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Academic year: 2021

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CONCLUSIONI

Il lavoro di Tobie Nathan è un lavoro molto interessante: egli ha cercato di fare un passo in più rispetto all’etnopsichiatria classica cercando di costruire un dispositivo concreto di presa in carico dei pazienti migranti.

Proprio per questo motivo, nei suoi scritti, si concentra soprattutto sulle

questioni di tecnica, lasciando che la teoria diventi una conseguenza delle

modificazioni tecniche. Modificazioni che nascono come risposta a

problemi pratici incontrati nella quotidianità del lavoro con i pazienti

migranti. Il dispositivo etnopsicoanalitico di Tobie Nathan nasce in un

contesto in cui i migranti venivano descritti in termini di carenza, poiché

i dispostivi terapeutici occidentali non funzionavano con questi pazienti,

la responsabilità veniva data a loro e non al fatto che il dispositivo

potesse essere sbagliato. Questa è un aspetto fondamentale del lavoro di

Nathan. Egli si rifiuta di vedere i migranti in termini di mancanza e si

concentra sul modificare il dispositivo terapeutico. E’ per questo che

introduce numerose modificazioni tecniche tra le quali l’uso della

traduzione,con la presenza dei mediatori e le consultazioni di gruppo. Per

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quanto questa innovazioni sono interessanti,un dispositivo così costruito

sembra difficilmente esportabile in altre situazioni ed in particolare in

quella italiana. Prima di tutto per un motivo di ordine economico, le

consultazioni costano circa tremila euro, ma anche per altri motivi: la

creazione di un gruppo di co-terapeuti di varia origine culturale, ad

esempio, è ancora un utopia in un paese come l’Italia dove a persone

provenienti da paesi non occidentali sono riservati ancora i lavori più

umili. Modificando il dispositivo Nathan si trova anche a doversi

confrontare con le teorie eziologiche dei suoi pazienti e a confrontarsi

con l’atteggiamento svalutativo nei confronti di queste da parte delle

teorie occidentali. Soprattutto si scontra con una psicopatologia che

riporta tutto ad un soggetto universale, mentre Nathan ritiene che non

esiste l’uomo nudo ma che gli individui siano sempre culturalmente

determinati. Nathan cerca di ridare uno statuto di serietà e razionalità a le

teorie eziologiche tradizionali, analizzando il loro funzionamento e

contestando che il loro funzionamento sia basato sulla suggestione o

sull’efficacia simbolica. Per Nathan il terapeuta è come un ricercatore

che deve sperimentare le varie tecniche terapeutiche, sia quelle

occidentali che quelle tradizionali.

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Personalmente trovo un po’ rischiosa questa idea.Credo sia difficile per una singola persona poter conoscere a fondo i sistemi di cura delle altre culture, tanto da farli propri e poterli utilizzare. Questo può accadere forse per una o due culture. Piuttosto credo che sarebbe più giusto incrementare nei paesi di accoglienza, una politica di sostegno alla pratica dei propri sistemi di cura da parte dei guaritori delle varie culture, in modo da permettere al migrante di scegliere veramente e liberamente a chi rivolgersi. Su questo punto condivido il pensiero di Coppo che scrive

“anche se tra le righe della normativa europea si accetta il principio che le minoranze si diano i loro propri sistemi di cura, ancora non ho visto da nessuna parte non dico sostenere, erogare risorse per, ma neppure tollerare pratiche altre che sarebbero incompatibili con la cultura occidentale.”

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L’elemento comunque più interessante del discorso di Nathan, per la prospettiva di questo lavoro, mi sembra sia la questione dell’appartenenza culturale. Come abbiamo visto Nathan considera fondamentale nella cura terapeutica dei migranti ricreare le connessioni con la propria appartenenza culturale, partendo dal presupposto che il migrante vive una situazione di profonda lacerazione, diviso tra due

1 Coppo P., “Politiche e derive dell’etnopsichiatria: note a margine di una polemica francese” in www.ethnopsichiatrie.net

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mondi tra i quali non riesce più a trovare punti di riferimento. Come scrive Coppo: “Nathan rende espliciti i rapporti di forza tra gruppi e culture, nel momento in cui rinforza,dandole dignità la cultura dello straniero. Prende partito in un conflitto, nel conflitto che traversa il migrante, sostenendone la parte in quel contesto (Parigi, Università, Psicologia, ecc..) più debole”

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. Coppo sottolinea che esplicitare il conflitto non vuol dire coprire le questioni sociali,le ingiustizie economiche ma significa sottolineare un aspetto del conflitto e complessificare lo scenario. Credo però che Nathan con una tale impostazione della questione compie anche un altro movimento, aderisce ad una specifica visione della realtà, una visione nella quale ci sono due identità, una forte ed una debole che entrano in contrapposizione. Con questa visione lascia fuori altre letture del reale, dove si possono creare altre possibilità. Visioni che rendono possibili entrare in uno scenario dove non c’è un’opposizione binaria, identità di appartenenza/identità egemone, ma dove si pensa possibile creare identità fluide, meticce, creole, addirittura dove si può pensare anche a forme di disidentità , vissute come ribellione e liberazione.

2 ibidem

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Nell’introduzione a I frutti puri impazziscono Clifford sottolinea che se da una parte i frutti puri si stanno arrendendo alla promiscuità, “la scelta della nostalgia non possiede fascino. Non c’è un ritorno possibile, non c’è un’essenza da recuperare”

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Clifford cita una poesia di William Carlos Williams che il poeta scrisse appunto su una giovane donna di nome Elsie.La ragazza lavorava a casa di Williams, qualcosa di lei lo colpì e scrisse una poesia, ma per l’autore della poesia, Elsie,con il suo corpo sgraziato, con la sua goccia di sangue indiano,simboleggia la disgregazione,lo sradicamento e l’instabilità. Mentre per Clifford Elsie annuncia qualcosa di altro: “Che cosa annuncia Elsie? Come donna: il suo corpo sgraziato è un simbolo di scacco in un mondo dominato dallo sguardo maschile oppure l’immagine di una forma femminile forte,

“indisciplinata”, un’alternativa cioè, alle definizioni sessiste di bellezza.

Come frutto impuro: questa mescolanza di retaggi è o un’anima perduta sradicata oppure un nuovo ibrido,meno domestico del focolare suburbano, attraverso cui passa. Come indiana d’America: Elsie è o l’ultimo residuo, pressoché assimilato dei tuscarora che ,secondo la tradizione,si stabilirono sui monti Ramapough del New jersey

3 Clifford J., i frutti puri impazziscono, ed. Bollati Borignhieri, Torino,1993, pag.16

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settentrionale, oppure il segno di un passato americano indigeno che si sta trasformando in un insospettato futuro.”

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Quando i popoli marginali incontrano il mondo occidentale ci si aspetta che in loro può rimanere qualcosa del passato che resiste o che cede al nuovo, mai che essi possano produrre il nuovo. Clifford sovverte questa prospettiva : “non vede il mondo come popolato da autenticità in pericolo,frutti puri che impazziscono sempre. Piuttosto dà spazio a specifici sentieri della modernità”

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Non esistono tradizioni genuine da recuperare,l’identità per Clifford è inventiva e relazionale: “qualsiasi perseguimento di una terra promessa,qualsiasi ritorno a “sorgenti”

originarie o recupero di una tradizione genuina implica discutibili atti di purificazione. Tali pretese di purezza sono in ogni caso sempre minate dal bisogno di inscenare autenticità in contrapposizione ad alternative esterne, spesso dominanti.”

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La posizione sull’identità di Clifford, pur ricordando di non cancellare mai la violenza del sistema e delle forme di neo-colonialismo, è vicina a quella di Aimé Cesaire: “una cultura ripensata come processo creativo o “intercultura” creolizzata. Le radici

4 ibidem

5 Ibidem, pag.17

6 Ibidem,pag.24

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della tradizione sono recise e riannodate, i simboli collettivi sono mutuati da esperienze esterne.”

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La posizione di Anna Camiti Hostert va ancora più oltre. A proposito di una posizione identitaria completamente fluida, l’autrice scrive, nel libro Passing: “tuttavia solo la rottura delle catene di qualsiasi appartenenza, sia essa stessa religiosa, partitica, linguistica,etnica o sessuale, si è rivelata alla fine come momento liberatorio e gioioso. Ma le fasi che l’hanno preceduta e seguita sono state molto dolorose, piene di paure, di solitudine, di vuoto, di sensi di insicurezza e di colpa legati alla sensazione di tradire affetti, “cause” valori e memorie. Spiegare che si può superare questo stato di sofferenza semplicemente riconquistando in modo permanente la multidimensionalità fluida del nostro essere, che ogni senso di appartenenza genera ansia, limita e impoverisce, è la ragion d’essere di questo lavoro […] spiegare che il momento di gioia è il momento in cui si comprende che il bisogno di non appartenenza e la fasi di disidentificazione non costituiscono un percorso obbligato verso la realizzazione di nuove identità, ma sono contemporanee a deterritorializzazioni del proprio sé e degli altri, è entrare nell’ottica del

7 Ibidem, pag.28

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passing”

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. Nel passing l’elemento transizionale non è un mezzo ma diviene un fine. Più avanti nel libro troviamo citate le parole di bell hooks,intellettuale afro-americana,che dice: “certamente è importante affrontare la discussione della supremazia bianca, ma è ugualmente importante per noi affermare che il processo di liberazione avviene solamente in un contesto dove siamo capaci di immaginare soggettività che sono diverse, in costante cambiamento e sempre in stati di contingenza culturale”

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.Mi tornano in mente le parole di Isabelle Stengers nell’introduzione al libro di Nathan ,Non siamo soli al mondo,sulla società francese che cerca di rendere l’individuo un chiunque: “Gli altri che vengono con altre sensazioni, altre connessioni, altri impegni di fedeltà, non sono solo i migranti, ma tutti coloro che non possono essere separati dalla propria ombra,se non per divenire degli automi che negano ciò che li vincola, che si proclamano “chiunque” ed esigono da ognuno che si riconosca come tale”

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. Se quando si parla di un chiunque ci si riferisce all’individuo appiattito nell’ atto di nominazione del potere dominante ,che sia quello della cultura dominante occidentale rispetto al migrante o quello del potere maschile rispetto alla donna, la

8 Camaiti Hostert A., Passing, ed.Castelvecchi,Roma,1996, pag.20

9 Ibidem,pag.58

10 Stengers I., “introduzione” in Non siamo soli al mondo, ed. Bollati Boringhieri,Torino,2003, pag.41

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critica di questa parola ha un significato condivisibile. Ma credo che la Stengers e con lei Nathan si riferiscano ai soggetti che si credono liberi dai vincoli e da appartenenze. Essere chiunque invece, come scrive Anna Camaiti Hostert, può anche essere estremamente liberatorio ed avere una valenza di resistenza, attraverso la sottrazione, è “la bellezza e la pericolosità del processo di decostruzione del proprio io.

Disidentificarsi”

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.La Hostert prende il nome del suo libro da un racconto di Nella Larsen del 1929, Passing, per l’appunto. E’ il racconto di due donne nere, due amiche, Clare e Irene vissute insieme in gioventù e che da adulte hanno preso strade diverse. Irene si è sposata con un nero e vive nel quartiere nero di Harlem a New York, l’altra, Clare, ha sposato un bianco razzista, e grazie alla sua pigmentazione chiara si è fatta passare per bianca. Questo fenomeno, realmente diffuso in America, prende il nome di passing e si riferisce ai neri che si fanno passare per bianchi. Dall’incontro tra le due amiche ,dopo molti anni di lontananza, inizia il racconto della Larsen. Anna Camiti Hostert scrive: “il passing è evidente, è possibile entro il terreno di una cultura subalterna che rifiuta di contrapporsi frontalmente a quella dominante. […]il passing allora diviene una forma di sottrazione all’imperativo ogni giorno più

11 Camaiti Hostert A., Passing, ed.Castelvecchi, Roma, 1996,pag.114

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categorico del belonging compatto e omogeneo che appiccica a ognuno/a etichette a cui deve poi rimanere attaccato/a e a ruoli che divengono gabbie”

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.

Nonostante sia importante sottolineare che il campo della terapia ha degli aspetti peculiari che rendono sicuramente più difficile l’appropriazione di queste riflessioni all’interno della clinica, credo però che sia importante iniziare una riflessione su visioni alternative delle questioni identitarie,visioni che iniziano a fare parte sempre di più del mondo contemporaneo. Ad ottobre in Francia, si è tenuto un convegno della rivista Autre dal titolo: “Le metissage à quoi sert en clinique?”.Nella relazione iniziale Marie Rose Moro, etnopsichiatria all’ospedale Avicenne di Bobigny, faceva notare alla platea che mentre all’inizio la psicologia transculturale si occupava di cultura e appartenenza, con il passare del tempo il punto centrale su cui riflettere è diventato il concetto di metissage. Con questa visione che approda a nuove tematiche teoriche e di applicazione clinica, credo si possa concludere questo percorso conoscitivo all’interno del pensiero e del dispositivo etnopsicoanalitico di Tobie Nathan.

12 Ibidem,pag.98

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