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Le nostre terre, i nostri diritti. Parla Marcial Fabricano

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Academic year: 2022

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L’ultima marcha indígena, partita il 24 agosto da Trinidad, la capitale del dipartimento

amazzonico del Beni, e conclusasi il 30 settembre a Santa Cruz de la Sierra, centro economico della Bolivia, a trentuno anni della prima memorabile marcia, ha avuto ancora come leader il sessantottenne Marcial Fabricano Noe, indio moxeño di lingua arawak, che continua a marciare per i diritti dei popoli delle terre dell’Amazzonia e del Chaco boliviani, abitate da 33 dei 36 popoli originari riconosciuti dalla Costituzione.

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Fu sempre lui uno dei promotori della prima marcia nel ‘90 organizzata per il territorio e la dignità, che ha rappresentato una pietra miliare della lotta dei movimenti indigeni. Come, del resto, lo sono state un po’ tutte le marce degli indios dell’Amazzonia e del Chaco boliviani, ai quali va il merito di aver proposto per primi una nuova assemblea costituente, sdoganando il termine indigeno in Bolivia. E a tale riguardo, e per amor del vero, sarà anche utile ricordare come lo stesso Evo Morales non sia nato politicamente indigeno. E abbia cominciato a connotarsi come tale solo dopo aver accolto il suggerimento che gli proveniva dai consiglieri europei, per i quali quel nuovo status risultava loro molto più utile a delineare una sua immagine internazionale positiva.

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Numericamente pochi rispetto alla maggioranza dei fratelli andini di origine quechua e aymara, agli indigeni dell’oriente dell’Amazzonia, del Chaco e della Chiquitania boliviana non resta che questo modo per far sentire la loro voce. Ed è così che, da ormai più di tre decenni, nei momenti particolarmente difficili per la loro esistenza, fanno conoscere le loro rivendicazioni. Così è accaduto anche con l’ultima marcia, con la quale hanno rivendicato i loro diritti culturali messi sempre in secondo piano rispetto alle popolazioni indigene andine, e hanno voluto denunciare la loro completa marginalizzazione nella gestione del territorio che pur gli appartiene.

La questione delle terre indigene è stata centrale fin dal 1990, e ha fatto sì che già i governi che hanno preceduto l’avvento di Evo e del Movimiento al Socialismo abbiano dovuto alla fine

riconoscere quei territori come comunità di origine. Ma con l’andare del tempo queste realtà sono state gradualmente esautorate di competenze, di potere e di reale controllo sugli spazi, con la conseguenza che parte di quelle terre sono state invase da colonizzatori estranei.

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Oltre alla questione delle terre, l’ultima marcia si è collocata nel solco del grande dibattito che è nato soprattutto dopo gli enormi incendi del 2019 che, con cinque milioni quattrocentomila ettari bruciati tra savane e foreste nell’Amazzonia e nel Chaco boliviani, rappresentano probabilmente l’evento catastrofico più grande accaduto nella storia umana recente in tutto il continente. Molto di più dei due milioni bruciati simultaneamente nel lato brasiliano, dato più pubblicizzato e noto internazionalmente.

In Italia il bilancio degli incendi per il 2021, che tanto hanno occupato le cronache allarmate dei giornali, quantifica a centocinquantamila gli ettari di verde andati in fumo. Se passiamo alla Bolivia, considerato che è quasi quattro volte la nostra penisola, e tenuto conto dei suoi tre milioni quattrocentomila ettari bruciati quest’anno, ci risulterà chiaro perché essa è da vari anni il paese con la deforestazione pro capite più alta al mondo.

Una catastrofe alla cui origine sta la continua espansione della frontiera agricola perseguita dai coloni e dalle imprese agroindustriali che si ingrandiscono, quindi imputabile a realtà estranee alle popolazioni indigene. Un fenomeno che molto spesso riguarda territori dell’oriente

dell’Amazzonia e del Chaco boliviani.

Si tratta in genere di terre che l’Instituto Nacional de Reforma Agraria, istituito già vari decenni fa

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dai primi governi del Movimento Nazionalista Rivoluzionario, continua ad assegnare a coloni che arrivano dalle terre alte andine di etnia quechua e aymara, non in possesso di quelle conoscenze, di quei rapporti con la natura, con gli ambienti, con gli spazi e con le culture che sono patrimonio degli indios dell’Amazzonia e del Chaco boliviani.

Ciò detto, l’XI marcia degli indios delle terre basse è nata anche per la completa mancanza di riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni. Cosa che a un osservatore superficiale potrebbe apparire perfino paradossale visto che si parla di Bolivia, dove da tempo opera un governo pro indigenista che si richiama al rispetto dei valori della Pacha Mama.

La realtà è invece un’altra e ci parla di un esecutivo, al cui vertice sta ora Luis Arce, che continua le politiche di sviluppo “estrattiviste” che già hanno caratterizzato gli anni di Morales, il cui esito compromette inevitabilmente gli equilibri ambientali. Non deve quindi stupire più di tanto che Arce abbia ignorato le ragioni dei marciatori, e che a tutt’oggi continui a negare quel canale di dialogo che gli indios dell’oriente boliviano, ospiti negli spazi dell’Universidad Autónoma Gabriel René Moreno a Santa Cruz de la Sierra, pazientemente attendono da più di un mese.

Se da un lato la porta è chiusa alle istanze degli indios delle terre basse, mai è venuto meno il tangibile sostegno del governo a quegli indigeni che non protestano, ai quali in cambio assegna

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prebende, finanziamenti e posti di lavoro negli enti pubblici. Anche quando ciò avvenga, e capita spesso, a scapito della perdita del loro patrimonio culturale, territoriale e di dignità.

Risale sempre ai tempi di Evo Morales una scelta politica, mutuata dal governo attualmente in carica, che ha voluto contrastare gli appoggi di cui le marce godevano da parte di ONG e

organizzazioni internazionali. Fino al punto che adesso qualsiasi organizzazione che osi cercare di assicurare ai manifestanti l’alimentazione o l’assistenza sanitaria viene espulsa dal paese. Come è successo qualche anno fa con una grande ONG danese.

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La conseguenza è stata che all’ultima marcia sono così mancati non solo l’eco internazionale della stampa, ma anche quel micro-appoggio economico che consentiva ai marciatori di alimentarsi e mantenersi in salute. Rimanendo a essi, come uniche risorse, il sostegno e la solidarietà della popolazione, che del resto non è venuto mai meno. Ciò ha finito col debilitare e minare lo stato di salute di molti partecipanti, tra i quali lo stesso Marcial Fabricano, ricoverato per qualche tempo in ospedale.

Ciononostante, Marcial non molla e continua ad attendere con gli altri a Santa Cruz quel segnale di dialogo da parte del governo che tarda a venire. Confermando ancora una volta quel ruolo di leader che il quotidiano spagnolo El País già nel 1999 gli aveva riconosciuto includendolo nella lista dei cento personaggi latinoamericani più influenti; che tra politici, scienziati, stelle dello sport ecc. comprendeva anche Luis Inácio Lula da Silva. Prima di iniziare, gli chiedo del suo stato di salute che mi assicura di aver totalmente recuperato dopo alcuni giorni di forte preoccupazione.

Cosa di cui, rallegrandomi, non posso minimamente dubitare, a giudicare dall’energia e dalla combattività con le quali mi risponde.

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Nelle foto Marcial Fabricano Noe (con barba e capelli brizzolati e camicia bianca)

Fuori della Bolivia poco si sa che anche quest’anno sono bruciati tre milioni e quattrocentomila

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ettari di boschi e savane, nella maggior parte territori e aree protette indigene. Chi provoca questi incendi, e perché i popoli indigeni non riescono a farsi ascoltare dentro e fuori del tuo paese?

Penso che la cifra che tu segnali sia stata già superata perché continuano a bruciare aree indigene e territori protetti. Noi pensiamo che tutto ciò sia molto lamentevole, perché non rientra nel piano del governo proteggere le foreste. Non è la sua priorità, e lo vogliamo affermare in maniera molto enfatica. Tu sai che a Glasgow, dove si sta discutendo del cambiamento climatico, è uscito il primo documento che chiedeva ai vari paesi l’impegno a proteggere le foreste e l’Amazzonia, e che il presidente Luis Arce non ha voluto firmare. Noi pensiamo che sia un segnale chiaro che non è il suo obiettivo, che il tema non gli importa. Perché? Perché, pur trattandosi di aree indigene e protette, il governo boliviano le desidera perché ha in progetto di installarvi opere e di invaderle mandando gente che non sa come si vive nella foresta. Quindi tutto quello che è verde deve essere distrutto. Questa è la pratica in atto in Bolivia. Per questo abbiamo organizzato una marcia

percorrendo una strada dell’Amazzonia per cinquecentosessanta chilometri in trentasette giorni.

Noi vogliamo solo il riconoscimento del diritto al nostro territorio indigeno, che è anche parco nazionale. Dove il governo ha pianificato di inviare sempre più gente che coltiva foglie di coca. E questo già si sa che cosa significa per l’umanità: fabbricazione della droga. Questo è ciò che fa questo governo. Per questo continueremo a lottare con l’aiuto della comunità internazionale.

Tuttavia in Bolivia c’è un governo definito, o conosciuto nel mondo, come indigeno o pro indigeni.

Mentre tu sostieni che è indifferente e sordo nei confronti delle domande e aspirazioni dei popoli indigeni.

Uno può rendersene conto osservando il suo comportamento. Il nostro governo sta carpendo la buona fede della comunità internazionale con questo discorso di essere un governo indigeno.

Mentre nulla ha a che vedere con le tematiche, le problematiche e gli interessi della popolazione indigena che prevedono il diritto alla conservazione del nostro territorio, della nostra identità e della nostra cultura. Il suo comportamento si riduce semplicemente a invadere il nostro territorio.

Questo è ciò che sta accadendo. Questo governo non ha nulla di indigeno, perché nel 2019 e nel 2011 siamo stati colpiti nel nostro diritto, siamo stati violentati durante una marcia indigena in Amazzonia dal governo solo perché volevamo difendere il nostro territorio minacciato dal suo piano distruttivo che prevedeva di costruire una strada che avrebbe tagliato in due il Parco

Nazionale Isiboro Sécure (TIPNIS) che era anche territorio indigeno, foresta ricca in biodiversità e riserva ecologica. E solo perché abbiamo cercato di difenderlo è stato calpestato il nostro diritto, con bambini, donne incinte, anziani picchiati dalla repressione del governo. Questa è stata la violenza che abbiamo subito da parte di questo sedicente governo indigeno.

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Ma durante i quasi quattordici anni in cui ha governato Morales, ci sono stati o no maggiori consolidamenti dei cosiddetti TCO, le terre comunitarie di origine?

Si è verificato tutto il contrario, con la totale paralisi di tutto il processo di risanamento del nostro territorio che fu invece iniziato dai governi chiamati neoliberali. In quei tempi, in qualche modo, noi avevamo progredito in una certa misura. Da quando invece si è instaurato questo governo, socialista, comunista, poco importa di che tipo di regime si tratti, si è dedicato soltanto a imporre e sottomettere un altro popolo al popolo originario. Questo, tristemente, abbiamo vissuto.

Corrisponde al vero che alcune terre comunitarie di origine (TCO) sono state ridotte e che in queste sono stati consegnati sempre più spazi a quelli che in Bolivia sono definiti “interculturales”, che precedentemente venivano chiamati coloni?

Segnalo solo un caso. Il territorio del Parco Nazionale Isiboro Sécure (TIPNIS) con un milione duecentosessantamila ettari di superficie abitata dai tre gruppi etnici Mojeño-Trinitario, Chimán e Yuracaré fu suddiviso in sette aree per il risanamento in modo incostituzionale, fuori dalla legge.

Perché la Costituzione dello Stato dice che i territori indigeni sono inalienabili, irreversibili, non sequestrabili, ma soprattutto indivisibili. Questo esempio chiarisce la natura di questo governo al quale non importa la tematica dei popoli indigeni, e che al contrario sottomette, impone, punisce.

Noi popoli dell’Oriente boliviano non abbiamo nulla contro i fratelli delle culture andine, quechua e aymara, che questo governo sta spingendo a invadere i nostri territori.

Cosa è successo a Adolfo Chávez, ex presidente della Confederazione dei Popoli Indigeni di Bolivia (CIDOB), invitato alla Cop26 in rappresentanza dei popoli amazzonici, al quale è stato impedito di partire per un ordine della procura boliviana che lo ha coinvolto in una vicenda legata all’ex Fondo Indígena?

Adolfo Chávez è responsabile di una delegazione su incarico del Coordinamento delle

Organizzazioni indigene della Conca Amazzonica (COICA), è il coordinatore internazionale. Allo stesso tempo è partecipante di questa marcia. Ha avuto pertanto incarico di presentare tutta la documentazione dei motivi e degli obiettivi della marcia alla Cop26. Però, visto che

contemporaneamente stava lì il presidente della Bolivia, ciò ha fatto sì che al nostro delegato fosse impedito di partecipare. Questo è quanto è accaduto a Chávez.

E’ solo un’impressione o corrisponde a verità che le marce indigene abbiano un minore appoggio internazionale rispetto a quanto accadeva prima dei governi del Movimiento al Socialismo (MAS)?

In tutti questi quattordici anni durante il quale ha governato il MAS quello che ha fatto è stato smontare tutte le relazioni, a partire dalle stesse strutture istituzionali del popolo indigeno.

Prendendo di mira l’appoggio della comunità internazionale con la quale noi abbiamo avuto

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relazione diretta, sospendendo permessi di lavoro e di aiuto internazionale.

Corrisponde al vero che le ONG e le entità internazionali siano state intimidite dai governi del MAS affinché facessero mancare il loro appoggio alle marce indigene? A quanto è dato sapere, avete avuto parecchi problemi di alimentazione e di salute durante il percorso.

Stiamo lavorando affinché la comunità internazionale presti nuovamente ascolto a queste

problematiche che sono alla base della nostra marcia, per le quali siamo da più di trenta giorni a Santa Cruz. Stiamo concretizzando canali di aiuto e cooperazione da parte della comunità

internazionale, e io sono ottimista. Oggi abbiamo avuto delle difficoltà rispetto alle necessità che sono emerse durante la marcia, e siamo ora ospitati in un ambiente dell’Universidad Autónoma Gabriel René Moreno. Ma grazie a dio, la comunità locale, la popolazione si muovono e ci stanno portando aiuti. Tuttavia è necessario che la comunità internazionale ci ascolti e si unisca a questa causa per la difesa dell’ambiente, dei diritti della natura che le nostre organizzazioni sostengono.

Perché la difesa della foresta e dell’Amazzonia, che è patrimonio dell’umanità, è un diritto umano.

Da parte nostra rinnoviamo l’impegno a continuare in questa battaglia che, per quanto ci riguarda, assume anche il significato di difendere il nostro spazio vitale.

Le foto che illustrano l’articolo sono di Jorge N. Gutierrez.

L’Autore e la direzione di ytali. lo ringraziano sentitamente.

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