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Cf. soprattutto Maas Sulla storia della teoria stemmatica, vd. in particolare Timpanaro

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Il metodo della filologia (ovvero, le regole del gioco)

(Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà, “Patres. Un metodo per il dialogo tra le culture. La chresis patristica”, 15.5.2019 – camillo.neri@unibo.it)

1. Quello del filologo è un mestiere umile e rigoroso, che – poiché non esistono autografi dei classici greci e latini almeno sino a Eustazio (XII sec. d.C.) e tutti i testi pervenuti sono gli esiti di un secolare processo di copiatura che ha inevitabilmente introdotto errori, deformazioni, modificazioni – si propone in sostanza di:

1) ricostruire la storia della tradizione di un testo (tutte le fonti, tutte le tappe),

2) ricostruirne lo stato più vicino possibile all’originale (stabilendo volta a volta sin dove si può arrivare),

3) dare conto di ciò nel modo più preciso e sintetico possibile1.

2. L’oggetto delle cure di un filologo sono dunque i testi e la loro tradizione: i testi possono essere tramandati o non tramandati, e pertanto ciò che occorre fare in primis è stabilire ciò che è (o vale come) tramandato (recensio), quale grado di prossimità abbia con l’originale (examinatio), e infine quali guasti presenti e come da tali guasti possa essere ricostruito l’originale (emendatio)2. In quest’opera di ricostruzione, mette conto segnalare come gli ‘errori’ siano tanto il nemico da sconfiggere (per ‘risalire’ il più possibile verso l’‘originale’), quanto gli alleati cui appoggiarsi (perché sono la spia principale di come la tradizione si sia dipanata).

I tipi di tradizione, al netto di molte complicazioni, sono essenzialmente due.

1) La tradizione diretta, quando uno o più testi di uno o più autori sono stati trasmessi in quanto tali, per sé soli e per lo più nella loro interezza (ma talora in forma di excerpta in antologie ed epitomi). I testimoni del testo, per gli autori antichi greci e latini, sono di norma manoscritti pergamenacei o cartacei in forma di codice di età tardo-antica, medioevale o umanistico-rinascimentale, ma vi sono anche testimoni papiracei (talvolta pergamenacei) in forma di rotolo (dal IV sec. a.C. al VII d.C.), quasi sempre fisicamente frammentari, e persino testimoni epigrafici, per testi – com’è facile intuire – non troppo lunghi3. Se il testimone è unico, si tratta di decifrarlo e descriverlo nel modo più accurato possibile. Se vi sono più testimoni, le cose si complicano. Quando ogni testimone si può considerare copiato da un solo altro testimone e tutta la tradizione può essere rappresentata tramite uno stemma (o albero genealogico) dove i rapporti tra i testimoni sono tutti verticali, e permettono di ricostruire il progenitore comune all’intera tradizione (‘archetipo’), si ha allora una recensione ‘chiusa’ (o ‘meccanica’)4. In caso contrario, quando cioè uno o più testimoni sono stati realizzati attraverso la collazione di altri due o più testimoni, almeno uno dei quali non ricostruibile, e i rapporti tra testimoni sono sia verticali che orizzontali, sì che non può essere ricostruito un unico archetipo per l’intera tradizione, si ha allora una recensione ‘aperta’ (o ‘contaminata extrastemmaticamente’, il che avviene nella maggioranza dei casi)5. Quando una recensione è ‘aperta’ non è possibile praticare quell’opera di semplificazione nota come eliminatio codicum descriptorum, cioè l’esclusione dal novero dei testimoni utili alla ricostruzione di quelli certamente copiati da uno o più antigrafi già noti, e quindi portatori di testo già conosciuto e di nuovi errori (tutt’al più, essi possono essere utili per buone congetture dei loro scribi o dove il loro modello sia diventato illeggibile)6.

1 I concetti fondamentali sono in tutte le (poche) opere citate in bibliografia: si vedano, in particolare, Maas 2017, 1s.; West 1991, 13-17. Sulla partizione storico-cronologica della tradizione dei classici, si vedano Wilamowitz 1967, Pfeiffer 1973, Rizzo 1973, Canfora 1974, Bossi 1992, Reynolds-Wilson 2016.

2 Vd. § 3.

3 Sui manoscritti antichi, vd. in particolare Turner(-Parsons) 1987.

4 Cf. soprattutto Maas 2017. Sulla storia della teoria ‘stemmatica’, vd. in particolare Timpanaro 2010.

5 Su ambiguità e limiti della terminologia pasqualiana (cf. Pasquali 1952, 126) per indicare rispettivamente recensione ‘meccanica’ e recensione ‘extrastemmaticamente contaminata’, si vedano gli opportuni rilievi di Alberti (1979, 1-18), che non hanno tuttavia scalfito l’ormai invalso usus tradizionale.

6 Sulla tradizione diretta, si vedano in particolare Kenney 1995 e Reeve 2011.

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2) La tradizione indiretta, quando un testo o più spesso una sua porzione si trovino incapsulati all’interno di un altro testo, che li ‘contiene’ (e quasi sempre li depriva del loro contesto originario), rendendone la fruizione, per così dire, ‘di seconda mano’ (o di terza, quarta, etc., a seconda che il testo contenitore attinga direttamente al testo contenuto o meno). La forma più usuale e caratteristica in cui si presenta un testo di tradizione indiretta è il ‘frammento’ (per quanto possano essere trasmessi così anche testi interi, ovviamente per il solito non lunghi, come per esempio il cosiddetto ‘fr.’ 1 di Saffo), ma quando a essere tramandate in questa forma non siano le parole esatte dell’autore ripreso, ma piuttosto una loro parafrasi o una notizia su un contenuto specifico e parziale della sua opera, si parla allora di frammenti ‘di contenuto’ o sine verbis, mentre quando a essere riportate siano notizie sull’autore del testo ripreso o sugli assetti esterni e/o generali della sua opera si parla piuttosto di testimonianze, spesso trascurate ma non di rado foriere di dati più ricchi di quelli degli stessi frammenti7. La funzione più tipica che determina la tradizione indiretta è quindi la citazione (ma in questo sfumato dominio rientrano anche le traduzioni, le imitazioni, le parafrasi, le allusioni intenzionali, le parodie, e in casi particolari persino i paralleli topici), che a sua volta può essere di natura letteraria, storica, filosofica, antiquario-erudita, scoliografico-esegetica, onomastica, lessicografica, grammaticale, paremiografico-proverbiale, e avere contenuto concettuale, lessicale, grammaticale, retorico, stilistico, metrico e altro ancora. Il contesto citante, poi, può esercitare un effetto più o meno distorsivo sulle parole autentiche del testo citato, con una gamma che va – di norma – dal grado minimo di distorsione nei florilegi (come quello di Giovanni Stobeo [V sec. d.C.], che si limita a raggruppare le citazioni in capitoli e sotto- titoli tematici) al grado massimo nelle parodie (per esempio quelle aristofanee dei poeti lirico-corali negli Uccelli) o nella critica filosofica (come nella citazione-esegesi di Simonide, PMG 542 in Platone, Protagora 339a-346d). Le ragioni e le modalità della citazione, cioè, possono interferire sia sul ‘nucleo’ della citazione (cioè il più forte trait d’union tra il testo citato e il suo contesto di arrivo), di norma meno soggetto a deformazioni e corruzioni, sia sull’‘alone’ (cioè la parte del testo citato meno essenziale per il contesto d’arrivo), al solito più facilmente deformabile e corruttibile. Rispetto alla tradizione diretta, per altro, in quella indiretta errori e corruzioni possono situarsi a più livelli, generandosi tra l’autore citato e l’autore citante (che riprenderebbe allora un testo già corrotto), o nella memoria (spesso nella volontà di adattamento al contesto di arrivo) dell’autore citante (e in questi casi si dovrà ecdoticamente correggere nell’autore citato ma non nell’autore citante), o ancora nella tradizione dell’autore citante (e in tal caso si dovrà correggere in entrambi gli autori). Come si vede, il lavoro sui ‘frammenti’ di tradizione indiretta è particolarmente difficile e controverso, e proprio per questo particolarmente fascinoso per i filologi8.

Varrà la pena di precisare che a) malgrado la maggiore precarietà ed esposizione all’errore della tradizione indiretta, non vi è necessariamente una differenza qualitativa tra i due tipi di tradizione; b) non sono pochi gli autori tràditi sia direttamente (attraverso manoscritti e papiri delle loro opere)9, sia indirettamente (attraverso ‘citazioni’, da cui è possibile evincere come la tradizione indiretta non sia sempre deteriore); c) i testi tràditi indirettamente sono comunque sottoposti alla tradizione diretta degli autori e delle opere che li trasmettono, e con ciò a tutte le problematiche che la caratterizzano.

3. Il metodo del filologo al lavoro riguarderà dunque la raccolta, l’organizzazione e la presentazione dei dati relativi al testo o ai testi di cui si sta occupando:

1) La raccolta deve riguardare tutti i dati (tutte le fonti, tutte le tradizioni, tutte le tappe) utili alla ricostruzione del testo. Nel caso di tradizione diretta occorrerà raccogliere

7 In questi casi, benché la parola usata sia la stessa, la nozione di ‘frammento’ designa ciò che è stato reso tale dalle modalità indirette in cui il testo è stato tràdito, non dalle ingiurie del tempo su un supporto materiale, come nel caso dei frammenti papiracei (o pergamenacei, o cartacei, o palinsesti, o epigrafici, etc.), che possono viceversa essere frammenti di tradizione diretta: vd. punto 1).

8 Sulla tradizione indiretta è ancora imprescindibile Tosi 1988.

9 Per i rapporti (anche stemmatici) tra codici medioevali e papiri, è ancora utile Collomp 1931.

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tutti i manoscritti e anche tutte le edizioni (quanto meno le più antiche, specie quando non si sia certi che si fondino su manoscritti noti, e le più autorevoli) dell’autore o dell’opera oggetto del proprio studio: a questo proposito saranno di aiuto i cataloghi dei manoscritti greci e latini delle varie biblioteche10, i repertori bibliografici11, e la biblioteca (che sarà definitivamente chiusa al pubblico dal 12.7.2019) dell’Institut de Recherche d’Histoire des Textes, che può offrire aiuto e microfilms al ricercatore che ne faccia richiesta12. Nel caso di tradizione indiretta, bisognerà collezionare tutti i frammenti (testuali e di contenuto) e tutte le testimonianze dell’autore o dell’opera oggetto del proprio studio: alla bisogna, gioveranno anche i repertori dei nomi propri e le principali banche-dati dei testi greci e latini13. È la fase, in senso lato, della recensio.

2) L’organizzazione dei dati ne prevede un esame accurato (examinatio), volto soprattutto a determinare quali testimoni siano portatori indipendenti di tradizione e quali no14, e una diagnosi, con la selezione di quelli che hanno più probabilità di essere originari (selectio) e/o la divinazione di ciò che potrebbe essere originario in presenza di un errore che abbia affetto l’intera tradizione (emendatio)15: sono le fasi, strettamente collegate, di quella ‘lotta verso l’alto’ (cioè, almeno tendenzialmente, verso l’originale) che è la quotidiana occupazione del filologo.

Quando si ha a che fare con la tradizione indiretta, occorre distinguere in primo luogo tra frammenti testuali, frammenti di contenuto e testimonianze (il che non sempre è semplice, e talvolta, come nel caso di Saffo, è quasi impossibile) e restituire il testo dell’autore citato a partire dal contesto citante e della sua tradizione (che andrà all’occorrenza esaminata come ogni tradizione diretta). Quando si ha a che fare con la tradizione diretta, occorre procedere al confronto tra i testimoni (collatio) e – con l’aiuto

10 Ancora utile in proposito è M. Richard, Répertoire des bibliothèques et des catalogues de manuscrits grecs, […], par Jean-Marie Olivier, Turnhout 19953 (Paris 19481, 19582). Per i papiri letterari, il catalogo di R. Pack e P. Mertens (<http://cipl93.philo.ulg.ac.be/Cedopal/MP3/dbsearch_en.aspx>) e il Leuven Database of Ancient Books di W. Clarysse (<https://www.trismegistos.org/ldab/>).

11 Per il periodo da oggi al 1925, le bibliographische Beilagen sui numeri dispari (quattro all’anno) della rivista ««Gnomon. Kritische Zeitschrift für die gesamte klassische Altertumswissenschaft» (vd. anche

«Lustrum», con bibliografie ragionate dal 1957). Da un anno e mezzo fa al 1914, l’Année Philologique.

Bibliographie critique et analytique de l’antiquité gréco-latine, Paris 1927- (1924-) + J. Marouzeau, Dix années de bibliographie classique. Bibliographie critique et analytique de l’antiquité gréco-latine, Paris 1927 (1924-1914). Dal 1914 al 1896, S. Lambrino, Bibliographie de l’antiquité classique, Paris 1951 (cf.

pure Bibliotheca philologica classica, in «JAW» e «JFClA» di K. Bursian, dal 1873 a metà degli anni ’30).

Dal 1896 al 1878, R. Klussmann, Bibliotheca Scriptorum Classicorum et Graecorum et Latinorum, Lipsiae 1909-1912. Dal 1878 al 1700, W. Engelmann-E. Preuss, Bibliotheca Scriptorum Classicorum, I-II, Lipsiae 1880-18828. Dal 1830 alle prime edizioni a stampa, S.F.W. Hoffmann, Bibliographisches Lexikon der gesamten Literatur der Griechen, I-III, Leipzig 1838-18452; F.L.A. Schweiger, Bibliographisches Lexikon der gesamten Literatur der Römer, I-II, Leipzig 18342. Dal 1700 (poi dal 1790 ca.) alle prime edizioni a stampa, J.A. Fabricius, Bibliotheca Graeca, Hamburgi 17051, 1790-18094 (a c. di C.G. Harles), Bibliotheca Latina, Venetiis 17281, Lipsiae 1773-17742, Bibliotheca Latina mediae et infimae aetatis, Florentiae 1858- 18594 (a c. di C. Schöttgen).

12 Vd. comunque il portale “Pinakes” (<https://pinakes.irht.cnrs.fr/>).

13 In particolare, per il greco, il Wörterbuch der griechischen Eigennamen curato da W. Pape-G.E. Benseler, Braunschweig 18623, e il Lexicon of Greek Personal Names (<http://www.lgpn.ox.ac.uk/>). Per le banche- dati, si vedano soprattutto il Thesaurus Linguae Graecae di Irvine (<http://stephanus.tlg.uci.edu/> per il greco e i databases del portale Brepolis (<http://www.brepolis.net/>) per il latino. Varrà la pena di notare incidentalmente, qui, come gli strumenti informatici si siano rivelati di straordinaria utilità nella fase della ricognizione e della localizzazione bibliografica, nell’accesso alle (e nelle ricerche testuali e metatestuali sulle) fonti primarie, nell’automatizzazione di alcune fasi dei processi di indicizzazione, creazione di concordanze, collazione di fonti e testimoni, semplificando e velocizzando molte procedure, nonché nella presentazione editoriale (si pensi alle edizioni ipertestuali) e nella didattica (si pensi alle molteplici possibilità di integrazione di più media), ma non si siano ancora potuti sostituire al giudizio critico dello studioso. Cf. soprattutto Perilli 1995.

14 Vd. Tosi 1988, 52s. (con esempi e bibl.).

15 L’emendatio – lungi dall’essere un’attività ludica e frivola – è necessaria ogni volta che l’examinatio non stabilisca che la tradizione è la migliore possibile e può avere altresì un valore meramente diagnostico, tutte le volte che senso della lingua, dello stile, della metrica e del ritmo prosastico, come pure dell’intimo significato di un passo possono portare a sospettare anche di una tradizione apparentemente sana e a chiedersi che cosa l’autore avrebbe voluto dire e come avrebbe potuto esprimerlo. Naturalmente, bisogna guardarsi dall’‘abbellire’ i testi e/o dall’uniformarli a parametri troppo rigidi. Cf. Havet 1911, 11-23, West 1991, 56-59 e Maas 2017, 13-23. Se la tradizione è corrotta ed emendabile in più modi equivalenti non resta che localizzare la corruttela con la crux († per una parola) o le cruces (†…† per una porzione di testo).

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delle lacune, delle corruzioni e delle lezioni secondarie più significative (la concordanza in lezione giusta non dimostra alcuna parentela) – procedere a determinarne le relazioni reciproche, e dove possibile a rappresentarle in uno stemma genealogico16. Nel caso di recensioni ‘chiuse’ (‘meccaniche’), è la natura dello stemma ricostruito a guidare le scelte del filologo17: se lo stemma è tripartito (o polipartito), l’accordo di due rami contro il terzo (o della maggioranza dei rami contro la minoranza) restituisce automaticamente la lezione dell’archetipo, che non è necessariamente anche quella originale, ma a questo punto solo lo iudicium del filologo potrà deciderne; se lo stemma è bipartito, la lezione dell’archetipo e/o quella originale potrà essere stabilita solo tramite lo iudicium. Nel caso di recensioni ‘aperte’ (‘contaminate extrastemmaticamente’), si può applicare un metodo empirico (e come tale fallibile): a) compilare un elenco di luoghi testuali caratterizzati dalla presenza di varianti significative; b) osservare quali manoscritti non concordino mai (o concordino di rado) in errore tra loro e siano quindi più verosimilmente portatori di lezioni antiche non contaminate: adottarli; c) identificare attraverso il confronto delle varianti quali lezioni appaiano antiche/autentiche e non frutto di congettura, e adottare per la constitutio textus i manoscritti che ne sono l’unica fonte; d) eliminare dall’elenco delle varianti le lezioni per cui i manoscritti così adottati possono servire da fonte, e ripetere c) e d) finché ogni antica lezione e ogni suo testimone risultino empiricamente identificati; e) eliminare i manoscritti residui dalla constitutio textus18.

Una volta determinati i rapporti tra i vari testimoni di una tradizione testuale e ricostruito nei limiti del possibile il suo punto di partenza (il cosiddetto ‘archetipo’ o ‘più prossimo antenato comune dell’intera tradizione’19), occorre diagnosticare quale fosse l’aspetto dell’originale, tentando di risolvere i problemi testuali residui. La soluzione di un problema testuale, sia essa affidata a una selectio tra le lezioni tràdite o a un’emendatio congetturale, deve sempre rispondere a tre requisiti: a) deve restituire il senso che l’autore intendeva comunicare, così come si può ricostruirlo dal contesto; b) deve rispettare l’uso di scrittura dell’autore quanto a lingua, stile, metro, ritmo prosastico, etc. (usus scribendi);

c) deve spiegare la genesi dell’errore (ratio corruptelae), cioè come si siano generate le lezioni erronee trasmesse dai vari testimoni20.

Per quanto riguarda il requisito c), bisogna tenere in conto le diverse tipologie attestate di variazione testuale e di errore21: varianti di autore; adattamenti in contenuto, lingua, stile, ritmo, ortografia operati dalla tradizione; errori metrici22; errori mnemonici;

spiegazioni e annotazioni marginali (anche di passi paralleli) penetrate nel testo (‘glosse intrusive’ e ‘sostitutive’, non sempre per altro nel punto ‘giusto’); trasposizioni testuali dovute al passaggio da un esemplare a due colonne di scrittura a uno a unica colonna e viceversa; errori e lapsus mentali, quali banalizzazioni sintattiche (simplex ordo) o linguistico-grammaticali (per es., nelle campagne modenesi, parto di San Cesario per parto cesareo, o l’invalso aurea per aura), errori di assimilazione e scritture-eco (per l’influenza di qualche parola vicina nel contesto); trasposizioni di lettere o sillabe (anasillabismi), aplografie (quando si scrive una volta sola ciò che occorrerebbe scrivere due o più volte, come per es. la parola, ormai entrata nell’uso italiano, idolatra per idololatra, o megalattico per megagalattico), dittografie (duplicazioni di lettere, sillabe, parole, sequenze), ‘salti dal medesimo al medesimo’ (quando parole o frasi uguali o simili compaiono a poca distanza nel testo), omissioni determinate da identità o somiglianze verbali in fine (omeoteleuto) o in inizio (omeoarcto) di verso o di periodo; errori di lettura o anagnostici, per confusione tra lettere o gruppi di lettere in scrittura maiuscola o

16 Indicazioni molto pratiche in West 1991, 33-40, 63-73.

17 È il cosiddetto metodo meccanico di recensione, convenzionalmente noto come ‘metodo del Lachmann’, dallo studioso, Karl Lachmann (1793-1851) che lo applicò alla sua edizione di Lucrezio del 1850. Si veda in proposito, Timpanaro 2010, nonché (sulla natura equivoca di tale definizione) Fiesoli 2000.

18 Cf. West 1991, 40-48.

19 Secondo la celebre definizione di Dain 1975.

20 Cf. West 1991, 49-59.

21 Una casistica completa (per il latino, ma valida in gran parte anche per il greco) è in Havet 1911, 25-428.

Trattazioni più sintetiche (ma ‘bilingui’) in West 1991, 20-32 e in Reynolds-Wilson 2016, 229-240.

22 Celebre il vitium Byzantinum, consistente nell’assimilare la fine del trimetro giambico a un dodecasillabo bizantino (cf. West 1991, 25; Reynolds-Wilson 2016, 236).

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minuscola, o in particolari tipi di scrittura23, per erronea divisione della scriptio continua (senza spazi bianchi tra le parole), per erroneo scioglimento di compendio24, per erronea interpretazione dei numerali25. Ma soprattutto, occorre sempre chiedersi quale lezione è più verosimile che si sia corrotta nell’altra o nelle altre (utrum in alterum abiturum erat) e quale è più difficile che sia esito di corruzione (praestat difficilior lectio), due principî che sono sempre relativi (la lectio difficilior non è – come spesso si legge e si sente dire – quella più strana o astrusa) e che di fatto coincidono tra loro. L’eliminazione delle lezioni faciliores – come esito di corruzione, cioè come punto di arrivo di un processo di copia – è in questo senso, sul piano del singolo problema testuale, un processo del tutto analogo a quello dell’eliminatio codicum descriptorum e dell’eliminatio lectionum singularium dei manoscritti non indipendenti sul piano stemmatico.

3) La presentazione dei dati avviene solitamente nella forma dell’edizione critica, dove a un’introduzione in cui occorre dar conto delle nozioni essenziali su autore, opera e tradizione (e in particolare dei dati, della semiografia, delle metodiche con cui si è costituito il testo), fa séguito il testo criticamente costituito (con in margine i numeri, di 5 in 5, dei versi o dei righi)26, corredato da una o più ‘mantisse’ (con la citazione dei testimoni, dei loci similes, dell’assetto metrico, di eventuali scolî, etc.), l’apparato critico (con la registrazione dei dati rilevanti della tradizione, ivi compresi i più essenziali interventi congetturali dei moderni, in forma positiva quando vi è registrata anche la forma adottata nel testo, ovvero negativa se non lo è, e con porzioni sempre omogenee di testo messe a confronto attraverso l’uso dei due punti, preceduti e seguiti da uno spazio forzato)27, la traduzione (preferibilmente a fronte, ovvero in calce), il commento (che dovrebbe essere complementare rispetto all’apparato critico e alla traduzione, senza ripetere dati già offerti), e un robusto apparato di indici: delle parole di quell’autore o di quel testo (l’index verborum: vi sono compresi i nomi propri, che talora figurano invece in una lista a parte, e vi sono liste differenziate se più lingue sono rappresentate), delle fonti del testo (manoscritti, papiri, testimonianze di tradizione indiretta), dei passi citati (discussi) nel commento, dei nomi propri e dei concetti notevoli citati nel commento, degli studiosi moderni. Chiuderà l’opera una bibliografia il più possibile completa e funzionale, preferibilmente redatta secondo lo schema ‘di Harvard’ (o ‘all’americana’), in modo da rendere più rapide e precise – grazie all’uso delle sigle bibliografiche – le

23 Onciale greca (300 a.C.-): Α=Δ=Λ, ΑΙ=Ν, Γ=Τ=Υ, Ε=Θ=Ο=C, Η=ΕΙ, Η=Ν=Κ=ΙC, ΛΛ=Μ. Minuscola greca (IX sec.-): α=αυ, α=ει, α=ευ, β=κ=μ, ε=ευ, η=κ, μ=ν=ρ, π=σσ=ττ. Capitale latina (-VI sec.): B=R, C=P, C=G=O, D=O, E=F, H=N, I=L=T, M=NI, N=AI, O=Q, P=T. Onciale latina (III-VI sec.): B=R, C=E=G=O, CI=U, D=O=U, F=P=R, I=L=T, M=CO, N=AI, O=Q. Minuscola latina (VIII sec.-): a=u, b=h, c=e, cl=d, c=t, f=s, in=m=ui, n=u. Cf. West 1991, 28s. e Reynolds-Wilson 2016, 230s.

24 Per es. i nomina sacra ΘC (θεός) e DS (deus) (con le forme flesse ΘΥ, ΘΩ, ΘΝ, DI, DO, DN), nonché ΑΝΟC (ἄνθρωπος), ΚC (κύριος), ΜΗΡ (μήτηρ), ΟΥΝΟC (οὐρανός), ΠΗΡ (πατήρ, con le forme flesse ΠΡC, ΠΡΙ, ΠΡΑ, ΠΕΡ), ΠΝΑ (πνεύμα, con le forme flesse ΠΝC, ΠΝΙ, ΠΝΑΤΑ), CΤC (σταυρός), CΩΡ (σωτήρ), ΥC (υἱός), DNS (dominus), NR (noster, con le forme flesse NRI, NRO, NRM, NRA, etc.), SCS (sanctus), SPS (spiritus), VR (vester), etc. Cf. Havet 1911, 177-184; West 1991, 30s. (con altra bibl.).

25 Tipologia ed esemplificazione ancora in West 1991, 30s. e in Reynolds-Wilson 2016, 230-232.

26 Nelle edizioni di testi papiracei o epigrafici (ma anche di testi frammentari su altri supporti), la presentazione del testo in forma critica può essere preceduta da una sua trascrizione diplomatica (che riproduce il documento nel suo assetto complessivo, ivi compresi l’ortografia, la punteggiatura, il paratesto, i segni diacritici e di scansione testuale, etc.), con in calce un apparato delle diverse letture dei luoghi incerti (perché evanidi, frammentari, etc.). Testi papiracei ed epigrafici dovrebbero sempre (o almeno nel caso di un’editio princeps) essere accompagnati da riproduzione fotografiche del documento. Un caso particolare è quello delle edizioni di scolî, dove il testo dovrebbe sempre essere accompagnato dalle sigle delle recensioni e/o dei manoscritti (di norma, subito dopo il testo) che trasmettono le relative note scoliastiche.

27L’apparato va redatto in sintetico latino, con abbreviazioni come coni(ecit/ecerunt/ecerim), emend(avit), prop(osuit), disp(exit), secl(usit), rec(epit) fort(asse) recte, cod(ex), cod(d)(ices) pl(l)(erique), pap(yrus), etc., e con sigle per i testimoni (M cod. Marcianus, M2 seconda mano, Mpc post correctionem, Mac ante correctionem, Mv.l./γρ varia lectio/γράφεται, etc.). Nel testo e nell’apparato si userà la seguente semiografia:

lettera incerta nel documento, κύ(ριος) scioglimento di compendio, [ ] tracce di lettere nel documento, una in lacuna, †αβγ† corruzione, [αβγ] integrazione di lacuna meccanica, <αβγ> integrazione di lacuna congetturale, αβγ integrazione da fonte secondaria, {αβγ} espunzione, αβγ espunzione dello scriba,

\αβγ/ integrazione dello scriba. Cf. West 1991, 82-84.

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citazioni degli studiosi moderni nel corpo dell’opera28. In conclusione e in estrema sintesi, la presentazione di un lavoro scientifico in àmbito filologico dovrà essere la più chiara, concisa e completa possibile.

4. L’etica del filologo potrà apparire un titolo di paragrafo bizzarro, eslege in una cursoria riflessione sul metodo della filologia. Ma ogni scienza, ogni disciplina ha una sua etica, una sua deontologia, e la filologia non fa eccezione, per quanto i filologi sembrino talora i primi a dimenticarsene. Lungi da ogni bolso e gratuito moralismo, ci si limiterà qui a ricordare tre principi essenziali che devono (nel senso del deon) regolare questo ‘amore per la parola’ e per una ‘piccola verità’ (quale è una verità testuale) che chiamiamo filologia.

1) Poiché a differenza del paradigma delle scienze ‘esatte’ (o ‘dure’), che si incrementa per sostituzione, quello delle discipline ‘umanistiche’ si incrementa per accumulo29, ne consegue che in filologia, e in generale in antichistica, ‘le buone idee non hanno età’: un’edizione critica, un’interpretazione, una congettura fatte ai primi del Cinquecento hanno almeno teoricamente la stessa validità di quelle prodotte l’altro ieri.

Ciò impone il faticoso dovere della ricognizione bibliografica, e se non si finirà mai di ringraziare coloro che predispongono strumenti bibliografici per la totalità degli antichisti, spesso gratuitamente e senza alcun riconoscimento30, non si finirà mai parimenti di raccomandare agli studiosi di non sfuggire all’onere di una completa ricognizione bibliografica, che è preliminare a qualsiasi lavoro voglia dirsi propriamente scientifico31: il rischio è quello di cercare (non di rado vanamente) soluzioni a problemi risolti da anni o addirittura da secoli, e di post-datare di anni o secoli, e persino di attribuirsi, interpretazioni già proposte, magari in modo più preciso e completo. Il problema, a ben vedere, non è solo etico – non sono rari studi anche recenti che forniscono (per dirla con la brutale franchezza di un infastidito lettore) «a sad example of labour lost as a result of ignorance of older and much better work»32 – e coinvolge anche il dominio dell’utile: un’opera come quella del filologo, che richiede competenze letterarie, storiche, linguistiche, stilistiche, metriche, paleografiche, codicologiche, papirologiche, ormai sempre più ramificate e settorializzate, non può darsi che in un’ottica collaborativa, dove tutti si appoggiano al lavoro di tutti (e devono pertanto conoscerlo); si pone così la necessità, se non del lavoro ‘di gruppo’, almeno del lavoro ‘nel gruppo’.

2) Malgrado sia sempre più invalsa la fuorviante sicumera con cui molti studiosi propongono le loro interpretazioni come verità indiscutibili, il lavoro del filologo resta in fondo un’umile opera di rigorosa distinzione e certosina classificazione di ogni dettaglio:

distingue ciò che è certo, probabile, possibile, improbabile, impossibile. Da questo punto di vista, lo studioso ha verso se stesso e verso la comunità scientifica un obbligo di verità, anche quando ciò dia meno lustro alle sue ‘scoperte’. Chi darà per certe le proprie ipotesi, anche quando siano probabili, potrà essere una mente geniale, un brillante congetturatore, un sagace affabulatore. Ma sarà un pessimo filologo: diffidatene.

28 Per es. Albiani 1999 = Maria Grazia A., Laureas, in NP VI (1999) 1189; Aloni 1983 = A. A., Eteria e tiaso: i gruppi aristocratici di Lesbo fra economia e ideologia, «DArch» I (1983) 21-35; Aloni 1997a = A. A., Saffo. Frammenti, Milano 1997; Aloni 1997b = A. A., Il fr. 94 V di Saffo e il suo contesto, in Antonella Degl’Innocenti-Gabriella Moretti (edd.), Miscillo flamine. «Studi in onore di Carmelo Rapisarda», Trento 1997, 13-27. Vd. anche la bibliografia citata in quest’articolo.

29 Cf. T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. it. Torino 2009 (1969; ed. or. Chicago 1962).

30 Neppure dalle più recenti procedure di valutazione della ricerca a livello nazionale e locale: per non fare che un esempio, il prezioso e laborioso impegno che porta alla redazione dei volumi a stampa e del sito online dell’«Année Philologique» (<http://cpps.brepolis.net/aph/search.cfm>), il più importante annuario bibliografico a livello mondiale per le scienze dell’antichità, non ha di fatto alcun valore per la Valutazione della Ricerca di Ateneo (VRA) – Area 10 (Scienze dell'antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche) dell’Università di Bologna.

31 Se è vero che vi sono molti filologi che si accingono ad ardue imprese senza la debita padronanza di lingua, stile e metro, «particolarmente nelle regioni più meridionali d’Europa», come scrive West (1991, 63), lo è anche che lo stesso deve dirsi della padronanza bibliografica (di una bibliografia felicemente plurilingue), specie nelle regioni settentrionali d’Europa (e negli Stati Uniti), e in studiosi di lingua inglese.

32 H.T. Wallinga, The structure of Herodotus II 99-142, «Mnemosyne» s. 4 XII (1959) 204-223: 209.

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3) Amicus Plato, sed magis amica veritas recita un diffuso proverbio tratto dall’aristotelica Etica a Nicomaco (1096a 16s.)33. Da raccomandare anche in filologia, dove non deve valere alcun principio di autorità e dove nessun ipse dixit può prevalere sull’analisi critica dei problemi34. Anche se molto spesso si ha l’impressione che per molti studiosi, specie se giovani e arrembanti, valga piuttosto il motto opposto, cioè amica veritas sed magis amicus Plato. E anche se, come ebbe a dire Alfred Housman, «this planet is largely inhabited by parrots»35, e nessuno – nemmeno chi vi parla – sa di poter fare eccezione in proposito, purtroppo. Le uniche medicine possibili a questa annosa e diffusa malattia sono l’esercizio del dubbio sistematico – ‘un filologo non dovrebbe credere aprioristicamente (quasi) a nulla’, ripeto sempre ai miei studenti – e l’assunzione di uno stile di lavoro lento – non dominato dalla necessità di publish or perish, o di produrre a tutti i costi qualcosa in tempi brevi – e pertanto drammaticamente fuori moda36.

5. Tornano utili, in conclusione, le parole di F. Nietzsche (Morgenröthe.

Gedenken über die moralischen Vorurtheile [1881]), così note da trovarsi ormai persino nei ‘Baci Perugina’, e così citate da restare quasi sempre irriflesse e inapplicate:

«Filologia… è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria che mai; è proprio per questo mezzo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un’epoca del ‘lavoro’, intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol ‘sbrigare’ immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo; per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita ed occhi delicati…»37.

CAMILLO NERI

6. Bibliografia essenzialissima

33 Con un precedente nel platonico Fedro (91c), poi ripreso dai Neoplatonici, dove naturalmente Socrate compare in luogo di Platone. Tutti i dati in Tosi, Dizionario cit. 256s. (nr. 362).

34 Per ipse dixit, di estrazione pitagorica (e poi aristotelica), cf. Tosi, Dizionario cit. 330s. (nr. 473).

35 M. Manilii Astronomicon liber primus, rec. et enarr. A.E. H., Londini 19031 (Cantabrigiae 19372), XXXII.

36 Se la filologia alessandrina (e poi imperiale e tardo-antica), almeno da Aristarco (e la sua scuola) a Origene (e la sua scuola) praticava tanto la recensio delle copie disponibili degli antichi autori, quanto l’emendatio congetturale (cf. Montanari 2002); se le strettoie della tradizione (le esigenze della scuola, l’affievolirsi delle competenze linguistiche in un quadro culturale globalizzato nel segno della koine, e poi con gli imperi latino e arabo alle porte, il prevalere della cultura cristiana, il passaggio dai rotoli ai codici, etc.) ridussero il numero di autori e di libri in circolazione tra il Medioevo greco e latino, l’età bizantina e l’Umanesimo europeo, riducendo la pratica filologica al reperimento di una copia, o di una vulgata (textus receptus), o di una maggioranza di codici (codices plurimi), o di quello ritenuto il migliore (codex optimus) e alla sua emendazione (da Demetrio Triclinio a Poliziano, da Casaubon a Bentley, da Reiske a Porson: cf.

Le Clerc 1730 e soprattutto Reynolds-Wilson 2016); se l’età dei lumi e poi il positivismo (soprattutto di marca olandese e tedesca) che ne conseguì svilupparono la teoria stemmatica di recensione, sull’onda lunga di un entusiasmo ricostruttivo che pareva poter de-soggettivizzare il recupero degli originali (il metodo cosiddetto ‘lachmanniano’ del recensere sine interpretatione: cf. soprattutto Timpanaro 2010, con le preci- sazioni di Fiesoli 2000); se il Novecento ci ha lasciato in dote, con la sfiducia nel potere taumaturgico di quel metodo, la necessità di coniugare sempre la recensio con l’emendatio, la filologia con la storia (e con la storia della filologia: cf. soprattutto Degani 1999), di mettere in relazione e in collaborazione le varie discipline della ‘scienza dell’antichità’ (aprendola al fecondo confronto con discipline ‘nuove’, quali l’antropologia, la sociologia, la psicologia storiche, la teoria della letteratura, gli sviluppi della linguistica, etc.), e di valutare ogni tradizione iuxta propria principia (cf. soprattutto Pasquali 1952); i pericoli più insidiosi della filologia del nostro tempo, a mio parere, sono il sensibile decremento (innescato anche da perniciose riforme scolastiche e universitarie, nazionali e locali) delle competenze linguistiche (in un’epoca di generalizzato primato della brillantezza sulla competenza), specie nelle lingue classiche, e il riaffermarsi per via informatica (con la pervasività delle banche-dati e delle rappresentazioni digitali del testo) di nuove vulgatae, cui i nouveaux philologues si accosteranno sempre meno attrezzati e con meno senso critico.

37 Trad. it. di F. Masini, in B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Milano 20064, 329.

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«La critica testuale non è qualcosa che si apprenda leggendo sull’argomento quanto più è possibile.

Una volta appresi i princípi basilari, quel che occorre è l’osservazione e la pratica» (West 1991, 9s.) Alberti 1979 = G.B. A., Problemi di critica testuale, Firenze 1979.

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