• Non ci sono risultati.

3.1 L’industrializzazione in Italia

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "3.1 L’industrializzazione in Italia "

Copied!
35
0
0

Testo completo

(1)

C A P I T O L O 3 – V I L L A G G I E Q U A R T I E R I O P E R A I I T A L I A N I

3.1 L’industrializzazione in Italia

La Rivoluzione Industriale e tutti i fenomeni ad essa collegati non si sono sviluppati contemporaneamente in tutta Europa e in particolare in Italia si può parlare di industrializzazione, intesa come processo continuativo, solo dopo l’unità nazionale e limitatamente ad alcune regioni e città. Il forte ritardo rispetto a Gran Bretagna, Francia, Germania, Belgio è dovuto a vari fattori, primo su tutti la divisione politica del paese e le differenti condizioni socioeconomiche e geografiche esistenti tra i vari Stati, poi la scarsa disponibilità finanziaria, il ritardo tecnologico e la stasi demografica, che, iniziata nel 1860, si protrae per circa 20 anni, se si eccettuano alcune grandi città come Torino, Milano e Firenze.

In questo panorama, dove la lenta crescita della popolazione si accompagna alla stazionarietà economica e quindi all’immobilismo dei capitali e dove la situazione delle campagne è finanziariamente disastrosa, l’opera dei primi fondatori di imprese industriali ha avuto una risonanza ancora maggiore che in Gran Bretagna, anche se la sua portata, per quanto riguarda le persone coinvolte, è decisamente inferiore se paragonata al caso anglosassone.

In Italia, le prime fabbriche impiantate sono prevalentemente quelle legate al settore tessile e sono costruite in prossimità di corsi d’acqua, che forniscono energia per il funzionamento delle macchine, in aree dove già è presente una tradizione di lavoro tessile a domicilio e dove si trova molta manodopera a basso costo. Le regioni maggiormente interessate dall’industrializzazione sono la Lombardia, il Piemonte e il Veneto, ma anche la Toscana, come si vedrà nel prossimo capitolo, presenta casi interessanti di impianti produttivi e relative strutture connesse.

Nel settore tessile, l’industria cotoniera 1 ha un ruolo di primo piano e, soprattutto in Lombardia, dà il via alla nuova organizzazione industriale. La diffusione della lavorazione del cotone ha diverse motivazioni: innanzi tutto, le principali invenzioni tecniche sono abbinate alla trasformazione di questo

1 Anche i settori di lana e seta, nel XIX secolo, sono stati interessati dal processo di

industrializzazione; i lanifici si sono sviluppati soprattutto in Piemonte e Veneto, mentre la

lavorazione della seta in Lombardia. Dato il costo del materiale, il suo uso elitario, il ritardo e il

limitato ammodernamento degli impianti, la lavorazione della seta occupa un posto marginale nella

storia dell’industria moderna.

(2)

materiale, poi il cotone è molto versatile e permette lavorazioni diverse ed è anche economico, per cui viene impiegato per la realizzazione di biancheria a basso costo.

Storicamente, le origini dell’industria cotoniera italiana si possono far risalire al 1784, quando Giuseppe II ricorre al protezionismo doganale contro l’importazione di tessuti cotonieri esteri, inglesi in modo particolare. Questo provvedimento stimola l’avvio dell’industria nazionale, anche se in forma molto ridotta rispetto agli altri casi europei. Alla fine del ‘700 si registra la presenza di alcune manifatture di filati e cotone nell’Italia settentrionale, ma si tratta di casi isolati. Si deve aspettare l’introduzione delle prime macchine tessili nel processo di lavorazione per assistere a una prima diffusione di industrie laniere e cotoniere:

Giacomo Müller con lo stabilimento di Intra (1808), Andrea Ponti con gli opifici di Solbiate Olona (1812) e Pasquale Berghi con una filatura meccanica a Varano (1819) sono i pionieri dell’industria cotoniera italiana. Essi collocano i loro stabilimenti nella zona nord-ovest di Milano, ricca di corsi d’acqua, di manodopera a basso costo, vicina alla città e alle grandi vie di comunicazione. Queste fabbriche si differenziano in maniera netta dalle precedenti, perché non forniscono lavoro a domicilio ai contadini dotati di telai domestici ma sono organismi autonomi con una propria economia interna e con leggi precise che organizzano il lavoro.

Nel 1861, all’Unità d’Italia, la Lombardia è la maggior produttrice di cotone, anche se non sono molte le manifatture presenti sul territorio; dal 1870 l’industria tessile conosce un notevole sviluppo e nascono numerose nuove aziende, alcune tutt’oggi attive: si tratta di grandi impianti che, per mole e produttività, assumono l’aspetto di veri e propri gruppi capitalistici 2 .

Complessivamente, però, dopo l’Unità d’Italia, l’industrializzazione nel paese procede a un ritmo alquanto modesto, soprattutto se si considera che gli esempi da cui attingere informazioni sono già molti e consolidati. Il censimento del 1871 evidenzia, infatti, che solo il 12,4% della popolazione è dedito all’industria, mentre il 33% è occupato nel settore agricolo 3 .

In questo stesso periodo, soprattutto nel settentrione e nelle aree di sviluppo tessile, si assiste alla nascita di villaggi operai, come risposta concreta all'urgenza di fornire un’abitazione agli operai. Come già detto, infatti, le prime fabbriche sorgono in località in cui l’acqua, fonte di energia necessaria per il funzionamento dei macchinari, abbonda e spesso si tratta di aree marginali, carenti di strutture per ospitare i lavoratori, che nella maggior parte dei casi provengono da paesi limitrofi non raggiungibili quotidianamente. Per risolvere il problema, si costruiscono, allora, a ridosso degli stabilimenti produttivi, abitazioni e strutture necessarie alla vita collettiva, come mense, scuole, ambulatori, che vanno quindi a costituire un insediamento autonomo e autosufficiente.

L’esigenza di dar casa agli operai si trasforma, per l’imprenditore, in un’occasione di controllo totale sulla vita dei lavoratori e su quella delle loro famiglie, attraverso l’introduzione di forme assistenziali e previdenziali a favore dei propri dipendenti, e l’isolamento diventa uno strumento efficace per evitare il conflitto sociale che si accompagna allo sviluppo industriale. Il villaggio operaio,

2 La ditta Turati di Olcese ne è un esempio.

3 Nel censimento del 1861 risulta che in Italia la popolazione rurale è superiore al 64%.

(3)

nato quindi per esigenze di natura geografica, si configura come un luogo in cui si possono superare le contraddizioni del capitalismo e raggiungere una certa tranquillità sociale, seguendo le disposizioni imposte dall’imprenditore, che concede servizi e attrezzature pur di guadagnare il consenso dei suoi dipendenti.

L’entità degli insediamenti realizzati in Italia è sicuramente inferiore rispetto ai casi europei visti nel precedente capitolo, sia perché minore è la portata dell’industrializzazione in Italia, sia perché c’è una precisa volontà da parte degli industriali di mantenere gli insediamenti operai contenuti entro certi limiti.

L’intenzione degli industriali, infatti, non è quella di dare una casa a tutti gli operai, ma soltanto a una parte di loro, probabilmente agli operai specializzati e agli impiegati, “ufficialmente” per mettere in contatto quotidiano le due categorie di lavoratori, così che l’operaio possa trarre esempio dallo stile di vita dell’impiegato e si posa quindi elevare moralmente. Ovviamente oggi questa versione dei fatti non è più accettabile, piuttosto c’è da dire che gli industriali esercitano un controllo totale sugli operai, forti della grande disponibilità di manodopera e delle misere condizioni di vita nelle campagne, e decidono chi, tra i loro dipendenti, privilegiare mediante la fornitura dell’alloggio.

Questo tipo di paternalismo industriale e di modello di villaggio operaio entrano in crisi nel primi decenni del Novecento. Le rivendicazioni sindacali e gli scontri sociali iniziano a penetrare anche all’interno dello spazio protetto e isolato del villaggio e le concessioni degli imprenditori non sono più in grado di eliminare le forme di conflitto che investono il mondo del lavoro. Inoltre, con l’implementazione della rete ferroviaria e stradale e con la disponibilità di nuove fonti energetiche (elettricità), le industrie si possono localizzare in prossimità dei centri urbani, dove la manodopera è abbondante. In questo modo si eliminano i due principali motivi che hanno originato i villaggi operai e quindi la loro diffusione diminuisce drasticamente.

3.2 La questione dell’alloggio popolare: manualistica e ingegneria sanitaria Anche in Italia, l’industrializzazione porta al problema dell’alloggio per i ceti più poveri: nel 1870 l’”Inchiesta industriale” promossa dal governo italiano conferma l’irreversibilità del processo di industrializzazione in atto nel paese ed evidenzia sia la necessità di guidarlo, sia l’esigenza di controllare lo sviluppo dell’urbanesimo e dell’inurbamento. A questo proposito si deve rilevare che nel 1865 era stata promulgata la legge 2359 sull’esproprio per cause di pubblica utilità 4 ,

4 Questa legge introduce norme per il risanamento e l’ampliamento delle città, resesi necessarie per

le precarie condizioni, soprattutto igieniche, di molti aggregati urbani. Si introducono anche due

importanti strumenti urbanistici: i Piani Regolatori Edilizi ed i Piani di Ampliamento . I primi,

attuabili entro 25 anni, sono obbligatori soltanto per i Comuni con oltre 10.000 abitanti e, una volta

approvati, contengono, implicitamente, il riconoscimento della dichiarazione di opera di pubblica

utilità. Norme simili sono previste anche per i Piani di Ampliamento, dove si stabilisce l’obbligo di

cedere il terreno necessario alla costruzione di vie pubbliche “senza altra formalità”, ma sempre

dietro compenso per l’esproprio.

(4)

che si occupava, in qualche modo, dei due principali aspetti dell’industrializzazione moderna, cioè sviluppo produttivo e uso del territorio 5 .

A seguito delle Esposizioni Universali e della crescente emergenza sociale e politica, si pubblicano i primi manuali in cui sono fornite indicazione sulla costruzione di case popolari 6 . In realtà, già nel decennio successivo all’Unità d’Italia, si assiste alla pubblicazione di alcuni trattati dedicati all’architettura delle cosiddette “case popolari”, aggiornata sulla base della pubblicistica e delle realizzazioni avvenute all’estero.

Nei compendi italiani sono riportate indicazioni a carattere urbanistico e tipologico, dedotte sia dai vari congressi internazionali sull’edilizia a buon mercato, sia dalla trattatistica dei paesi europei più evoluti. In particolare, ampio spazio è dato alla “casa operaia unifamiliare”, in contrapposizione alla tipologia “a caserma”. Si suggerisce di spostare case e quartieri operai verso la periferia della città, in aree a basso costo e vicino agli stabilimenti produttivi, seguendo la tendenza delle industrie a richiamare nelle immediate vicinanze la manodopera, fornendo ai lavoratori residenze in villaggi appositamente realizzati.

Uno dei trattati più importanti è quello di Archimede Sacchi, ingegnere, architetto e professore presso l’Istituto tecnico Superiore di Milano, pubblicato da Hoepli nel 1874, dal titolo Le abitazioni. Qui Sacchi affronta il problema dell’igiene nelle case e divide il volume in due parti: in una tratta gli elementi distributivi e funzionali degli alloggi, nell’altra l’igiene delle abitazioni, cioè l’approvvigionamento d’acqua, il riscaldamento, la ventilazione e l’illuminazione;

Sacchi si occupa anche dello studio della composizione degli edifici con i relativi problemi compositivi e tipologici e ne mostra numerosi esempi in pianta.

Altri manuali, successivi a quello di Sacchi, sono: Case e città operaie (1903) di Mauro Amoruso, Le case popolari (1909) di Marco Aurelio Boldi, Tipi originali di casette popolari e villini economici (1909) dell’ingegnere Icilio Casali, Case operaie, in: L’arte moderna del fabbricare (1910) di Cesare Albertini, Le abitazioni popolari.

Case operaie (1910) di Effren Magrini e Le case a buon mercato e le città giardino (1911) di Alessandro Schiavi.

Gli autori di questi libri partono dalla constatazione delle precarie condizioni delle abitazioni degli operai e arrivano a dettare una serie di norme per la costruzione di case per lavoratori che riguardano l’ubicazione, l’orientamento, i materiali, i particolari costruttivi e l’analisi dei costi. Dalla “questione morale”

arrivano a determinare il numero minimo di ambienti per famiglia 7 , da quella

“igienica” le norme igieniche per la costruzione, da quella “economica” il modo migliore di costruire con il prezzo più basso, il tipo di distribuzione e il coinvolgimento di Stato, Comuni e privati.

5 Alberto Abriani, “Il villaggio operaio, modello residenziale dell’utopia capitalistica,” in Villaggi operai in Italia. La Val Padana e Crespi d’Adda , a cura di Alberto Abriani (Torino, I: Einaudi, 1981), 37. 6 Roberto Gabetti, “Seconda metà dell’Ottocento,” in Villaggi operai in Italia. La Val Padana e Crespi d’Adda , a cura di Alberto Abriani (Torino, I: Einaudi, 1981), 10.

7 È di fondamentale importanza la separazione tra i sessi all’interno dell’abitazione e da questa

considerazione deriva il conteggio minimo delle camere che devono essere presenti in un alloggio.

(5)

Nella cultura dell’epoca, la distinzione tra case popolari e civili è netta e spesso l’alloggio operaio non fa parte della trattazione delle abitazioni ma appare come appendice nella parte che riguarda gli edifici industriali. Ad esempio, nel manuale L’arte moderna del fabbricare del 1910 8 , c’è un capitolo che tratta le case civili e uno a parte che tratta delle case operaie, scritti da due autori distinti.

Nelle diverse trattazioni, l’edilizia operaia ricorre come una delle categorie progettuali del professionista: l’elemento più semplice è l’alloggio, che fisicamente esprime l’attributo di classe e che, aggregato, genera la casa operaia; più case operaie danno luogo al quartiere, al borgo, al villaggio operaio e la definizione di villaggio operaio è data seguendo criteri compositivi e distributivi e attraverso la distribuzione morfologico-distributiva, da cui si deduce la funzione semantica dell’agglomerato.

I casi di edilizia residenziale citati dai diversi saggisti comprendono tutta una serie di tipologie abitative, che vanno da quella a caserma al villino singolo, e sono portati ad esempio quartieri o villaggi operai già costruiti in Italia, come Schio o Crespi d’Adda, ma soprattutto all’estero, contribuendo così alla loro divulgazione 9 .

Tra i vari volumi, merita ricordare quello pubblicato nel 1894 da Silvio Benigno Crespi, che con il padre realizza il villaggio di Crespi d’Adda, dal titolo La vita e la salute degli operai, in cui fornisce indicazioni sul caso del villaggio francese di Mulhouse e su alcuni esempi inglesi che lui stesso ha avuto modo di vedere.

Nello stesso periodo in cui compare la manualistica operativa e divulgativa riguardo la casa popolare, l’industrializzazione e la conseguente crescita della città, rendono necessaria la creazione di una nuova figura professionale, quella dell’ingegnere igienista 10 , poi ingegnere sociale, il cui compito è aiutare gli industriali nella realizzazione e pianificazione degli insediamenti produttivo- residenziali. Egli deve fornire una strumentazione, teorica e pratica, per attuare il controllo sociale sul territorio, perché l’imprenditore ha necessità di organizzare la vita dell’operaio anche al di fuori degli orari di fabbrica: l’ingegnere igienista, quindi, è come un fisico che mette in funzione il proprio modello di società, riassunta nel villaggio operaio, per scoprirne tutte le proprietà.

Inizialmente l’ingegnere igienista è chiamato a risolvere questioni che riguardano, ad esempio, l’infortunistica nell’ambiente di lavoro ed egli scioglie il problema mettendo in pratica un approccio di tipo analitico, scindendolo nelle sue componenti semplici: la soluzione delle singole questioni rappresenta la base per la soluzione generale. In questo modo, problematiche particolarmente rilevanti perdono la loro carica dirompente e vengono assimilate a semplici difficoltà, facilmente superabili con piccoli sforzi.

«Il modello culturale di riferimento delle teorie igienico-ingegneristiche è sostanzialmente biologico-antropologico, ed è fondato sulla univocità del rapporto

8 Misuraca, Giacomo. L’arte moderna del fabbricare: trattato pratico ad uso degli ingegneri, costruttori, capimastri e studenti. Milano, I: Vallardi, 1910. Il volume si compone di diverse parti (La tecnica del fabbricare, Le costruzioni, ecc.), scritte da diversi autori, tra cui Marco Aurelio Boldi.

9 A questo proposito si veda, ad esempio, il volume di Effren Magrini Le abitazioni popolari. Case operaie.

10 Altre figure che si affermano in questo stesso periodo sono il medico sanitario e il sociologo.

(6)

“ambiente/comportamento”. Le condizioni dimensionali ottimali dell’ambiente sono fornite da un microbiotipo che possa essere non solo osservabile, ma anche controllabile: alla dimensione del villaggio operaio si può non solo osservare (come

“in vitro”) ma indurre la selezione della “specie operaia”» 11 .

Alla base della formazione dell’ingegnere igienista c’è la figura di Frédéric Le Play 12 , che tenta di conciliare il mantenimento dell’ordine sociale con le nuove forme di attività economica attraverso la salvaguardia delle solide tradizioni popolari. Egli identifica nella casa singola individuale con orto la residenza ottimale per la famiglia, perché rappresenta il connubio perfetto tra le esigenze della nuova società industriale e quella agricola, perché permette di integrare la nuova attività lavorativa in fabbrica con quella più tradizionale della coltivazione.

Almeno apparentemente, l’ingegnere sanitario si interessa della città e della casa considerandoli come dispositivi tecnologici e sembra non porsi problemi di natura formale; piuttosto egli fa proprie le preoccupazioni igienico-funzionali dietro le quali nasconde quelle morali. Nell’affrontare la questione della casa popolare come se fosse una questione prettamente tecnologica, l’ingegnere igienista progetta gli ambienti domestici in funzione dell’igiene, perché, dato il rapporto diretto tra condizioni abitative e tasso di mortalità, la casa è considerata un importantissimo strumento terapeutico. Alcuni elementi diventano il centro della riflessione architettonica di matrice igienico-sanitaria: ad esempio, Magrini, dedica un intero capitolo del suo manuale, il quarto, dal titolo Le abitazioni popolari dal punto di vista dell’igiene e della costruzione, a questo tema e si sofferma sui materiali da costruzione, sulle latrine, sull’acqua potabile, sulla fognatura e su riscaldamento e ventilazione. Per l’ingegnere igienista, un’altra caratteristica fondamentale dell’abitazione sociale è la semplicità, sia per ragioni economiche, sia per motivi morali: si assiste quindi alla progettazione di abitazioni semplici e solide, senza ornamenti architettonici costosi ed inutili, dove la riduzione degli spazi è massima.

In Italia il personaggio emergente nel campo dell’ingegneria sanitaria è Luigi Pagliani: di formazione medica, dal 1877 al 1924 tiene la prima cattedra di Igiene del Regno. Chiamato da Crispi nel 1887 a regolare l’ordinamento igienico nazionale, elabora quella che diviene la legge Crispi-Pagliani (1888) Sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica 13 , e rimane a capo della Direzione generale della Sanità fino al 1896.

La cultura igienico-sanitaria in Italia si esprime nella pubblicazione in particolar modo delle riviste: L’ingegneria sanitaria (1890) che nel 1905 si fonde con L’ingegnere igienista (fondata nel 1900 dal Pagliani), e che dal 1911 sarà Rivista di ingegneria sanitaria e di edilizia moderna, a Torino; L’Igea (1862, poi Il Medico in

11 Ambriani, “Il villaggio operaio,” 51.

12 Frédéric Le Play (1806-1882), francese, è ingegnere cattolico, diplomato all’École Polytechnique, Senatore dal 1867 al 1870. Nel 1856 crea la Société d’économie sociale e nello stesso anno pubblica il volume Les ouvriers européens . Nel 1864 pubblica La réforme sociale en France .

13 L’epidemia di colera del 1884 che si verifica a Napoli solleva poi il problema della situazione

igienica delle città e porta alla redazione della legge sanitaria del 1888 e dei successivi

provvedimenti, che ampliano il campo di applicazione dei provvedimenti igienici a tutto il territorio

nazionale.

(7)

casa), L’igiene in famiglia (1891) e Sanitas (1903) a Milano; Igiene e Scuola (1892) a Mantova; L’Igiene Moderna (1908) prima a Genova e poi Parma.

3.3 Un antecedente illustre: San Leucio

Prima di descrivere i casi più emblematici di villaggi e quartieri operai nati alla fine del XIX secolo in Italia, è interessante affrontare il caso di San Leucio 14 , in provincia di Caserta, dove già alla fine del 1700 vede la luce un insediamento residenziale realizzato per dare alloggio ai lavoratori delle seterie reali locali.

Negli anni ‘80 del ‘700, Ferdinando IV di Borbone realizza, infatti, nelle vicinanze del Palazzo Reale di Caserta, la Colonia della seta di San Leucio, soggetta a un famoso “Codice di leggi morali”, compilato e pubblicato dal sovrano stesso nel 1789. L’organizzazione comunitaria tratteggiata dalle leggi ha aspetti così singolari da essere considerata, per certi aspetti, utopistica: la comunità è concepita come emanazione di un personaggio carismatico, il re stesso, che oltre ad essere il fondatore ufficiale, legislatore, amministratore e sacerdote della comunità, si pone come padre collettivo. Grande attenzione è data all’educazione dei bambini, perché si ritiene che per realizzare una società ordinata e ben organizzata sia fondamentale educarli in strutture apposite e, per questo, Ferdinando IV istituisce una casa di educazione e un doposcuola.

L’obiettivo del re non è solo quello di attuare un esperimento produttivo: in un momento in cui le nuove idee illuministiche che giungono dall’Europa sollecitano nuovi modelli di società, ispirati all’ideale del “buon governo”, il suo scopo è sviluppare un esperimento sociale e creare una società razionalmente ordinata.

Lo statuto emanato da Ferdinando IV può essere considerato come una sintesi delle concezioni e delle teorie formulate a Napoli da Giambattista Vico 15 e Gaetano Filangieri 16 , che ipotizzano uno Stato di impostazione paternalistico- monarchica in cui il re si pone al vertice di una rivoluzione sociale e in cui, nel caso di San Leucio, il vincolo tra il re e la colonia è rappresentato dal collegamento tra il palazzo e la fabbrica.

La proprietà dello Stato di Caserta in cui sorge San Leucio è acquistata nel 1750 da Carlo III di Borbone, padre di Ferdinando IV e comprende il cosiddetto Belvedere, cioè un palazzo del XVI secolo, e una tenuta, destinata a diventare riserva di caccia. Inizialmente è utilizzata come luogo di riposo dei sovrani e recintata, ma nel 1773, dopo la perdita del figlio di 4 anni, Carlo Tito, Ferdinando IV ordina il restauro del Belvedere e dispone che sia costruito un casino di caccia che, ampliato, ospiterà la famiglia reale.

14 San Leucio, insieme alla Reggia di Caserta, è Patrimonio UNESCO dal 1997.

15 Giambattista Vico (1668-1744) è stato un filosofo, storico e giurista italiano, noto per il suo concetto di verità come risultato del fare. La sua opera principale è La Scienza Nuova , pubblicato la prima volta nel 1725.

16 Gaetano Filangeri (1753-1788) è stato un giurista e filosofo italiano. Nel 1777 entra al servizio di

Ferdinando IV di Borbone, di cui diventa gentiluomo di camera. La sua opera più nota è La Scienza

della Legislazione , un testo di alto ed innovativo valore europeo in materia di filosofia del diritto e

teoria della giurisprudenza.

(8)

È Francesco Collecini 17 , aiuto del Vanvitelli nelle opere eseguite alla reggia di Caserta, che si occupa del ripristino e dell’ampliamento del Belvedere e dei successivi edifici realizzati.

Alla base di questi lavori c’è la volontà del re di realizzare un centro manifatturiero con ordinamenti egualitari, regolati da norme da lui composte e anche l’architettura dei luoghi segue questa indicazione, al punto che a San Leucio ogni elemento edilizio altisonante viene escluso e rimane qualche nota di monumentalità solo nei prospetti del Belvedere. Inizialmente, si crea un ambiente che offre mezzi per una tranquilla esistenza ad un centinaio di persone che gravitavano intorno al Belvedere, ma, in seguito, la popolazione sale a 832 persone e il re decide di trasformare San Leucio in una città manifatturiera, ribattezzata Ferdinandopoli. Il progetto di Collecini prevede la realizzazione di una città a pianta radiale, con una grande piazza circolare dal cui centro partono le strade che intersecano i quartieri posti ad anelli concentrici e un asse prospettico principale che si conclude sulla facciata del palazzo-fabbrica.

Tra il 1786 e il 1787 si costruiscono due quartieri, San Carlo e San Ferdinando, formati da case unifamiliari a schiera dotate di giardino; le abitazioni sono composte da due moduli quadrati, di lato 6 m e presentano due piani fuori terra e un seminterrato; all’interno ci sono spazi definiti, cioè quelli della cucina, del bagno, della zona pranzo e delle scale, e spazi flessibili, privi di pareti divisorie che si prestano ad accogliere diverse funzioni.

Dal punto di vista architettonico, c’è uno studio accurato delle funzioni: le stanze sono larghe per tenere i telai in casa e ciascun alloggio è dotato di un camino adatto a cuocere i bozzoli dei bachi da seta; i negozi, un albergo e altri servizi permettono di rendere la produzione veloce quasi come in una vera fabbrica di tipo moderno.

La Real Colonia vede la luce ufficialmente nel gennaio del 1789, con la stampa della prima edizione del Codice. San Leucio è dichiarata comunità autonoma, esentata dalle leggi del Regno e sottoposta unicamente all’autorità del proprio Statuto e alla protezione del Principe. All’interno del Codice, ci sono una serie di prescrizioni morali: doveri negativi e doveri positivi (verso lo Stato, il Sovrano, la Patria, la Religione), obbligo per tutti di vestire lo stesso abito, abolizione del lusso e della dote, regolamentazione dei matrimoni e delle leggi di successione, norme etiche sull’educazione dei figli, obbligo della vaccinazione contro il vaiolo, istituzione di una cassa di previdenza per gli infermi e gli anziani e pene severe per i trasgressori, cioè l’allontanamento dalla colonia. Nella prima edizione del Codice manca un regolamento del lavoro in fabbrica, segno evidente che l’obiettivo è realizzare una vera e propria utopia di tipo sociale e sperimentale.

Per l’esperimento, si selezionano giovani artigiani e nuclei familiari che vengono isolati fra le mura della collina di San Leucio a formare una colonia autosufficiente, retta unicamente da un Codice di leggi. Le persone che fanno parte di questa comunità sono privilegiate, perché protette dal sovrano, esentate dal foro baronale e fornite di casa, lavoro e assistenza sociale. Inoltre, l’ambiente scelto è

17 Francesco Collecini (1723-1804), architetto e urbanista, è stato collaboratore di Vanvitelli e

direttore dei cantieri reali a Caserta.

(9)

inserito nella natura, con residenze comode e agiate, e il lavoro cui si dedicano, cioè la manifattura della seta, pur essendo manuale, è privo di particolari sforzi fisici e quindi adatto ad ambo i sessi e a tutte le età.

A causa della rivoluzione napoletana, nel 1799 i lavori vengono bloccati e rimangono realizzati solamente i quartieri San Carlo e San Ferdinando anche se si continuarono ad ampliare industrie ed edifici, tra cui il Palazzo del Belvedere. Il progetto utopico di Ferdinando IV finisce con l'Unità d'Italia, quando tutto viene inglobato nel demanio statale.

Figura 3.3.1. San Leucio: in alto il Belvedere, in basso le abitazioni degli operai

3.4 Esempi

In Italia, gli esempi più rappresentativi di villaggi e quartieri operai realizzati tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento sono Nuova Schio, in provincia di Vicenza, Crespi d’Adda, in provincia di Bergamo, e Leumann, in provincia di Torino.

I tre casi indicati hanno in comune il fatto di essere frutto di un’attenta

pianificazione, effettuata da imprenditori coadiuvati da architetti, che prevede non

solo la creazione di alloggi e strutture a uso collettivo per gli operai e le loro

famiglie, ma anche la programmazione attenta della vita dei dipendenti al di fuori

della fabbrica. Questi villaggi possono essere definiti come macchine per abitare e

lavorare, che offrono una qualità della vita superiore agli standard della classe

(10)

operaia media ottocentesca, relativamente ad abitazione, servizi igienico-sanitari, educazione e possibilità di svago 18 .

Nuova Schio, a differenza degli altri due esempi citati, non è un villaggio operaio vero e proprio ma un quartiere, che sorge ai margini della città di Schio ed è destinato ad integrarsi a questa, anche se accanto alle case per operai si costruiscono strutture collettive, come la scuola e la chiesa, fruibili da chiunque, anche da chi non vive nel quartiere. Crespi d’Adda e Leumann, invece, sono villaggi, ma la differenza fondamentale tra i due casi sta nel fatto che mentre il primo insediamento è costruito per controllare i dipendenti, il secondo trae le sue origini in motivi di ordine igienico-sanitario e pedagogici.

3.4.1 Nuova Schio

Nuova Schio, realizzata nel 1872, non rappresenta un villaggio operaio autonomo come si è visto nei precedenti casi inglesi ma è un quartiere che nasce ai margini della città di Schio, nella periferia sud, tra la fabbrica dell’industria tessile Rossi e il torrente Lèogra. Alessandro Rossi 19 , il fondatore, temeva infatti che, costruendo un villaggio isolato, gli abitanti si potessero solidarizzare e unire per perseguire fini diversi da quelli portati avanti dall’azienda.

Al di là di questa differenza, l’obiettivo dell’imprenditore è del tutto analogo a quella dei fondatori di villaggi operai anglosassoni e cioè Rossi vuol migliorare il rendimento dei lavoratori in fabbrica e il loro rapporto con il padrone, fornendogli abitazioni e servizi adeguati. Inoltre, egli è convinto che la classe operaia da sola non sia in grado di migliorare la sua situazione e che questo compito debba essere assolto dagli imprenditori, che, meglio delle municipalità, possono riuscire a stabilire condizioni di ordinata convivenza morale.

Come Lever, Salt e Cadbury, anche Rossi eredita, nel 1845, l’azienda tessile 20 fondata dal padre nel 1817 e come loro si dedica alla politica, al punto da diventare deputato del Parlamento italiano nel 1866 e Senatore nel 1870; durante il suo mandato si fa promotore di iniziative a favore della classe operaia, come il riposo festivo, le ferie annuali e il contenimento degli orari di lavoro in fabbrica, pur continuando a salvaguardare i suoi interessi di imprenditore e a mantenere gli equilibri politici esistenti, fino ad affermare la sua avversione al socialismo, che considera una piaga destinata solo a propagare scioperi e rivoluzione.

Prima di creare Nuova Schio, Rossi, nel 1862, costruisce la cosiddetta

“Fabbrica Alta” 21 e nel 1865 un fabbricato 22 di 3 piani dotato di locali destinati a

18 Antonello Negri, “Villaggi operai,” in Archeologia industriale , a cura di Rossella Bigi (Milano, I:

Touring Club Italiano, 1983), 96.

19 Alessandro Rossi (1819-1898) conosceva Owen, aveva visitato Manchester, Birmingham, Sheffield, Newcastle e le città industriali belghe e francesi.

20 Dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia, la Ditta di lane Rossi è il maggior complesso industriale della penisola.

21 La Fabbrica Alta, oggi Monumento di Archeologia Industriale, è un edificio molto imponente,

lungo 80 m, largo 13 m, costituito da 6 piani, ognuno dei quali era dedicato ad una fase di

lavorazione della lana: si partiva, dal basso verso l’alto, con la cardatura, poi la filatura, la spolatura e

la ritorcitura, la filatura e infine il rammendo. La costruzione presenta 330 finestre in laterizio

lievemente arcuate nella parte superiore, con davanzali e marcapiani in pietra, 52 abbaini e 125

colonne in ghisa che dividono ogni piano in 3 ampie campate. Eretto su progetto dell’architetto

(11)

singole abitazioni, di servizi comuni, quali cucina, magazzini, servizi igienici e sale comuni, ispirandosi al Falansterio di Fourier 23 , ma ben presto si rende conto che l’aggregazione di operai può portare a situazioni pericolose per l’imprenditore.

Figura 3.4.1. La Fabbrica Alta

Negli stessi anni e in particolare dal 1869, Rossi cambia la sua strategia aziendale e decide di costruire stabilimenti produttivi e residenze per lavoratori in 4

belga Auguste Vivroux, il complesso spicca nel panorama nord-ovest della città di Schio con la sua mole rossastra, formata prevalentemente da laterizio e pietre tratte dal greto del vicino torrente Lèogra. Elemento caratterizzante dell’impianto è l’alta ciminiera di forma quadrangolare che svetta a fianco del corpo centrale del dismesso opificio e richiama da vicino, nella sua architettura funzionale, analoghi edifici del nord Europa. Questa tipologia di edificio era, infatti, molto diffusa nel continente, ma non in Italia, ed era molto conveniente perché sfruttava un’unica fonte di energia, cioè la macchina a vapore, per servire tutti i piani sovrapposti delle varie lavorazioni della lana, permettendo il concentramento di tutte le lavorazioni della lana in un unico edificio, risparmiando così tempo agli operai che si devono spostare nelle varie sale ed energia, perché è unica la macchina a vapore che tramite un albero motore verticale che tramite un albero motore in verticale e altri in orizzontale che percorrono tutte le sale, servono tutte le macchine.

Oggi, solo il sottotetto presenta ancora l'originale struttura ottocentesca con travi a vista; il resto dell’edificio è stato modificato alla fine degli anni ’60, quando gli stabilimenti produttivi furono trasferiti nelle nuove strutture alla periferia di Schio e la Fabbrica Alta fu riutilizzata a scopi amministrativi.

22 Comunemente detto il “palazzon”, rimase in funzione dal 1865 al 1871; fu demolito nel 1965.

23 Si veda il paragrafo 1.3.2.

(12)

borgate rurali preesistenti 24 , che distano dai 4 ai 10 km da Schio e che sono dotate di buone infrastrutture di collegamento, per assicurare ai suoi dipendenti migliori condizioni abitative e, al contempo, per garantirsi della manodopera a buon mercato e controllarla meglio. Accanto a questi interventi, Rossi implementa la qualità dei collegamenti e realizza la ferrovia da Schio a Vicenza (1870-1880) allacciata alla tratta Milano-Venezia, il proseguimento della ferrovia (1885) nel tratto Schio-Torrebelvicino e Schio-Rocchette-Arsiero per il collegamento con gli opifici di Torrebelvicino, Piovene e Arsiero e fa costruire opere di sistemazione idrogeologica, condotte idrauliche, ponti e dighe per convogliare le acque del fiume Astico e del torrente Lèogra, indispensabili per la loro forza motrice.

Per il progetto di Nuova Schio, quartiere residenziale volto ad ospitare i lavoratori della Fabbrica Alta, sempre più numerosi con l’espandersi delle attività del lanificio, Rossi si affida all’architetto Antonio Caregaro Negrin 25 , proponendogli un’area di 16 ettari, quindi pari quasi al nucleo storico Schio, che diventeranno 20 nel 1888 26 .

Negrin elabora tre diversi progetti e, dati i suoi interessi di tipo paesistico, nella prima stesura del progetto, concepisce il nuovo insediamento come un grande parco all’interno del quale si trovano diverse tipologie di villette, che, pur essendo distinte in base alle classi 27 , nella cortina verde risultano pressoché uguali, date anche le simili dimensioni. Il collegamento tra le abitazioni e la fabbrica avviene attraverso un asse stradale, che è il prolungamento dell’ingresso principale dell’opificio. Questa strada e quella a essa ortogonale, lungo la quale sono disposte le case di prima classe, sono le uniche rettilinee: tutte le altre hanno un andamento sinuoso, con larghezza variabile da 10 a 6 m, e delimitano lotti di dimensione diverse di terreno. Servizi e spazi per le attività comuni sono disposti in posizione baricentrica e ai margini del quartiere, per sottolinearne la completezza e l’autonomia rispetto alla città.

Queste idee, però, non saranno realizzate, perché Rossi, anche a seguito della crisi economica europea del 1873 28 , opta per un utilizzo intensivo 29 dei 15,2 ettari che ha a disposizione e quindi prevede un insediamento ordinato e razionale, collegato con la fabbrica e con la città da una rete viaria rettilinea, con case

24 Nel 1869 viene realizzato uno stabilimento per la filatura pettinata sulle rive dell’Astico, a Piovene Rocchette a cui si aggiungono altri due stabilimenti nel 1871 e nel 1886; nel 1873 viene costruito l’opificio di Torrebelvicino; nel 1889 viene innalzato un nuovo stabilimento a Rocchette.

25 Antonio Caregaro Negrin (1821-1898), vicentino, esperto di architetture industriali, termali e di complessi paesaggistici, progetta anche la chiesa di S. Antonio Abate (1879) e il Giardino Jacquard (1859-1878).

26 Aumentando la disponibilità di terreno, aumentano anche gli alloggi di 60 unità;

complessivamente, tra il 1873 e il 1890 vengono costruite 300 case.

27 Le abitazioni sono divise in quattro classi: case unifamiliari di prima e seconda classe per dirigenti e tecnici, varie nello stile e perlopiù allineate lungo il viale principale; abitazioni di terza e quarta classe, localizzate nella parte più interna del villaggio, destinate agli operai (significativa per questa tipologia è via A. Fusinieri), con attenzione a mescolare e collocare nella stessa area urbana anche alcune abitazioni singole per accogliere una popolazione socialmente diversificata in una ricercata armonia tra capitale e lavoro.

28 Nel 1873, Rossi, per tutelarsi dall’imminente crisi economica, aveva incorporato tutte le aziende tessili minori della zona e aveva trasformato l’opificio paterno in una società anonima.

29 Il numero di abitazioni previste nel progetto di Negrin sono 125, mentre quelle realizzate sono 200,

per cui l’insediamento riesce a ospitare 1300 persone contro le 800 previste inizialmente.

(13)

unifamiliari e bifamiliari, disposte lungo l’asse stradale principale, per impiegati e casette a schiera (sul modello di quello anglosassone con orti e giardini) per gli operai. L’introduzione della tipologia a schiera consente a Rossi di mantenere intatta la superficie coperta e la volumetria, grazie alla diminuzione della superficie media delle abitazioni.

Figura 3.4.2. Il progetto di Negrin

(14)

Figura 3.4.3. Progetto delle abitazioni per impiegati

Figura 3.4.4. Progetto delle abitazioni di II e III classe

Rossi raccomanda al progettista di evitare l’uniformità delle abitazioni,

perché al contadino diventato operaio serve conservare la propria identità, quindi le

(15)

abitazioni si differenziano negli ornamenti esterni, nell’altezza e obliquità dei tetti, nella forma delle aperture, delle recinzioni ed anche nella cromia. L’ambiente di fabbrica, infatti, priva l’operaio della sua personalità, perché lo trasforma in un ingranaggio della macchina produttiva e quindi, quando il lavoratore rientra a casa, deve poter ritrovare se stesso.

Tra il 1873 e il 1890 si costruiscono 300 case, per la maggior parte destinate a operai e capi operai, vendute o riscattate, contrariamente a quanto avviene in Gran Bretagna, dove gli alloggi sono prevalentemente affittati, e sono a disposizione non solo dei dipendenti del lanificio ma anche di acquirenti selezionati in base alle disponibilità finanziarie.

Alla fine degli anni ’70, Rossi realizza anche attrezzature di interesse pubblico, come un asilo infantile, una scuola elementare femminile, una scuola serale, una scuola di Pomologia e Orticultura, una biblioteca, un teatro, un caffè, una mensa, una chiesa, dei bagni pubblici e un giardino pubblico, per qualificare ulteriormente il quartiere e integrarlo con la città, per promuovere l’educazione scolastica della popolazione e attivare processi di socializzazione. Rossi si preoccupa che questi edifici siano punti di riferimento visivo, formale e anche simbolico per la città, che acquisisce così un’immagine ben precisa e definita. In particolare, l’asilo infantile è collocato in prossimità del centro storico, al di fuori del nuovo quartiere, pur essendo a questo funzionale, a dimostrazione del fatto che il nuovo insediamento non è pensato come insediamento autosufficiente ma si appoggia al centro abitato preesistente, integrandosi nel contesto urbano dell’antico nucleo di Schio.

Nel 1887 realizza la prima centrale elettrica per la produzione di energia e nello stesso anno si sperimenta per la prima volta l’illuminazione pubblica del nuovo quartiere.

Malgrado Rossi tenti di fornire ai dipendenti molti servizi, si trova comunque a dover far fronte alle rivendicazioni degli operai in merito al miglioramento delle condizioni di lavoro e l’aumento dei salari e gli scioperi del 1873 gli faranno ridimensionare la sua opinione sull’ideologia industriale a favore dei lavoratori.

Nel ‘900 sia l’azienda sia il quartiere subiscono notevoli mutamenti e gli interventi urbanistici ed edilizi consentiti dal piano regolatore minano la struttura originaria del quartiere, che rischia di perdere la sua identità e di essere esposta a degrado edilizio e ambientale.

Fortunatamente, nel 1989, il Consiglio comunale di Schio adotta un piano particolareggiato diretto alla riqualificazione del quartiere, alla protezione dei caratteri architettonici originari e all’esaltazione della sua vocazione residenziale.

3.4.2 Crespi d’Adda

Crespi d’Adda è l’esempio più significativo e importante di villaggio operaio

italiano e nel 1995 è stato dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Umanità UNESCO,

perché ritenuto esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, il più

completo e meglio conservato del sud Europa.

(16)

Oggi, il villaggio si presenta non molto dissimile dalla sua configurazione originale, perché poche e modeste sono state le modifiche apportate, in particolare nel 1925. L’ottima conservazione di Crespi e la sua fisionomia unitaria si devono, però, anche a un altro aspetto fondamentale: il suo fondatore, sin dall’inizio, programma l’insediamento con meticolosa chiarezza. Crespi d’Adda nasce, infatti, per intenzione pratico-ideologica del suo promotore, come un’isola, come luogo ideale che, sfruttando le caratteristiche topografiche della zona, si sviluppa al riparo di sollecitazioni esterne, secondo una sua logica autonomia.

Figura 3.4.5. Vista aerea di Crespi d’Adda

Crespi si trova a una quindicina di chilometri da Bergamo, in una zona relativamente isolata del comune di Capriate San Gervasio. È stato fondato nel 1877 dall’industriale Cristoforo Benigno Crespi, in un’area triangolare di 85 ettari, nei pressi del fiume Adda, tra i centri di Capriate e Canonica, in prossimità di importanti collegamenti stradali e ferroviari. La scelta della zona è legata non solo a questi aspetti ma anche alla facilità di reperimento di manodopera a basso costo, data la massiccia presenza di contadini.

I principali modelli di riferimento per Crespi d’Adda sono il villaggio operaio di Mulhouse, realizzato dalla “Société Mulhousienne des Cités Ouvrières” a partire dal 1853, dove, al posto dei tradizionali edifici “a caserma”, vengono realizzate oltre 100 villette e il modello della casa economica “igienico-filantropica” presentata alla Grande Esposizione di Londra del 1851.

Per la realizzazione del villaggio, Crespi chiama l’architetto Ernesto Pirovano 30 , che interpreta e segue le idee e le direttive dell’industriale, il cui scopo è

30 Ernesto Pirovano (1866–1934) è un architetto italiano che ha operato prevalentemente in

Lombardia.

(17)

realizzare «un’isola, un luogo ideale, che, utilizzando le caratteristiche topografiche della zona» possa «svilupparsi al riparo di prementi sollecitazione esterne, secondo una sua logica autonoma: si potrebbe dire, metaforicamente, come un’arnia armoniosa» 31 .

I primi edifici, realizzati nel 1878, sono la fabbrica, un albergo, una scuderia, una mensa e tre casamenti plurifamiliari a 3 piani, detti palasöc, in grado di ospitare 33 famiglie (circa 148 persone), dotati, ad ogni piano, di cucina e servizi in comune 32 .

Gli edifici sono realizzati in muratura (mista di laterizi pieni e ceppo dell’Adda, legate con malta di calce) e presentano tre piani fuori terra, oltre ad un seminterrato ad uso cantina e al sottotetto. I solai sono in legno. I prospetti, semplicemente intonacati, presentano un finto bugnato in corrispondenza del primo livello e una cornice decorativa nella parte sommitale e sono scanditi da cinque finestre, con modanature in cotto, sui lati lunghi e tre (di cui due cieche) sui lati corti. Nella copertura, a tegole marsigliesi, si aprono abbaini in corrispondenza delle finestre.

Figura 3.4.6. Palasöc

Lo stabilimento industriale si compone di edifici eterogenei per qualità e dimensioni che corrispondono a diverse destinazioni d’uso e stadi di lavorazione. I fabbricati appartenenti alla prima fase costruttiva sono realizzati con materiali analoghi a quelli delle palazzine residenziali, murature in mattoni pieni con i prospetti intonacati e decorazioni in cotto, ed hanno finestre in ferro verniciato e vetro. Le palazzine per uffici sono invece caratterizzate dal rivestimento in cotto, dagli elementi decorativi, dalla presenza di dipinti murali e intonaco graffiato e dal

31 Rossana Bossaglia, “Crespi d’Adda: l’invenzione, l’idea, il monumento,” in Villaggi operai in Italia.

La Val Padana e Crespi d’Adda , a cura di Alberto Abriani (Torino, I: Einaudi, 1981), 111.

32 Nei palazzotti possono alloggiare fino a 12 famiglie (4 per piano) in appartamenti costituiti da un

unico vano; a questi si accede attraverso un corridoio interno di distribuzione, in fondo al quale si

trovano i servizi comuni. L’accesso avviene in corrispondenza del vano scale.

(18)

basamento con bugnato. Gli edifici più recenti sono invece realizzati con elementi prefabbricati in cemento armato.

L’accesso alla fabbrica, collocato nel punto di incontro fra l’arteria principale del villaggio (via Donizetti) con l’asse di collegamento alla piazza della cooperativa (viale Vittorio Emanuele II) avviene attraverso i “Cancelli rossi”.

Figura 3.4.7. L’ingresso della fabbrica

Figura 3.4.8. Capannoni

(19)

La grande fabbrica si compone di 4 corpi, che corrispondono alle lavorazioni principali (filatura, reparti complementari, tessitura, tintoria) e ogni lavorazione prevede uno o più capannoni, con funzione di deposito di prodotti e materie prime.

Un corpo separato ospita gli impianti di produzione e trasmissione del vapore ai reparti di produzione (cabina elettrica, sala caldaie e ciminiera). Il nucleo più antico è quello costituito dal corpo della filatura, attivo fin dal 1878 e tuttora riconoscibile dalla torretta verso l’Adda. Alla prima fase edificatoria appartengono anche la centrale idroelettrica, che conserva ancora le tre turbine che alimentavano lo stabilimento, gli edifici dell’ingresso e della portineria.

Nel 1894, l’introduzione delle attività di tessitura comporta un importante intervento di ampliamento della fabbrica e un successivo ampliamento permette di accogliere i reparti di tintoria e di finissaggio. Fra il 1895 ed il 1905 si realizzano i capannoni sul fronte strada, il corpo centrale con la ciminiera, gli uffici e altri edifici destinati a deposito: la costruzione risponde alle esigenze di una organizzazione orizzontale del lavoro, innovativa rispetto al tradizionale sviluppo verticale delle filande e degli opifici. I capannoni con copertura a shed consentono un migliore sfruttamento della luce naturale e permettono una migliore trasmissione dell’energia prodotta dalle turbine. Nel 1886 si realizza la centrale termica: l’introduzione di una motrice a vapore consente di raddoppiare il numero dei fusi, da 12.000 ad oltre 20.000, riducendo progressivamente il numero di quelli azionati dal motore idraulico. Nel contempo una piccola centrale idroelettrica, affiancata alla centrale termica, permette di fornire energia a tutto il villaggio. Nel 1909 viene poi inaugurata una nuova centrale idroelettrica, progettata dall’architetto Gaetano Moretti.

Figura 3.4.9. La centrale idroelettrica di Trezzo d’Adda

(20)

Crespi, come altri industriali del suo tempo, italiani ed esteri, vuol realizzare un sistema integrato fabbrica-villaggio, per migliorare le condizioni di vita dei suoi operai ma soprattutto per farli diventare più produttivi e quindi incrementare e rendere competitiva la produzione della sua fabbrica.

Per attuare ciò adotta un’articolata strategia abitativa a favore dei suoi dipendenti e, abbandonata l’idea primitiva di realizzare edifici tipo caserne, si orienta, stimolato dal figlio Silvio, verso la pianificazione di un vero e proprio insediamento autonomo eautosufficiente.

Silvio Crespi, che diventa direttore generale dello stabilimento nel 1889, è un imprenditore avveduto e intelligente, che ha viaggiato in Inghilterra, dove ha visitato importanti industrie e ha potuto vedere di persona e apprezzare i villaggi operai, per cui porta nuove idee all’interno dell’azienda e si dedica in particolar modo allo sviluppo del villaggio.

Oltre a occuparsi all’industria, Silvio Crespi si dedica anche alla politica: nel 1899 è eletto deputato per il partito liberale e riconfermato più volte in questo ruolo; nel 1918 riveste la carica di ministro per gli approvvigionamenti e consumi nel Gabinetto Orlando e nel 1920 è nominato Senatore del Regno. Durante il regime fascista, mantiene la sua posizione politica, riuscendo così a operare, per tutta la sua vita, in accordo con il potere dominante.

Per quanto riguarda la gestione dell’industria, Silvio Crespi ha un atteggiamento paternalistico nei confronti dei suoi lavoratori; si ritiene l’unico in grado di capire e salvaguardare i loro interessi e pretende di controllarne la vita lavorativa e privata. Per fare ciò, attua una spregiudicata politica aziendale, fondata sulla concessione di provvedimenti sociali e assistenziali 33 , ma introduce anche sanzioni molto severe conto i trasgressori delle sue disposizioni 34 .

Nel 1894 l’assetto urbanistico principale del villaggio è completato 35 . Un viale parallelo alla fabbrica separa la zona industriale da quella residenziale, un asse viario perpendicolare all’opificio centrale lo congiunge con una piazza alberata. Attorno a questo asse si dispongono le case operaie e le abitazioni destinate agli impiegati, collocate all’interno di lotti regolari individuati della maglia stradale regolare che costituisce la trama del villaggio. Le abitazioni destinate ai dirigenti, invece, rompono lo schema disponendosi in maniera più libera all’interno di un’area verde prossima al bosco, a sud-est dell’edificato, coerentemente con la diversa posizione occupata dai loro abitanti nella gerarchia sociale del villaggio.

Vengono poi costruite la scuola, la chiesa 36 , il lavatoio, l’albergo, l’ufficio postale, le case per impiegati e dirigenti, il cimitero 37 .

33 Si ricorda, in particolare, quelli attinenti alla prevenzione degli infortuni.

34 Chi trasgredisce le regole è punito con il licenziamento o lo sfratto.

35 La definizione dello schema generale dell’insediamento è dell’ing. Pietro Brunati.

36 La chiesa, realizzata tra il 1891 e 1893 sotto la direzione dell’ing. Brunati, riproduce fedelmente la chiesa bramantesca di Santa Maria di Piazza di Busto Arsizio.

37 Il cimitero, collocato all’estremità del villaggio, è costruito tra il 1904 e il 1905 e rispecchia la rigida

struttura sociale del villaggio: alla famiglia Crespi è riservato un mausoleo, mentre ai dipendenti

sono assegnate delle modeste tombe.

(21)

Figura 3.4.10. A sinistra la chiesa e a destra la scuola

Figura 3.4.11. Il lavatoio in un’immagine d’epoca

Tra il 1878 e il 1900 si realizzano le prime 33 casette operaie, in stile

lombardo, che ricordano molto quelle di Saltaire, e che nel 1915 ammontano ad

una cinquantina. Questa tipologia abitativa è molto apprezzata da Crespi, che

ritiene che gli edifici tipo caserne siano da sconsigliare, perché possono causare

disagi connessi alla promiscuità delle famiglie, al rumore, a comportamenti non

morali e conflittuali. La casetta unifamiliare, invece, riesce meglio ad assicurare

l’obbedienza, il consenso e la subordinazione dell’operaio e della sua famiglia.

(22)

Figura 3.4.12. Evoluzione del villaggio

(23)

Secondo Crespi, la casa operaia modello è monofamiliare o bifamiliare, a pianta quadrata, con due o tre piani. La casa monofamiliare è generalmente dotata di un unico ingresso e di una sola scala di accesso ai piani superiori, il piano terra è diviso in due ambienti, di cui uno destinato ad ospitare la cucina, il primo piano ha 4 o 5 stanze da letto e il sottotetto è utilizzato come ripostiglio; sul retro dell’abitazione, protetti da una tettoia ci sono il lavatoio e la latrina. Gli ambienti sono ampi e luminosi per prevenire l’insorgere di malattie.

Questo stesso tipo di abitazione può essere utilizzato anche da due famiglie distinte: in questo caso l’alloggio viene diviso in due parti e quindi gli ambienti a disposizione dei nuclei familiari diminuiscono rispetto al caso visto; per ogni alloggio ci sono una scala, orientata parallelamente o perpendicolarmente alla facciata, e un accesso indipendente e ogni appartamento presenta a piano terra due ambienti e al primo piano due camere.

Ogni casa è circondata da giardino e orto recintati, la cui manutenzione è ritenuta da Crespi indispensabile alla salute fisica e morale degli abitanti. L’orto rappresenta, infatti, il principale strumento per annullare le tensioni sociali e il logorio del lavoro di fabbrica, occupa il tempo libero degli operai e quindi evita la creazione di pericolose forme di vita associata; inoltre rappresenta una buona integrazione del salario. Salubrità e igiene dei lavoratori, delle loro famiglie e delle loro abitazioni sono indispensabili per elevare i livelli di moralità; casa e orto costituiscono un baluardo solido e un rifugio sicuro di fronte ad un mondo pericolosamente turbato dalle idee socialiste.

Gli alloggi sono dati in affitto ai dipendenti per il periodo di permanenza in fabbrica e la vendita, almeno in un primo tempo, non è prevista.

Figura 3.4.13. Le case operaie

Dopo la Prima Guerra Mondiale, nella zona sud del villaggio, si costruiscono

5 case per capi reparto e impiegati e 8 villette per dirigenti; questi complessi edilizi

(24)

sono fisicamente separati e diversificati dagli alloggi operai per stile architettonico, materiale da costruzione, elementi decorativi e ampiezza del verde. La divisione dei ruoli in fabbrica si trova quindi nella diversità di tipologia abitativa assegnata ai dipendenti in base alla mansione svolta all’interno della fabbrica: troviamo, infatti, residenze plurifamiliari, case operaie per una o due famiglie e villette dall’articolazione planimetrica più complessa, destinate a impiegati e dirigenti.

Figura 3.4.14. In alto a sinistra, pianta di una casa operaia; in alto a destra, pianta di una casa per

capireparto; in basso, pianta di abitazione per dirigenti

(25)

Le villette destinate agli impiegati e ai capireparto presentano un impianto planimetrico appena più complesso di quello delle case operaie, caratterizzato da pianta rettangolare o quadrata, finestre regolari e terrazze interne al perimetro dell’edificio. A questa sobrietà volumetrica fa però da contrappunto una certa attenzione alla decorazione, riscontrabile, ad esempio, nell’uso di mensole e paraste lignee in facciata e nella maggiore articolazione degli spazi interni. Gli edifici sono realizzati con murature interamente in mattoni pieni o a due paramenti con intercapedine di materiali misti. Le villette per dirigenti, invece, presentano una maggiore articolazione planimetrica, ulteriormente arricchita dalla presenza di verande, aggetti e balconi, e dell’apparato decorativo che presenta elementi in pietra, cemento decorativo e legno.

Oltre a queste, ci sono le case del medico e del parroco, che sovrastano l’insediamento, e la dimora della famiglia Crespi, un imponente castello merlato di tre piani, realizzato tra il 1893 e il 1894, che integra in un ricchissimo apparato decorativo elementi neomedievali con spunti in stile veneziano e moresco e domina il villaggio con le sue 2 torri.

Figura 3.4.15. Il castello, residenza della famiglia Crespi

La zona residenziale è organizzata per lotti regolari, con una disposizione

mista, a scacchiera e radiale, che segue armoniosamente l’orografia del sito. Le case

operaie e le villette per gli impiegati sono distribuite in gruppi di sei o di dieci, in

settori delimitati dal reticolo di strade perpendicolari fra loro che struttura la

maglia viaria del villaggio. Le abitazioni destinate ai dirigenti sono invece disposte

in maniera più libera all’interno di un’area verde prossima al bosco, a sud-est

dell’edificato. Tutti gli edifici sono realizzati in muratura mista (laterizio pieno e

ceppo dell’Adda in pezzatura variabile, legata con malta di calce) intonacata; i solai

(26)

sono realizzati con travi lignee. Gli elementi decorativi sono realizzati in intonaco (il finto bugnato alla base delle residenze operaie), cotto (cornici e marcapiani) e cemento decorativo (nelle residenze destinate ai dirigenti).

Figura 3.4.16. Casa per dirigenti

La strategia di controllo di Crespi sul villaggio è potenziata dalla costruzione di opere pubbliche, quali la chiesa, l’asilo, la scuola, i bagni pubblici, il piccolo ospedale e la sala teatrale, e dalla promozione di attività sportive, ricreative, culturali e assistenziali. Gli insegnanti sono direttamente stipendiati dalla famiglia Crespi e hanno il compito di formare futuri operai, disciplinati e fedeli all’imprenditore.

Con la crisi del 1929, l’azienda Crespi è costretta a fondersi, nel 1931, con altre società del settore e nel 1940 è totalmente assorbita da nuove compagnie. Nel corso degli anni i dipendenti diminuiscono e l’azienda cessa la sua attività nel 2003, dopo vari passaggi di proprietà.

Nel 1972 si costituisce la Cooperativa di Crespi d’Adda per gestire la privatizzazione delle residenze, ma la contrattazione collettiva fallisce e nel 1976 la cooperativa si scioglie; le abitazioni sono acquistate dai privati con trattative individuali.

3.4.3 Villaggio Leumann

Napoleone Leumann, come molti altri fondatori di villaggi operai, è figlio di

un imprenditore tessile svizzero, che si trasferisce in Italia nel 1831. Inizialmente, il

padre di Napoleone lavora presso alcune manifatture tessili lombarde, poi, nel 1857

riesce a mettere su una propria impresa a Voghera, rilevandone una già esistente,

con 150 lavoratori.

(27)

Con il passare del tempo, l’industria si ingrandisce e i Leumann iniziano a cercare un terreno su cui poter edificare la loro nuova ditta. Il 20 ottobre 1865 dalla città di Torino si divulga un appello in cui si rendono note le agevolazioni predisposte a favore di industriali e capitalisti, italiani ed esteri, che si vogliono trasferire nei sui territori, per porre rimedio alle rovinose conseguenze del trasferimento della capitale d’Italia a Firenze. Il prezzo dei terreni, inoltre, in quel periodo, è particolarmente vantaggioso e così i Leumann decidono di spostarsi in Piemonte e identificano a Collegno un lotto che fa al caso loro, che acquistano nel 1874.

Figura 3.4.17. L’ingresso alla fabbrica

Figura 3.4.18. Gli edifici della fabbrica

(28)

Nella scelta del luogo dove impiantare il nuovo stabilimento, è fondamentale non solo il prezzo vantaggioso, ma anche la presenza di canali irrigui 38 , da cui ricavare l’acqua necessaria per la lavorazione dei tessuti di cotone e quella per produrre energia per far funzionare i macchinari, così come la vicinanza alla ferrovia, che assicura rapidi collegamenti con Torino, Rivoli, la Val di Susa e addirittura la Francia 39 .

Il primo edificio a essere costruito è, naturalmente, la fabbrica, dove, nel 1875, vengono trasferiti un centinaio di operai.

Leumann, imprenditore accorto, è consapevole della rilevanza che i problemi sociali hanno sulla città e sulla fabbrica e aderisce al gruppo torinese di

“ingegneri igienisti” 40 che si impegnano nel miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie delle città e delle abitazioni. Questa sua presa di posizione, insieme alla consapevolezza che i miglioramenti apportati a favore dei dipendenti portano ad una loro maggiore redditività in termini di produzione, lo porta erigere nei pressi della fabbrica, nel 1890, un asilo, un ambulatorio, un magazzino alimentare e un refettorio per 500 persone. Nel 1892, decide di contribuire, almeno in parte, alla soluzione del problema delle abitazioni per gli operai e fa costruire, ad est della fabbrica, una serie di abitazioni e di attrezzature collettive. Per realizzare questo primo nucleo del villaggio, Neumann si affida a Pietro Fenoglio 41 , che anziché realizzare dei casermoni, tipici dell’epoca, decide di costruire delle villette plurifamiliari su due piani 42 , che comprendono dai 2 ai 4 alloggi di varia dimensione, dotate di servizi igienici, cantina, sottotetto abitabile, legnaia, orto e giardino. La presenza di questi due ultimi elementi è un segno evidente della volontà di Leumann di mediare una tipologia rurale con le esigenze dettate dall’industria.

«I vani variano da 18,50 a 25 metri quadrati per i monolocali, da 43 a 47,50 metri quadrati per tre camere (57 metri quadrati e 3 camere e mezzo negli alloggi duplex delle case a schiera), da 60 a 69 metri quadrati per 4 camere. Gli alloggi della palazzina per impiegati vanno da 48,5 metri quadrati per 2 camere a 65 metri quadrati per 3 camere, distribuiti però con una tipologia fornita di disimpegni e servizi interni. L’altezza dei vani va da 3,15 metri a 3,90 metri. Il volume lordo delle casette operaie misura da 600 a 1500 metri cubi; la casa per gli impiegati è di 4200 metri cubi; gli edifici collettivi vanno da 2000 a 5000 metri cubi. Gli alloggi degli operai hanno di regola la latrina esterna, per quanto di appartenenza ad ogni singolo nucleo, e la cucina in un ambiente che può diventare il luogo comune per la preparazione dei pasti, pranzo, soggiorno e (spesso) riposo. Le camere sono passanti. […] Le strutture sono normalmente realizzate in muratura portante con

38 L’area scelta si trova all’incrocio della bealera di Orbassano e della bealera di Grugliasco, due canali dell’importante rete irrigua della piana torinese.

39 Nel 1871 viene aperta la galleria del Fréjus, nel 1882 quella ferroviaria del San Gottardo e tra il 1889 e il 1906 si realizza il traforo del Sempione.

40 Si veda il paragrafo 3.2.

41 Pietro Fenoglio (1865-1927), architetto e ingegnere, è esponente di spicco del Liberty torinese e autore di uno dei maggiori esempi, la casa Fenoglio-Lafleur a Torino; come Leumann condivide le idee degli ingegneri-igienisti.

42 Tutti gli edifici residenziali hanno due piani fuori terra, ad eccezione della palazzina per impiegati

e dei fabbricati del convitto, che presentano un seminterrato agibile.

(29)

intercapedine a cassevuote, di 40 centimetri di spessore lungo il perimetro esterno dell’edificio, di circa 30 centimetri per taluni setti murari, che si riducono a 12 e a 6 centimetri per successive ripartizioni interne e tramezze. […] Gli orizzontamenti sono realizzati con volte a botte da 6 centimetri in mattoni, raccordate agli spigoli dei vani (a formare una finta volta a padiglione) con voltina di tavelle di 3 centimetri. Un sistema di catene in ferro assicura il contenimento delle spinte:

normalmente annegate nelle voltature, sono in taluni casi messi in evidenza con l’applicazione all’esterno, sui loro terminali, di bolzoni tradotti in elementi decorativi in fusione di ghisa. I materiali costruttivi impiegati sono di regola di mattoni pieni, mattoni forati (per tramezze), e calcestruzzo per alcuni tipi di soffittature (nelle legnaie, e nelle logge dei tipi duplex a schiera) (senza contare le strutture dell’edificio delle scuole e di quello delle poste, ove è già presente il cemento armato della ditta Porcheddu). In alcuni dei più vecchi edifici del lotto est si riscontrano murature miste a pietrame, in seguito soppiantate. Le coperture dei tetti sono realizzate in tegole marsigliesi talvolta a motivi decorati, o in lastre di eternit» 43 .

Figura 3.4.19. Residenze per operai

Le case, separate tra loro da recinzioni, mostrano una generale omogeneità di volumi, forme e materiali e, soprattutto in facciata, presentano caratteri tipici Liberty, come l’intonaco color giallo cromo o beige, inserti in ceramica ed elementi in cemento a decorazione delle finestre. Il ricorso alla tendenza del momento ha lo scopo di omogeneizzare tra di loro le residenze, per rafforzare l’identità del

43 Alberto Abriani; Gian Albino Testa, “Leumann: una famiglia e un villaggio fra dinastie e capitali,”

in Villaggi operai in Italia. La Val Padana e Crespi d’Adda , a cura di Alberto Abriani (Torino, I:

Einaudi, 1981), 208-209.

(30)

villaggio, e allo stesso tempo uniforma il nuovo insediamento all’ambiente circostante.

Alcuni anni dopo, Neumann acquista dei terreni ad ovest della fabbrica e fa costruire altre residenze per i suoi operai.

Figura 3.4.20. Planimetria generale (basata su rilievo fotogrammetrico del 1976)

Figura 3.4.21. Il villaggio Leumann in un’immagine del 1911

Riferimenti

Documenti correlati

Denominazione struttura conservativa - livello 1: Archivi dell'Immagine - Regione Lombardia. ALTRE

Qui si promuovono laboratori creativi e corsi di formazione, ma anche momenti di convivialità trasformando l’aula in spazio lounge..

tranquillizzante: perché se è vero che la legge penale non è retroattiva – se non a favore del reo – è anche vero che le persone di cui parliamo sono entrate nel nostro paese

Le imprese dichiarano per il 2020 un andamento del fatturato in linea con il sentiment delle altre regioni (40% stabile o in crescita).. TREND FATTURATO DELLE PMI LOMBARDE

Tutela dei dati - il richiedente dichiara di essere stato informato sulle modalità e finalità del trattamento dei dati ai sensi dell'art. Ulteriori info: www.inail.it >

Si dichiara inoltre che, durante il suddetto periodo, lo stesso dipendente è stato adibito, in modo diretto e abituale, alle attività lavorative previste dalle norme di

Certamente questo concetto è insito nel nostro DNA, ma più precisamente oggi si proietta sui servizi digitali di prossimità, cioè la capacità di sviluppare ad esempio, tramite

La Fabbrica dell’aria, se inserita negli ambienti al chiuso, consente di ottenere il risultato di purificare l’aria in modo sostenibile ed efficace, migliorando anche la gradevolezza