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Non si tratta certo di categorie fisse quelle dell’insegnante e dell’allievo, ma che si presentano in molteplici varianti, sia in ambito storico che letterario

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Academic year: 2021

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Introduzione

Nella pratica dell’insegnamento si riconosce la presenza di due caratteri tra loro opposti: la figura di un maestro, che possiede le competenze necessarie per impartire una qualche disciplina ai propri allievi, e quella di un discepolo, che si dimostra più o meno pronto a ricevere tali insegnamenti. Non si tratta certo di categorie fisse quelle dell’insegnante e dell’allievo, ma che si presentano in molteplici varianti, sia in ambito storico che letterario. Il termine maestro, che deriva dal latino MAGISTER,1 fa sicuramente riferimento alla più classica delle relazioni, ossia quella scolastica fra docente e alunno, fra artista e allievo, ma, considerare il maestro soltanto come una guida utile per imparare una tecnica è davvero troppo riduttivo. Si pensi ad esempio a Gesù, il più grande maestro dell’umanità, ma anche al padre della filosofia, Socrate: da sempre, insomma, esistono maestri in senso spirituale che, attraverso il loro operato, esercitano una forte influenza sul pensiero e sulle vite dei loro adepti.

Ciò che davvero mi ha spinto ad approfondire la relazione maestro- discepolo è il fatto che per ogni maestro accreditato e riconosciuto dalle istituzioni, ne esistono altrettanti per così dire “alternativi” a quelli vigenti, che non per questo, tuttavia, risultano meno affascinanti. Tali maestri vengono certamente giudicati “cattivi” da coloro che stanno dalla parte della norma, ma

1 Si noti come MAGISTER (acc. MAGISTRUM) ha la stessa radice di MAGIS e MAGNUM, ossia

“grande”.

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sono una fonte d’ispirazione non meno potente per i loro seguaci. Voglio sin d’ora anticipare che mi occuperò di quest’ultimo genere di maestri, trattando testi tardo- ottocenteschi che ci mostrano quanto costoro possano essere anche “pericolosi”, offrendo lo spunto per comprendere ambigue dinamiche che si sviluppano con i loro allievi. Al centro di queste dinamiche c’è senz’altro la questione di una paternità che, in questo periodo, entra in crisi venendo meno l’autorità di figure istituzionali come quelle del professore o del precettore, che trasmettevano ai giovani saperi e valori standard. In altre parole, si assiste al crollo della borghesia che, fino ad allora, era stata classe rivoluzionaria per poi trasformarsi in classe di potere, mirando attraverso una serie di istituzioni a trasmettere certi saperi e valori di padre in figlio. Contestualmente entrano in scena certi maestri che rivolgono contro la società borghese quel pensiero critico che la borghesia a suo tempo aveva foggiato contro la tradizione religiosa e aristocratica.

Altra considerazione interessante è che mentre i maestri tradizionali insegnano concetti astratti e accademici in maniera asettica ed impersonale, i nuovi maestri possiedono quello che Max Weber chiamerà “carisma”,2 un ascendente che è legato alle loro eccezionali qualità personali ed alla loro parola, che può toccare da vicino e cambiare la vita di chi li ascolta. Si noti che, secondo Weber, il leader carismatico non deve per forza essere una forza positiva: da questo punto di vista forse il caso più importante e noto a livello generale è quello del pensatore Nietzsche, il cattivo maestro per eccellenza di generazioni e generazioni di giovani europei, ancor più di Marx mi viene da dire, che si limitava

2 Max Weber, Parlamento e governo (1918), Editori Laterza, Bari, 2002.

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a chiedere di partecipare al movimento comunista e di diventare un membro del partito o del sindacato sulla base di argomentazioni magari opinabili, ma senza comunque l’intento di voler cambiare le vite degli individui, cosa che invece si evince in Nietzsche. L’uso della parola in senso enigmatico, a tratti poetico, tocca nell’intimo l’ascoltatore, chiedendogli implicitamente di cambiare la propria vita, di diventare un altro, di superare certe convenzioni e soprattutto una certa morale.

Il problema con Nietzsche diventa quindi capire se il parlare per parabole e suggestioni nasconda realmente la volontà di andare oltre la morale vigente, oppure rappresenti soltanto un modo certo suggestivo di interpretare la realtà ma da non prendere immediatamente per vero, da non trasformare subito in azioni reali. Di questo mi occuperò nella mia analisi: di quanto la parola del cattivo maestro vada presa alla lettera o semplicemente come una suggestione, una provocazione. Analizzerò opere dove ci confronteremo con la problematica della responsabilità della parola magistrale: è il maestro che non ha saputo spiegarsi e ha spinto l’allievo a compiere azioni estreme o è stato l’allievo a interpretarlo male e compiere azioni che il maestro non intendeva venissero compiute? Dove sta la colpa e in che misura? Chi deve assumersi la responsabilità? Mi pare che questo problema si sia posto anche a livello politico e storico: è stato l’allievo Lenin a intepretare male il maestro Marx? È stato Hitler a interpretare male il maestro Nietzsche? Il Novecento certo ha visto il trionfo di maestri estremi che hanno sedotto masse di individui: di chi è allora la colpa? La letteratura che esaminerò tratta proprio di rapporti fra maestri e allievi singolarmente intesi ma i loro casi forse getteranno luce su dinamiche molto più vaste.

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Cultura, gioventù e maturità nelle opere di Oscar Wilde, Paul Bourget e Fëdor Dostoevskij

A partire da tre noti casi letterari dell’Ottocento e Novecento, The Picture of Dorian Gray di Oscar Wilde, Le Disciple di Paul Bourget, e I Fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, andrò ad analizzare le dinamiche che intercorrono fra le figure dei maestri e dei discepoli, quest’ultimi disorientati e al tempo stesso affascinati dalle teorie volutamente provocatorie delle loro guide spirituali. La tematica della responsabilità si intreccia con il concetto di Bene e di Male, di giusto e sbagliato, diventando fonte d’ispirazione anche di celebri pellicole cinematografiche, quali The Rope di Alfred Hitchcock e Dead Poets Society di Peter Weir.

La scelta di tre romanzi così diversi per cultura di provenienza, sebbene ascrivibili ad un medesimo e circoscritto periodo storico, quello tardo- ottocentesco, è frutto di un’attenta analisi volta ad individuare, oltre alle differenze, i punti di contatto fra opere che, pur essendo nazionalmente lontane fra loro, mettono in scena, più o meno esplicitamente, una questione a mio avviso molto interessante: l’influenza psicologica che una figura dominante esercita su un personaggio emotivamente più debole. Ci tengo a precisare che l’ordine col quale ho deciso di affrontare i romanzi non è volutamente cronologico, ma rispecchia piuttosto l’intensità del grado di drammaticità presente in

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ciascun’opera, in relazione al rapporto fra maturità e gioventù che ogni romanzo propone.

Soffermandomi sul concetto di influenza, intesa come controllo psicologico nella sua duplice accezione positiva e negativa, esaminerò in primis il romanzo di Oscar Wilde, approfondendo le relazioni che intercorrono fra i personaggi principali della storia: Lord Henry, che rappresenta la figura del maestro, e Dorian Gray, che incarna quella del discepolo. Senza contrappormi all’approccio della tradizione, verificherò nel testo le maggiori influenze presenti nel romanzo, indugiando su quelle più manifeste di Lord Henry e Basil Hallward, rivalutate in rapporto alla figura di Lord Kelso in merito alla tematica dell’ereditarietà. Avrò inoltre occasione di mostrare come lo stesso ritratto abbia una sua insita capacità di influenzare, così come il famoso libro giallo che Dorian Gray riceve in dono da Lord Henry. Rispetto a questi influssi, metterò in primo piano la reazione del protagonista, sia essa da intendersi come lenta persuasione o passivo adeguamento alla realtà circostante.

Proseguirò la mia analisi approfondendo la tematica della responsabilità, argomento centrale anche di Le Disciple, dove il ruolo del maestro viene affidato all’autorevole filosofo Adrian Sixte, seduttore psicologico di nuove generazioni di lettori, alle quali appartiene Robert Greslou. Il romanzo assumerà tinte oscure contestualmente alla decisione del giovane di sperimentare un gioco di seduzione sulla coetanea Charlotte de Jussat, prendendo spunto diretto dagli scritti del professor Sixte. La responsabilità, dunque, come colpevolezza etica e morale, nella misura in cui la figura del maestro verrà condannata in tribunale per aver

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traviato la mente di Greslou. Da un lato l’intento educativo degli scritti filosofici di Adrian Sixte, dall’altro la pericolosità a livello sociale di quelle stesse idee:

esaminerò il complesso meccanismo di seduzioni che Bourget intreccia per mostrare l’effetto plagiante e destabilizzante dell’influenza.

Riprendendo il tema della “pericolosità” di certe idee, terminerò il percorso letterario con il celebre I Fratelli Karamazov, che, differendo dagli altri due romanzi per tradizione culturale, mi permetterà di analizzare una variante del tutto nuova della relazione maestro-allievo, che vede coinvolti stavolta due fratellastri.

La teoria del “tutto è permesso” espressa da Ivan Karamazov e stravolta e interpretata dal servo Smerdjakov come un implicito invito al delitto, ci farà riflettere sulla differenza fra parola ed azione, desiderio e realtà: da una parte l’idea comune a tutti i fratelli di voler uccidere la figura paterna, dall’altra il coraggio dell’unico in grado di metterla in pratica. La tematica della responsabilità finirà per fondersi con il tema del doppio, quando spetterà all’ambigua figura del Diavolo difendere le posizioni del discepolo Smerdjakov, mettendo Ivan faccia a faccia con la propria coscienza.

Passando infine alla sezione cinematografica, chiamerò in causa un cult della portata di The Rope, accostandolo per tematica al ben più recente Dead Poets Society, ribadendo la scissione fra dimensione teorica delle idee e quella pratica della realtà. Ciò mi fornirà lo spunto per riflettere sulle analogie e differenze che accomunano i personaggi principali dei romanzi precedentemente analizzati.

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Il coraggio di un allievo:

“The Picture of Dorian Gray” di Oscar Wilde

«Laertes, was your father dear to you?

Or are you like a painting of a sorrow, A face without a heart?»

(William Shakespeare, Hamlet, Atto IV, scena VII)

È noto come, tradizionalmente, fra le fonti principali del romanzo di Oscar Wilde compaia il Faust di Goethe. Non per brama di suprema conoscenza, come il predecessore, bensì di eterna giovinezza, Dorian Gray vende la propria anima al mefistofelico Lord Henry Wotton, che sembra indurlo al peccato, condannandolo alla perdizione. Sebbene non sia sbagliato leggere il romanzo “as a footnote to Faust”, credo che indugiare su questa prospettiva possa alla lunga dimostrarsi svantaggioso, così come riduttiva mi pare l’interpretazione del conflitto fra Basil Hallward e Lord Henry Wotton in termini di opposizione fra Bene e Male, fra coscienza e desiderio, ragione e sentimento.3

3 Si veda l’analisi proposta da Ted. R. Spivey (Damnation and Salvation in “The Picture of Dorian Gray”, in “Boston University Studies in English”, Vol. 4, No. 3, Autumn 1960, pp. 162- 170) per quanto riguarda il parallelismo fra The Picture of Dorian Gray e il Faust di Goethe.

Houston A. Baker (A tragedy of the Artist: “The Picture of Dorian Gray”, in “Nineteenth-Century Fiction”, Vol. 24, No. 3, December 1969, pp. 349-355) Sheldon W. Liebman (Character Design in

“The Picture of Dorian Gray”, in “Studies in the Novel”, Vol. 31, No. 3, 1999, pp. 296-316) e Robert Keefe (Artist and Model in “The Picture of Dorian Gray”, in “Studies in the Novel”, Vol.

5, No. 1, Spring 1973, pp. 63-70) sono soltanto alcuni dei critici che hanno suggerito un diverso approccio, volto a valorizzare i meccanismi interni al romanzo.

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Suggerisco di affrontare la questione a partire dalla cosiddetta “temptation scene”, nel bel mezzo della quale Basil Hallward si sente in dovere di proteggere l’ingenuo Dorian Gray dal fascino irresistibile di Lord Henry, che, come sostiene il pittore, «has a very bad influence over all his friends».4 Incalzato dal giovane, Lord Henry sembra tutt’altro che volersi difendere dall’accusa mossa dall’amico, confermandone semmai le parole:

«“There is no such thing as a good influence, Mr. Gray. All influence is immoral - immoral from the scientific point of view. [...] To influence a person is to give him one’s own soul. He does not think his natural thoughts, or burn with his natural passions. His virtues are not real to him. His sins, if there are such things as sins, are borrowed. He becomes an echo of someone else’s music, an actor of a part that has not been written for him. The aim of life is self-development. To realize one’s nature perfectly - that is what each of us is here for.”» (p. 25)

Personaggio cinico e sempre sopra le righe, nonché coniatore di celebri aforismi, Lord Henry si dimostra un vero e proprio maestro di vita, in grado di trovare risposte alle grandi domande. Lo vediamo all’opera anche in questo passo, nel quale appare evidente la presa di posizione dello stesso Oscar Wilde riguardo a due concetti importanti della modernità: l’auto-realizzazione e l’espressivismo.5 Se, da un lato, la grande sfida del romanziere consiste nella salvaguardia della componente di spontaneità («The aim of life is self-development. To realize one’s nature perfectly - that is what each of us is here for» sostiene Wilde attraverso

4 Oscar Wilde, The picture of Dorian Gray (ed. orig. 1891), Collins Classics, London, 2010, p. 25.

5 Si vedano le posizioni filosofiche di Charles Tylor (Radici dell’Io. La Costruzione dell’Identità Moderna, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1993). «Trovare il senso della vita vuol dire esplicitarlo. La modernità ha maturato l’acuta consapevolezza che per noi l’esistenza di un senso dipende dalle nostre capacità di espressione. Scoprire un senso della vita significa elaborare espressioni significative che siano adeguate.» (p. 32).

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Lord Henry), dall’altro, non può passare inosservato l’effetto ipnotizzante di quelle parole che, mentre condannano il plagio della mente altrui e criticano l’influenza in quanto nemica dell’autosviluppo e dell’autocreazione dell’individuo («influence means imposing on someone a persona or image that is not his»

parafrasa la Rashkin6), lasciano un segno indelebile sia in Dorian, che nello stesso lettore. In altre parole, l’atteggiamento e le intenzioni di Lord Henry si presentano, sin dalle prime battute, paradossali: colui che afferma categoricamente «all influence is immoral», mettendo in guardia il giovane sui pericoli di un eventuale dominio psicologico, non fa altro che attirarlo a sé con il suo modo di fare e di parlare per sentenze. Nel dare voce alle emozioni di Lord Henry, l’autore rende ancora più esplicita questa contraddizione, dipingendolo come un moderno Pigmalione,7 il quale, sulle orme del mito ovidiano, intende forgiare il proprio adepto ideale: «There was something terribly enthralling in the exercise of influence. [...] (Dorian) was a marvellous type, or could be fashioned into a marvellous type, at any rate. [...] He (Lord Henry) would seek to dominate him, [...] he would make that wonderful spirit his own.» (p. 40).8

6 Esther Rashkin, Art as Symptom: A Portrait of Child Abuse in “The Picture of Dorian Gray”, in

“Modern Philology”, Vol. 95, No. 1, University Chicago Press, August 1997, p. 69.

7 Il mito di Pigmalione (Ovidio, Le Metamorfosi, X, 243-297) è stato ripreso e adattato modernamente dal drammaturgo irlandese George Bernard Shaw nella commedia Pigmalion (1913), nella quale un professore di fonetica si assume il compito di insegnare buon accento e buone maniere a una giovane fioraia. A differenza della piece di Shaw, in cui il maestro Henry Higgins rivolge le proprie attenzioni ad una donna per svilupparne le doti naturali e affinarne i modi, Wilde mette al centro del suo romanzo la figura di un ragazzo, che, nell’ingenuità della sua gioventù, subisce una duplice influenza: quella del Pigmalione-Basil Hallward, che costruisce per lui un’immagine pittorica ideale, e quella del Pigmalione-Lord Henry, che plasma la sua mente attraverso una filosofia di vita cinica ed immorale.

8 A tale proposito, Sheldon W. Liebman argomenta (Character Design in “The Picture Of Dorian Gray”, cit., p. 302): «Dorian offers Lord Henry both the opportunity to analyze a complex personality and the chance to create a new and beautiful self. He also represents a new life of sensation, emotion and thought. In this way, he becomes one of Henry’s multiple selves. In this

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Le asserzioni paradossali di Lord Henry richiamano alla mente i casi di doppio vincolo trattati in psicologia da Gregory Bateson nei suoi studi condotti sulla schizofrenia. I pazienti affetti da questa patologia mostrano ciò che viene definita “debolezza dell’ego”, ossia «una difficoltà nell’identificare e nell’interpretare quei segnali che dovrebbero dire all’individuo di che genere è un messaggio».9 Il punto cruciale della questione riguarda la capacità dell’individuo di acquisire un’abilità nel discriminare segnali specifici, che vengono scambiati nel contesto di gioco, di fantasia, di minaccia, etc..

«In qualunque cultura, gli individui acquistano un’abilità straordinaria non solo nel procedere alla semplice identificazione del genere di un messaggio, ma anche nell’effettuare identificazioni multiple del genere di un messaggio.

[...] Che cosa è necessario ad un bambino per acquisire, o per non acquisire, abilità nei modi d’interpretare questi segnali?»

(Verso un’ecologia della mente, cit., p. 239)

Alla ricerca di una risposta a questo problema, Bateson inizia a considerare i padri e le madri dei pazienti, al fine di stabilire quali siano le circostanze reali, oltre ai fattori intensificativi ed ereditari, che possono condurre un individuo alla patologia specifica. Sulla base dell’analisi del processo di comunicazione e dell’osservazione di pazienti schizofrenici, lo studioso ricava la descrizione di una situazione detta “doppio vincolo”, riassumibile come «l’esperienza di venir punito proprio per essere nel giusto circa l’interpretazione del contesto» (Ibid., p. 284) e ne deduce le condizioni necessarie per il suo presentarsi: in primo luogo, way, Lord Henry decides to make Dorian an extension of himself». Houston A. Baker (A tragedy of the Artist, cit., p. 350), invece, ha definito The Picture of Dorian Gray «a story of the domination of an older man by a beautiful youth».

9 Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente (ed. orig. 1972), Adephi, Milano, 1998, p. 236.

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l’individuo deve essere coinvolto in un rapporto intenso, quale, ad esempio, quello madre-figlio nel contesto familiare, dove il bambino si trova prigioniero di una situazione in cui l’altra persona che partecipa al rapporto (la madre) «emette allo stesso tempo messaggi di due ordini, uno dei quali nega l’altro» (Ibid., p. 252).

Come risultato, il bambino non riesce ad analizzare i messaggi che vengono emessi, né a discriminare a quale ordine di messaggio debba rispondere. La madre, ad esempio, potrebbe dire al bambino: “Va’ a dormire, sei stanco e voglio che tu ti riposi”; la frase, apparentemente affettuosa, mette il bambino di fronte a due ordini di messaggi: il primo, comunicativo, che esprime letteralmente il senso del discorso; il secondo, metacomunicativo, che sottintende, attraverso una serie di segnali, un messaggio ben diverso, che può essere espresso come “Va’ fuori dai piedi, perché sono stufa di te”. Bateson argomenta:

«Se il bambino interpretasse correttamente i segnali metacomunicativi, dovrebbe fare i conti col fatto che la madre non lo vuole vicino e che lo sta ingannando dimostrandosi affettuosa. Egli sarebbe “punito” per aver appreso a distinguere con cura gli ordini dei messaggi: quindi, piuttosto che riconoscere l’inganno materno, tende ad accettare l’idea di essere stanco. Per continuare a vivere con lei, il bambino deve discriminare in modo errato i suoi messaggi interni, oltre a discriminare in modo errato i messaggi altrui.»

(Ibid., p. 259)

L’ipotesi che sta alla base del ragionamento di Bateson è che l’esistenza stessa del bambino abbia per la madre un significato speciale, capace di provocarle ansia e ostilità ogniqualvolta vi sia il rischio di un contatto intimo col figlio. Se il bambino rispondesse all’affetto simulato della madre, quest’ultima,

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sentendosi in ansia, potrebbe punirlo per proteggersi dalla sua vicinanza, arrivando persino a credere che i sentimenti del figlio non siano sinceri, ma solo un effetto delle sue profferte d’amore; qualora, invece, il bambino non si dimostrasse affettuoso, dando prova di aver appreso i segnali metacomunicativi della madre, sarebbe punito per il suo allontanamento, da lei interpretato come un’accusa di mancanza d’amore nei suoi confronti. Lo studioso conclude: «Il bambino è punito se discrimina correttamente i messaggi della madre, ed è punito se li discrimina erroneamente: è preso in un doppio vincolo» che, sfortunatamente, avviene «nell’ambito di un rapporto che è il più importante della sua vita e costituisce un modello per tutti gli altri rapporti» (Ibid., pp. 260-261).

Bateson non si limita ad analizzare le vicende di doppio vincolo presenti nel contesto familiare, bensì fa anche il caso del rapporto fra il maestro Zen e il suo discepolo, suggerendo l’uso della comunicazione paradossale come strategia per un apprendimento di tipo “superiore”. La disciplina Zen fa ricorso ad una pratica meditativa, il cui strumento è denominato kōan, che consiste nell’impiego di racconti esemplari e dialoghi fondati sul paradosso, di fronte ai quali ci si aspetta una “illuminazione”. Ciò mi consente di ricondurre la situazione alla vicenda del romanzo di Oscar Wilde e, precisamente, alle figure di Lord Henry e Dorian Gray.

Scrive l’antropologo:

«Nel buddismo Zen si persegue lo scopo di raggiungere l’illuminazione, che il maestro Zen tenta in vari modi di indurre nel suo discepolo. Ad esempio, il maestro alza un bastone sulla testa del discepolo e gli dice con tono minaccioso: “Se tu dici che questo bastone è reale ti colpisco. Se tu dici che questo bastone non è reale ti colpisco. Se non dici nulla ti colpisco.” A noi

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sembra che lo schizofrenico si trovi continuamente nella stessa situazione del discepolo, ma, invece di raggiungere l’illuminazione, egli raggiunge piuttosto qualcosa di simile al disorientamento. Il discepolo Zen potrebbe anche stendere il braccio e strappare il bastone al maestro (il quale potrebbe accettare questa risposta), ma allo schizofrenico questa scelta è preclusa, poiché per lui il rapporto con la madre è importante e inoltre gli scopi e la consapevolezza della madre non assomigliano a quelli del maestro. Noi avanziamo l’ipotesi che, ogni volta che un individuo si trova in una situazione di doppio vincolo, la sua capacità di discriminazione fra tipi logici subisca un collasso.» (Ibid., pp. 251-252)

Disorientato dalle parole e dagli atteggiamenti dell’intellettuale, Dorian Gray resta imprigionato in un doppio vincolo che, a mio avviso, si avvicina molto alla situazione esplorata da Bateson: Lord Henry, come il maestro Zen, pone l’allievo-Dorian di fronte ad una contraddizione che, malgrado sembri senza soluzione, dovrebbe spingerlo a trovare da solo la strada della verità:

nell’affermare «all influence is immoral», sebbene a tutti gli effetti stia pericolosamente influenzando il ragazzo, l’intellettuale comunica messaggi contraddittori, che, diversamente dal discepolo Zen, Dorian non riesce a decodificare.10 Inconsapevole protagonista di un vero e proprio “educational journey”,11 il nostro allievo non possiede gli strumenti necessari per cogliere gli aspetti paradossali dell’ingiunzione e non può fare altro che limitarsi a

10 È interessante notare come l’aforisma wildiano sia esso stesso contraddittorio: da un lato, nasce sotto il segno della libertà e della trasgressione («The aim of life is self-development. To realize one’s nature perfectly - that is what each of us is here for»); dall’altro, si dimostra apodittico e tassativo («all influence is immoral»).

11 Jan B. Gordon, “Parody as Initiation”: The Sad Education of “Dorian Gray”, in “Criticism: A Quarterly for Literature and the Arts”, Vol. 9, No. 4, 1967, p. 357.

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considerarne il valore letterale, vittima dell’ambiguo meccanismo comunicativo di Lord Henry.

L’idea che Dorian Gray non sia davvero all’altezza di questi paradossi viene supportata anche dal testo. Paragonato a Narciso12 per l’estrema bellezza e crudeltà, il giovane si dimostra, sin dall’inizio, «free of the pangs of intelligence», come osserva Robert Keefe.13 Anche la stima che Lord Henry mostra verso di lui, non appena lo vede posare per Basil Hallward, dipende esclusivamente dalla sua bellezza:

«“He is Narcissus, and you [Basil] - well, of course you have an intellectual expression and all that. But beauty, real beauty, ends where an intellectual expression begins. [...] Your mysterious young friend never thinks. I feel quite sure of that. He is some brainless beautiful creature who should be always here in winter when we have no flowers to look at, and always here in summer when we want something to chill our intelligence.”» (p. 14)

La perfezione che gli viene attribuita è soltanto di facciata, in quanto limitata all’aspetto esteriore, così come l’innocenza che lo contraddistingue nella prima parte del romanzo si dimostra, in realtà, una qualità passiva: il capriccio è il biglietto da visita di Dorian Gray, il quale, seduto al pianoforte di spalle al pittore, entra in scena lamentandosi della stremante sessione di posa («I am tired of sitting and I dont’ want a life-sized portrait of myself») e pretendendo in prestito alcuni spartiti di Schumann («You must lend mem these, Basil. I want to learn them», p.

12 Ovidio, Le Metamorfosi, III, 339-509.

13 Robert Keefe, Artist And Model In “The Picture Of Dorian Gray”, in “Studies In The Novel”, Vol. 5, No. 1, Spring, 1973, p. 64.

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23). Gli aggettivi “wilful” e “petulant”, che designano il suo modo di fare, intervengono ad avvalorare la nostra opinione e quella di Lord Henry: l’aura

“celestiale” che, secondo Hallward e Lady Agatha, avvolge il ragazzo, assume, in realtà, la forma di una scialba immaturità agli occhi di una più attenta analisi;

come dire che l’intelligenza di Dorian Gray risulta, se non altro, meno raffinata della sua bellezza. Egli, difatti, non pare pronto ad accogliere gli insegnamenti provocatori del maestro, il quale, a tutti gli effetti, vorrebbe soltanto trasmettergli una profonda conoscenza di sé e del mondo circostante. Il testo ne fornisce la prova decisiva nel bel mezzo del dialogo fra il discepolo e il maestro, in merito all’innamoramento per Sybil Vane:

«“I don’t think I am likely to marry, Harry. I am too much in love. That is one of your aphorisms. I am putting it into practice, as I do everything that you say.”» (p. 48)

Vorrei adesso soffermarmi sul passo in cui Lord Henry viene invitato a pranzo da Lady Agatha, in quanto ulteriore occasione per mostrare la vera natura dell’intellettuale. Al tavolo siedono personalità importanti, fra cui la duchessa di Harley ed il signor Erskine di Treadley; Lord Henry, sebbene arrivi in ritardo all’appuntamento, non fatica certo ad inserirsi nel gruppo, intrattenendo gli ospiti con dialoghi allusivi e provocatori, che lasciano tutti sbalorditi e insieme incuriositi. Di seguito, alcune parti di dialogo estrapolate:

«“I can sympathize with everything except suffering,” said Lord Henry, shrugging his shoulders. “I cannot sympathize with that. It is too ugly, too

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horrible, too distressing. There is something terribly morbid in the modern sympathy with pain. One should sympathize with the colour, the beauty, the joy of life. The less said about life’s sores, the better.”» (p. 43)

[...]

«The politician looked at him keenly. “What change do you propose, then?”

he asked.

Lord Henry laughed. “I don’t desire to change anything in England except the weather,” he answered. “I am quite content with philosophic contemplation. But, as the nineteenth century has gone bankrupt through an over-expenditure of sympathy, I would suggest that we should appeal to science to put us straight. The advantage of the emotions is that they lead us stray, and the advantage of science is that it is not emotional.”

“But we have such grave responsibilities,” ventured Mrs. Vandeleur timidly.

“Terribly grave,” echoed Lady Agatha.

Lord Henry looked over at Mr. Erskine. “Humanity takes itself too seriously.

It is the world’s original sin. If the caveman had known how to laugh, history would have been different.”» (pp. 43-44)

È interessante il giudizio che Lady Agatha fornisce su Lord Henry: «Don’t mind him. He never means anything that he says» sussurra alla duchessa per tranquillizzarla sull’innocuità del nipote (p. 42). Se, da una parte, pare affidabile l’opinione della signora, in quanto zia di Harry e quindi fonte attendibile d’informazioni, dall’altra, tuttavia, ella dà prova di non essere all’altezza di certi discorsi: «“Dear me!” said Lady Agatha, “how you men argue! I am sure I never can make out what you are talking about.”» (p. 43). Chi, invece, sembra comprendere davvero è il signor Erskine, al quale spetta di esprimere il fine ultimo dell’intellettuale, ossia, la ricerca della verità, perseguibile soltanto attraverso enunciati paradossali: «Well, the way of paradoxes is the way of truth.

To test reality we must see it on the tight rope. When the verities become acrobats,

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we can judge them» afferma, parafrasando il pensiero di Wotton (pp. 42-43), il quale, proprio come il maestro Zen, è convinto che sia possibile raggiungere l’illuminazione cavalcando le onde del paradosso: «Lord Henry Wotton played with the idea and grew wilful; tossed it into the air and transformed it; let it escape and recaptured it; made it iridescent with fancy and winged it with paradox.» 14 (p.

44). Egli sembra aver trovato nel signor Erskine l’allievo perfetto, che, a differenza di Dorian Gray, non si limita ad ascoltare i suoi insegnamenti e a metterli in pratica alla lettera, bensì è in grado di sviluppare un senso critico necessario al raggiungimento di una profonda consapevolezza di sé e della realtà circostante:

«“And now, my dear young friend, if you will allow me to call you so, may I ask if you really meant all that you said to us at lunch?”

“I quite forget what I said,” smiled Lord Henry. “Was it all very bad?”

“Very bad indeed. In fact I consider you extremely dangerous, and if anything happens to our good duchess, we shall all look on you as being primarily responsible. But I should like to talk to you about life. The generation into which I was born was tedious. Some day, when you are tired of London, come down to Treadley and expound to me your philosophy of pleasure over some admirable Burgundy I am fortunate enough to possess.”»

(pp.45-46)

14 Gabriella Micks La Regina, Le verità di una maschera. Il pensiero estetico di Oscar Wilde, CLUA, Pescara, 1984, p. 17. «[...] La girandola di paradossi faceva parte della strategia adottata da Wilde nella sua polemica contro il filisteismo della borghesia e contro il “carlylismo estetico”, come lo ha definito L. Anceschi, che soffocavano la libertà di nuove forme artistiche svincolate dal gretto moralismo o dal didatticismo imperanti. I paradossi, sempre “pericolosi”, come affermava lui stesso, sono inoltre lo strumento privilegiato per giungere ad una visione anticonvenzionale di certi problemi e intuire così possibili risposte o soluzioni diverse, nuove, cogliendo verità insospettate. [...] Rene Welleck riconosce, nella sua monumentale Storia della critica moderna, che in questo “bisogna prenderlo sul serio anche se non alla lettera.”»

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Sebbene il gentiluomo consideri Lord Henry “extremely dangerous”, non può fare a meno di aggiungere immediatamente “but I should like to talk to you about life”, vinto dal suo irresistibile fascino. Pensiamo, invece, all’amico di vecchia data Basil Hallward, il quale, sebbene conosca da vicino l’ascendente che il dandy esercita sulle persone, sembra tutt’altro che restarne sedotto: «“You don’t understand what friendship is, Harry” [Basil] murmured “or what enmity is, for that matter. You like every one; that is to say, you are indifferent to every one”»

(p. 18); «[Harry], you can’t feel what I feel. You change too often» (p. 22);

«Don’t try to influence [Dorian]. Your influence would be bad» (p. 23); fino al decisivo «Dorian, don’t pay any attention to what Lord Henry says. He has a very bad influence over all his friends, with the single exception of myself» (p. 25). Per quale motivo, invece, Dorian Gray viene stregato da Lord Henry? Propongo di riprendere il discorso dalla “temptation scene”, soffermandoci sulla reazione del giovane al seducente dialogo con l’intellettuale. Dopo aver espresso la propria opinione circa l’influenza, Wotton dichiara: «The only way to get rid of a temptation is to yield to it» (p. 26); l’ordine comunicativo di questo messaggio, traducibile nel categorico “soddisfa ogni tua tentazione”, lascia nuovamente spazio al livello metacomunicativo, che sottintende di rinunciare a certi desideri, come suggerisce l’etica del sacrificio, al fine di renderli ancora più acuti ed elevati. Ecco come Oscar Wilde intende indagare sugli effetti negativi di certe affermazioni paradossali: se, da una parte, Dorian indugia sull’ordine letterale dei discorsi, anziché trovare da solo la chiave d’interpretare correttamente la provocazione, dall’altra, Lord Henry non sembra ancora una volta considerare il

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fatto che i paradossi di cui si serve possano in qualche modo confondere l’interlocutore, al punto da spingerlo verso azioni deplorevoli, dalle quali egli per primo si ritrae inorridito. In altre parole, è indubbio che gli insegnamenti di Wotton vengano travisati, ma è altresì palese che egli faccia di tutto per essere frainteso: ciò che Dorian interpreta come “non farti influenzare, liberati dalla morale e vivi la tua vita pienamente”, sebbene nasconda un intento pedagogico volto al risveglio di una profonda consapevolezza, ha oggettivamente una componente ambigua e disorientante, dalla quale è difficile liberarsi. Esaminiamo il testo da vicino:

«“Every impulse that we strive to strangle broods in the mind and poisons us. [...] The only way to get rid of a temptation is to yield to it. Resist it, and your soul grows sick with longing for the things it has forbidden to itself, with desire for what its monstrous laws have made monstrous and unlawful. It has been said that the great events of the world take place in the brain. It is in the brain, and the brain only, that the great sins of the world take place also. You, Mr. Gray, you yourself, with your rose-red youth and your rose-white boyhood, you have had passions that have made you afraid, thoughts that have fined you with terror, day-dreams and sleeping dreams whose mere memory might stain your cheek with shame...”

“Stop”! faltered Dorian Gray, “Stop! You bewilder me. I don’t know what to say. There is some answer to you, but I cannot find it. Don’t speak. Let me think. Or rather, let me try not to think.”

For nearly ten minutes he stood there, motionless, with parted lips and eyes strangely bright. He was dimly conscious that entirely fresh influences were at work within him. Yet they seemed to him to have come really from himself. The few words that Basil’s friend had said to him - words spoken by chance, no doubt, and with wilful paradox in them - had touched some secret chord that had never been touched before, but that he felt was now vibrating

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and throbbing to curious pulses. [...] Words! Mere words! How terrible they were! How clear, and vivid, and cruel! One could not escape from them.

And yet what a subtle magic there was in them! They seemed to be able to give a plastic form to formless things, and to have a music of their own as sweet as that of viol or of lute. Mere words! Was there anything so real as words? Yes; there had been things in his boyhood that he had not understood. He understood them now. Life suddenly became fiery-coloured to him. It seemed to him that he had been walking in fire. Why had he not known it?» (pp. 26-27)

Le parole di Lord Henry hanno un effetto ipnotizzante e sconvolgente:

l’intervento di Dorian, che si limita ad un quasi urlato «Stop! You bewilder me», testimonia tutto il suo turbamento; meravigliato e, al tempo stesso, terrorizzato, egli è in preda ad un’anestesia emotiva («Let me think. Or rather, let me try not to think» supplica). Siamo al cuore del problema: l’influenza invasiva di Wotton, che finora ha soltanto stuzzicato il candido pensiero del giovane attraverso verità intriganti e insieme “depravanti”, ha appena scagliato la freccia decisiva, rivolta dritta all’anima («Had it hit the mark?» si domanda la voce narrante). «Words, mere words» quelle pronunciate dal maieuta, che, nella loro semplicità, sono però capaci di far cambiare la prospettiva della vita. Dorian, in questo senso, ha ragione a prenderle sul serio: «How terrible they were! How clear, and vivid, and cruel!

One could not escape from them».

Se, da un lato, il narratore sottolinea l’impossibilità di scappare dalla presa di certe parole, dall’altro, allude anche al risveglio di antiche emozioni, di influssi già presenti nel ragazzo, che albergano nella sua adolescenza: «There had been things in his boyhood that he had not understood. He understood them now». I

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“cattivi” insegnamenti di Lord Henry non sembrano essere i diretti responsabili del mutamento avvenuto nel ragazzo: «He was dimly conscious that entirely fresh influences were at work within him. Yet they seemed to him to have come really from himself» dichiarava il narratore, «the few words that Basil’s friend had said to him had touched some secret chord that had never been touched before». Ma quali sono le “cose” e le “passioni”, quali i “pensieri” legati all’adolescenza che soltanto adesso riesce a comprendere? A quali segreti danno forma i termini

“terrore”, “vergogna”, “rossore”, “mostruoso”, “illegale”? In breve, cosa sta dietro al personaggio di Dorian Gray? Una prima risposta emerge dalla conversazione fra Lord Henry e lo zio George, Lord Fermor, riguardo alle origini del giovane:

«“Kelso’s grandson!” echoed the old gentleman. “Kelso’s grandson… of course… I knew his mother intimately. I believe I was at her christening.

She was an extraordinarily beautiful girl, Margaret Devereux, and made all the men frantic by running away with a penniless young fellow - a mere nobody, sir, a subaltern in a foot regiment, or something of that kind.

Certainly. I remember the whole thing as if it happened yesterday. The poor chap was killed in a duel at Spa a few months after the marriage. There was an ugly story about it. They said Kelso got some rascally adventurer, some Belgian brute, to insult his son-in-law in public - paid him, sir, to do it, paid him - and that the fellow spitted his man as if he had been a pigeon. The thing was hushed up, but, egad, Kelso ate his chop alone at the club for some time afterwards. He brought his daughter back with him, I was told, and she never spoke to him again. Oh, yes; it was a bad business. The girl died, too, died within a year. So she left a son, did she? I had forgotten that. What sort of boy is he? If he is like his mother, he must be a good-looking chap.”» (pp.

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Dorian Gray è un orfano, cresciuto sotto la tirannia di un vecchio senza cuore, Lord Kelso, sulla cui coscienza, come si accenna nel testo, pesa un grave omicidio. Nella storia della sua origine è insito un potenziale elemento di corruzione di classe, in quanto figlio di “a mere nobody”, ossia, diretto discendente di ciò che il nonno ritiene “a vile marriage”. Dorian rappresenta il ricordo costante della degradazione della figlia, la perpetuazione carnale della contaminata Margaret Devereux. Una breve riflessione sulla marca connotativa dei nomi è d’obbligo: Margaret (lat. MARGARITA-AE) significa “perla”, mentre Deveraux (fr. VÉREUX), che letteralmente si traduce in “worm eaten”, “mangiato dai vermi”, ha a che fare col campo semantico della decadenza, quindi,

“degradato”, “vile”, “marcio”, “corrotto”. Lo stesso cognome di Dorian Gray denuncia i tratti ibridi del protagonista, come dire, un’anima grigia (gray omofono di grey), risultante dall’unione di bianco e nero, di aristocrazia (la madre) e piccola borghesia (il padre). La purezza e l’alto lignaggio di Margaret Devereux sarebbero stati contaminati dal “penniless young fellow” di cui si è innamorata, generando nel vecchio Lord Kelso la più profonda indignazione. Non c’è da meravigliarsi, considerato l’odio verso il genero e il risentimento nei confronti della figlia, che il nonno non trattasse bene nemmeno il nipote, arrivando persino a rifiutarlo e a tenerlo a debita distanza, in quanto frutto di un desiderio sgradito, nell’intento di tenere sotto controllo ciò che per lui costituiva una minaccia diretta alla propria appartenenza di classe. A testimoniare la reciproca ostilità fra nonno e nipote compare la frase «He winced at the mention of his grandfather. He had hateful memories of him» (p. 104), come suggerisce la Rashkin: «Lord Henry’s

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allusions to the “monstrous, unlawful, shameful” desires of Dorian’s soul and to his terror-filled thoughts thus appear to resonate with the grandfather’s “hideous, treacherous crime” and with his cruelty toward his grandson. This suggests that the influences awakened in Dorian and the corrupt turn taken by Dorian’s life may somehow be related to his childhood days spent with his grandfather».15 Questa tesi sarebbe supportata anche dalla reazione di Dorian alla vista del ritratto mutato: egli non solo nasconde la “horrifying picture” all’interno del vecchio studio del nonno, nel quale lui stesso era stato prigioniero, ponendo così una distanza fisica fra sé e il ritratto, così come il nonno aveva tenuto lui lontano da sé; egli, addirittura, copre la tela con un paramento appartenuto allo stesso Lord Kelso (pp. 105-108) e ne immagina la decomposizione paragonandola al ripugnante invecchiamento del nonno:

«Hour by hour, and week by week, the thing upon the canvas was growing old. It might escape the hideousness of sin, but the hideousness of age was in store for it. The cheeks would become hollow or flaccid. Yellow crow's feet would creep round the fading eyes and make them horrible. The hair would lose its brightness, the mouth would gape or droop, would be foolish or gross, as the mouths of old men are. There would be the wrinkled throat, the cold, blue-veined hands, the twisted body, that he remembered in the grandfather who had been so stern to him in his boyhood.» (p. 108)

Dorian Gray stabilisce così un legame profondo fra il ritratto deturpato e il tanto odiato progenitore, come se la dissipata esistenza da lui condotta, che vede riflettersi quotidianamente nel dipinto, fosse in un certo senso stata proiettata su di

15 Rashkin, Art as Symptom, cit., p. 70.

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lui dal nonno, esattamente come il drappo purpureo dell’anziano è stato calato sull’immagine pittorica della sua vita (Art as Symptom, cit., p. 71). Quest’idea viene rafforzata dalla concezione dell’uomo, da parte di Dorian, «as a complex multiform creature that bore within itself strange legacies of thought and passions, and whose very flash was tainted with the monstrous maladies of the dead» (p.

123): la curiosità, quasi morbosa, di voler scoprire qualcosa di sé nei propri antenati lo spinge a passeggiare lungo “the gaunt cold picture-gallery of his country house”, come se volesse ricercare nella ritrattistica di famiglia degli indizi che spieghino il suo carattere, il suo modo di essere, ciò che nel testo viene definito «a strange poisonous germ crept from body to body till it had reached his own» (Ivi). Tutto questo sembra suggerirci che le mostruose influenze e le crudeli fantasie risvegliate da Lord Henry non abbiano origine in lui, bensì derivino dall’atteggiamento tirannico e manipolatore di Lord Kelso: in altre parole, la

“poisonous life” condotta da Dorian Gray sarebbe l’effetto della “strange and poisonous legacy” lasciatagli in eredità dal dispotico progenitore. A tal proposito, vengono alla mente le parole classiste di Lord Henry, il quale, nel passo dedicato al commento sulla sparizione di Basil Hallward, dichiara: «“crime belongs exclusively to the lower orders”» (p. 177). Non dobbiamo certo credere che esista una teoria genetica per cui i ceti sociali inferiori possiedano caratteristiche innate che possano condurre all’omicidio; tuttavia, come abbiamo avuto modo di notare, è proprio il testo a mettere l’accento sulla duplice ereditarietà di Dorian Gray.

Nella letteratura otto-novecentesca, non mancano personaggi in possesso di una

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duplicità caratteriale legata alla diversa origine dei genitori.16 Sulla falsa riga di questa tradizione letteraria, sia i tratti fisici che quelli caratteriali di Dorian Gray mantengono questa eterogeneità, a testimonianza che il personaggio presenta aspetti e inclinazioni contrastanti. Possiamo ipotizzare che Dorian Gray arrivi persino ad uccidere a causa della sua origine per metà borghese? Se così fosse, non dovremmo sorprenderci che la risposta di Lord Henry, che è un nobile letterato, non contempli affatto l’omicidio e che, ad una prima lettura, l’apodittico

«murder is always a mistake» (Ivi) suoni come un giudizio estetico più che morale. Tuttavia, questa possibilità è esclusa dal testo, dal momento che una qualche relazione viene piuttosto stabilita fra il crime commesso da Dorian e il crime attendibilmente attribuito al nonno, esponente della nobiltà vittoriana.17 Pertanto, possiamo a buon merito pensare che gli “inviti” paradossali di Lord Henry facciano perno sulla componente aristocratica della discendenza di Dorian Gray, che porta in sé il germe della corruzione, anziché su quella plebea da parte del padre nobody.

16 Si pensi, fra i più recenti, a Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, protagonista del celebre Il Gattopardo (1958), del quale si ricorderà l’origine siciliana, da parte di padre, e insieme tedesca, da parte di madre. Fra gli esempi più celebri della letteratura ottocentesca, ricordo invece il ciclo dei Rougon-Macquart di Emile Zola, un’opera composta da venti romanzi (1871-1893), che descrive la vita di una ricca famiglia attraverso il loro albero genealogico, con l’intento di dimostrare che l’ereditarietà, così come la gravità, ha leggi ben precise. Spiega l’autore nella Prefazione: «Cercherò di scoprire e di seguire, risolvendo il doppio problema dei temperamenti individuali e degli ambienti sociali, il filo che conduce con certezza matematica da un uomo ad un altro uomo. E quando terrò in mano tutti i fili, quando avrò studiato a fondo tutto un gruppo sociale, farò vedere questo gruppo in azione come forza motrice d’un’epoca storica, lo raffigurerò in tutta la complessità dei suoi sforzi, analizzerò al contempo la somma della volontà di ciascuno dei suoi membri e l’impulso generale dell’insieme» (Emile Zola, La fortuna dei Rougon, trad. it. di S. Timpanaro, Garzanti, Milano, 1992, pp. 6-7).

17 Si ricordi come i tratti del volto del ritratto di Dorian Gray vengano paragonati a quelli di Lord Kelso (The Picture of Dorian Gray, cit., pp. 105-108).

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Privato degli affetti, Dorian Gray è un giovane uomo aristocratico in cerca di una guida spirituale. Puntualmente descritto attraverso le parole degli altri («Lady Brandon told me something like “Charming boy - poor dear mother and I absolutely inseparable. Quite forget what he does - afraid he - doesn’t do anything - oh yes plays the piano...or is it the violin?”» riporta Basil Hallward, p. 18; «Lady Agatha told me she had discovered a wonderful young man, [...] very earnest, with a beautiful nature» racconta Lord Henry, p. 22; «Kelso’s grandson! [...] If he is like his mother, he must be a good-looking chap» ne parla Lord Fermor, pp. 37- 38), egli si rivela “a perfect tabula rasa” (Artist And Model, cit., p. 64), la cui giovane età e lo stesso nome sono il riflesso della sua inconsistenza.18 Felice, dapprima, di aver trovato in Basil Hallward una figura paterna sostitutiva, inizia poi a preferire il ben più affascinante maieuta Lord Henry Wotton: «He had known Basil Hallward for months, but the friendship between them had never altered him. Suddenly there had come someone across his life who seemed to have disclosed to him life’s mystery.» (p. 28); «“Dear Basil! I have not laid eyes on him for a week. [...] Perhaps you had better write to him. I don’t want to see him alone. He says things that annoy me. He gives me good advice. [...] Oh, Basil is the best of fellows, but he seems to me to be just a bit of Philistine. Since I have known you, Harry, I have discovered that.”» confessa Dorian a Lord Henry (p.

55). Sebbene si faccia portavoce del buon senso e dell’etica cristiana, Basil Hallward rappresenta, al pari di Lord Henry se non in misura maggiore, il diretto

18 Il nome Dorian, che si collega all’aggettivo “dorico”, è sineddoche della moda ellenica tardo- ottocentesca che presentava l’omoerotismo maschile in termini celebrativi. Il cognome, invece, denuncia i tratti ibridi del protagonista: un’anima grigia (grey omofono di gray). Si vedano gli studi condotti da Laura Giovannelli ne Il Principe e il Satiro, Carrocci Editore, Roma, 2007.

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responsabile della corruzione di Dorian Gray, sia in quanto autore della sua immagine pittorica, sia in quanto paladino di una moralità molto vicina a quella di Lord Kelso. Basando tutto sul senso della bellezza desiderabile, il pittore dipinge un ritratto che racchiude in sé un potenziale amorale e corruttivo legato agli aspetti narcisistici del soggetto: come uno specchio, esso riflette al giovane un’immagine di bellezza di cui, fino a quel momento, non era consapevole.

Dorian si trova ad osservare la parte migliore di sé, quella perfetta che rimarrà intatta per sempre:19

«“I know, now, that when one loses one’s good looks, whatever they may be, one loses everything. Your picture has taught me that. […] When I find that I am growing old, I shall kill myself.”» (p. 32)

Se, da un lato, è evidente l’influenza che Basil esercita attraverso il ritratto, ascendente che peraltro viene condannato al termine del romanzo nella frase

«Basil had painted the portrait that had marred his life. He [Dorian] could not forgive him that. It was the portrait that had done everything» (p. 183), dall’altro, non possiamo tralasciare i molteplici tentativi da parte del pittore di dare un giudizio morale sulla vita condotta dall’amico. In un primo momento, Hallward cerca di porre rimedio agli effetti sconvolgenti del dipinto, provando a distruggere

19 Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, “Comunicazione al XVI Congresso internazionale di psicanalisi”, Zurigo, 17 luglio 1949, trad. it. di Giacomo Contri, in “Scritti”, vol I, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1974, pp. 87-94. Il riferimento al mito di Narciso si presenta di nuovo a metà del romanzo: «Once, in boyish mockery of Narcissus, he had kissed, or feigned to kiss, those painted lips that now smiled so cruelly at him. Morning after morning he had sat before the portrait wondering at its beauty, almost enamored of it, as it seemed to him at times.» (p. 95). Laura Giovannelli commenta brillantemente il passo: «In quest’ottica, Dorian rimarrà un puer aeternus, incapace di avventurarsi oltre il cosiddetto “stadio dello specchio” e di istituire complesse dinamiche relazionali, combinando un senso infantile di onnipotenza con fantasie di ambizione e un’eccessiva dipendenza dall’ammirazione e dall’approvazione altrui» (Il Principe e il Satiro, cit., p. 91).

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la tela («“Don’t, Basil, don’t! It would be a murder!”» grida Dorian);

successivamente, sarà la volta di una vera e propria paternale nei confronti del giovane, con l’intento di riportarlo sulla giusta strada. Faccio riferimento al passo che conduce all’omicidio del pittore, che suggerisce un parallelismo fra quest’ultimo e Lord Kelso. Al pari del nonno, Hallward mostra un forte desiderio di controllo su Dorian, che emerge in maniera chiara nel testo: dopo essersi preoccupato con Lord Henry del lignaggio dell’attrice Sybil Vane, della quale il ragazzo si era innamorato («Think of Dorian’s birth, and position, and wealth. It would be absurd for him to marry so much beneath him», p. 69), esattamente come Lord Kelso era risentito del sentimento della figlia nei confronti di “a mere nobody”, Basil alza ancora di più il tiro nel momento del confronto diretto con Dorian: «“I must speak, and you must listen. [...] I do want to preach to you. I want you to lead such a life as will make the world respect you”» (pp. 129-130).

Agli occhi dell’artista, la figura dell’amico assume gli stessi tratti mostruosi che Lord Kelso gli aveva certo attribuito: «“My God! If [the portrait] is true and this is what you have done with your life, you must be worse even than those who talk against you fancy you to be!”» (p. 134). Dorian, che assiste allo spettacolo appoggiato alla mensola del camino, schiaccia il fiore che porta all’occhiello

«with perhaps a flicker of triumph in his eyes» (p. 133), compiendo un gesto simbolico che presagisce la tragica morte del pittore. Non appena quest’ultimo gli rievoca l’infanzia («“Pray, Dorian, Pray. What is it that one was taught to say in one’s boyhood? ‘Lead us not into temptation. Forgive us our sins. Wash away our iniquities’. Let us say that togheter”»), dipingendolo come un demone e

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appellando il ritratto “that accursed thing”, Dorian viene assalito da un odio incontrollabile, che lo spinge ad afferrare un coltello e precipitarsi sul compagno.

Ma chi viene ucciso veramente? Dopo la morte, l’identità del pittore cessa di comparire esplicitamente nel testo e i termini che gli fanno riferimento diventano piuttosto elusivi (“a dead man”, “the man’s head”, “the thing”, “the silent thing”), come se l’autore stesso ci invitasse ad interpretare la questione dell’omicidio quale fredda esecuzione della castrante figura di Lord Kelso.20

Proprio sulla sparizione di Basil Hallward verte il dialogo fra Lord Henry e Dorian Gray, nella scena che precede l’epilogo del romanzo. Recitando la parte del cinico, Wotton esorcizza le proprie paure sdrammatizzandole («“If Basil chooses to hide himself, it is no business of mine. If he is dead, I don’t want to think about him. Death is the only thing that ever terrifies me. I hate it.”», p. 176) e, di fronte all’ipotesi di un delitto, ne nega ogni eventualità, affermando ironicamente: «“Why should he have been murdered? He was not clever enough to have enemies. Of course, he had a wonderful genius for painting. But a man can paint like Velasquez and yet be as dull as possibile. Basil was really rather dull”» (p. 177). A queste parole segue la sconcertante domanda di Dorian e la ben più sorprendente risposta di Lord Henry:

«“What would you say, Harry, if I told you that I had murdered Basil?” said the younger man.

“I would say, my dear fellow, that you were posing for a character that doesn’t suit you. All crime is vulgar, just as all vulgarity is crime. It is not in

20 Scrive la Rashkin: «Basil unknowingly assumes for Dorian the identity of his grandfather» (Art as Symptom, cit., p. 77).

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