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La Ricerca in Italia

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Academic year: 2021

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G It Diabetol Metab 2011;31:104-107

Il difetto predominante nell’intolleranza al glucosio è una ridotta sensibilità della beta-cellula al glucosio anziché un’inadeguata compensazione dell’insulino-resistenza Mari A1, Tura A1, Natali A2, Laville M3, Laakso M4, Gabriel R5, Beck-Nielsen H6, Ferrannini E2 per lo studio RISC

1Istituto di Ingegneria Biomedica del CNR, Padova; 2Dipartimento di Medicina Interna, Università di Pisa e Istituto di Fisiologia Clinica del CNR, Pisa; 3CRNH RA, Lyon 1 University, INSERM U 870, iNRA 1235, Hospices Civils de Lyon, Lyon, France; 4Department of Medicine, University of Kuopio, Kuopio, Finland; 5Unidad de Investigacion, Hospital Universitario La Paz, Madrid, Spain; 6Department of Endocrinology M, Odense University Hospital, Odense, Denmark

Diabetologia 2010;53:749-56

A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?

Lo studio ha riguardato la relazione tra funzione beta-cellulare e insulino-resistenza e le sue alterazioni nell’intolleranza al glucosio.

Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?

L’esistenza di una risposta compensatoria all’insulino-resistenza della beta-cellula era nota sin dal 1962. Gli studi più recenti hanno radicato l’idea che la compensa- zione riguardi tutti gli aspetti della risposta beta-cellulare e la sua compromissione sia la base dell’intolleranza al glucosio. Nel 2005 (Ferrannini E et al. JCEM 90:493- 500) avevano invece suggerito che la relazione secrezione-sensibilità riguardasse principalmente il tono secretorio basale e non la sensibilità della beta-cellula al glu- cosio (capacità di rispondere agli incrementi glicemici). Questo studio includeva però un numero limitato di soggetti.

Sintesi dei risultati ottenuti

Lo studio in più di mille soggetti normotolleranti e 150 con tolleranza ridotta ha con- fermato i risultati del 2005. Inoltre, si è mostrato che la sensibilità della beta-cellu- la è considerevolmente ridotta nell’intolleranza (~40%), mentre la compensazione del tono secretorio basale è conservata.

In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?

Questo studio su un gran numero di soggetti dimostra che l’intolleranza al gluco- sio non è associata a un difetto di compensazione, ma a un’intrinseca disfunzione della cellula beta.

Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?

Rimangono indeterminate le ragioni della disfunzione e della dissociazione tra tono secretorio basale e sensibilità al glucosio.

Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?

No.

Gli analoghi dell’insulina attivano in maniera differente le isoforme del recettore insulinico e la trasduzione del segnale post-recettore

Sciacca L, Cassarino MF, Genua M, Pandini G, Le Moli R, Squatrito S, Vigneri R

Endocrinologia, Dipartimento di Medicina Interna e Medicina Specialistica, Università degli Studi di Catania, Ospedale

Garibaldi-Nesima, Catania Diabetologia 2010;53:1743-53

A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?

Gli analoghi dell’insulina, sia ad azione rapida (aspart, glulisina e lispro) sia ad azio- ne prolungata (glargine e detemir), per le modifiche della loro struttura interagisco- no in modo lievemente diverso con i recettori e pertanto possono avere effetti bio- logici leggermente diversi. Questo studio ha analizzato la loro interazione con i diversi recettori (IR, recettore dell’insulina isoforma A e B e IGF-IR, recettore di IGF-I), e anche la stimolazione delle vie di segnalazione intracellulari e gli effetti sulla cre- scita delle cellule.

Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?

I dati della letteratura sono eterogenei (diversi modelli), incompleti (mancano gli effetti specifici sui diversi recettori) e spesso controversi.

Sintesi dei risultati ottenuti

Utilizzando modelli cellulari ingegnerizzati che esprimono solo uno dei tre recettori studiati, si osserva che gli analoghi ad azione breve si comportano sostanzialmen- te come l’insulina, mentre quelli ad azione prolungata interagiscono maggiormen- te con IR-A e IGF1R e attivano maggiormente la via mitogena e di meno quella metabolica. Conseguentemente aumentano la proliferazione cellulare. Alle concen- trazioni utilizzate, nessun analogo ha mostrato attività trasformante (mutagena).

In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?

a) Utilizzando modelli cellulari che, esprimendo un solo recettore che lega l’insulina, eliminano le interferenze degli altri recettori.

La Ricerca in Italia

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b) Per la prima volta hanno comparato gli effetti molecolari e biologici di tutti gli analoghi nello stesso sistema.

Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?

I dati ottenuti in vitro nelle cellule non necessariamente riflettono esattamente quel- lo che succede quando gli analoghi sono usati nei pazienti dove il farmaco inietta- to viene metabolizzato e ha cinetiche diverse. Tuttavia, questo lavoro fornisce le basi biologiche per indirizzare meglio ricerche cliniche e farmacologiche, al fine di chiarire i dubbi sul maggiore effetto mitogeno degli analoghi dell’insulina ad azione prolungata.

Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?

No. Tuttavia viene confermato il rischio di un’aumentata attività mitogena degli ana- loghi dell’insulina ad azione prolungata che consiglia un attento follow-up dei pazienti trattati con questi analoghi.

L’inibitore orale di DPP-4 sitagliptin aumenta il livello delle cellule progenitrici circolanti in pazienti con diabete di tipo 2:

possibile ruolo di SDF-1alfa Fadini GP, Boscaro E, Albiero M, Menegazzo L, Frison V, de Kreutzenberg S, Agostini C, Tiengo A, Avogaro A

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Padova, Padova Diabetes Care 2010;33:1607-9

A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?

Le cellule progenitrici endoteliali (CPE) svolgono un ruolo protettivo nell’apparato car- diovascolare, partecipando alla riparazione dell’endotelio e alla formazione di nuovi vasi sanguigni. Le CPE circolanti sono ridotte in pazienti con diabete mellito di tipo 2 e tale alterazione sembra essere coinvolta nello sviluppo delle complicanze micro- e macrovascolari. Per tali motivi, l’individuazione di nuove terapie in grado di migliora- re il livello delle CPE circolanti nel diabete assume una particolare rilevanza.

Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?

È stato precedentemente dimostrato che l’enzima DPP-4 ha tra i suoi substrati la chemochina SDF-1alfa. SDF-1alfa rappresenta una delle più importanti molecole che regolano il livello di CPE circolanti, soprattutto determinando il rilascio delle CPE dal midollo osseo al sangue periferico. Appariva pertanto razionale valutare l’effetto del- l’inibizione di DPP-4 sulle concentrazioni di SDF-1alfa e quindi sul livello di CPE.

Sintesi dei risultati ottenuti

In un piccolo trial clinico, i pazienti sono stati trattati con sitagliptin (n. = 16) oppu- re hanno proseguito la terapia antidiabetica abituale (n. = 16). All’inizio dello studio e dopo 4 settimane di terapia sono stati misurati i livelli di CPE e le concentrazioni di SDF-1alfa. Abbiamo dimostrato che la terapia con sitagliptin era seguita da un significativo aumento dei livelli di CPE e delle concentrazioni di SDF-1alfa, mentre non si osservavano modificazioni significative nel gruppo di controllo.

In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?

Abbiamo quindi avuto la possibilità di dimostrare un effetto ancillare della terapia con un DPP-4 inibitore sulle CPE, un parametro molto importante nella regolazio- ne della funzione cardiovascolare. Questi dati mettono anche in luce il fatto che l’attività di DPP-4 su SDF-1alfa ha un ruolo fisiopatologico e può essere sfruttata clinicamente.

Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?

I meccanismi tramite cui sitagliptin agisce sulle CPE non è del tutto chiaro. Lo stu- dio suggerisce che tale effetto sia diretto e non dipenda dal miglioramento del con- trollo glicemico, né dal sistema dell’ossido nitrico, mentre non è possibile esclude- re un concomitante effetto antinfiammatorio. Rimane inoltre da definire se l’incremento delle CPE si traduce in protezione dalle malattie cardiovascolari e dalle complicanze del diabete.

Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?

Se tali dati fossero confermati da hard endpoint, sarebbe possibile ipotizzare che l’effetto ancillare delle terapie antidiabetiche sulle CPE rappresenti un metro di valu- tazione delle proprietà pleiotropiche di tali farmaci. Al momento, questi dati suppor- tano indirettamente l’utilizzo degli inibitori di DPP-4 per ottenere una migliore pro- tezione cardiovascolare nel paziente diabetico.

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Analisi della sensibilità all’insulina nel tessuto adiposo di pazienti

con iperaldosteronismo primario Urbanet R1, Pilon C1, Calcagno A1, Vettor R1, Zennaro MC2,

Hubert EL2, Giacchetti G3, Gomez-Sanchez C4, Mulatero P5, Toffanin MC6, Sonino N7, Fallo F1

1Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università degli Studi di Padova, Padova; 2INSERM, U970, Cardiovascular Research Center, Paris, France; 3Divisione di Endocrinologia, Università di Ancona, Ancona; 4GV Montgomery VA Medical Center, Jackson, MS, USA; 5Unità Ipertensione, Università degli Studi di Torino, Torino;

6Divisione di Chirurgia Plastica, Università degli Studi di Padova Padova; 7Dipartimento di Scienze Statistiche, Università degli Studi di Padova, Padova

J Clin Endocrinol Metab 2010;95:

4037-42

A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?

È stato valutato il possibile ruolo del tessuto adiposo nella patogenesi dell’insulino- resistenza nei pazienti con iperaldosteronismo primario.

Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?

L’eccesso di aldosterone nell’iperaldosteronismo primario è associato a insulino- resistenza, suggerendo che l’alta prevalenza di eventi cardiovascolari nei pazienti con tale malattia possa essere dovuta a un’aumentata prevalenza di sindrome metabolica. Il tessuto adiposo, in particolare quello viscerale, è uno dei maggiori tessuti “bersaglio” sospettati come responsabili della ridotta sensibilità all’insulina a livello sistemico.

Sintesi dei risultati ottenuti

L’espressione nel tessuto adiposo viscerale (omento) dei recettori dei mineralcorti- coidi e di una serie di fattori infiammatori e/o coinvolti nel segnale insulinico non è risultata diversa nei pazienti con iperaldosteronismo primario operati per adenoma surrenalico producente aldosterone in confronto a quella di soggetti operati per neoplasie surrenaliche non funzionanti. In adipociti umani in coltura (da soggetti obesi sottoposti ad addomino-plastica), la captazione del glucosio insulino-stimo- lata non è stata influenzata da concentrazioni fisiologiche o patologiche di aldoste- rone.

In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?

I risultati hanno permesso di escludere un ruolo del tessuto adiposo nella patoge- nesi dell’insulino-resistenza sistemica dei soggetti con iperaldosteronismo primario.

Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?

Verificare se l’insulino-resistenza sistemica nei pazienti con iperaldosteronismo pri- mario possa derivare da altri fattori presenti nel microambiente biologico in vivo (per es. ipopotassiemia) o da alterazioni del metabolismo del glucosio in altri comparti- menti dell’organismo, per esempio fegato o muscolo scheletrico.

Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?

Considerare con attenzione possibili alterazioni del metabolismo del glucosio nei pazienti con iperaldosteronismo primario.

La Ricerca in Italia 106

Studio randomizzato controllato sull’efficacia di un walker removibile vsun apparecchio di scarico in vetroresina non removibile nella guarigione di ulcere neuropatiche plantari di diabetici

Faglia E, Caravaggi C, Clerici G, Sganzaroli A, Curci V, Vailati W, Simonetti D, Sommalvico F Diabetic Foot Center, Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico Multimedica, Sesto San Giovanni, Milano;

Centro Interdipartimentale per la cura del Piede Diabetico, Istituto Clinico Città Studi Milano, Milano

Diabetes Care 2010;33:1419-23

A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?

Lo studio analizza l’efficacia di un walker di scarico removibile vs l’apparecchio di scarico in vetroresina non removibile (total contact cast, TCC) in pazienti diabetici con ulcere neuropatiche plantari dell’avampiede.

Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?

Ormai da molti anni è noto che il golden standard nella cura delle ulcere neuropa- tiche plantari è il TCC; tuttavia il suo uso è sempre stato limitato a causa della dif- ficoltà nel suo confezionamento, nella scarsa accettazione del paziente e nella pos- sibile formazione di ulcere da decubito al di sotto di tale apparecchio. Nuovi devi- ce non removibili hanno anch’essi dimostrato un’efficacia non inferiore al TCC con il vantaggio di essere più facilmente utilizzabili e accettati dal paziente oltre che meno costosi rispetto al TCC.

Sintesi dei risultati ottenuti

L’utilizzo di un walker di scarico removibile si è dimostrato altrettanto efficace nella guarigione delle ulcere neuropatiche plantari dell’avampiede quando comparato al TCC.

In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?

Il problema dello scarico di un’ulcera neuropatica plantare ottenuto attraverso l’uso di device removibili e non removibili è un argomento attualmente discusso in quan- to i risultati sinora acquisiti sono discordanti rispetto a quanto ottenuto dal presen-

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te studio. Sembrerebbe infatti dagli studi precedenti che la rimovibilità sia diretta- mente causa di una minore efficacia del trattamento, mentre nello studio attuale il walker removibile si è dimostrato non inferiore al TCC non removibile. La spiega- zione di questi diversi risultati potrebbe essere che molti dei pazienti arruolati in questo studio avevano già avuto ulcere al piede in precedenza, e come tali erano molto più consapevoli del problema e di conseguenza più attenti all’adesione tera- peutica.

Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?

Verosimilmente quello che fa la differenza in termini di efficacia non è la rimovibilità di per sé dei device, ma la compliance dei pazienti; pazienti affidabili, motivati e coscienti del problema e delle possibili complicanze in assenza di una guarigione rapida sono probabilmente quelli a cui è possibile fornire un device removibile in quanto molto più probabile l’adesione al programma terapeutico.

Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?

I risultati di questo studio potrebbero indicare il pattern di pazienti in cui è più indi- cato prescrivere un device di scarico removibile o non removibile e quindi calibra- re la terapia a seconda della compliance del paziente.

Effetti della perdita di peso, ottenuta tramite bendaggio gastrico, sui livelli di TSH e delle frazioni libere degli ormoni tiroidei nei soggetti obesi con normale funzione tiroidea Dall’Asta C1,2, Paganelli M3, Morabito A4, Vedani P5, Barbieri M6, Paolisso G6, Folli F7, Pontiroli AE1,2

1Medicina Interna, Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Odontoiatria, Università degli Studi di Milano, Milano; 2Divisione di Medicina Generale 2°, AO San Paolo, Milano;

3Divisione di Chirurgia, IRCCS San Raffaele, Milano; 4Statistica Medica, Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Odontoiatria, Università degli Studi di Milano, Milano; 5Divisione di Medicina Interna, IRCCS San Raffaele, Milano; 6Dipartimento di Gerontologia, Geriatria e Malattie del Metabolismo, Seconda Università di Napoli, Napoli;

7Diabetes Division, Department of Medicine, University of Texas Health Science Center at San Antonio, San Antonio, Texas, USA Obesity (Silver Spring) 2010;18:

854-7

A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?

Lo scopo dello studio è stato quello di valutare il profilo della funzionalità tiroidea in soggetti obesi prima e dopo la perdita di peso e confrontarlo con quello di sogget- ti normopeso; i soggetti partecipanti allo studio non presentavano alcuna alterazio- ne della funzione tiroidea.

Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?

Esistono diversi dati in letteratura riguardanti la funzione tiroidea nei soggetti obesi, ma molto contrastanti: in generale i livelli di TSH sono descritti essere più elevati, mentre in merito alle frazioni libere degli ormoni tiroidei non vi è accordo.

Sintesi dei risultati ottenuti

Prima della perdita di peso nei soggetti obesi i livelli di TSH, ft4 e ft3 sono superio- ri a quelli dei soggetti normopeso, con un rapporto ft3/ft4 nella norma. Dopo una significativa perdita di peso, nei soggetti obesi è stato osservato un miglioramento di tutti i parametri metabolici, a eccezione del colesterolo totale, il cui decremento significativo è associato a perdite di peso > 10% del peso iniziale. Nel gruppo dei soggetti obesi, dopo perdita di peso, si assiste a un incremento dei livelli di ft4, un decremento dei livelli di ft3, mentre quelli di TSH rimangono stabili. I parametri della funzione tiroidea non sembrano correlati alle variabili metaboliche in condizioni basali, mentre dopo perdita di peso è possibile osservare tale correlazione.

In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?

L’importanza di questi dati risiede nell’ipotesi che le variazioni della funzione tiroi- dea osservate prima e dopo la perdita di peso siano “parafisiologiche”, ovvero che vi sia un’autoregolazione della funzione tiroidea in base al peso indipendente dalle altre variabili metaboliche. È verosimile che tale autoregolazione dipenda dall’attivi- tà delle desiodasi.

Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?

Studi prospettici condotti su grandi numeri di soggetti prima e dopo perdita di peso, tramite interventi sia restrittivi sia malassorbitivi, potrebbero permettere di confermare o confutare la teoria per cui queste variazioni della funzione tiroidea siano un meccanismo adattativo a opera delle desiodasi.

Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?

Numerosi sono i benefici della chirurgia bariatrica e della perdita di peso. In sog- getti con funzione tiroidea normale, la chirurgia bariatrica non comporta rischi di alterazione della funzione tiroidea.

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