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A proposito di prova testimoniale “valutativa” - Judicium

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Academic year: 2022

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MICHELE FORNACIARI

A proposito di prova testimoniale “valutativa”

(scritto già pubblicato in Riv. dir. proc. 2013, 1004 ss.)

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Fatti e valutazioni: difficoltà della distinzione e necessità di allargare il discorso. – 3.

Testimonianza e interrogatorio formale: prima indicazione nel senso del ridimensionamento del problema della valuta- tività della prima. – 4. Testimonianza e consulenza tecnica volta alla percezione dei fatti: analogie. – 5. Segue: differen- ze. – 6. Testimonianza e consulenza tecnica volta all’elaborazione dei fatti. – 7. Primo principio (di carattere più genera- le): necessità di utilizzare il mezzo di prova più (immediato/)attendibile possibile. – 8. Secondo principio (di carattere più specifico): necessità che la prova per testimoni abbia ad oggetto fatti quanto più elementari possibile; assorbimento del problema della valutatività. – 9. Precisazioni finali.

1. Introduzione

C’è una categoria, con la quale qualunque pratico del diritto, giudice o avvocato, viene pres- soché immediatamente in contatto allorché, fresco di studi, inizia, come avrebbe detto Andrioli, a battere i marciapiedi della giustizia, vale a dire quella della valutatività della prova testimoniale e, a monte, della relativa capitolazione.

In effetti, se dovessimo formulare a braccio una graduatoria delle eccezioni, di rito come di merito, più frequentemente sollevate nella realtà quotidiana dei tribunali, non c’è dubbio che quella relativa all’inammissibilità dei capitoli di prova per testi in quanto valutativi, se non senz’altro al primo posto, si piazzerebbe comunque sul podio. Né, si aggiunga, ciò dipende solo da ragioni di strategia processuale spicciola. Al contrario, al netto di tale, innegabile, fattore, il problema è reale, ed anzi, a dispetto del suo apparentemente basso profilo, esso, ove adeguatamente approfondito, ri- vela una sorprendente capacità espansiva, proiettandosi in una dimensione di carattere più generale ed offendo oltretutto una prospettiva di indagine originale e stimolante per la comprensione del meccanismo probatorio nel suo complesso. Per quanto possa apparire strano, è infatti proprio ragio- nando sul tema in questione che, come vedremo, sono destinati ad emergere due principi generali, relativi per un verso alla scelta del mezzo di prova più adeguato, e perciò da utilizzare, fra quelli teoricamente possibili, per altro verso al grado di specificità della prova testimoniale.

Per inquadrare il problema, iniziamo intanto con il dire che la necessaria non valutatività della prova testimoniale trova la sua base normativa nell’art. 244 cpc (secondo il quale, com’è noto,

“la prova per testimoni deve essere dedotta mediante indicazione specifica […] dei fatti, formulati in articoli separati […]”) ed ancor più nell’art. 1943 cpp (secondo il quale, com’è parimenti noto, “il testimone è esaminato su fatti determinati” e “non può esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti”)1. Più in radice, essa si fonda però su un’esigenza logica, che si riassume in sostanza nella considerazione per la quale il giudice la capa- cità di ragionamento ce l’ha, mentre ciò che gli manca, per formulare il giudizio, sono i dati da ela- borare al riguardo, vale a dire i fatti. Di più, quantomeno qui ed ora, far uso della capacità di ragio- namento della quale è fornito rappresenta la sua precipua ragion d’essere, e ciò non solo in punto di diritto, ma anche in punto di fatto. Il giudice non è infatti un asettico interprete di norme giuridiche, relativamente a fattispecie teoriche, ma, tutto all’opposto, il soggetto chiamato a concretizzare tali

1 V. inoltre l’art. 253 cpc (“Il giudice istruttore interroga il testimone sui fatti intorno ai quali è chiamato a deporre”) e l’art. 1941 cpp (“Il testimone è esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di prova”).

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norme, dirimendo liti autentiche mediante la formulazione di regole di comportamento destinate ad incidere effettivamente sulla realtà. Questo evidentemente non avverrebbe, laddove egli, quando la ricostruzione in fatto implichi una valutazione o un ragionamento, anziché adoperare il proprio cer- vello, recepisse il risultato della valutazione o del ragionamento altrui (altro problema è ovviamente quello dei fatti pacifici, confessati o giurati). In tal caso, rispetto a quella fattispecie, o a quella por- zione di fattispecie, egli, lungi dallo svolgere il predetto compito, si troverebbe infatti nella posizio- ne di mero interprete della norma. Anche per quanto concerne il fatto, dunque, il giudice non solo non ha bisogno della valutazione dei testimoni, ma rinnegherebbe tout court la sua ragion d’essere ove la utilizzasse.

2. Fatti e valutazioni: difficoltà della distinzione e necessità di allargare il discorso

Premesso questo, e scontato dunque che, in linea di principio, i testimoni dovrebbero riferire meri fatti, astenendosi da valutazioni, il problema insorge in quanto, com’è noto, spesso, in concre- to, è difficile scindere gli uni (i fatti) dalle altre (le valutazioni)2.

Certo, talvolta la differenza è evidente ed univoca: non c’è dubbio che il capitolo di prova

“vero che il giorno x all’ora y tizio si trovava seduto sull’unica panchina esistente davanti al bar z”

è buono, mentre quello “vero che il prodotto fornito da tizio era di qualità scadente” non lo è.

Non sempre, però, le cose sono così semplici. Prendiamo ad esempio un capitolo del tipo

“vero che, al momento del rilascio dell’abitazione da parte dell’inquilino, la casa era sporca”; oppu- re uno del tipo “vero che il giorno x, all’ora y, nel luogo z, tizio appariva visibilmente pallido”. Si tratta di capitoli ammissibili oppure no? Da un lato viene da rispondere affermativamente. Al di là delle possibili specificazioni, che il teste possa fornire a chiarimento della propria risposta, la spor- cizia nel primo caso ed il colorito pallido nel secondo sono circostanze che rientrano indubbiamente nell’area del fatto. E nondimeno quelle in questione sono indubbiamente valutazioni.

Il discorso è dunque meno banale di quanto a prima vista potrebbe sembrare. Ed a maggior ragione lo è se solo si rifletta sul fatto che dal punto di vista logico qualunque affermazione non tau- tologica, tale da associare un predicato ad un soggetto, integra in realtà un giudizio, e dunque una valutazione. In base a cosa può allora distinguersi fra giudizi, e dunque valutazioni, ammessi/e e giudizi, e dunque valutazioni, vietati/e?

Il codice di procedura penale contiene, in verità, una risposta. Secondo il già riferito testo dell’art. 1943 di tale codice gli apprezzamenti personali sono infatti bensì esclusi, ma solo laddove siano scindibili dalla deposizione sui fatti, essendo viceversa ammessi laddove inscindibili3. Tale formula non fornisce però, com’è evidente, alcun reale ausilio. Il giudizio in merito alla scindibilità o meno dell’apprezzamento personale dal fatto è infatti del tutto soggettivo. Il relativo esito è dun- que giocoforza destinato a risultare quanto mai aleatorio ed ondivago.

2 Per una più rapida analisi del problema, da una diversa prospettiva, v. già FORNACIARI M., La ricostruzione del fatto nel processo. Soliloqui sulla prova, Milano 2005, 159 ss.

3 Per l’applicazione di tale criterio in ambito civilistico v. Cass. 27 marzo 1990 n. 2435, in Inf. prev. 1990, 1250 (ancor- ché non massimata sul punto), secondo la quale “la regola secondo cui la prova testimoniale deve avere ad oggetto fatti obiettivi, e non già apprezzamenti personali, deve essere intesa nel senso che detta prova non può tradursi in una inter- pretazione del tutto soggettiva dei fatti, ma sono consentiti quegli apprezzamenti che non sia possibile scindere dalla deposizione dei fatti, rimanendo affidato al giudice che procede all'escussione del teste, di impedire inammissibili valu- tazioni personali”.

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Né, per altro verso, maggior ausilio fornisce la giurisprudenza, laddove sancisce che “il di- vieto di esprimere apprezzamenti personali non si applica nel caso in cui il testimone sia persona particolarmente qualificata, in conseguenza della sua preparazione professionale, quando i fatti in ordine ai quali viene esaminato siano inerenti alla sua attività, giacché l’apprezzamento diventa in- scindibile dal fatto, dal momento che quest'ultimo è stato necessariamente percepito attraverso il

‘filtro’ delle conoscenze tecniche e professionali del teste”4. Tale indicazione, pure apparentemente ragionevole e condivisibile, implica infatti che la valutatività o meno di una deposizione, e dunque, a monte, della relativa capitolazione, non sarebbe una variabile indipendente, ma dovrebbe essere misurata sulla persona del testimone; che, detto diversamente, la medesima deposizione, e dunque, a monte, la medesima capitolazione, dovrebbe poter essere ritenuta ammissibile o meno a seconda del testimone. Questo appare però francamente difficile da ammettere e ciò per diverse ragioni. In primo luogo perché per tale via si introduce nel giudizio circa la valutatività della prova, già di per sé difficile ed opinabile, un elemento di ulteriore incertezza, qual è la considerazione della persona del testimone e del suo essere o meno qualificato in quella data materia. In secondo luogo perché quelli in questione sono parametri tipicamente attinenti all’attendibilità della testimonianza, la cui traslazione sul piano della sua ammissibilità suona assai artificiosa5. In terzo luogo, e decisivamen- te, perché quest’ultima (l’ammissibilità) si valuta al momento dell’ammissione della prova e non a quello dell’escussione del testimone; è dunque evidente che il metro del relativo giudizio non può che essere rappresentato esclusivamente dal tenore del capitolo6.

Né a livello normativo, né a livello giurisprudenziale, l’interrogativo posto (quello in merito al criterio di distinzione fra giudizi ammessi e giudizi vietati) riceve dunque effettiva soluzione.

Tutto ciò che può affermarsi, alla luce di quanto precede (e segnatamente di quanto detto a proposi- to dell’indicazione della Cassazione), è infatti che la soluzione non consiste nella considerazione della persona del testimone; che il giudizio di ammissibilità riguarda cioè esclusivamente la formu- lazione dei capitoli, dopodiché le considerazioni relative a tale persona sono bensì rilevanti, ma sul diverso piano dell’attendibilità. Il che, beninteso, rappresenta anch’esso, indubbiamente, un passo avanti. Si tratta però, com’è evidente, di un passo avanti parziale, e soprattutto meramente negativo, che, in quanto tale, non fornisce alcuna indicazione circa il criterio, o i criteri, da adoperare, in posi- tivo, per decidere, concretamente, se quel certo, specifico, capitolo di prova testimoniale debba es- sere ritenuto valutativo, e dunque inammissibile, oppure no.

Per attingere tale criterio, o tali criteri, occorre in realtà, come già accennato, allargare il di- scorso, ciò che, come parimenti avvertito, finirà per conferire respiro più ampio alla stessa soluzio- ne, sfociando nell’indicazione della regola più generale da applicare per la scelta del mezzo di pro- va da utilizzare, nonché di quella in merito al grado di specificità della prova testimoniale.

4 In tal senso Cass. pen. 29 settembre – 3 novembre 2004 n. 42634 e Cass. pen. 21 dicembre 1998 – 30 gennaio 1999 n.

1247.

5 Prendiamo ad esempio il caso del teste che confermi il capitolo “vero che il giorno x nel luogo y vi era un forte rischio di valanghe”: è indubbio che, richiesto di fornire i relativi chiarimenti, il non esperto potrà al più riferire di averlo letto sul relativo bollettino, mentre l’esperto potrà indicare tutta una serie di dati più specifici (quantità di neve, spessore del fondo duro, spessore della neve fresca, inclinazione del pendio, temperatura, umidità, ecc.); ed è altrettanto indubbio che la deposizione risulterà, nel secondo caso, assai più significativa che non nel primo; è però evidente che tutto questo attiene all’attendibilità del teste e non già all’ammissibilità della testimonianza.

6 Per riprendere l’esempio della nota 5, è solo al momento dell’escussione che potrà appurarsi se e quanto il testimone sia esperto di valanghe.

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3. Testimonianza e interrogatorio formale: prima indicazione nel senso del ridimensionamento del problema della valutatività della prima

Il primo passo in tale direzione consiste nel prendere in considerazione, unitamente alla te- stimonianza, l’interrogatorio formale.

Il punto di contatto fra i due mezzi di prova è intuitivo: esso consiste nel fatto che entrambi richiedono una capitolazione. Quanto poi all’utilità che questo possa apportare per la testimonianza, essa si coglie considerando che, al di là del diverso valore probatorio delle risposte fornite dall’interrogato e dal testimone, la struttura delle due prove, e dunque il meccanismo conoscitivo da esse attivato, sono identici7. In entrambi i casi si tratta infatti della descrizione, operata da un sog- getto (parte o testimone) ad un altro (giudice), di come si sia svolto un certo fatto. Ed in entrambi i casi – questo ciò che ai presenti fini in particolare interessa – in questione sono appunto fatti e non valutazioni. Anche per l’interrogatorio formale vale infatti quanto detto prima a proposito della te- stimonianza, e cioè che ciò di cui il giudice ha bisogno sono i fatti, le valutazioni rappresentando, viceversa, la tipica e non delegabile espressione del suo ruolo e della sua funzione.

Se questo è vero – e francamente mi pare difficile negarlo – è però allora del tutto ovvio che la capitolazione deve possedere caratteristiche analoghe nei due casi; che, per dirla con una formu- la, quello che è confessabile deve poter essere anche testimoniabile; e dunque che, prima di censu- rare come valutativo un capitolo di prova testimoniale, occorre chiedersi se il giudizio sarebbe il medesimo anche laddove esso fosse stato dedotto quale capitolo di prova per interrogatorio formale.

Questo, è fin troppo ovvio, non fornisce neppur esso la soluzione definitiva del problema.

Ed anzi, in realtà non fornisce proprio alcuna soluzione, dal momento che non individua alcun crite- rio, sulla base del quale stabilire se il capitolo in questione, anche una volta proiettato in dimensione

“interrogatoria”, sarebbe buono oppure no. Tale proiezione risulta nondimeno a mio avviso utile, intanto, in generale, in quanto contribuisce ad uscire dalla dimensione un po’ asfittica della testimo- nianza ed a ragionare in termini di più ampio respiro. Al di là di questo e più concretamente, poi, se da un lato consideriamo che in relazione all’interrogatorio formale raramente vengono posti pro- blemi di valutatività e dall’altro teniamo conto di quanto detto sopra a proposito del fatto che il pro- blema deve essere posto con riferimento ai capitoli in sé, a prescindere dalla persona dei testimoni, un dato, per quanto ancora generico e meramente indicativo, emerge in modo a mio avviso abba- stanza evidente, vale a dire quello per il quale il problema deve essere con ogni probabilità sensi- bilmente ridimensionato

Questo non toglie, sia chiaro, che il capitolo “vero che il prodotto fornito da tizio era di qua- lità scadente”, sopra ipotizzato, sia sicuramente inammissibile. Dunque, l’esigenza di rinvenire il criterio, sulla base del quale individuare il discrimine fra capitoli ammissibili e capitoli inammissi- bili rimane. Nondimeno, il numero di questi ultimi risulta verosimilmente assai minore di quanto abitualmente ritenuto; e certo di quanto eccepito.

4. Testimonianza e consulenza tecnica volta alla percezione dei fatti: analogie

7 Per una più ampia analisi strutturale del fenomeno probatorio v. FORNACIARI M., La ricostruzione, cit., in part. capp. 2 e 4.

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Un più deciso e significativo passo avanti lo si compie allorché la testimonianza venga mes- sa a confronto con la consulenza tecnica8.

Che si tratti di due mezzi di prova differenti è ovvio. Nondimeno, non mi pare che, quanto- meno con riferimento ai profili che qui interessano, tale differenza sia in genere posta correttamen- te, o se non altro delineata con sufficiente chiarezza. A tale riguardo, il modo migliore per illustrare ciò che si intende consiste, a quanto mi pare, nel prendere le mosse dalla seguente massima: “Sono ammissibili ed utilizzabili le dichiarazioni del testimone ‘tecnico’, ovvero particolarmente esperto in un dato settore, che riferisca dati di fatto, sia pur nella percezione ‘qualificata’ consentita dalle sue speciali conoscenze, non anche quelle contenenti valutazioni dei predetti dati di fatto secondo il soggettivo apprezzamento del testimone, che potrebbero entrare a far parte del materiale probatorio soltanto attraverso una consulenza tecnica (od una perizia)”9.

8 Le considerazioni che seguono, in quanto mirate allo specifico oggetto del presente scritto, si riferiscono, com’è ovvio, ai soli profili che assumono rilevanza in relazione a tale oggetto. Più in generale, sui rapporti fra testimonianza – e segnatamente fra testimonianza tecnica – e consulenza tecnica v. da ultimo, anche per ulteriori indicazioni, COMOGLIO L.P., Le prove civili3, Torino 2010, 578 ss. e 848 ss.; CREVANI R., La prova testimoniale, in La prova nel processo civi- le, a cura di TARUFFO M., volume del Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da CICU A.-MESSINEO F.- MENGONI L., continuato da SCHLESINGER P., Milano 2012, 290 ss.; FERRARIS F., La testimonianza tecnica, in Riv. dir.

proc. 2012, 1231 ss.

9 Cass. pen. 19 settembre – 7 novembre 2007 n. 40840. Questo il testo della sentenza sul punto (in questione era, nell’ambito di un processo per circonvenzione di incapace, la testimonianza di uno psichiatra relativamente alle condi- zioni psichiche della vittima della circonvenzione):

“Con il secondo motivo di gravame il ricorrente deduceva la nullità della sentenza ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione all'art. 194 c.p.p., comma 3 ultima parte, con riferimento alla valutazione della testimonianza del Dott. M[…]. Per la difesa, la lettura degli argomenti di prova che la Corte aveva tratto dalla testimonianza del teste Dott. M[…] in ordine al ritenuto stato di incapacità del C[…] rendevano evidente che nella specie era stato violato il disposto di cui dell'art. 194 c.p.p., comma 3, che vieta ai testimoni di esprimere apprezzamenti personali.

Era evidente, per la difesa, che la Corte d'appello, a proposito della riconoscibilità all'esterno dell'infermità del soggetto passivo, aveva fatto pieno affidamento sulle emergenze raccolte attraverso l'esame del Dott. M[…].

La deposizione del Dott. M[…], secondo la difesa, era stata una semplice dichiarazione in merito ai fatti a propria cono- scenza, mentre lo straripamento nella formulazione di veri e propri apprezzamenti e giudizi era stato frutto della propo- sizione di specifiche domande da parte del Presidente del Tribunale. Risultava quindi evidente la nullità della sentenza laddove la Corte aveva utilizzato le parti della testimonianza del Dott. M[…] che si risolvevano in giudizi, valutazioni ed opinioni circa la possibilità di rendersi conto da parte di terzi dello stato di salute mentale del C[…].

Anche il secondo motivo di gravame appare infondato. Si è in parte già fatto riferimento alla valutazione espressa dai giudici del merito circa la testimonianza del Dott. M[…]. Si è trattato di una testimonianza a tutti gli effetti valida: la stessa difesa del ricorrente da atto che si era trattato di una dichiarazione in merito ai fatti a propria conoscenza.

Posto che il Dott. M[…] era venuto in contatto con il C[…] proprio in relazione alla sua qualità di medico psichiatra, era naturale che avesse sottoposto il soggetto al vaglio della sua specifica competenza ed era pienamente legittimo per i giudici rivolgere al teste domande che inerissero ai risultati dei suoi accertamenti e delle sue valutazioni mediche.

Quanto alle eccezioni riguardanti la testimonianza del Dott. M[…] merita di essere richiamata la sentenza n. 189 dell'8.10.93/13.1.94 (ric. M[…], rv. 187228) che, occupandosi di un caso di inutilizzabilità delle analisi di campioni espletate senza l'osservanza delle garanzie di difesa prescritte ed all'insostituibilità dell'esito di dette analisi tramite la testimonianza del consulente tecnico incaricato di eseguirle, ha tuttavia ammesso che l'analista possa confermare di aver effettuato le indagini riferendone le conclusioni, sia pure senza illustrare la validità delle metodiche seguite, ciò integrando un apprezzamento tecnico esulante dai limiti della prova testimoniale. Va infatti osservato che il teste

‘tecnico’ necessariamente apporta nella propria deposizione il bagaglio delle sue conoscenze, onde è possibile operare un distinguo fra quella che è l'osservazione di dati di fatto, sia pure nella percezione riportatane da un tecnico, e la valutazione di quei dati secondo l'apprezzamento soggettivo del medesimo testimone. Riferire i primi, sia pure dal punto di vista dell'esperto dello specifico settore (nel caso in esame il medico psichiatra), appartiene al mondo delle dichiarazioni testimoniali, ammissibili ed utilizzabili; riportare i secondi, rappresenta invece l'espressione di un giudizio che potrebbe entrare nel processo, sia esso civile o penale, per il solo tramite della fattispecie della consulenza tecnica.

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In sostanza, secondo la Cassazione, le cose stanno nei seguenti termini: il testimone deve limitarsi a riferire i fatti percepiti, per quanto talvolta la percezione sia necessariamente mediata dal- le sue specifiche conoscenze; tutto ciò che attiene poi all’elaborazione di tali fatti, al ragionare su di essi, esula dalla sua funzione e spetta invece al consulente tecnico10.

Questa visione, è bene dirlo subito, è fondamentalmente esatta. Essa necessita tuttavia di es- sere messa a punto ed approfondita, perché, detta così, da un lato sembrerebbe che la consulenza tecnica sia elaborativa per definizione, il che non è; per altro verso perché occorre spiegare le ragio- ni della riferita differenza; per altro verso ancora perché in questo modo si coglie in realtà solo una parte del rapporto fra testimonianza e consulenza tecnica.

A tale ultimo riguardo avrebbe ragione la difesa del ricorrente ad opporsi all'ingresso nel procedimento penale dei giudizi eventualmente formulati dal Dott. M[…] in sede testimoniale, ma gli elementi utilizzati dalla Corte d'appello non si pongono in tale ambito, avendo la Corte utilizzato i dati fattuali estrapolabili da detta testimonianza.

Ciò è tanto vero che la Corte ha cercato di formarsi un proprio autonomo giudizio sulla stato di capacità o di incapacità psichica del C[…] sulla base dei numerosi elementi di fatto emergenti dagli atti processuali e dal contesto probatorio”.

10In tal senso (a parte il riferimento all’evenienza che la percezione sia mediata dalle conoscenze specifiche del teste) v. anche Cass. 8 marzo 2010 n. 5548, secondo la quale “la prova testimoniale deve avere ad oggetto fatti obiettivi e non apprezzamenti o valutazioni richiedenti conoscenze tecniche o nozioni di esperienza non rientranti nel notorio[, ragion per cui] il giudice, avvalendosi eventualmente di una consulenza tecnica, può porre i fatti riferiti dal testimone a base degli apprezzamenti e delle valutazioni necessarie per decidere, ma non può chiedere al teste di esprimere valutazioni o apprezzamenti personali”.

In tema v. poi Cass. penale 4 maggio – 11 giugno 2010 n. 22343, secondo la quale “la contraffazione di marchi e segni distintivi può essere accertata anche attraverso l'escussione di soggetti qualificati che vantino particolari conoscenze in materia, e quindi a maggior ragione a mezzo di consulenti del P.M., la cui valutazione di attendibilità attiene al giudizio di merito, ed è come tale preclusa in sede di legittimità”; Cass. 6 giugno 2005 n. 11747, in Not. giur.

lav. 2006, 66 e Argomenti dir. lav. 2006, 635, con nota di CASALE D., Sulla (in)coerenza tra accertamento dell’inabilità e comportamento del lavoratore in malattia, secondo la quale “lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, non solo allorché tale attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, ma anche nell'ipotesi in cui la medesima attività, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio[, e t]uttavia, la sussistenza della giusta causa rispetto ad entrambi i suddetti profili non può fondarsi esclusivamente su valutazioni medico-legali espresse dal testimone, anche se nella qualità di medico ne abbia i titoli professionali, atteso che il mezzo di prova testimoniale deve avere come oggetto fatti obiettivi e non apprezzamenti tecnici e non può tradursi in un'interpretazione del tutto tecnica, e comunque essenzialmente personale, dei fatti”; Cass. 5 febbraio 1994 n. 1173, secondo la quale “il giudice del merito deve negare valore probatorio decisivo soltanto alla deposizione testimoniale che si traduca in una interpretazione del tutto soggettiva o in un mero apprezzamento tecnico del fatto, senza indicare, dati obiettivi e modalità specifiche della situazione concreta, tali da far uscire la percezione sensoria da un’ambito puramente soggettivo, sì da trasformarla in un convincimento scaturente obiettivamente dal fatto medesimo”; Cass. 19 settembre 1980 n. 5322, secondo la quale “il fatto che la prova testimoniale debba avere ad oggetto fatti e non valutazioni o giudizi – nel senso che i testimoni possono essere chiamati a deporre su circostanze obiettive, che cadono sotto la comune percezione sensoria, e non ad esprimere apprezzamenti di natura tecnica o giuridica – non significa che con tale prova non si possa manifestare anche il convincimento che del fatto e delle sue modalita sia derivato alla persona che depone per sua stessa percezione”; Cass. 21 luglio 1971 n. 2393, in Rass. avv. stato 1971, 1043, secondo la quale “la prova testimoniale è ammissibile ove non si risolva in una soggettiva ed indiretta interpretazione né in un apprezzamento tecnico o giuridico ma rifletta invece i fatti nella loro obbiettività pur potendo esprimere anche il convincimento che del fatto e delle sue modalità sia derivato al teste per sua stessa percezione”.

Sulla rilevabilità d’ufficio dell’inammissibilità di una prova per testi “che verta su apprezzamenti e valutazioni del teste piuttosto che su fatti specifici a conoscenza dello stesso” v. Cass. 2 ottobre 1996 n. 8620.

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Per operare tale messa a punto e tale approfondimento, iniziamo dunque intanto con il ricor- dare ciò che è pacifico, vale a dire che la consulenza tecnica può avere due finalità, possibilmente concorrenti, ma nondimeno concettualmente distinte fra loro: quella di rilevare dati e quella di ela- borarli. In proposito si parla abitualmente, com’è noto, di consulente tecnico “percipiente” e di con- sulente tecnico “deducente”11. In entrambi i casi, da un certo punto di vista, il consulente tecnico rappresenta un alter ego del giudice: laddove la percezione dei fatti o la loro elaborazione (o en- trambe) richiedano conoscenze specifiche, al di fuori della portata del giudice, questi ricorre ad un esperto, il quale opera al posto suo. Questo vale però, appunto, da un certo punto di vista. Da una diversa prospettiva, le cose stanno invece in termini assai differenti. Per chiarire la cosa, accanto- niamo per un attimo la consulenza tecnica volta all’elaborazione dei fatti e concentriamoci su quella volta alla loro percezione; dopodiché, ipotizziamo un paio di scenari processuali, a cavallo fra con- sulenza tecnica e testimonianza.

Poniamo ad esempio che, in una causa di interdizione, o di risarcimento del danno, occorra verificare quali siano le condizioni psichiche o psichiatriche di un dato soggetto: è del tutto evidente non solo che lo strumento corretto è la consulenza tecnica, ma anche che un’eventuale richiesta di prova testimoniale sul punto dovrebbe essere respinta. Poniamo però che lo stesso problema si pon- ga, per il passato, in una causa di impugnativa di un testamento, o di un negozio inter vivos, per in- capacità di intendere e di volere: al netto della fortunata evenienza della presenza di documentazio- ne medica (o anche di altro tipo), tale da consentire di ricostruire il quadro psichico/psicologico del soggetto, a quale diverso strumento dovrebbe farsi ricorso, se non alla testimonianza? E del resto, se in una siffatta ipotesi sarebbe certamente utilizzabile un certificato medico redatto all’epoca, per quale ragione non dovrebbe potersi chiamare a testimoniare il medico che sempre all’epoca, pur senza redigere certificati, avesse visitato – o magari, ancor meglio, avuto in cura – il soggetto12?

Analogamente, poniamo che in una causa per risarcimento del danno da immissione di so- stanze dannose, tali da provocare l’insorgenza di una patologia letale nelle piante di un frutteto, oc- corra verificare lo stato di queste ultime e la relativa causa: non c’è dubbio che lo strumento da adoperare sia la consulenza tecnica e non la testimonianza. Poniamo però che l’origine non naturale della patologia e la provenienza delle immissioni vengano scoperte solo allorché le piante siano già state estirpate: forse che la testimonianza in merito alla sussistenza della patologia ed alla morte del- le piante medesime dovrebbe essere ritenuta inammissibile? E del resto, ancora analogamente a quanto detto a proposito dell’ipotesi precedente, quale differenza sussiste, nella sostanza, fra la pro- duzione di una relazione, eventualmente redatta all’epoca da un agronomo, poniamo al fine di rice- vere un indennizzo dallo Stato, e la deposizione del medesimo soggetto, il quale, sempre all’epoca, pur senza redigere relazioni, avesse riscontrato le condizioni delle piante?

Ebbene, sulla base delle due ipotesi che precedono, una cosa è intanto, mi pare, evidente; va- le a dire che, come detto, nei casi ipotizzati la testimonianza è sicuramente ammissibile. Questo è

11 Sul punto v. da ultimo, anche per ulteriori indicazioni, ANSANELLI V., La consulenza tecnica, in La prova nel proces- so civile, a cura di TARUFFO M., volume del Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da CICU A.-MESSINEO F.-MENGONI L., continuato da SCHLESINGER P., Milano 2012, 993 ss.

12 Con questo, si noti bene, non si vuole affermare – contraddittoriamente rispetto a quanto sostenuto sopra (§ 2) – che la prova testimoniale in questione sia ammissibile solo laddove venga indicato quale teste un medico. Tale figura è stata infatti evocata solo per rendere di immediata evidenza il concetto espresso, senza togliere in alcun modo validità al precedente assunto. Il capitolo sarà dunque senz’altro buono, dopodiché, come appunto detto sopra, sarà un problema di attendibilità: laddove venga a testimoniare un medico, la deposizione risulterà utile; laddove venga invece un profano, essa lo sarà assai meno o non lo sarà per nulla.

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però il meno. La cosa veramente importante, che ci riporta a quanto accennavamo sopra a proposito della funzione della consulenza tecnica e del rapporto fra consulente tecnico e giudice, è infatti un’altra; e cioè che, a ben vedere, il consulente tecnico ed il testimone, a dispetto di quanto abi- tualmente ritenuto e per quanto la cosa possa suonare strampalata, fanno in realtà la medesima cosa e si pongono, rispetto al giudice, nel medesimo tipo di rapporto.

Se si ricorda, il discorso ha preso avvio dalla considerazione per la quale, se è certamente vero che il consulente tecnico si presenta quale alter ego del giudice, questo rispecchia però solo uno dei punti di vista possibili. Più precisamente, possiamo ora aggiungere che ciò vale dal punto di vista funzionale. Da un diverso punto di vista, e più precisamente da quello strutturale, il consulente tecnico (incaricato della percezione di fatti) non fa invece nulla di diverso da ciò che fa il testimone, vale a dire descrivere dei fatti. Per quanto funzionalmente il consulente tecnico operi, secondo quanto detto, quale alter ego del giudice, è infatti innegabile che, allorché egli intervenga, il rappor- to di quest’ultimo con il fatto non solo diventa mediato (il fatto non è cioè oggetto di percezione di- retta), ma è esattamente uguale a quello che si ha in presenza di un testimone: il giudice viene in contatto con il fatto solo tramite la descrizione di un diverso soggetto.

Non solo: sempre alla luce delle ipotesi prospettate, è altresì innegabile che non solo la con- sulenza tecnica ma anche la testimonianza può essere “valutativa”; può cioè esprimere una perce- zione mediata da conoscenze specifiche del teste, non proprie dell’uomo comune.

5. Segue: differenze

Dunque, consulenza tecnica (volta alla percezione di fatti) e testimonianza sono la stessa co- sa? Ovviamente no. Però la differenza fra le due si pone su un piano diverso da quello, solitamente ritenuto, della valutatività della prima e non valutatività della seconda. Quale sia tale differenza è presto detto: essa consiste nel fatto che il consulente tecnico per un verso è scelto dal giudice, per altro verso opera nel possibile contraddittorio dei consulenti di parte, cose che ovviamente non val- gono invece per il testimone. Dunque, il piano sul quale si colloca la distinzione fra i due strumenti è in definitiva quello dell’attendibilità: ciò che caratterizza la consulenza tecnica, rispetto alla testi- monianza, è essenzialmente la sua tendenziale maggiore attendibilità, legata alla duplice circostan- za, appena evidenziata, che il soggetto, medio fra fatto e giudice, è appositamente scelto da quest’ultimo e che in relazione al suo operato è possibile un contraddittorio tecnico.

Questo spiega fra l’altro in modo tanto semplice quanto soddisfacente il motivo per il quale, laddove i due strumenti siano teoricamente concorrenti, è senz’altro la consulenza tecnica a dover essere preferita. Si tratta, semplicemente, di preferire lo strumento potenzialmente più idoneo ad una ricostruzione del fatto che sia la più fedele possibile.

Con questo il discorso non è però ancora concluso. Nell’analisi appena compiuta abbiamo infatti detto che la differenza fra consulenza tecnica (volta alla percezione di fatti) e testimonianza consiste “essenzialmente” nella tendenziale maggiore attendibilità della prima. Fra i due strumenti sussiste però anche un’altra differenza, la cui analisi risulta del resto preziosa, in quanto implica un’ulteriore ampliamento di prospettiva e consente dunque di delineare un quadro più completo del- la situazione. Per cogliere tale differenza, risultano ancora una volta utili le ipotesi sopra prospetta- te.

Alla luce di queste ultime, un dato emerge infatti, a quanto mi pare, assai evidente, vale a di- re quello per il quale l’alternativa fra consulenza tecnica e testimonianza sussiste soltanto allorché si tratti di accertare un fatto presente. Per il passato, viceversa, altrettanto non è chiaramente possibile.

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In tal caso [al di là della possibilità della ricostruzione sulla base dello stato presente, ciò che coin- volge però un diverso tipo di strumento conoscitivo (il risalire da un fatto noto ad uno ignoto) e, eventualmente, una diversa incarnazione della consulenza tecnica (quella volta all’elaborazione dei fatti)], vi è dunque un unico strumento utilizzabile, vale a dire la testimonianza.

Questa constatazione non è ovviamente irrilevante, ma implica una conseguenza: quella per la quale mentre la consulenza tecnica (volta alla percezione dei fatti) è sempre “valutativa”, nel sen- so sopra chiarito (essere in questione una percezione mediata dalle conoscenze specifiche del sog- getto), la testimonianza, viceversa, non necessariamente lo è. Il motivo di tale differenza è, credo, abbastanza facilmente intuibile: mentre allorché in questione sia un fatto presente, se per la sua per- cezione non occorrono conoscenze specifiche essa può avvenire direttamente da parte del giudice, ciò non vale ovviamente per un fatto passato. Dunque, mentre per il fatto presente gli strumenti che vengono in considerazione sono due, vale a dire la percezione diretta del giudice (e pertanto, a se- conda del tipo di bene, l’ispezione o l’esibizione) e la consulenza tecnica, a seconda che la perce- zione del fatto richieda o meno conoscenze specifiche13, per il fatto passato lo strumento che viene in considerazione è sempre e comunque il medesimo, vale a dire la testimonianza, tanto laddove la percezione del fatto richieda conoscenze specifiche quanto laddove ciò non sia viceversa necessa- rio. Detto diversamente, la testimonianza copre, con riferimento al fatto passato, un’area che as- somma in sé quelle coperte, con riferimento al fatto presente, dalla percezione diretta del giudice e dalla consulenza tecnica (volta alla percezione dei fatti).

All’esito di quanto detto, e cercando di riassumere le considerazioni svolte, abbiamo dunque appurato:

- che il meccanismo tramite il quale il giudice viene a conoscenza dei fatti di causa tramite la testi- monianza e tramite la consulenza tecnica (volta alla percezione dei fatti) è del tutto analogo e consi- ste nella descrizione di tali fatti al giudice da parte di un diverso soggetto (testimone o consulente tecnico);

- che anche la testimonianza può essere altrettanto “valutativa” (nel senso di esprimere una perce- zione resa possibile dalle conoscenze specifiche del teste) della consulenza tecnica (volta alla per- cezione dei fatti);

- che la differenza fra i due strumenti, che pure ovviamente esiste, si pone però sul diverso piano della loro attendibilità;

- che, ulteriormente, mentre la consulenza tecnica (volta alla percezione dei fatti) si riferisce a fatti presenti ed è sempre “valutativa” (nel senso detto), in quanto destinata ad operare solo laddove la percezione del fatto richieda conoscenze specifiche, in caso contrario operando la percezione diretta del giudice, la testimonianza, viceversa, si riferisce a fatti passati e può essere tanto “valutativa”

(nel senso detto) quanto no, venendo in questione per qualunque tipo di fatto14.

13 E’ implicito in quanto detto, ma è comunque bene esplicitarlo, che con riferimento al fatto presente la testimonianza, così come è esclusa, a vantaggio della consulenza tecnica, laddove per la percezione di tale fatto siano necessarie conoscenze specifiche, parimenti lo è, questa volta a vantaggio della percezione diretta del giudice, laddove tali conoscenze non siano necessarie.

14 La circostanza per la quale la consulenza tecnica (volta alla percezione di fatti) viene in considerazione solo con rife- rimento a fatti presenti, mentre la testimonianza viene in considerazione solo con riferimento a fatti passati, è assai si- gnificativamente confermata, mi pare, dal § 414 ZPO tedesca e dal § 350 ZPO austriaca, i quali, nel disciplinare la figu- ra del testimone esperto e nel prevederne l’utilizzo con riferimento alla prova di fatti per la cui percezione siano neces- sarie particolari cognizioni, specificano esplicitamente che in questione devono essere fatti “passati”.

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6. Testimonianza e consulenza tecnica volta all’elaborazione dei fatti

Con quanto appena riassunto, il discorso è peraltro ancora lungi dal potersi dire terminato, sia in generale, sia anche limitatamente ai rapporti fra testimonianza e consulenza tecnica. Tutto quanto detto vale infatti, come del resto più volte rammentato, per la consulenza tecnica volta alla percezione dei fatti. Per completare il quadro, occorre dunque ora passare ad occuparsi di quella volta alla loro elaborazione.

In questa ipotesi le cose stanno, intuitivamente, in termini differenti. Qui, fermo restando il minimo comun denominatore, rappresentato dalla necessità di conoscenze specifiche, estranee alla cultura del giudice, il compito del consulente tecnico consiste infatti non nel descrivere fatti, bensì nell’operare ragionamenti. Di questo trattandosi, l’alternativa della testimonianza non pare dunque neppure astrattamente configurabile: dovendosi ad esempio stabilire se fra il fatto x ed il fatto y sus- sista o meno un rapporto di causalità, a nessuno (quantomeno nelle esperienze di civil law15) ver- rebbe mai in mente, credo, di ipotizzare che la cosa possa essere stabilita tramite testimonianza16 anziché tramite consulenza tecnica. Ciononostante, quanto detto sopra finisce in realtà per rivelarsi valido, mutatis mutandis, anche con riferimento a questo tipo di consulenza tecnica. Non, beninteso, nel senso di legittimare anche in questo caso l’uso della testimonianza, bensì in quello di spiegare in modo chiaro e semplice, e soprattutto omogeneo, il motivo per il quale ciò non è possibile; di ricon- durre insomma ad un quadro unitario i rapporti fra testimonianza e consulenza tecnica con riferi- mento ad entrambi i fenomeni in questione (descrizione di fatti e loro elaborazione).

Per comprendere tale affermazione occorre intanto, come prima cosa, chiarire quali siano i termini del problema, tali che i risultati raggiunti in ambito percettivo possano assumere significato anche in ambito elaborativo.

A tal uopo, occorre innanzitutto riprendere la considerazione iniziale17, secondo la quale non solo per il giudizio di diritto, ma anche per quello di fatto, il giudice deve far uso della propria ca- pacità di ragionamento, senza delegare ad altri il relativo compito. Dunque, in linea di principio in questo ambito non vi è spazio non solo per la testimonianza, ma neppure per la consulenza tecnica.

Questo vale però, appunto, in linea di principio. Esistono infatti passaggi logici che non sono acces- sibili a chiunque, ma richiedono conoscenze specifiche, proprie solo degli esperti di una data mate- ria. In tale evenienza, anche in questo ambito si pone dunque un problema analogo a quello che si pone, più spesso, per la conoscenza dei fatti: il giudice ha necessità di ricorrere ad un ausilio ester- no.

Questo essendo il presupposto del problema, i termini di quest’ultimo si condensano in so- stanza intorno al seguente interrogativo: posto che il giudice debba ricorrere al suddetto ausilio esterno, per quale ragione allorché si tratti della conoscenza dei fatti egli può avvalersi, a seconda

15 Per una prima informazione sui sistemi di common law, nonché per ulteriori indicazioni, v. FERRARIS F., La testimo- nianza tecnica, cit., 1241 ss.

16 In proposito v. Cass. 31 luglio 2012 n. 13693, secondo la quale “l’affermazione dell’esistenza di un nesso causale tra due fenomeni costituisce sempre il frutto di un'attività di giudizio e valutazione, e non già di semplice percezione di un fatto concreto[, ragion per cui] la prova testimoniale non può mai avere ad oggetto l'affermazione o la negazione dell'esistenza del nesso di causalità tra una condotta ed un fatto illecito, ma può solo limitarsi a descrivere i fatti obiettivi, restando poi riservato al giudice stabilire se quei fatti possano essere stati la causa del danno”.

17 V. il § 1.

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dei casi, tanto della consulenza tecnica quanto della testimonianza, mentre allorché si tratti della lo- ro elaborazione la seconda possibilità dovrebbe viceversa risultare preclusa? Detto diversamente:

posto che il giudice, quando non può percepire direttamente un fatto, ha a disposizione due stru- menti (la consulenza tecnica e la testimonianza), perché quando non può ragionare in prima persona dovrebbe averne a disposizione soltanto uno (la consulenza tecnica)?

Ebbene, la risposta a tale interrogativo risiede appunto nei predetti risultati. Secondo quanto detto, l’alternativa fra consulenza tecnica e testimonianza non è infatti libera, bensì legata alla di- stinzione fra fatti presenti e fatti passati: per i fatti presenti può essere utilizzata solo la consulenza tecnica, mentre la testimonianza è utilizzabile solo per i fatti passati. Questo essendo il criterio, ecco allora per quale ragione per l’elaborazione dei fatti la testimonianza è fuori gioco: molto semplice- mente, tale elaborazione, il ragionamento, è sempre, per definizione, un fenomeno che avviene nel presente, anche laddove i fatti che ne formano oggetto si collochino nel passato (o nel futuro: si pensi alla prognosi in merito all’evoluzione di un determinato stato attuale).

Quello che è peraltro importante sottolineare è che questo non dipende da alcuna impossibi- lità intrinseca della testimonianza, bensì, ancora una volta, dalle medesime ragioni viste con riferi- mento alla conoscenza dei fatti, e cioè dalla maggiore attendibilità della consulenza tecnica.

7. Primo principio (di carattere più generale): necessità di utilizzare il mezzo di prova più (imme- diato/)attendibile possibile

Chiarito questo, e tornando all’ambito probatorio propriamente detto, vale a dire agli stru- menti di conoscenza dei fatti, risulta a questo punto possibile formulare il primo dei principi genera- li, dei quali si diceva all’inizio del lavoro.

Ammesso, come quantomeno a mio avviso si deve, che il processo, anche civile, abbia quale obiettivo quello di pervenire ad un accertamento dei fatti quanto più veritiero possibile18, e posto, ciò che a sua volta mi pare difficilmente contestabile, che in linea di massima ogni passaggio inter- medio fra fatto e giudice rende più difficoltoso il raggiungimento di tale obiettivo19, le considera- zioni che precedono si traducono infatti immediatamente in una duplice, a quanto mi pare intuitiva, indicazione: per un verso quella per la quale lo strumento da utilizzare è di regola quello più imme- diato possibile, con conseguente inammissibilità di tutti gli altri, teoricamente disponibili, ma meno immediati; per altro verso quella per la quale, a pari “distanza” fra fatto e giudice, lo strumento da utilizzare è quello più attendibile possibile, con conseguente, analoga, inammissibilità di tutti gli al- tri, teoricamente disponibili, ma meno attendibili. Il che, volendosi esprimere in termini ancora più sintetici e considerando che anche la prima indicazione rappresenta in definitiva una manifestazione della seconda, la preferenza per lo strumento più immediato essendo legata alla sua tendenziale maggiore attendibilità rispetto a quello meno immediato, è poi in sostanza quanto a dire che la pre- ferenza deve andare in ogni caso al mezzo di prova più attendibile (in quanto più immediato o in quanto intrinsecamente tale).

Conseguentemente, laddove si tratti di accertare il modo di essere di un fatto presente, la cui percezione non richieda conoscenze specifiche, dovrà farsi ricorso all’esibizione o all’ispezione,

18 Sul punto v. FORNACIARI M., Lineamenti di una teoria generale dell’accertamento giuridico, Torino 2002, 86 ss., in part. 90, e ID., La ricostruzione, cit., 38 ss.

19 Sul punto v. più ampiamente FORNACIARI M., La ricostruzione del fatto, cit., 142 ss., 165 s. e 169.

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senza che queste possano essere surrogate né dalla consulenza tecnica né dalla testimonianza20; lad- dove invece si tratti di accertare il modo di essere di un fatto presente, la cui percezione viceversa richieda conoscenze specifiche, dovrà farsi ricorso alla consulenza tecnica, senza che questa possa a sua volta essere surrogata dalla testimonianza; laddove infine si tratti di accertare il modo di essere di un fatto passato, ecco allora che potrà farsi ricorso a quest’ultima, e ciò indifferentemente se la percezione di tale fatto richieda conoscenze specifiche o meno.

Peraltro, non si tratta solo di questo. L’indicazione che precede ha infatti una portata ancora più generale, nel senso che essa vale in realtà non solo nei rapporti fra percezione diretta del giudi- ce, consulenza tecnica e testimonianza, ma con riferimento a qualunque mezzo di prova, indipen- dentemente dalla distanza dal fatto alla quale esso si colloca; essa rappresenta cioè il principio che governa, quali che siano gli strumenti coinvolti, la scelta in merito a quale di essi debba essere uti- lizzato e debba dunque ritenersi ammissibile, ad esclusione di tutti gli altri.

Banalmente, potendosi escutere un testimone, deve ritenersi sicuramente inammissibile la testimonianza indiretta di un altro soggetto, il quale riferisca quanto appreso dal primo, così come deve ritenersi inutilizzabile la produzione di una dichiarazione scritta di questi (si tratti di un testo redatto proprio in prospettiva testimoniale o anche di un qualsiasi tipo di appunto, promemoria, dia- rio, ecc.). Immaginando però che il testimone direttamente informato sia deceduto o non possa per altra ragione deporre, la soluzione è giocoforza destinata a mutare. Precisamente in tal senso è del resto, quanto alla testimonianza indiretta, la disciplina sancita dall’art. 1953 cpp.

Parimenti, potendo il consulente tecnico esaminare il bene in relazione al quale è richiesta la sua opera, deve essere senz’altro escluso che la sua analisi, anziché direttamente su tale bene, possa svolgersi sulle foto del medesimo. Laddove peraltro l’esame diretto non sia per qualche motivo pos- sibile (ad es. perché il bene è andato distrutto), è evidente che non può valere altrettanto.

Ancora, potendosi produrre un documento, non avrei dubbi sull’inammissibilità di una pro- va testimoniale in merito al suo tenore. Diversamente deve però ritenersi laddove il documento sia andato perso, cosa che è del resto espressamente prevista dall’art. 2724 n. 3 cc, il quale sancisce ap- punto l’ammissibilità in deroga della prova testimoniale in caso di perdita incolpevole del documen- to.

Ed anzi, proprio i due riferimenti normativi citati forniscono, qualora ve ne fosse bisogno, il supporto di diritto positivo al principio che stiamo illustrando. Al di là delle specifiche ipotesi prese in considerazione, ciò che emerge dalle disposizioni in questione è infatti, mi pare di poter afferma- re, il più generale concetto per il quale il mezzo di prova meno (immediato/)attendibile deve rite- nersi ammissibile laddove quello più (immediato/)attendibile risulti, incolpevolmente, non (più) di- sponibile. Il che evidentemente conferma, a contrario, che il principio fondamentale è senz’altro quello della preferenza per il mezzo più (immediato/)attendibile.

8. Secondo principio (di carattere più specifico): necessità che la prova per testimoni abbia ad og- getto fatti quanto più elementari possibile; assorbimento del problema della valutatività

Tutto questo, se chiarisce in effetti molte cose, non fornisce peraltro ancora una spiegazione, per quanto in particolare concerne la prova testimoniale, dalla quale abbiamo preso le mosse, del perché il capitolo “vero che il prodotto fornito da tizio era di qualità scadente”, fin dall’inizio addot- to quale prototipo di capitolo inammissibile, debba ritenersi tale. In questo caso, in questione non è

20 Quanto alla seconda v. la nota 13.

(13)

infatti un problema comparativo fra vari mezzi di prova, bensì esclusivamente la formulazione del capitolo.

La soluzione di tale problema va dunque cercata altrove. Essa non è peraltro né particolar- mente nascosta, né particolarmente astrusa; semplicemente, si tratta di spostarsi su un altro piano e di considerare che il capitolo in questione, più che valutativo, e comunque a monte di tale aspetto ed assorbentemente rispetto ad esso, è in realtà generico. Essendo in questione la qualità scadente di un prodotto, ciò che al teste può – e dunque deve – essere domandato è infatti, più specificamente, che riferisca in merito alle sue caratteristiche. Indicazione questa che ben può a sua volta tradursi in un principio generale, diverso e complementare rispetto all’altro, sin qui illustrato, vale a dire quello, questa volta specificamente riferito alla prova testimoniale ed attinente per l’appunto al grado di specificità di questa, per il quale, compatibilmente con la vicenda controversa, l’oggetto della prova deve essere il più elementare possibile.

Acquisito questo, ecco allora che ne risulta confermato, in conclusione, il dato emerso sopra, ancorché genericamente, ragionando di testimonianza e di interrogatorio formale21, e cioè quello per il quale il problema della valutatività della prima deve essere assai ridimensionato. Più esatta- mente, alla luce di quanto sin qui detto, esso sembra anzi destinato a scomparire tout court. Al netto delle “valutazioni” che rappresentano il canale obbligato della stessa percezione e che sono dunque inseparabili da questa, il profilo della valutatività risulta infatti assorbito per un verso dal principio della preferenza del mezzo di prova più (immediato/)attendibile possibile, per altro verso da quello, appena enunciato, dell’oggetto di prova più elementare possibile.

In buona sostanza, fermo restando che la testimonianza non deve mai sconfinare nel territo- rio dell’elaborazione dei fatti, ma deve limitarsi alla loro descrizione, essa da un lato deve essere esclusa laddove esista un mezzo di prova più (immediato/)attendibile, dall’altro deve avere ad og- getto fatti quanto più elementari possibile. Una volta che tali due condizioni siano rispettate, il fatto che essa sia “valutativa”, nel senso che la percezione del fatto, oggetto della deposizione, sia media- ta dalle conoscenze specifiche del testimone, non rappresenta in alcun modo un ostacolo alla sua ammissibilità.

9. Precisazioni finali

Ciò detto, due precisazioni, in chiusura, appaiono peraltro necessarie, una in senso restritti- vo, l’altra viceversa in senso ampliativo.

Dal primo punto di vista occorre chiarire – si tratta in sostanza di un corollario del primo dei principi appena illustrati – che il mezzo di prova meno (immediato/)attendibile deve essere ritenuto inammissibile non solo se ne esista attualmente uno più (immediato/)attendibile, ma anche se que- sto esistesse in precedenza e la parte, non avendolo utilizzato, si trovi nella condizione di non poter- lo più fare. L’esempio più tipico in proposito è quello della parte che, potendo procedere ad un ac- certamento tecnico preventivo, non lo faccia e poi, instaurato il processo al quale tale accertamento sarebbe stato strumentale, pretenda di fornire la prova del pregresso stato del bene mediante testi- moni. Ebbene, a mio avviso questa richiesta, così come altre analoghe che possano ipotizzarsi, deve essere sicuramente respinta. Ritenere il contrario significherebbe infatti in sostanza che la parte po- trebbe trarre giovamento dalla propria inerzia (la prova per testi, originariamente inammissibile in ragione della possibilità di utilizzare l’accertamento tecnico preventivo, diventerebbe ammissibile

21 V. il § 3.

(14)

in conseguenza del non essersi la parte tempestivamente attivata in tal senso), ciò che ovviamente non può essere in alcun modo consentito.

Dal secondo punto di vista va poi, in direzione opposta, specificato, sempre in relazione al primo dei suddetti principi, che la disponibilità di un mezzo di prova più (immediato/)attendibile deve essere valutata in concreto, vale a dire tenendo conto del contesto processuale di volta in volta in questione. Questo significa, in sostanza, che, in ambito cautelare, e più in generale per l’adozione di provvedimenti improntati all’urgenza, occorre tenere conto anche del fattore tempo; con la con- seguenza, banalmente, che una dichiarazione testimoniale scritta, pure senz’altro inutilizzabile nell’ambito della cognizione piena laddove sia possibile l’escussione diretta del testimone, potrebbe viceversa essere ritenuta buona per l’emanazione di un provvedimento inaudita altera parte22.

22 Nello stesso senso, dalla diversa prospettiva dell’atipicità della prova, v. già FORNACIARI M., La ricostruzione del fat- to, cit., 458.

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