, a prescindere dalla richiesta dei privati3, ed anzi con una significativa (ancorché, forse, non attentamente meditata) evoluzione in tal senso (si pensi all’art. 281 ter c.p.c., alla possibilità davanti all’organo monocratico di assumere d’ufficio testimonianze), tanto che lo stato dell’arte nel processo di cognizione oggi forse potrebbe più precisamente essere espresso con la definizione di “principio inquisitorio attenuato”; poteri officiosi del giudice, peraltro, che sono la base dei due principali archetipi processuali diversi dal rito ordinario, il rito del lavoro ed il rito camerale.

Quanto alla valutazione ed all’onere della prova, il legislatore sembra a mio giudizio voler, in via generale, affrontare nuovamente tali temi solo con riferimento all’ambito

3 Sul tema, cfr., per tutti, TARUFFO M., Poteri probatori delle parti e del giudice in Europa, in Le prove nel processo civile, cit., 53 ss..

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della tutela del consumatore. L’onere della prova è campo, peraltro, in cui è già tradizionalmente attribuito un vasto ambito autoregolamentativo alla giurisdizione, ed alle regole giurisprudenziali, talché il legislatore non sembra aver voluto eccedere neanche nella predisposizione di nuove ipotesi di presunzioni assolute o di inversioni legali, e men che meno di ferree predeterminazioni quanto alla scala di importanza o all’efficacia di mezzi istruttori (ad eccezioni delle c.d. prove legali).

Quanto, infine, alle modalità della trattazione istruttoria e dell’assunzione dei mezzi probatori, il modello tradizionale del processo civile caratterizzato da uno schema legislativamente predefinito si configura solo nel processo civile ordinario (differente è, invece, ad esempio la struttura della fase istruttoria nel processo civile camerale contenzioso; struttura integralmente retta da un principio di informalità).

B) Evoluzione giurisprudenziale.

Naturalmente più problematico e complesso il lavorio della giurisprudenza civile in materia probatoria.

Premettendo che, con riferimento agli orientamenti giurisprudenziali riscontrabili in questo campo, ogni tentativo dell’interprete di riconduzione a criteri guida è inevitabilmente soggettivo, possono, sul punto, svolgersi alcune considerazioni.

A mio giudizio, in primo luogo esiste un tentativo di riduzione dei fatti oggetto di valutazione e prova, che la giurisprudenza ha operato promuovendo e valorizzando (forse oltremodo) il c.d. principio di non contestazione; elemento che segnala anche la necessità, ben avvertita dai giudici, di attrezzarsi per ridurre, anche per questa via e non in maniera indolore per una piena estrinsecazione dei poteri del giudice e della tensione all’accertamento della verità, i tempi necessari per l’espletamento dell’istruttoria.

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Ed altrettanto è a dirsi per le scelte della Corte di cassazione di chiudere in via tendenziale a nuove produzioni documentali nel giudizio di secondo grado.

Quanto ai meccanismi di introduzione della prova, i giudici manifestano una profonda attenzione ai diritti delle parti sia nelle richieste di assunzione che nel garantire il contraddittorio; da questo punto di vista, il giudizio di rilevanza, come giudizio ex ante, assume un ruolo non fortemente caratterizzato, talché le limitazioni per tale via all’assunzione sembrano per lo più circoscritte alle logiche ipotesi di

“superfluità” della prova.

L’assunzione di prove d’ufficio è prerogativa che a me tendenzialmente sembra utilizzata con apprezzabile parsimonia, se non in materie in cui appare evidente anche il favor legislativo per un ruolo attivo del giudice, con una particolare attenzione ad evitare di supplire alle lacune difensive delle parti.

L’applicazione della regola dell’onere della prova al processo civile non viene in giurisprudenza formalmente contestata. E ben si comprende, alla luce del chiaro disposto di cui all’art. 2697 c.c., che rende assai meno libera la riflessione sulla distribuzione tra le parti delle conseguenze della mancata prova (a differenza, invece, di quanto accade, ad esempio, nell’ordinamento tedesco dove l’assenza di una determinazione legislativa sull’onere della prova, che non è certo un postulato e sulla cui equità è ben possibile anzi fortemente dissentire, permette di giungere a soluzioni differenti). E tuttavia la giurisprudenza italiana, pur nel formale rispetto della regola sull’onere della prova, ha, con abbondanza, creato le c.d. inversioni dell’onere giurisprudenziali (ad esempio la presunzione del carattere fraudolento del licenziamento di un lavoratore subordinato, seguito subito dopo da una riassunzione con le stesse mansioni), così da alleggerire le posizioni di categorie la cui tutela nel processo avrebbe ingiustamente rischiato di essere compressa, adottando delle soluzioni (si pensi, in particolare, all’utilizzo del criterio della vicinanza alla prova)

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che spesso consentono di meglio graduare le conseguenze della regola (nelle ipotesi di mancata prova) alla presumibile realtà fattuale.

Più ancora, in giurisprudenza, a me sembra si sia agito sotto il profilo della valutazione, attraverso appunto una più “morbida” valutazione degli elementi necessari e sufficienti perché il giudice possa verificare il pieno raggiungimento della prova.

Ciò è passato per una consapevole ed espressa differenziazione dei presupposti necessari per ritenere un fatto provato nel giudizio civile rispetto al giudizio penale.

Poi, a me pare che talora dall’esame delle decisioni sia possibile intravedere un favor per alcune categorie (penso ad esempio alla prova richiesta per i prestatori di lavoro) che si manifesta anche non in inversioni della prova o in teorizzazioni espresse, ma semplicemente per il tramite di un approccio più favorevole nella valutazione concreta del raggiungimento della prova del fatto.

D’altro canto, logicamente i giudici civili hanno ampliato il loro margine teorico di valutazione, attraverso il larghissimo ricorso agli indizi ed alle prove atipiche4, che oggi, per diritto vivente, possono da sole fondare la decisione del giudice (in argomento, però, l’insoddisfazione degli studiosi, quanto all’assenza di più rigorose dinamiche di valutazione, è prevalente).

Una riflessione oggi sempre più attenta è dalla giurisprudenza riservata alle c.d. prove scientifiche5; ambito in cui nella più avveduta giurisprudenza si affianca la consapevolezza della relatività delle acquisizioni di tal fatta insieme però al

4 Sulle prove atipiche, cfr., in dottrina, per tutti, RICCI G. F., Le prove atipiche, Milano, 1999; ID., Le prove atipiche fra ricerca della verità e diritto di difesa, in Le prove nel processo civile, cit., 173 ss.;

VERDE G., Prove nuove, cit., 23 ss..

5 In dottrina, cfr. VERDE G., Prove nuove, cit., 22-23; LOMBARDO L., La scienza e il giudice nella ricostruzione del fatto, in Le prove nel processo civile, cit., 127 ss..

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riconoscimento della necessità del pieno valore da attribuire a quelle risultanze scientifiche assistite al momento della decisione da un diffuso consenso nella comunità scientifica, o forse meglio ancora di attribuire tendenzialmente a tali risultanze esattamente il grado di attendibilità, maggiore o minore, che la comunità scientifica di riferimento tributa.

Queste riflessioni, più in generale, introducono infine ai rapporti dei giudici con lo strumento della consulenza tecnica, mezzo o non mezzo di prova che si ritiene oggi in giurisprudenza doversi disporre, in particolare se ad istanza di parte, non soltanto quando non sia quasi possibile provare altrimenti il fatto, ma immediatamente come

“prova migliore”; cosa che spesso accade, si pensi ad esempio alla prova ematica, proprio alla luce dei perfezionamenti scientifici che consentono in alcuni campi il raggiungimento di risultati più appaganti rispetto ad altre prove precostituite o costituende.

Da questo punto di vista, se è vero che la giurisprudenza civile non adotta espressamente il concetto di principio di prova6 della giurisprudenza amministrativa, utilizzato dal legislatore peraltro soltanto a scopo limitato all’art. 2724, n. 1, c.c., si può concludere affermando che tuttavia un esame pragmatico sembra indurre a ipotizzare somiglianze tra le due discipline pur se non immediatamente coglibili ed anzi formalmente escluse sulla base di assunti meramente teorici.

Di principio di prova, infatti, la giurisprudenza civile ben potrebbe parlare quando, ad esempio, ammette consulenze tecniche, che forse sarebbero anche qualificabili come

“esplorative” e pertanto inammissibili, quando la richiesta non sia anche

6 Il termine appare adoperato dalla giurisprudenza di Cassazione nella definizione di quanto necessario per il deferimento alla parte del giuramento suppletorio, talora deferibile sulla base di semplici presunzioni senza necessità di un principio di prova (Corte cass., sez. III, 20 agosto 1984, n. 4659), altra volta ritenuto elemento necessario (Corte cass., sez. III, 7 febbraio 1986, n. 773).

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accompagnata da un “principio di prova” dell’attendibilità degli assunti7. E forse non è un caso che il richiamo al concetto di “principio di prova” sia raccolto dalla giurisprudenza in materia fallimentare, laddove si è richiesto, nel ricorso del presunto creditore, un principio di prova dell’insolvenza perché il giudice fallimentare possa esercitare i poteri istruttori d’ufficio; in una disciplina ovvero pervasa da un interesse pubblico all’accertamento in qualche modo paragonabile a quello che tendenzialmente accade nel processo amministrativo.

C) La riforma del 2009.

In questo quadro si inserisce la legge n. 69 del 2009, che, oltre a contenere la delega per la riforma delle disposizioni in tema di processo amministrativo, ha tra l’altro modificato non marginalmente proprio le regole sulla trattazione del processo civile di cognizione; legge, inoltre, contenente anche la delega sulla conciliazione, che introduce, in via generalizzata, una ipotesi di giurisdizione condizionata.

Il processo civile ordinario di cognizione “tradizionale” è arricchito da limitate modifiche, che non ne mutano incisivamente l’impianto. Si introduce in modo generalizzato l’istituto della rimessione in termini, oggi evidentemente utilizzabile anche per superare il giudicato garantendo la validità di una impugnazione tardiva

“per causa non imputabile”, superando una chiusura del processo civile ormai verosimilmente anacronistica (ma per l’istruttoria l’istituto era già presente in primo ed in secondo grado).

Si specifica poi, come del resto ritenuto in giurisprudenza, la preferenza per la retroattività della sanatoria per i vizi di rappresentanza, assistenza individuati dal

7 Cfr. Trib. Torino 20 marzo 1989, in Giur. It., 1989, 1, 2, 740, sull’utilizzabilità della consulenza tecnica contabile in quanto mezzo più idoneo per accertare i fatti di causa, quando sia stato offerto un ragionevole principio di prova sul fatto posto a fondamento della domanda.

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giudice nel processo, in coerenza con la tensione alla sanatoria ex tunc in via generale dei vizi processuali individuati nel corso del processo di primo grado, come tensione verso una pronuncia sul merito e non sul rito.

Si normativizza l’istituto della “non contestazione”, come regola generale applicabile tanto all’attore che al convenuto, tanto al processo ordinario che ai processi speciali;

e tuttavia, la disposizione anodina lascia aperti tutti gli interrogativi, che anzi forse accresce, sulla portata del principio, se valevole come regola probatoria tuttavia sovvertibile o non invece come disposizione, come da lettura maggioritaria, che rende un fatto incontroverso anche in presenza di prove contrarie nel processo; se valevole solo in riferimento ai fatti principali, o se valevole anche per i fatti secondari, se solo per i diritti disponibili, o se anche per i diritti indisponibili..

Così, si normativizza la chiusura, non integrale però, a nuovi documenti in appello (stabilisce il nuovo art. 345, comma 3, c.p.c.: “Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio”), avvicinando il giudizio di secondo grado solo ad un controllo pieno e non ad un riesame.

Il giudice mantiene invece la sua centralità nella determinazione del ritmo del processo; quello che oggi il legislatore impone, tuttavia, è la trasparenza nelle scelte ritmiche, la esplicitazione di un programma di lavoro (il calendario del processo ex art. 81 bis disp. att. c.p.c.), una novità mutuata da prassi applicative che hanno dimostrato un certo successo.

Si ampliano i poteri del giudice che sembrano ulteriormente accrescere il margine di discrezionalità in nuove situazioni, prevedendo ad esempio una ulteriore condanna economica d’ufficio alla parte soccombente per comportamenti non corretti tenuti

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nell’agire o resistere imprudentemente, o per comportamenti tenuti nel corso del processo.

Ma l’apertura alla discrezionalità del giudice quale criterio preminente nella trattazione istruttoria si ottiene con la previsione di un nuovo processo di primo grado avanti al giudice monocratico, il rito sommario, che può essere iniziato in luogo del processo ordinario di cognizione esclusivamente a scelta dell’attore, e che il giudice sceglierà di continuare oppure di trasformare in cognizione ordinaria, sulla base di una autonoma valutazione riguardante la difficoltà dell’istruzione e della decisione, e l’opportunità dunque di preferire un rito ad un altro per la definizione della controversia. Nel nuovo rito, esattamente all’opposto che nel processo di cognizione ordinario, la trattazione della causa e le modalità di assunzione delle prove, ferma restando la necessità di rispettare i diritti di contraddittorio e difesa, non sono preordinati e segnati da fasi processuali e preclusioni ma sono regolati discrezionalmente e caso per caso dalle scelte del giudice (che invece rimane vincolato alle comuni regole in tema di individuazione dei mezzi istruttori d’ufficio e del diritto della parte all’assunzione dei mezzi di prova ammissibili e rilevanti richiesti), chiamato alla fine a rendere un’ordinanza potenzialmente con efficacia di giudicato, sottoposta ad un giudizio di appello invece che si propone quasi come una ideale e libera continuazione della controversia di primo grado davanti ad un organo collegiale, nel quale il presidente “può delegare l’assunzione dei mezzi istruttori ad uno dei componenti del collegio.”

3. Segue: Conclusioni. I principi generali oggi desumibili dalle norme sul processo civile.

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In definitiva, alla luce del quadro del processo civile che si desume dall’esame della trattazione istruttoria, appare oggi difficile enucleare principi univoci.

Quanto alle modalità della trattazione e della assunzione probatoria, assistiamo in primo grado nel processo civile ordinario di cognizione (tralasciando pertanto la incredibile pletora di riti speciali, soggette ad una revisione solo parziale entro il prossimo biennio) ad almeno tre forme di trattazione assai diverse, che oggi mantengono in comune solo gli atti di parte introduttivi gravati da un pur limitato meccanismo che richiede determinati elementi a pena di decadenza. La prima per i giudizi collegiali con la peculiare figura del giudice istruttore nel corso della trattazione quale organo dedicato non solo ad assumere ma anche a decidere sull’ammissione delle prove e poi a partecipare al collegio nella decisione, in un contesto di predeterminazione delle regole e delle modalità di ammissione con un potere di disporre prove, in cui alla parte sono esclusivamente riservati l’indicazione dei mezzi di prova legali e delle testimonianze8. La seconda per i giudizi di cognizione ordinari avanti all’organo monocratico, laddove al giudice sono assegnati maggiori poteri istruttori d’ufficio ammettendosi che il giudice possa liberamente disporre di testimonianze (ancorchè la magistratura non mostri di voler fare uso di questa chance), e con maggiori spazi relativamente alle scelte discrezionali in tema di trattazione quanto alla fase finale del giudizio, attraverso la scelta per una trattazione finale scritta o orale della causa. Una terza, sempre davanti all’organo monocratico, per i processi civili di cognizione ordinari, da trattare con il c.d. rito sommario, caratterizzato da un assai elevato criterio direttivo di informalità nelle determinazioni del giudice, che decide conclusivamente addirittura con ordinanza .

8 Ferma restando l’operatività dell’art. 240 e dell’art. 257 c.p.c..

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Ed altrettanto in appello, laddove ad un rito caratterizzato da un processo con tendenza più al controllo che al libero riesame avanti all’organo collegiale, si affianca oggi un processo diverso in caso di rito sommario, che manifesta invece la scelta per una sorta di continuazione del processo di primo grado.

Se cosi è, e così oggi è, allora, appare assai difficile se non impossibile quantomeno per molti elementi della trattazione la pretesa di individuare regole univoche;

ulteriore conferma, a mio avviso, della necessità di interpretare cum grano salis la tendenza ad una armonizzazione delle regole del processo amministrativo con quelle del processo civile che, si è visto, non sono più né univoche e neppure armoniche già allo stesso interno del processo civile.

E che, per questa fase, possono racchiudersi nella generica necessità del rispetto del diritto di contraddittorio, sia con riferimento alle scelte ritmiche per il tramite della definizione di un programma di lavoro sia con riferimento agli elementi ricavabili d’ufficio, talchè ritengo oggi si possa affermare come principio generale in materia processualcivile nell’ambito della trattazione il radicale divieto della c.d. “terza via”, la regola che pretende che già nel corso dell’istruttoria esista l’onere del giudice di avvertire le parti della volontà di trattare alcuni punti della controversia in via principale, e particolarmente quando essi possano esser ricavati ed utilizzati d’ufficio.

Così, credo si possa definire come principio generale in materia di trattazione la necessità che il giudice, rilevando le nullità processuali degli atti introduttivi del processo quanto alla vocatio in ius o a vizi di rappresentanza, assistenza, autorizzazione o nullità della procura, predisponga una sanatoria con effetti ex tunc senza salvezza dei diritti quesiti; come, ancora, si rivela oggi principio generale processuale anche in materia di trattazione la rimessione in termini, se il mancato assolvimento dell’onere processuale sia dipeso da causa non imputabile .

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Si conferma, ancora, una tendenza ad assegnare esclusivamente alle parti l’allegazione dei fatti nel processo, per i diritti disponibili. E va confermato come principio generale la possibilità di disporre degli stessi anche sotto il profilo della utilizzazione necessitata ed incontestata delle risultanze da parte del giudice per i diritti disponibili attraverso i mezzi istruttori della prova legale.

Principio generale appare ora certamente anche quello c.d. di “non contestazione”, la cui esatta ampiezza, tuttavia, non sembra ancora univocamente determinata, perché in assenza di una sedimentazione giurisprudenziale e dottrinaria e alla luce di un disposto normativo anodino, sono oggi legittime diverse letture più o meno incisive di quello che certo oggi si rivela un elemento essenziale nella descrizione del processo civile.

Principio generale è, inoltre, quello relativo al diritto delle parti di disporre dei mezzi di prova e di pretenderne l’escussione se ammissibili e rilevanti; principio che si completa con il diritto di pretendere che eventuali consulenti chiamati nel processo siano terzi alle parti.

Variegato, invece, si è evidenziato il potere del giudice civile di disporre d’ufficio prove, assoluto in importanti archetipi processualcivilistici, rilevante ancorchè in varia misura nelle regole dettate per i modelli del processo civile ordinario, sicchè in questa materia l’unico principio generale enucleabile è quello che assegna alla parte il diritto di difesa e controprova anche sulle determinazioni d’ufficio del giudice

Si conferma, inoltre, l’ampio margine concesso al giudice civile nel valutare l’efficacia delle prove, anche come elemento temperante il principio dell’onere della prova, che si mantiene tuttavia formale regola di giudizio di importanza capitale per i casi dubbi.

Alcuni principi processuali possono desumersi anche con riferimento ad una fase antecedente all’inizio del processo; si pensi alla previsione dell’esperimento della

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prova prima dell’inizio del giudizio come elemento deflattivo, e come indice della ormai acclarata necessità anche nel processo civile di individuare forme di risoluzione alternative al giudizio, alla ammissione generalizzata della c.d.

giurisdizione condizionata, quando assistita da effettiva volontà di risoluzione delle controversie e non soltanto come rallentamento dell’azione civile, che testimonia come il processo civile consenta oggi di pretendere che l’attività introduttiva del giudizio sia preceduta da comportamenti necessitati dell’attore.

Per concludere, una considerazione finale può essere dedicata al nuovo principio della translatio iudicii tra giudici appartenenti a diversi plessi giurisdizionali ed alla possibilità per il giudice ad quem di utilizzare, come argomenti di prova, le prove raccolte nel giudizio conclusosi con la declinatoria di giurisdizione (purchè l’utilizzazione delle prove raccolte nel giudizio chiuso in rito sia ammessa nel processo avviato dinanzi al giudice ad quem ).

4. I principi generali desumibili dalle norme del processo civile, i principi processuali internazionali ed il nodo del coordinamento: considerazioni generali.

Sulla necessità ma anche sui necessari limiti dell’armonizzazione.

Così individuati i principi generali che assistono la trattazione e l’istruzione in materia civile, si tratta ora di meglio determinare fino a che punto questi possano incidere nelle scelte dei decreti delegati di riforma del processo amministrativo.

Occorre, allora, ragionare in ordine al significato da attribuire al concetto di coordinamento con le norme del codice di procedura civile; concetto contenuto nel citato primo comma dell’art. 44.

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Al riguardo, va, in primo luogo, precisato che si tratta di un indirizzo che va inteso in senso non costrittivo, non dunque come tensione ad una sorta di unificazione dei processi.

Si passi il paradosso, ma se così fosse, la delega sarebbe incoerente, richiedendosi la uniformazione a regole, quelle processuali civili, che oggi tutto garantiscono meno che snellezza, concentrazione, e durata ragionevole dei riti.

Anzi, proprio per questo motivo, mi permetterei di suggerire un codice del processo o della giustizia amministrativa “pesante” piuttosto che “leggero”, così da lasciare il minor spazio possibile ad applicazioni analogiche del codice di procedura civile, che non porterebbero sovente a buoni risultati (ricorderei il fallimento del processo societario, oggi abrogato, fallito a mio giudizio anche perché troppo sintetico, e perché caratterizzato dalla presenza di troppi punti incerti difficili da ricostruire in via ermeneutica).

D’altro canto, come già dimostrato nel paragrafo precedente, è apparsa assai difficile se non impossibile quantomeno per molti elementi della trattazione la pretesa di individuare regole univoche oggi nel processo civile; ulteriore conferma, a mio avviso, della necessità di interpretare cum grano salis la tendenza ad una armonizzazione delle regole del processo amministrativo specie con quelle del processo civile che, si è visto, non sono più né univoche e neppure armoniche già allo stesso interno del processo civile.

Si tratta, allora, non mai di “unificare” o “uniformare” le regole dei processi civili e amministrativi, anche se soltanto per le norme del processo civile da ricavare quali espressione di principi generali, ma invece di procedere ad una più complessa ma ben più fruttuosa opera di “armonizzazione”.

Mantenendo due organi giurisdizionali clamorosamente diversi per numero di giudici, uno spalmato nel territorio e tendenzialmente monocratico in primo grado,

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l’altro collegiale e con poche sedi, con una maggiore capacità e oggettiva facilità di adottare prassi conosciute e condivise, appare chiaro che le forme della trattazione e della istruttoria debbono necessariamente essere differenziate (nel senso che, in un contesto più conosciuto e meno arbitrario, può, nella fase istruttoria, optarsi con più facilità per un criterio, quale quello di informalità, che coniughi esigenze di rapidità e adeguatezza).

Se rimangono intatte le diversità dei numeri e dei gradi del giudizio degli organi giurisdizionali civili e amministrativi, assume allora particolare rilievo il modo di differenziazione delle materie tra un organo ed un altro; elemento, questo, non a caso oggetto, se non erro, di potenziale rimeditazione della delega.

La necessità del coordinamento con i principi generali del processo civile va, dunque, inteso nel senso di enucleare quei principi che dal codice di procedura civile si possono desumere; principi che, però, possono operativamente essere applicati con modalità diverse dal giudice amministrativo.

Qualora si avviasse una analisi comparata delle evoluzioni che hanno caratterizzato i due modelli processuali, si noterebbe immediatamente che tali modelli non sempre hanno viaggiato paralleli( ancorchè le attuali differenze sono certo meno rilevanti rispetto a periodi precedenti). Ciò non appare, comunque, un dato oggettivamente negativo, data anche la non integrale omogeneità delle situazioni tutelate.

Se una riflessione comune si vuole tuttavia operare, essa a mio avviso va dedicata alla

“variabile tempo”, ossia alla necessità, anche in via interpretativa, di agire per assicurare una durata ragionevole del processo.

In quest’ottica, può così risultare poco auspicabile una “processualcivilizzazione” del processo amministrativo, e possono valutarsi con particolare interesse dinamiche istruttorie che inseriscano, all’interno dei giudizi sull’ammissibilità e rilevanza dei mezzi istruttori richiesti dalla parte, una valutazione del tempo e dello sforzo

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necessario per assumere il mezzo di prova, e che giungano a subordinare, inoltre, tale assunzione a determinate precondizioni, quale ad esempio un principio di prova (se questo avvenga in materie e modi tali da non comprimere ingiustificatamente i diritti di difesa delle parti).

Rilevanti appaiono, infine, l’individuazione, la definizione e l’applicazione nel processo di principi ulteriori, ovvero dei principi processuali internazionali e comunitari che debbono essere rispettati, applicati ed introdotti in ogni regolamentazione processuale, non solo quella della giustizia amministrativa, e che fanno riferimento al diritto di difesa ed all’equo processo anche quale principio di rango sovraordinato dell’Unione Europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Principi oggi consistenti: nel diritto a partecipare al giudizio per il tramite di un legale in ogni fase processuale, senza che si possa limitare questo diritto per interessi esterni al processo; nel divieto di utilizzare la contumacia come elemento sanzionatore nel processo, nella terzietà ed imparzialità dell’organo decidente, nell’accesso alle fonti istruttorie indispensabili alla prova nel caso concreto, nella tendenziale definitività della pronuncia, nel monopolio della parte ad introdurre nel processo i fatti rilevanti della decisione, nel rispetto del principio del contraddittorio anche per l’eventuale introduzione di nuove domande o eccezioni nel corso del giudizio, nella libertà di accesso alla giustizia. Principi, questi, che certamente non saranno messi in discussione dalle regole del nuovo processo amministrativo, certamente rispettose dell’art. 6 Cedu.

5. Segue: Sulla impossibilità di risolvere tramite il ricorso ai criteri generali del processo civile alcune tra le più complesse opzioni costruttive che denoteranno il nuovo processo amministrativo, dalle modalità di redazione del nuovo codice al rapporto tra il processo ordinario ed i riti speciali, all’unicità del rito ordinario ed al grado di differenziazione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo.

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Il legislatore delegato dovrà, in primo luogo, scegliere se delineare un unico processo amministrativo rivolto alla tutela sia dei diritti soggettivi che degli interessi legittimi, o, al contrario, configurare due modelli processuali distinti.

La scelta, ovviamente, appare di fondamentale importanza.

In giudizi caratterizzati dalla presenza di diritti soggettivi, il legislatore potrebbe, invero, optare per l’utilizzo di tecniche processuali e strumenti già rodati nel processo civile.

Altre, invece, potrebbero le soluzioni adottabili nell’ambito di processi in controversie involgenti interessi legittimi; soluzioni che tengano conto della posizione di supremazia della pubblica amministrazione nelle vicende sostanziali popolate da interessi legittimi e caratterizzate da una spiccata esigenza di tutela dell’interesse pubblico.

Come è ovvio, questa scelta di fondo non potrà in alcun modo essere influenzata dalle indicazioni provenienti dal processo civile. E ciò, non solo perché tale processo riguarda controversie tra parti private o liti anche con parte pubblica aventi, però, ad oggetto, il più delle volte9, esclusivamente rapporti di diritto privato, ma perché lo stesso codice di procedura civile, con la riforma del 2009 del processo civile e la delega sul riordino dei riti, è destinato a contenere quattro diversi archetipi di processi a seconda proprio delle materie trattate.

In più, il processo civile non risulta di grande aiuto neanche con riferimento al tema riguardante l’inserimento o meno, in un codice della giustizia amministrativa, di

9 Nell’attuale sistema di riparto, sono, invero, configurabili ipotesi di “giurisdizione esclusiva ordinaria”, e, dunque, è possibile la devoluzione al giudice civile della giurisdizione su controversie connotate dalla presenza di interessi legittimi. Sul punto, cfr. ZINGALES I., Pubblica amministrazione e limiti della giurisdizione tra principi costituzionali e strumenti processuali, Milano, 2007, 85 ss..

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principi, magari non ancora sedimentati o non ancora integralmente condivisi, provenienti dalla prassi giurisprudenziale.

La scelta, in questo caso, sarebbe tra una rigida codificazione o un generico riconoscimento dei principi (lasciando, in quest’ultima ipotesi, alla dottrina ed alla giurisprudenza il compito di fornire le risposte circa l’ambito e le modalità di applicazione degli stessi). Riconoscimento che, quand’anche generico, permetterebbe di ritenere comunque rispettato il disposto di cui all’art. 111, comma 1, Cost., secondo cui “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”.

6. I principi processualcivilistici e le necessarie conseguenze sul nuovo processo amministrativo.

a) Le prove prima del processo.

Il processo civile annovera, tra i propri principi, quello attinente alla formazione della prova prima del processo.

Nessun ostacolo, allora, incontrerebbe il legislatore delegato qualora volesse prevedere la possibilità per il giudice amministrativo di disporre, sia in controversie in materia di diritti soggettivi che in controversie in materia di interessi legittimi, un accertamento tecnico preventivo simile a quello disciplinato dall’art. 696 c.p.c.

Tali intervento, anzi, risulta auspicabile (se non necessario) proprio nell’ottica di garantire una migliore efficienza ed effettività dell’istruzione probatoria.

Nonostante la delega preveda il riordino della tutela cautelare con la generalizzazione di quella ante causam, più difficile potrebbe, almeno ad una prima analisi, risultare l’inserimento nel nuovo processo amministrativo di un istituto modellato sulla base della “consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite” prevista

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dall’art. 696 bis c.p.c., ancorchè tale norma confermi l’esistenza di un principio generale di composizione alternativa della controversia.

Un istituto del genere nel processo amministrativo, invece che tendere ad una conciliazione (difficilmente ipotizzabile in presenza di interessi pubblici), potrebbe però svolgere una funzione di “stimolo” all’esercizio dell’autotutela, o ancora una funzione deflattiva nella misura in cui potrebbe consentire al ricorrente di valutare, nel contraddittorio con l’amministrazione, le proprie possibilità di vittoria.

Qualora si istituisse tale strumento (ipotesi in effetti decisamente innovativa ma auspicabile), si dovrebbe, però, prevedere un meccanismo che consenta di neutralizzare la decorrenza dei termini di impugnazione (stabilendo, ad esempio, che la richiesta di assunzione di tale forma di consulenza tecnica sospenda il termine di impugnazione, e che, dopo l’esperimento della stessa, il processo venga avviato entro un termine perentorio).

Decisamente auspicabile appare, ancora, un intervento del legislatore delegato teso a prevedere l’utilizzo, nel processo amministrativo, del sequestro giudiziario di documenti, analogamente a quanto sancito, con riferimento al processo civile, dall’art. 670, n. 2, c.p.c..

Vero è che nel processo amministrativo risulta azionabile il diritto di accesso.

Sennonché, potrebbero configurarsi fattispecie in cui solo un istituto agile ed efficace quale il sequestro potrebbe garantire concretamente il diritto alla prova della parte (si pensi, in materia elettorale, al sequestro delle schede elettorali, e, in materia di appalti, al sequestro della documentazione attinente alle offerte presentate), anche a prescindere dalla possibilità invece che la richiesta provenga dalla Pubblica Amministrazione nei confronti di soggetti privati.

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7. Segue:b.) Sul contenuto del ricorso introduttivo. Il contenuto del ricorso ed i poteri del giudice. L’allegazione dei fatti.

Ferma restando la necessità che il ricorso sia, in linea generale, composto in modo da consentire, attraverso la specificità dei motivi, l’introduzione nel processo, in maniera chiara, dei fatti principali e dei correlati fatti lesivi ad opera delle parti, un tema su cui, ad avviso di chi scrive, può interrogarsi il legislatore delegato è quello relativo alla possibilità per il giudice di utilizzare in giudizio fatti introdotti successivamente alla proposizione del ricorso o entrati nel processo per altra via; fatti, dunque, diversi da quelli espressamente posti a base della domanda dal ricorrente ma rilevanti alla luce dei motivi di diritto prospettati10. Si pensi, al riguardo, all’utilizzabilità, ai fini dell’annullamento del provvedimento, di fatti non affermati nell’atto introduttivo ma ciononostante risultanti dal fascicolo, o all’utilizzabilità di fatti (non dedotti) emersi dall’espletamento dell’attività istruttoria (o della consulenza tecnica avente ad oggetto i fatti allegati) diretta ad accertare la veridicità dei fatti ritualmente introdotti.

Il problema - che riguarda, come è ovvio, principalmente il vizio di eccesso di potere e le sue diverse figure sintomatiche (travisamento dei fatti, disparità di trattamento o manifesta ingiustizia, sviamento di potere, illogicità manifesta, contraddittorietà tra provvedimento impugnato e precedenti provvedimenti, ecc.) – consiste, sostanzialmente, nel verificare se, in caso di domanda di annullamento per eccesso di potere, l’utilizzo, da parte del giudice, di un fatto non allegato al momento della

10 Appare utile ricordare che, ai sensi dell’art. 6, n. 3, r.d. 17 agosto 1907, n. 642, il ricorso deve contenere “la esposizione sommaria dei fatti, i motivi su cui si fonda il ricorso, con la indicazione degli articoli di legge o di regolamento che si ritengono violati e le conclusioni”, e che, a norma del successivo art. 17, comma 1, n. 2, il ricorso è nullo “se, per la inosservanza delle altre norme prescritte nel suddetto articolo, vi sia incertezza assoluta sulle persone o sull'oggetto della domanda”.

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proposizione della domanda e tuttavia entrato nell’agone processuale, costituente (un diverso) sintomo di eccesso di potere, significhi porre a base della decisione costitutiva di accoglimento una causa petendi diversa da quella contenuta nell’atto introduttivo11.

Ci si chiede, cioè, se la domanda di annullamento del provvedimento amministrativo per eccesso di potere ricomprenda implicitamente in sé ogni fatto, anche non allegato, concretizzante la suddetta disfunzione o se, al contrario, ad ogni fatto rivelatore dell’eccesso di potere corrisponda una domanda diversa12.

Nel primo caso, oggetto del giudizio sarebbe la verifica, alla luce di tutte le circostanze di fatto allegate nella domanda o entrate nel processo per altra via, dell’esistenza dell’eccesso di potere; nel secondo caso, invece, oggetto del processo sarebbe l’accertamento della disfunzione esclusivamente sotto lo specifico profilo censurato nell’atto introduttivo.

Con cautela potrebbe affermarsi che, nella prima ipotesi, il processo verte sull’intero

“rapporto giuridico” (inciso dal provvedimento impugnato) intercorrente tra privato e pubblica amministrazione; rapporto che viene analizzato al fine di verificare, con

11 Sull’ampiezza della causa petendi nel processo amministrativo e, dunque, sull’onere di allegazione dei fatti principali e sull’onere di specificazione dei motivi di diritto, cfr., per tutti, in dottrina, BERTONAZZI L., L’istruttoria nel processo amministrativo di legittimità: norme e principi, Milano, 2005, 355 ss..

12 Problema diverso è, invece, quello relativo alla possibilità per il giudice di emanare, in luogo di una pronunzia dichiarativa di nullità esplicitamente richiesta dal ricorrente, una sentenza costitutiva di annullamento fondata sulle medesime censure poste a sostegno dell’azione di nullità, pur in assenza di una espressa domanda in tal senso. Sul punto, cfr. ZINGALES I., Note in tema di tutela giurisdizionale dichiarativa nei confronti dei provvedimenti amministrativi nulli, in www.judicium.it ed in corso di pubblicazione negli Annali del Seminario Giuridico della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania, vol. IX, Giuffrè-Milano.

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riferimento a tutti i fatti rivelatori del vizio di eccesso di potere entrati nel processo, la legittimità o meno del potere amministrativo effuso.

E con la medesima cautela, potrebbe, inoltre, osservarsi che, nella seconda ipotesi, oggetto del processo è l’atto impugnato, soltanto nei limiti delle specifiche e tempestive deduzioni offerte dalle parti.

La questione – che, sia pur con le dovute differenze, sembra in parte riecheggiare la contrapposizione teorica, emergente nel campo processual-civilistico, tra diritti autodeterminati e diritti eterodeterminati13 (e tra la teoria della individuazione e quella della sostanziazione) – può, forse, essere risolta seguendo un sentiero ermeneutico strettamente legato all’essenza del processo amministrativo di legittimità.

Tale processo possiede, infatti, una peculiare componente non riscontrabile nell’ambito di quello civile. Vero è che all’interno del processo amministrativo di legittimità, così come nel processo civile, si contrappongono due o più parti dotate tutte di medesimi poteri processuali, ma è altresì vero che nella disputa dinanzi al giudice amministrativo di legittimità sono coinvolti interessi di natura pubblica in prima battuta tutelati in via autoritativa dall’autorità amministrativa.

Non è questa, ovviamente, la sede per poter affrontare adeguatamente il tema relativo all’oggetto ed alle finalità del processo amministrativo di legittimità.

Può, però, sottolinearsi che, una volta proposta la domanda e censurato il provvedimento impugnato sotto il profilo dell’eccesso di potere, un equilibrato compromesso tra una rigorosa applicazione del principio della domanda e della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ed una visione del processo

13 Cfr., per tutti, CONSOLO C., Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Le tutele, Padova, 2003, 219 ss.; LUISO F. P., Diritto processuale civile, I, Principi generali, Milano, 2007, 56 ss.; MANDRIOLI C., Diritto processuale civile, I, Nozioni introduttive e disposizioni generali, Torino, 2007, 158 ss..

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amministrativo che esalti il ruolo del giudice nella delimitazione dell’oggetto del giudizio potrebbe, astrattamente, consentire al giudice di utilizzare anche quei fatti, rivelatori del vizio di eccesso di potere, che risultano dagli atti o che emergono dallo svolgimento dell’attività istruttoria (o dall’espletamento della consulenza tecnica)14, ma che non sono entrati nel processo attraverso la via maestra delle affermazioni del ricorrente al momento della proposizione della domanda15.

14 Sul punto, cfr., però, CARIOLA A., Il giudice amministrativo e la prova: una provocazione a tesi su processo e politica, in Scritti in onore di Antonio Pavone La Rosa, II, Milano, 1999, 1683-1684, il quale, dopo aver sottolineato che il sistema del giudizio amministrativo è “conformato tuttora come giudizio di tipo impugnatorio, sottoposto a termini piuttosto brevi, e da definire sulla base di motivi ritualmente proposti”, osserva che: “Rispetto a tale modello, rappresenta una palese contraddizione interna la possibilità che il giudice introduca con l’istruttoria autonomamente compiuta elementi fattuali non indicati dalle parti, poiché ciò finisce inevitabilmente per allargare l’ambito del giudizio ad oggetti non «voluti» originariamente dalle parti e secondo direzioni di ricerca delle prove le quali sono, appunto, fuori del controllo delle medesime parti, potendo in astratto i «nuovi» elementi raccolti giovare al ricorrente come all’amministrazione resistente”.

15 Diversa sembra la posizione assunta da BERTONAZZI L., L’istruttoria, cit., 378-380, il quale, con riferimento “alle ipotesi in cui sia prospettata una figura sintomatica dell’eccesso di potere che implica, proprio per come articolata dal ricorrente, il richiamo a circostanze di fatto esterne rispetto al provvedimento impugnato e agli atti della relativa serie procedimentale”, sottolinea che: “l’onere di allegazione trascende la sola disfunzione addotta come fatto principale per investire anche (quei fatti secondari in cui si sostanziano) le circostanze indiziarie rivelatrici della disfunzione. Dunque, ai fini della ammissibilità (sotto il profilo della specificità) di una censura di eccesso di potere sintomatizzata da elementi extracartolari l’onere di allegazione investe non soltanto la disfunzione allegata come fatto principale, ma anche taluni fatti secondari – rivelatori della disfunzione: la sola allegazione della disfunzione non consentirebbe alla doglianza di valicare l’ideale soglia della sufficiente specificità e, quindi, della ammissibilità. In questi casi l’onere di allegazione di taluni fatti secondari (circostanze rivelatrici della disfunzione allegata come fatto principale) attiene al momento costitutivo e non a quello istruttorio, giacché quei fatti valgono a conferire una sufficiente specificità ai fatti principali e, dunque, a garantire l’ammissibilità della doglianza di eccesso di potere. La funzione cui assolvono quei fatti secondari dà ragione della loro inerenza al momento costitutivo del giudizio, la quale a sua volta consente – ed anzi, impone – di ritenere che la loro allegazione sia rimessa all’esclusiva disponibilità del ricorrente, al pari della

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In questi termini - ponendo al centro della riflessione l’interesse della collettività alla legittimità dell’azione amministrativa e senza, con questo, voler, in alcun modo, immaginare e costruire, con riferimento alla individuazione del thema decidendum, un processo di stampo autoritario che consenta al giudice di ricercare ed introdurre, in ogni caso, all’interno del giudizio fatti eventualmente rilevanti -, la soluzione qui prospettata non è in contrasto con il principio di imparzialità del giudice, con il principio di uguaglianza delle parti davanti all’organo giurisdizionale, e con il divieto di scienza privata, e può giustificarsi, inoltre, in relazione alla trasformazione del processo amministrativo da giudizio sul provvedimento a giudizio sul rapporto16. Tale conclusione può, più facilmente, essere accettata quando i fatti, sulla cui utilizzabilità si discute, entrano nell’arena processuale attraverso attività comunque riconducibili, direttamente o indirettamente, alle parti (si pensi, ad esempio, ad un documento prodotto in giudizio dal ricorrente dal quale emerge una figura

allegazione dei fatti principali cui le circostanze indiziarie rivelatrici della disfunzione assicurano una sufficiente specificità”.

16 Cfr. Corte cass., sez. un., 23 dicembre 2008, n. 30254, che osserva: “Più indici normativi testimoniano della trasformazione in atto dello stesso giudizio sulla domanda di annullamento, da giudizio sul provvedimento in giudizio sul rapporto: ciò che è stato puntualmente messo in rilievo dalla dottrina, in riferimento all'impugnazione, con motivi aggiunti, dei provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all'oggetto del ricorso (art. 21, primo comma, legge TAR, modificato dall'art. 1 della legge 205 del 2000); al potere del giudice di negare l'annullamento dell'atto impugnato per vizi di violazione di norme sul procedimento, quando giudichi palese, per la natura vincolata del provvedimento, che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (art. 21-octies, comma 1, della legge 241 del 1990, introdotto dall'art. 21-bis della L. 11 febbraio 2005, n. 15); al potere del giudice amministrativo di conoscere della fondatezza dell'istanza nei casi di silenzio (art. 2, comma 5, della L. 241 del 1990, come modificato dalla L. 14 maggio 2005, n. 80 in sede di conversione del D. L. 14 marzo 2005, n. 35”.

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sintomatica di eccesso di potere diversa da quella dedotta espressamente nell’atto introduttivo).

Maggiore cautela deve, invece, osservarsi quando l’ingresso del fatto è esclusivamente conseguenza dell’assunzione di una prova (o dell’espletamento di una consulenza tecnica) disposta d’ufficio dal giudice.

Concludendo sul punto, è quasi superfluo sottolineare che la soluzione in questa sede prospettata può ovviamente essere adottata solo a condizione che si rispetti il principio del contraddittorio e, dunque, che si conceda alle parti la concreta possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa in ordine a tutti i fatti (allegati o meno) oggetto di causa, evitandosi pronunzie della “terza via”(che abbiamo già ricordato prima, è principio generale desumibile dalle norme sul processo civile, che deve essere adottato e valorizzato nel redigendo codice di giustizia amministrativa).

8. Segue: Il contenuto del ricorso e la necessità di elementi probatori già acquisiti per l’ammissibilità del ricorso.

Occorre, adesso, interrogarsi sulla eventuale perdurante ammissibilità del c.d.

principio di prova, e sulla necessità o meno di provvedere eventualmente ad una sua codificazione espressa17; onere che, secondo la prevalente giurisprudenza, il ricorrente dovrebbe assolvere ai fini dell’ammissibilità del ricorso stesso.

Va premesso che un onere di questo genere non è presente nel processo civile. Il che, però, non impedisce al legislatore delegato di prevederlo espressamente, in via generale o solo per alcuni riti speciali come il contenzioso elettorale, nell’ottica

17 Sulla configurabilità e sull’essenza di tale onere, cfr. BERTONAZZI L., L’istruttoria, cit., 600 ss.

(con ampi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali).

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dell’edificazione di un sistema processuale che condizioni, impedendo l’attivazione di processi “al buio”, la tutela giurisdizionale ad una attività preprocessuale delle parti..

L’onere in questione - ricavabile da una lettura congiunta degli articoli 6, n. 3, r.d. 17 agosto 1907, n. 642 (secondo cui: il ricorso deve contenere “la esposizione sommaria dei fatti, i motivi su cui si fonda il ricorso, con la indicazione degli articoli di legge o di regolamento che si ritengono violati e le conclusioni”), 44, comma 1, r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 (secondo cui: “Se la sezione, a cui è stato rimesso il ricorso, riconosce che l’istruzione dell’affare è incompleta, o che i fatti affermati nell’atto o provvedimento impugnato sono in contraddizione coi documenti, può richiedere all’amministrazione interessata nuovi schiarimenti o documenti: ovvero ordinare all’amministrazione medesima di fare nuove verificazioni, autorizzando le parti ad assistervi ed anche a produrre determinati documenti, ovvero disporre consulenza tecnica”), 21, comma 2, legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (che prevede l’onere per il ricorrente di depositare “copia del provvedimento impugnato…e dei documenti di cui…intenda avvalersi in giudizio”), e 23, comma 5, sempre della legge n. 1034/1971 (secondo cui: “Il Presidente dispone, ove occorra, gli incombenti istruttori”) - è inteso oggi, in giurisprudenza, come ulteriore elemento che determina l’ammissibilità del ricorso o comunque come elemento necessario che permette lo svolgimento dell’istruzione probatoria nel corso del processo. Dalle richiamate norme si evincerebbe, invero, che il giudice possa esercitare i propri poteri istruttori a condizione che l’affare risulti, sebbene in maniera incompleta, già “istruito” dalla parte ricorrente, sulla quale, dunque, graverebbe l’onere non soltanto di introdurre i fatti principali, ma anche di fornire (contestualmente a tale introduzione) elementi di prova idonei a rappresentarli in maniera attendibile e puntuale.

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Ebbene, mi sembra che tale onere di fornire, in seno al ricorso, elementi indiziari per denunciare la non rispondenza al vero dei fatti indicati nel provvedimento possa essere accettato e mantenuto, laddove anzi la maggiore possibilità di partecipazione ed accesso del privato al procedimento amministrativo renderà questo compito ancor più semplice; ciò consentirà una più rapida e proficua gestione del processo, similmente a quanto può avvenire in altri processi attraverso l’inserimento di immediate preclusioni.

Le letture dell’onere del principio di prova che in qualche misura si spingono fino a richiedere un minimo di attività preprocessuale alla parte possono, in teoria, esercitare un effetto deflattivo, tutte le volte in cui la conoscenza degli esiti dell’istruttoria procedimentale della pubblica amministrazione consigli di evitare di intraprendere un ricorso destinato al rigetto.

Non solo.

L’operatività dell’istituto potrebbe giocare, inoltre, a vantaggio del principio della durata ragionevole dei processi, mirando a consentire la celebrazione di più processi rapidi. E potrebbe, pure, garantire un ragionevole “filtro”, anche per il tramite di consulenze di parte, diretto ad evitare un’esplosione di richieste al giudice amministrativo per l’annullamento di provvedimenti fondati su valutazioni tecniche operate dalla pubblica amministrazione.

Chiaro è che l’onere in questione – che va comunque sempre armonizzato con eventuali esigenze della parte richiedente che talora possono rendere invece opportuno un immediato ricorso alla tutela giudiziaria – determina, dunque, un aggravio della posizione del ricorrente; aggravio che tuttavia va contemperato con l’esigenza di rendere maggiormente efficiente lo svolgimento del processo; ed in tale contemperamento, il potenziale effetto deflattivo e l’efficienza del processo

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rappresentano valori che ben consentono di approvare queste condizioni applicate alla domanda.

Queste, dunque, le ragioni che permettono di guardare con favore all’utilizzo di tale

“filtro”.

Nell’ottica di una eventuale codificazione dell’onere in questione (onere che oggi non è esplicitamente codificato dal legislatore18; il che potrebbe indurre ad affermare che, allo stato, il ricorso deve presentare censure specifiche quanto alla individuazione astratta del vizio, e non censure la cui fondatezza risulti già “quasi provata”, dovendosi la prova formare nel processo), deve, però, aversi consapevolezza che una tale codificazione darebbe luogo alla creazione di una sorta di giurisdizione condizionata e che, qualora tale codificazione non fosse caratterizzata dalla presenza di chiare e specifiche regole, l’obbligo di adempiere al suddetto onere potrebbe, nella prassi giudiziaria, trasformarsi in un inutile formalismo o, evenienza ancor più grave, costituire un pericoloso strumento in grado di arrestare, in violazione dell’art. 24 Cost., l’iter processuale (il rischio, in questo caso, sarebbe, dunque, quello che le fasi di avvio e di istruzione del processo risultino subordinate a decisioni arbitrarie dei giudici).

Tuttavia, è possibile ritenere che, in questo momento storico, caratterizzato dalla piena partecipazione del privato al procedimento amministrativo, possa addossarsi alle parti ricorrenti il peso di dover svolgere una minima attività preprocessuale diretta all’acquisizione di tutti quei dati che consentano, già al momento della

18 L’art. 6, n. 3, r.d. 17 agosto 1907, n. 642, si limita, invero, a stabilire che il ricorso deve contenere

“la esposizione sommaria dei fatti, i motivi su cui si fonda il ricorso, con la indicazione degli articoli di legge o di regolamento che si ritengono violati e le conclusioni”, senza richiedere, in sede di proposizione della domanda, alcuna dimostrazione dei fatti di causa.

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