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La contemporanea pendenza del processo di separazione e del processo di divorzio: rilievi processuali e sostanziali nel giudizio di primo grado

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La contemporanea pendenza del processo di separazione e del processo di divorzio: rilievi processuali e sostanziali nel giudizio di primo grado

Franca Mangano (Presidente della Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma)

SOMMARIO:

1. Premessa. I dati  -  2. Divorzio breve ma non “diretto”  -  3.

Contemporanea pendenza del giudizio di separazione e di divorzio: le attuali posizioni della giurisprudenza del Tribunale di Roma - 4. Criticità e possibili soluzioni - NOTE

1. Premessa. I dati

Partecipo all’iniziativa promossa dall’AIAF per una giornata di studio e di riflessione sull’istituto del divorzio “breve e facile”, con gratitudine per l’invito e con la piena condivisione degli obiettivi preannunciati;

primo fra tutti l’omaggio alla memoria dell’avv. Marina Blasi, Presidente dell’AIAF Lazio, a cui è dedicata l’iniziativa seminariale di oggi. Il progresso della giurisprudenza, e in particolare della giurisprudenza in materia di diritto di famiglia, è fortemente condizionato dalla qualità del rapporto che si stabilisce con l’Avvocatura. La prima sezione civile del  Tribunale di Roma, sin dalla sua costituzione come sezione tabellarmente competente per la famiglia e la persona, si pregia dell’intensa e proficua collaborazione intrattenuta con gli avvocati  e- sperti nel diritto di famiglia. Questa tradizione di scambio e di condivisione è stata resa possibile  dall’impegno degli avvocati familiaristi, tra i quali si è distinta l’avvocato Marina Blasi, con il  per- sonale apporto delle sue elevate qualità di competenza e di specializzazione, coniugate a doti  specifiche di grazia e di

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determinazione insieme, di passione nella difesa delle ragioni dei propri  assistiti e di corretta consapevolezza del rispetto delle regole processuali, di precisa e puntuale conoscenza dei casi concreti rappresentati davanti al Tribunale, mai disgiunta dall’interesse culturale per lo studio degli istituti del diritto di famiglia e per l’implementazione della formazione professionale e scientifica del ceto forense.

Anche il tema scelto come oggetto dell’incontro si è giovato del contributo di studio di Marina Blasi, che nel volume “Divorzio “breve e facile”  ” ha approfondito e commentato i diversi effetti  sulla complessiva configurazione dell’istituto del divorzio, prodotti dai successivi interventi normativi del 2014 (d.l. 12 settembre 2014, n. 132 convertito in l. 10 novembre 2014, n. 212 recante “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile”), e del 2015 (l. 6 maggio 2015, n. 55, recante “Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi”).

L’intento normativo di semplificazione della regolamentazione dell’epilogo della vicenda coniugale, espresso dal legislatore, appare bilanciato da due finalità convergenti; da un lato, provocare un effetto deflattivo  del contenzioso di cui possa avvantaggiarsi il sistema giudiziario nel suo complesso e, dall’altro lato, ma in coerenza con la auspicata deflazione dei giudizi, assicurare una migliore tutela della persona in occasione della dissoluzione dei legami coniugali.

Per quanto riguarda il primo degli obiettivi segnalati, i dati di cui dispongo relativamente al Tribunale di Roma non sono incoraggianti.

L’incremento delle iscrizioni dei giudizi di divorzio, tanto giudiziali tanto congiunti, era una conseguenza prevista e temporanea dell’abbrevia- zione dei termini dovuta alla l. n. 55/2015; pertanto non desta sorpresa

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leggere che nel 2016 i divorzi contenziosi iscritti sono stati 1.538 e 2.556 i divorzi congiunti, mentre nel 2015 erano stati, rispettivamente 1.226 e 2.325, con un incremento di poco più del 20% per i divorzi contenziosi e di poco più del 10% per i divorzi congiunti. Meno giustificati i dati relativi alle separazioni giudiziali iscritte nel 2016 (1.430) aumentate rispetto al 2015 (1.388), mentre la flessione delle separazioni consensuali, di poco superiore al 5% (3.193 nel 2016 a fronte di 3.340 nel 2015) appare scarsamente significativa e di limitato effetto compensativo. Analogamente, l’incidenza della riduzione dei termini per l’introduzione del giudizio di divorzio sulla quantità dei nuovi giudizi di modifica delle condizioni della separazione, passati da 466 nel 2015 a 428 nel 2016, è interamente compensata dall’incremento dei giudizi di revisione delle condizioni di divorzio che da 457 nel 2015 sono diventati 497 nel 2016, con un “travaso” numericamente coincidente tra l’una e l’altra categoria di procedimenti. Nel complesso, un volume di affari ingentissimo, appesantito dalla competenza in materia di affidamento dei figli minori di coppie non coniugate, procedimenti di cui si continua a registrare di anno in anno l’incremento delle sopravvenienze (da 1.043 nel 2015 a 1.210 nel 2016) e che, come si sa, non possono essere compresi nei possibili benefici della “degiurisdizionalizzazione”, dalla quale, l’art. 6 della l. n. 162/2014, forse poco consapevolmente, li esclude. Dunque, l’avvento della “giurisdizione forense” deve ancora essere metabolizzato più compiutamente perché possa produrre effetti più significativi sul sistema della giustizia di famiglia. Va comunque valutato positivamente l’incremento quantitativo che nel 2016 ha visto 1.552 procedure di negoziazione assistita (768 separazioni, 690 divorzi e 94 modifiche), ossia quasi 500 in più, pari al 49%, rispetto al 2015 (1.065 procedure di cui 540 separazioni, 460 divorzi e 64 modifiche), benché la cultura della risoluzione del conflitto familiare con forme

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alternative alla giurisdizione richiede ancora interventi di sostegno e di sviluppo positivi.

2. Divorzio breve ma non “diretto”

Un sistema congestionato da un carico di affari sproporzionato ai mezzi di cui dispone l’apparato giudiziario si traduce inevitabilmente nella mortificazione delle istanze di tutela, che devono scontare lunghi tempi di definizione. La l. n. 55/2015 ha inteso corrispondere alla aspirazione generalmente condivisa di una più celere ed efficiente tutela dei diritti delle persone connessi alla cessazione del vincolo coniugale, disponendo la riduzione del termine necessario per presentare la domanda di divorzio (un anno per i procedimenti di separazione giudiziale e sei mesi per quelli di separazione consensuale, nell’uno e nell’altro caso, con decorrenza dalla comparizione delle parti davanti al Presidente del Tribunale).

L’esigenza di intervenire legislativamente per accelerare il termine richiesto per la valida introduzione della domanda di divorzio si era fatta più pressante anche alla luce della contiguità con il diritto dell’Unione ed in particolare dei Regolamenti dell’Unione europea in materia di co- operazione giudiziaria civile, che consentono il riconoscimento di provvedimenti di divorzio emanati da altro Stato dell’Unione (art. 3, Reg.

n. 2201/2003 c.d. Bruxelles  bis). Inoltre, la possibile applicazione da parte del giudice italiano di leggi di Paesi esteri che riconoscono il divorzio diretto al ricorrere dei presupposti stabiliti dal Reg. (CE) n.

1259/2010 (c.d. Roma III) ha offerto un’altra strada di più rapida affrancazione dal vincolo preesistente.

In un quadro sociale e normativo siffatto, la novella del 2015 in tema di divorzio breve manifesta i tratti inequivoci di una soluzione di compromesso, che differisce ancora nel tempo la scelta di accogliere a

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pieno titolo nel nostro ordinamento l’istituto del “divorzio diretto”, non soltanto nelle ipotesi eccezionali già previste dall’art. 3, l. n. 898/1970.

Una scelta che nessun principio di ordine generale preclude, dal momento che la previa pronuncia di separazione non è più corroborata da un crisma di rispondenza al limite indisponibile dell’ordine pubblico, come in passato ritenuto da una giurisprudenza di legittimità da tempo dismessa dalla Corte di Cassazione.

La riforma del c.d. divorzio breve, dunque, non ha alterato nel suo complesso il rapporto preesistente tra giudizio di separazione e giudizio di divorzio che, nella più frequente casistica, vede il primo quale presupposto di proponibilità dell’altro, benché, per effetto della riforma, nell’ambito di una scansione temporale più ridotta. Un disegno difficilmente comprensibile sul piano della ricostruzione sistematica, e di cui non appare agevole rintracciare la ragione, come rileva Marina Blasi nel suo testo ove si legge, a proposito del rapporto tra il giudizio di separazione e il giudizio di divorzio: «tale impianto risulta esangue, privato della sua primordiale natura, dapprima principalmente sanzionatoria, poi emendativa e infine terapeutica, ma che oggi rischia di diventare una mera funzionalità burocratica e pertanto ancora di più vissuta come odiosa e costosa per le parti».

Se è vero che il legislatore ha mancato l’occasione fisiologica della l. n.

55/2015 per introdurre il divorzio diretto e/o immediato, rescindendo il vincolo esistente tra separazione e divorzio, è altrettanto vero che simile più radicale riforma appare comunque presente nell’orizzonte normativo della regolamentazione delle famiglie e che, dunque, si tratta soltanto di un intervento rinviato nel tempo. Infatti, ad un anno di distanza, con la l.

20 maggio 2016, n. 76 recante “Regolamento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, ha fatto ingresso nel nostro ordinamento, seppure con riferimento alle unioni

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civili, il principio dello  scioglimento del vincolo per manifestazione di volontà della parte dell’unione civile (art. 1, 24°  comma, l. n. 76/2016) come modalità generale e residuale di cessazione dell’unione. Accanto ad essa, le modalità direttamente mutuate dalla disciplina del matrimonio (art. 3 n. 1 e n. 2, l. n. 898/1970) richiamate dall’art. 1, 23°

comma e 26° comma, non comprendono l’ipotesi dell’art. 3 n. 2, lett. b), l. n. 898/1970, relativo al divorzio che trova il necessario presupposto in una precedente separazione.

Dall’altro lato, la pratica è orientata a cogliere l’occasione dell’abbreviazione del termine per la presentazione della domanda di divorzio, per eliminare in via di mero fatto la successione necessaria separazione-divorzio, attraverso l’anticipazione al momento della regolamentazione consensuale della separazione, della approvazione dell’assetto definitivo dei rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi.

È sempre più ricorrente il caso delle separazioni consensuali nei cui verbali di accordo si convengono obblighi di trasferimenti immobiliari estesi all’intero patrimonio familiare e accompagnati da pattuizioni accessorie di trasferimento a terzi e/o di erogazione di somme: sono veri progetti di divisione della comunione che calendarizzano e prevedono le operazioni di liquidazione, con il piano concordato dei rimborsi e delle restituzioni. Molto spesso, tali progetti qualificano alcuni dei trasferimenti immobiliari previsti a favore del coniuge economicamente più debole, come attribuzioni previste  una tantum quando non è addirittura prevista, nella medesima formulazione di una tantum, la capitalizzazione dell’assegno di mantenimento, che ci si accorda di riconoscere in una unica erogazione di somme. Il motivo per il quale abbiamo ritenuto la necessità di elaborare e rendere pubblico sul sito del Tribunale di Roma un testo recante Linee guida per la redazione delle separazioni consensuali è essenzialmente legato alla volontà di rendere un più completo servizio alle parti, nell’intento di

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agevolare, attraverso la trasparenza dei criteri di omologa, la consapevolezza dei coniugi, che possono accedere alla separazione consensuale anche senza l’ausilio della difesa tecnica, circa l’oggetto e gli effetti dei loro accordi. Non certo, dunque, una presa distanza dalla nota giurisprudenza della Corte di Cassazione che ha valorizzato i contenuti negoziali degli accordi della separazione affermando che

«...  le nuove disposizioni normative, drasticamente riducendo l’in- tervento dell’organo giurisdizionale in procedimenti tradizionalmente segnati da vaste aree di diritti indisponibili legati allo status coniugale e alla tutela della prole minore, hanno, nel quadro di interventi definiti di

“degiurisdizionalizzazione” di fatto attribuito al consenso tra i coniugi un valore ben più pregnante … Ciò induce questa Corte a ritenere che, nel mutato contesto normativo di riferimento, debba riconoscersi il carattere di negoziazione globale a tutti gli accordi di separazione che, anche attraverso la previsione di trasferimenti immobiliari, sono volti a definire in modo tendenzialmente stabile la crisi coniugale, destinata a sfociare, di lì a breve, in un divorzio non solo prefigurato, ma voluto dalle parti in presenza delle condizioni di legge rappresentate dalla previsione di un termine più breve»  [1]. Al contrario, proprio la considerazione che, nonostante le aperture della giurisprudenza di legittimità, efficacemente ricordate dall’intervento di Alberto Figone, circa gli effetti degli accordi e al mero controllo esterno esercitato dal giudice in funzione di tutela dei diritti indisponibili del coniuge più debole e dei figli [2], non è completamente superato l’orientamento che, assegnando agli accordi separativi il valore di indice di riferimento per le determinazioni patrimoniali nell’ambito del divorzio, esclude espressamente che la rinuncia all’assegno di mantenimento nel contesto della separazione, possa valere ad escludere il diritto all’assegno divorzile  [3], con il rischio di mortificare le aspettative dei

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coniugi che assegnano una funzione di definizione tombale all’accordo separatizio.

3. Contemporanea pendenza del giudizio di separazione e di divorzio: le attuali posizioni della giurisprudenza del Tribunale di Roma

La ritrosia con la quale il legislatore, pur accogliendo l’istanza di accelerazione dei tempi del divorzio, ha rinunciato ad introdurre in forma generalizzata l’istituto del divorzio diretto, ha portato all’incremento delle possibilità concrete di pendenza contemporanea dei giudizi di separazione e di divorzio, con la necessità di regolare questa fattispecie in relazione tanto agli effetti sostanziali tanto agli effetti processuali. La ricostruzione in termini generali e sistematici di questa evenienza si confronta con la riflessione sul rapporto che lega i due giudizi. Il carattere di assoluta specificità del legame deriva dal fatto che la pronuncia di separazione avente carattere di formale stabilità, per essere omologato l’accordo consensuale o per il passaggio in giudicato della  sentenza, pur rappresentando il presupposto della domanda di divorzio ai fini della sua valida  proponibilità, non comporta una relazione di pregiudizialità tra i due giudizi. Infatti, il giudizio  di separazione e quello di divorzio sono giudizi completamente autonomi, benché regolati da un rito speciale comune e benché, nel loro ambito, accanto alla domanda sullo  status  vengono comunemente introdotte domande accessorie, che appaiono perfettamente sovrapponibili quanto all’oggetto e alla funzione. Perciò, è possibile riconoscere nel rapporto tra i due giudizi un rapporto di funzionalità, in tanto in quanto alcune pronunce rese nel giudizio di separazione possono valere come indici di riferimento e di valutazione nel giudizio di divorzio, in alcuni casi normativamente previsti come per l’art. 5, l. n. 898/1970 e successive modifiche che

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richiama “le ragioni della decisione” come criterio della determinazione quantitativa dell’assegno divorzile.

Un sistema siffatto, solo sommariamente tratteggiato nei suoi confini teorici e strutturali, esclude  che il rimedio della sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c., in difetto di una relazione di pregiudizialità tecnica, possa regolare la contemporanea pendenza dei due giudizi. Evenienza divenuta sempre meno eccezionale dalla concomitante incidenza del termine abbreviato per la presentazione della domanda di divorzio e dalla generalizzata ammissibilità della sentenza parziale di separazione ratificata dall’art. 709  bis  c.p.c., a suggello di una giurisprudenza pretoria risalente. Evenienza che si concretizza anche nel medesimo primo grado di giudizio, quando invece in precedenza interessava soprattutto la contemporanea pendenza in grado di appello del giudizio di separazione, la cui sentenza conclusiva era stata impugnata solo per i capi relativi alle pronunce accessorie, con il giudizio di divorzio ancora in primo grado.

Non sono molte le prassi consolidate a tale riguardo presso il Tribunale di Roma; forse più numerose le criticità con le quali ci confrontiamo alla ricerca di soluzioni convincenti dal punto di vista sistematico e soddisfacenti delle istanze degli utenti.

Circa  la sentenza non definitiva di separazione,  già prima dell’avallo della giurisprudenza di legittimità e della riforma del 2005 che ha introdotto l’art. 709  bis  c.p.c., il Tribunale di Roma ha ampiamente sperimentato l’istituto [4], sottolineandone gli effetti di accelerazione del giudizio e di agevolazione della definizione concordata del conflitto. In particolare, è ormai acquisito che la rimessione al collegio per la sentenza non definitiva sullo status, in deroga all’art. 187 c.p.c., che la disposizione dell’art. 709  bis  c.p.c. non smentisce, avviene fin dalla prima udienza di  comparizione e non comporta la devoluzione

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complessiva della controversia. Pertanto, non presuppone, come si riteneva necessario, il previo esperimento dei termini ex art. 183 c.p.c., che all’effetto dilatorio cumulano un’articolazione istruttoria che potrebbe rivelarsi nociva per una definizione concordata e che la pratica più comune vede concessi dal collegio contestualmente all’emissione della sentenza non definitiva o addirittura dal giudice istruttore al momento della rimessione al collegio. Non è invece ancora stata accolta la proposta, un tempo avanzata dalla stessa prima sezione civile del Tribunale di Roma, della pronuncia di ufficio delle sentenze di  status, ivi compresa la sentenza non definitiva di separazione. Una proposta motivata essenzialmente da una esigenza di anticipazione dello scioglimento della comunione legale, oggi superata dalla nuova formulazione dell’art. 191 c.c. introdotto dalla l. n. 55/2015.

Diversamente da altri Tribunali, tra i quali mi sembra il Tribunale di Verona, la prassi romana esige almeno l’istanza di una delle parti per l’adozione della sentenza non definitiva di status.

Circa la  sentenza non definitiva di divorzio, la giurisprudenza del Tribunale di Roma registra una prassi più avanzata, consentendo l’anticipazione alla udienza presidenziale della rimessione al collegio e della successiva immediata adozione del provvedimento sullo status. Il primo provvedimento in tal senso, relatore il giudice Monica Velletti [5], rappresenta diffusamente nella motivazione la ricostruzione che, rispettando perfettamente quelle che sono la scansioni processuali del procedimento di divorzio, contestualizza l’udienza presidenziale con la nomina da parte del presidente di se stesso quale giudice istruttore, secondo la previsione tabellare da tempo vigente presso il Tribunale di Roma, allo scopo di rimettere immediatamente la causa al Collegio per la pronuncia sullo status, nelle vesti di giudice istruttore. Si tratta di una giurisprudenza ormai sufficientemente condivisa da parte dei giudici della sezione, ma che non dismette il presupposto della necessaria

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disponibilità delle parti, confermando il rifiuto, già sopra ricordato per la pronuncia parziale di  status  separativo, di interventi acceleratori conseguenti ad iniziative officiose del giudice. Infatti, il presupposto ineliminabile è la rinuncia delle parti al deposito delle memorie integrative di cui all’art. 4, 10° comma, l. n. 898/1970 e modifiche successive, qualificando l’iniziativa del Tribunale in consonanza con la volontà delle parti.

Va infine segnalata, come dato acquisito alle prassi del Tribunale di Roma in materia di rapporti tra il giudizio di separazione e il giudizio di divorzio, la regola in virtù della quale quando è  ancora pendente il giudizio di separazione, l’iscrizione del giudizio di divorzio  modifica l’ordinario criterio di assegnazione, sostituendo all’automatismo del collegamento tra numero di iscrizione a ruolo della causa e ordine di rotazione dei giudici, l’automatismo della assegnazione del giudizio di divorzio al giudice davanti al quale pende il giudizio di separazione. La modifica tabellare con la quale è stata introdotta questa regola [6] è una risposta organizzativa al problema della contemporanea pendenza del processo di divorzio e del processo di separazione. Essa si inscrive nel solco della preferenza per la identità del giudice, già affermata con la risalente opzione tabellare del Tribunale di Roma, che da tempo fa coincidere il presidente delegato alla comparizione personale dei coniugi con la persona del giudice istruttore nominato all’esito dell’udienza presidenziale per la trattazione della causa.

Oltre a citare questo principio, quale espressione di un valore di economia processuale in ragione della concentrazione delle tutele in capo al medesimo giudice, la misura organizzativa richiama il concetto di connessione, alla quale riconduce la speciale relazione intercorrente tra i due giudizi. Infine, la motivazione del provvedimento stabilisce i requisiti di applicazione del criterio di assegnazione, precisando che

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sussiste la pendenza del giudizio di separazione fintanto che il giudice non abbia rimesso la causa al Collegio, per la decisione delle domande accessorie alla pronuncia di separazione già emessa con la sentenza non definitiva sullo status. Al momento, dunque, il Tribunale di Roma ha deciso di fronteggiare le criticità che derivano dalla evenienza della contemporanea pendenza del giudizio di separazione e del giudizio di divorzio, e che riguardano la sovrabbondanza degli interventi processuali, la duplicazione di atti di accertamento di grande delicatezza, come per esempio l’ascolto dei minori, fino al rischio di giudicati contraddittori, con l’adozione di una misura organizzativa. Il riferimento al concetto di connessione sembrerebbe configurare tale modifica tabellare come funzionale alla ben più incisiva soluzione processuale di riunione tra i due giudizi. Tuttavia, benché la decisione di riunione rappresenti una realtà praticata dalla giurisprudenza, al momento essa non è accolta dai giudici del Tribunale di Roma, nonostante il novero delle questioni aperte dalla sempre più diffusa contestuale pendenza del processo di separazione e del processo di divorzio.

4. Criticità e possibili soluzioni

L’attribuzione tabellare allo stesso giudice delle due cause (di separazione e di divorzio) lascia comunque aperte molte questioni circa le più adeguate modalità di trattazione dei due processi al verificarsi della loro contemporanea pendenza in primo grado. Come già detto, il Tribunale di Roma, ad oggi, non accoglie la soluzione della riunione dei giudizi, adottata dai Tribunali di Milano e di Torino, con una decisione che sicuramente rappresenta una via giurisprudenziale di introduzione dell’istituto del divorzio diretto, che il legislatore esita ad attuare.

In realtà, la giurisprudenza romana non è estranea ad esperienze di riunione tra giudizi soggettivamente connessi, relativi a momenti diversi

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della crisi familiare, regolati da situazioni processuali distinte. Negli anni

’90 era stata inaugurata e a lungo praticata una giurisprudenza che consentiva la riunione dei giudizi di modifica delle condizioni della separazione ai giudizi di divorzio  [7]. Si trattava di una soluzione che perseguiva una finalità di economia processuale attraverso una utilizzazione notevolmente ardita dell’istituto della riunione. La diversità di rito, camerale il giudizio di modifica delle condizioni della separazione e ordinario speciale quello di divorzio, in quanto introdotto con ricorso e a struttura bifasica, era concettualmente superata attraverso il richiamo all’art. 40, 3° comma c.p.c., in virtù del quale il processo di divorzio attraeva la trattazione del giudizio di modifica, del quale veniva meno la ragione della prosecuzione. L’ulteriore anomalia risiedeva nel fatto che la riunione era disposta sempre nell’ambito del giudizio di divorzio, con l’effetto pratico, di posticipare nel tempo, e fino alla celebrazione dell’udienza presidenziale di divorzio, la richiesta di tutela che spesso con carattere di urgenza veniva inoltrata al giudice della modifica della separazione, e con la necessità di rimediare a tale innegabile distorsione, con la soluzione teoricamente discutibile di anticipare gli effetti accessori della pronuncia di divorzio ad un momento antecedente la domanda del giudizio “portante” e coincidente con la data della domanda del giudizio camerale previamente instaurato. Ciò comportò valutazioni negative di tali prassi, finalizzate al perseguimento di risultati di economia processuale, ma accusate di determinare episodi di denegata giustizia, per le quali ogni  possibilità di difesa veniva vanificata da un’iniziativa divorzile successiva alla domanda di modifica. Forse anche a causa di questa esperienza, che a mio avviso ebbe solo il difetto di essere generalizzata nella sua esecuzione, oggi si preferisce accostarsi alla questione della contemporanea pendenza dei giudizi di separazione e di divorzio sulla scorta di una impostazione più

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pragmatica, che distingua caso per caso le diverse fattispecie, riservando a ciascuna modalità adeguate di intervento.

Il primo gruppo di questioni, relative all’affidamento dei figli e all’assegnazione della casa coniugale, sono quelle nelle quali si dispone esclusivamente per il futuro e per le quali, quindi, la sovrapposizione tra la pronuncia di separazione e la pronuncia di divorzio è più evidente. Di conseguenza, in questi casi le ragioni di economia processuale militano per una naturale unificazione dei due giudizi, allo scopo di evitare appesantimenti istruttori costosi per le parti e per il sistema giudiziario e di prevenire soluzioni contraddittorie che mortifichino le istanze di tutela e appannino l’autorevolezza delle decisioni, inficiandone la certezza. Il fondamento teorico delle pronunce di merito che accolgono soprattutto in queste ipotesi la soluzione della riunione del giudizio di separazione al giudizio di divorzio, risiede nella affermazione del principio secondo il quale l’introduzione della causa di divorzio esautora il giudice della separazione dal potere di pronunciare sull’affidamento dei figli e, per quanto connessa alla concreta regolamentazione delle modalità di affidamento, con specifico riferimento al loro collocamento, sull’asse- gnazione della casa familiare  [8]. In realtà, l’osservazione pratica di q u e s t e v i c e n d e p r o c e s s u a l i t e s t i m o n i a l ’ i n v e r s i o n e della  vis  attractivaprefigurata da tale ricostruzione teorica. È il complesso degli accertamenti istruttori compiuti dal giudice della separazione che trasmigra nel giudizio di divorzio, rendendo superflue attività istruttorie non ritenute strettamente necessarie da una modifica allegata delle circostanze in fatto, opportunamente vagliate dallo scrutinio del giudice. L’identità del giudice è in realtà funzionale all’utilizzazione delle attività istruttorie già compiute (CTU, ascolto del minore, indagine psico-sociale) e il rifiuto della riunione rappresenta proprio la salvaguardia dinanzi a tale prassi, delle istanze volte alla integrazione e/o alla prosecuzione di quegli accertamenti indispensabili

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per una più compiuta difesa delle parti e dell’interesse dei minori.

L’obiettivo di economia processuale viene raggiunto in via di fatto, senza una teorizzazione dell’annullamento della competenza del giudice della separazione in favore della competenza del giudice del divorzio, ma in realtà, mantenendo al giudice del divorzio limitati poteri di intervento per bilanciare la tendenza all’anticipazione alla separazione delle attività di accertamento funzionali al giudizio sulla definizione della crisi coniugale.

Più spiccata l’autonomia dei giudizi per le questioni inerenti gli aspetti patrimoniali, per i quali non viene meno l’esigenza di una pronuncia di condanna che si estenda all’intera pendenza del giudizio di separazione e, in certi casi, anche alle fasi precedenti, ancorché si sia introdotta una domanda di divorzio. Tuttavia, anche per tale genere di accertamenti, l’istruttoria del giudizio di separazione facilita il giudizio di divorzio. E non soltanto per la domanda di assegno di  mantenimento per i figli, caratterizzata da identità di presupposti normativi, nonostante la diversa ampiezza dell’arco temporale di riferimento, ma anche per l’assegno di mantenimento per il coniuge, connotato da presupposti normativi diversi rispetto a quelli previsti per l’assegno divorzile.

Infine, anche l’ipotesi di contemporanea pendenza dei due giudizi che comporta maggiori criticità sul piano logico, per la difficoltà di comprendere la permanenza di una potestà decisoria del giudice della separazione sulla istanza accessoria di addebito, nonostante la pendenza di un giudizio di divorzio, non si sottrae alla regola di autonomia delle determinazioni giudiziali. Infatti, poiché gli effetti di una pronuncia di addebito sono destinati a riflettersi anche sulle pronunce accessorie del divorzio, prima fra tutte la determinazione dell’assegno divorzile che tiene conto anche delle ragioni della decisione, la regola

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dell’autonomia ha comunque un valore direttivo del progresso dei due giudizi.

In definitiva, la giurisprudenza del Tribunale di Roma appare nel complesso restia ad utilizzare l’istituto della riunione per connessione dei giudizi di separazione e di divorzio, pendenti in primo grado, essenzialmente per il timore di applicare una regola generalizzata che, pur introducendo in via giurisprudenziale una riforma per più versi attesa e auspicata, quale quella del c.d. divorzio diretto, finisca con il mortificare in concreto le possibilità di tutela, legate alla specificità di ciascun giudizio che ancora esistono nel nostro ordinamento positivo.

La risposta organizzativa consistente nella coincidenza tabellare del giudice della separazione e del giudice del divorzio è tuttora finalizzata ad assicurare soluzioni pragmatiche di economicità processuale e di semplificazione, piuttosto che all’utilizzazione dell’istituto della riunione dei giudizi.

In attesa di interventi di riforma sistematicamente più articolati, il percorso della giurisprudenza appare gravato da un impegno non agevole di ricostruzione degli istituti esistenti nel diritto positivo. La definizione della crisi coniugale mediante strumenti normativi caratterizzati da linearità di discipline e univocità di effetti costituisce un interesse primario delle parti, dei minori interessati dalla crisi familiare, ma anche del sistema giudiziario, che soffre la moltiplicazione  degli interventi di tutela settoriali e disorganici. In questo processo di ricostruzione, i giudici  del Tribunale di Roma sanno di poter contare anche sulla condivisione da parte degli avvocati familiaristi dei fondamentali valori di garanzia dei diritti e di efficacia delle tutele, nell’ambito di una feconda relazione di collaborazione critica ormai risalente nel tempo e che l’odierno incontro conferma.

 

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NOTE

[1] Cass., Sez. V, 3 febbraio 2016, n. 2111.

[2]  Cass., Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18066; Cass., Sez. I, 21 agosto 2013, n. 19034.

[3]  Cass, Sez. I, 15 maggio 2013, n. 11686; Cass., Sez. I, 28 gennaio 2008, n. 1758.

[4] Trib. Roma 24 gennaio 1996, in Dir. giur., 1998, p. 170 ss., annotata da U. ALOISI, Il rapporto tra la pronuncia di separazione personale dei coniugi e la dichiarazione di addebito, con particolare riferimento agli istituti della sentenza non definitiva e del giudicato c.d. parziale: recenti orientamenti della giurisprudenza di merito e di legittimità.

[5] Trib. Roma 16 luglio 2016, in www. ilfamiliarista.it.

[6] Circolare Trib. Roma 9 giugno 2015.

[7] Trib. Roma 9 marzo 1996, in Foro it., 1997, I, c. 617.

[8] Trib. Milano, ord. 26 febbraio 2016.

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