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Poco dopo l’inizio del suo canto Orfeo rivela anche il nome di suo padre, Apollo. Questa paterni-

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CONCLUSIONE

Quando nel libro decimo delle Metamorfosi Orfeo prende la parola, il suo presentarsi come figlio della Musa si rifà alla ben nota tradizione mitica per cui il cantore era figlio di Calliope, la Musa più illustre di tutte e come tale inventrice o comunque tutrice del genere poetico più illustre di tutti, l’epica: tramite sua madre, Orfeo è stato da sempre considerato il poeta epico per eccellenza, secon- do alcuni inventore dell’esametro e addirittura già nel V secolo a. C. indicato come capostipite della famiglia di cantori da cui sarebbe nato Omero; la sovrapposizione con quest’ultimo era talmente na- turale che tra le molteplici versioni della genealogia di Omero non mancava quella che lo faceva fi- glio appunto di Calliope. Anche l’Orfeo ovidiano è un poeta epico, se non altro perché canta in esametri, esattamente come poeta epico è l’‘Ovidio’ che gli dà voce, che in rapporto con il suo per- sonaggio si pone sia in qualità di suo creatore sia in qualità di suo seguace. In questo senso, anche

‘Ovidio’, come prima di lui Omero, può rivendicare di essere figlio di Calliope, la Musa del suo ge- nere poetico. Allo stesso tempo, il fatto che Orfeo chiami sua madre semplicemente Musa, senza specificarne il nome, favorisce la sovrapposizione tra lui, Omero e Ovidio, secondo il motivo già esiodeo dei poeti che «sono» dalle Muse e da Apollo: ogni poeta, dunque, anche il moderno Ovidio, può cominciare un canto con un’invocazione alla Musa parens.

Poco dopo l’inizio del suo canto Orfeo rivela anche il nome di suo padre, Apollo. Questa paterni-

tà è tanto scontata quanto insolita: la tradizione mitica, infatti, faceva di Orfeo il figlio del mortale

Eagro, proveniente dalla Tracia. Esisteva, tuttavia, una tendenza, sviluppatasi già nel V secolo a. C.,

a presentare il cantore mitico sotto la giurisdizione di Apollo, e tale interesse del dio della poesia

per uno dei suoi più antichi e più validi rappresentanti terreni si era tradotto più di una volta

nell’allusione a un rapporto di sangue. Essere figlio di Apollo, per di più, era un’altra caratteristica

potenzialmente ascrivibile a qualsiasi poeta in quanto tale: per Omero stesso, tra gli altri padri, si

citava anche Apollo, e non stupisce che in questo caso come madre del poeta fosse nominata Cal-

liope. Il motivo risaliva allo stesso passo esiodeo già citato, il quale, dunque, permetteva una perfet-

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L’unica fonte pre-ovidiana che si riferisce schiettamente al fatto che Orfeo fosse figlio (carnale, e non metaforico) di Apollo, è Asclepiade di Tragilo. Posto che è molto probabile che Ovidio cono- scesse Asclepiade, in quanto appunto unico sostenitore incondizionato della paternità di Apollo, la sua testimonianza descriveva una specie di famiglia poetica intorno ai genitori divini Calliope e Apollo: Orfeo, dunque, sarebbe stato l’ultimo di quattro fratelli, dopo Lino, Imeneo e Ialemo. Que- sti tre nomi erano tradizionalmente collegati tutti a un unico genere poetico, il θρῆνος, delle cui sottocategorie, appunto Λίνος, ὑμέναιος e ἰάλεμος, i tre fratelli erano diventati eponimi al mo- mento della loro morte, per tutti e tre brusca e prematura. La vicinanza di Orfeo alle tre figure ‘tre- netiche’ avrà senza dubbio contribuito a una sua assimilazione a quel genere letterario, considerato tra l’altro che anche Orfeo andò tradizionalmente incontro a una morte simile a quella dei suoi ‘fra- telli’. Nel momento in cui Ovidio accetta la paternità di Apollo per Orfeo, egli è probabilmente con- sapevole dei legami genetici che fanno del suo personaggio un poeta ‘di morte’.

Proprio un canto di morte, infatti, è quello che l’Orfeo ovidiano intona: il cantore è passato agli

amori omosessuali per dimenticare la moglie defunta Euridice, ma anche quando si dà all’elogio

della nuova forma di amore, le storie che egli racconta sono perennemente circondate da un alone di

tristezza, chiaro segnale della persistenza del lutto per la moglie. Ovidio, tuttavia, coniuga bene i

due aspetti di canto d’amore e canto di morte, utilizzando il doppio significato che il genere lettera-

rio dell’elegia, cui Orfeo sembra rifarsi nel proemio, poteva assumere: nata come canto di morte,

infatti, essa si era sviluppata fino alla sua forma augustea e ovidiana, per cui era perfettamente sen-

sato che accingersi al lamento funebre sulla donna amata si traducesse all’interno del contesto au-

gusteo nell’approdo all’elegia con conseguente abbandono dell’epica. La doppia natura di Orfeo,

poeta epico per tradizione e poeta elegiaco per necessità, e la sua professione di passaggio dalla

prima natura alla seconda, passaggio che per altro ricalca una simile evoluzione nei primi momenti

della carriera poetica di Ovidio, creano forte attrito all’interno del poema, a tal punto che il narrato-

re principale e il narratore secondario possono essere considerati praticamente la stessa persona: la

sovrapposizione risulta in una palese riscrittura del libro primo del poema all’interno del canto di

Orfeo nel libro decimo. La struttura delle due sezioni del poema è la stessa, e la lettura sinottica che

ne deriva mette perfettamente alla luce il massimo punto di distacco: l’episodio di Giacinto narrato

da Orfeo è una palinodia dell’episodio di Dafne narrato da ‘Ovidio’ nel libro primo. Il superamento

dell’epica professato da Orfeo nel proemio al suo canto, insomma, diventa un superamento del

poema stesso dal suo stesso interno: Ovidio riscrive sé stesso.

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