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La riduzione della MAP è associata ad una riduzione delle perdite ematiche e ad un campo operatorio relativamente esangue, che può contribuire ad ottimizzare la durata dell’intervento

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3.2 Intraoperatorie

La prima regola nella riduzione delle perdite ematiche è minimizzare e limitare le stesse in sede intraoperatoria. E’ ben noto che il tipo di tecnica chirurgica utilizzata gioca un ruolo fondamentale nel mantenere la perdita di sangue ad un basso livello. Un’ adeguata emostasi, non sempre ottenibile in chirurgia ortopedica, e una corretta dissezione anatomica dei tessuti rappresentano comunque il gold standard per eliminare eventuali complicanze. E’ facile infatti asserire che il sangue che non viene perso non deve essere reintegrato2. Altre vie percorribili al fine di ridurre le perdite di sangue comprendono una serie di procedure intraoeratorie e perioperatorie quali: l’utilizzo di farmaci antifibrinolitici, emostatici e colle di fibrina, i termocoagulatori (elettrocoagulatori monopolari e bipolari), l'emostasi pneumatica, il posizionamento del paziente in modo tale da evitare il ristagno di sangue e l’ingorgo venoso, la scelta del tipo di anestesia, il mantenimento di uno stato di normotermia e il ricorso a un’ipotensione deliberatamente instaurata1[47].

Le strategie intraoperatorie che tratteremo sono le seguenti:

- Tecniche anestesiologiche

- Presidi e tecniche chirurgiche (antifibrinolitici, emostatici e colle di fibrina, emostasi pneumatica, elettrocoagulatori)

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Tecniche Anestesiologiche

Oltre all’anestesia generale, in chirurgia ortopedica è possibile utilizzare due tipi di tecniche anestesiologiche locali: l’anestesia epidurale ipotensiva e l’anestesia regionale epidurale o spinale (subaracnoidea).

L’ipotensione controllata è definita come la riduzione della pressione sistolica fino ai valori di 80-90 mmHg oppure una riduzione della pressione arteriosa media (MAP) intorno a 50- 60 mmHg o anche una riduzione del 30% di quest’ultima.

La riduzione della MAP è associata ad una riduzione delle perdite ematiche e ad un campo operatorio relativamente esangue, che può contribuire ad ottimizzare la durata dell’intervento. In chirurgia ortopedica un altro possibile vantaggio è legato alla ridotta quantità di sangue presente sull’interfaccia ossea da cementare durante gli interventi di artroplastica totale, che permette un miglior fissaggio della protesi sull’osso3.

L’obbiettivo dell’anestesia epidurale ipotensiva è di stabilire un blocco sufficientemente ampio sulle fibre della catena del simpatico a livello toracico, che hanno un effetto eccitatorio sul cuore2. Dato che tale effetto può comportare un non precisato grado di bradicardia, è importante associare alla procedura un’infusione continua intravenosa di eparina a basse dosi in modo da stabilizzare la circolazione del paziente. Vari studi2[54-

55],3[24-25-26] sottolineano che l’utilizzo di questa tecnica comporta una riduzione delle perdite ematiche intraoperatorie ed anche nel drenaggio postoperatorio. Può essere utilizzata nella maggior parte dei pazienti ipertesi o con una funzione cardiaca ridotta; anche nei pazienti con disfunzioni renali croniche, un’attenta gestione dell’anestesia epidurale ipotensiva sembra non danneggiare la funzione renale dopo l’intervento2[56]. Tuttavia Moonen et al.2 ritengono che questa tecnica non sia ampiamente utilizzata in chirurgia ortopedica.

L'anestesia epidurale o peridurale è una forma di anestesia locale che comprende

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l'iniezione di sostanze attraverso un catetere posizionato nello spazio peridurale. È una forma di anestesia utilizzata per la chirurgia degli arti inferiori, in urologia, per interventi del basso addome e per il parto naturale; consente di eliminare la sensibilità dolorifica mantenendo cosciente il paziente. Si pratica introducendo un ago, chiamato "ago di Tuohy", attraverso due vertebre (seconda e terza o terza e quarta lombari) fino a raggiungere lo spazio epidurale, posto fra la dura madre e la colonna vertebrale. Una volta raggiunto lo spazio epidurale si può iniettare l'anestetico locale direttamente in un'unica soluzione (tecnica chiamata "single shot") o, più frequentemente, si posiziona un piccolo catetere, facendolo passare attraverso l'ago di Tuohy e facendo in modo che penetri nello spazio epidurale per circa 3 o 4cm. , mediante il quale sarà possibile somministrare l'anestetico locale a boli ripetibili nel caso l'intervento chirurgico dovesse prolungarsi (anestesia epidurale continua).

L’anestesia spinale (subaracnoidea) viene normalmente praticata per interventi chirurgici agli arti inferiori o sul piccolo bacino.

Consiste nell’iniettare una certa quantità di liquido anestetico al di sotto della dura madre, utilizzando particolari aghi sottili fra i processi spinosi di due vertebre. Il liquido iniettato si mescola al liquido cefalo-rachidiano, mentre il midollo rimane protetto dalla pia madre, che lo avvolge.

L’anestetico agisce sulla parte di midollo interessata, a seconda del punto di iniezione.

I risultati di una meta-analisi abbastanza recente13[4] hanno sottolineato che l’anestesia regionale riduce le perdite ematiche perioperatorie e la quota trasfusionale. In un recente studio, Rashiq e Finegan13hanno rilevato che l’utilizzo dell’anestesia locoregionale riduce il rischio di ricorrere alle trasfusioni negli interventi di protesi totale d’anca, ma non in quelli di ginoccho. Inoltre hanno notato in tal senso una migliore efficacia della tecnica sigle shot.

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Antifibrinolitici, emostatici, colle di fibrina

I farmaci antifibrinolitici ed emostatici [in particolare acido tranexamico (TXA), acido epsilon-aminocaproico (EACA) e il fattore VII attivato ricombinante (rFVIIa), aprotinina] e le colle di fibrina svolgono un ruolo molto importante nella riduzione delle perdite ematiche.

I risultati di una recente meta-analisi, che includeva 43 studi (alcuni su apronitina, altri su TXA, altri ancora su EACA e infine quattro che comparavano due differenti antifibrinolitici col placebo), hanno messo in evidenza una significativa riduzione della perdita totale di sangue perioperatoria con l’ utilizzo di aprotinina e TXA, con conseguente minor ricorso alle trasfusioni di sangue allogenico. Non solo: nei pazienti che, nonostante il trattamento, nessitano di trasfusioni, si nota comunque una riduzione delle unità di sangue da trasfondere. Allo stesso tempo l’utilizzo di EACA non porta agli stessi risultati ottenuti con gli antifibrinolitici sopra elencati1. Va, tuttavia, aggiunto che tali farmaci promuovono lo sviluppo di uno stato di ipercoagulabilità che espone il paziente ad un elevato rischio di trombosi venosa profonda in seguito all’intervento chirurgico, soprattutto in chirurgia ortopedica. In una meta-analisi (Zuffery et al.)1[48] è stato, al contrario, rilevato che non sembrerebbe esserci un aumento di tale rischio; sfortunatamente i dati di questa meta- analisi sono troppo limitati per giungere ad una conclusione condivisibile e, pertanto, è importante fare un’ attenta valutazione dei rischi prima di utilizzare gli antifibrinolitici, specialmente in chirurgia ortopedica. Recentemente l’aprotinina è stata ritirata dal mercato a causa di un aumento della percentuale di pazienti che sviluppavano, in seguito al trattamento, gravi disfunzioni renali ed episodi trombotici a livello cerebrale e cardiovascolare e ad un incremento della mortalità legata all’utilizzo di tale farmaco rispetto a ciò che, invece, osserviamo con TXA ed EACA1.

Oltre agli antifibrinolitici è possibile ricorre all’utilizzo di rFVIIa, farmaco che favorisce l’emostasi a livello locale, nelle zone interessate dal danno vascolare, attraverso la

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formazione del legame con fattori tissutali esposti dalla lesione vascolare. Il complesso fattore tissutale-rFVIIa innesca la cascata coagulatoria attraverso l’attivazione della via estrinseca; inoltre l’rFVIIa può attivare il fattore X presente sulla superficie delle piastrine attivate. Il trattamento con questo farmaco è indicato negli episodi di sanguinamento in pazienti con emofilia di tipo A (difetto FVIII) e B (difetto FIX), con deficienza congenita del FVII e nella tromboastenia di Glanzmann. Partendo dagli ottimi risultati ottenuti in questi pazienti, è stato sottolineato come rFVIIa potrebbe svolgere un ruolo importante anche in condizioni cliniche di alterata coagulazione acquisita, caratterizzate da sanguinamenti incontrollati, nonostante una terapia procoagulante appropriata1[50]. L’utilizzo del farmaco in chirurgia ortopedica si basa principalmente su alcuni casi riportati e sull’esperienza personale e tuttavia esistono pochi studi clinici randomizzati controllati. Di questi, quelli effettuati su pazienti sottoposti a interventi chirurgici per la riduzione di fratture acetabolari o in seguito a traumi pelvici, hanno dimostrato che non esiste una significativa differenza, nella riduzione della perdita di sangue, tra gli individui che hanno usufruito del trattamento profilattico con rFVIIa e quelli in cui non è stato utilizzato1[51]. Altri studi, condotti in pazienti sottoposti a chirurgia spinale maggiore, hanno invece dimostrato un mediocre aumento della riduzione della perdita ematica nei pazienti sottoposti a trattamento profilattico1[52]. In sostanza, il ricorso all’utilizzo di rFVIIa in chirurgia ortopedica maggiore, sia elettiva che non, al fine di ridurre la perdita ematica postoperatoria e il ricorso alla trasfusione di sangue allogenico, non è ad oggi supportato da evidenze derivanti da studi clinici randomizzati e controllati. L’effetto collaterale principale è, chiaramente, la sua potenziale trombogenicità: una meta-analisi di 17 studi clinici ha però evidenziato una non significativa differenza rispetto ai casi controllo1[50]; sarebbe tuttavia necessaria una meta- analisi più ampia per trarre conclusioni più certe. Le colle di fibrina o i sigillanti a base di fibrina sono, invece, sostanze costituite da da una miscela di fibrinogeno e trombina umani (contengono anche FXII, fibronectina, aprotinina, calcio cloruro), che imitano la fase finale

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della via della coagulazione, nella quale l’attivazione del fibrinogeno, da parte della trombina, conduce alla formazione del coagulo; agiscono indipendentemente dal sistema di coagulazione proprio dell’organismo, ottenendo un’emostasi locale anche in pazienti con coagulopatie o che siano in trattamento con eparina o altri coagulanti. Vengono utilizzati come trattamento di supporto per l’ottenimento dell’emostasi e per ridurre il sanguinamento operatorio e postoperatorio durante le procedure di chirurgia ortopedica quali l’artroplastica totale d’anca e di ginocchio; si applicano localmente e non devono mai essere iniettati nei vasi. Sono nate, inizialmente come preparati cosiddetti “homemade”, cioè approntati direttamente in sala operatoria, mentre oggi sono disponibili in commercio (Tissucol/Tissel, Biocol, Beriplast, Quixil, FloSeal). Il loro utilizzo come agenti emostatici si è diffuso largamente negli ultimi anni in ambito chirurgico, sebbene siano stati pubblicati pochi studi clinici a riguardo. In chirurgia ortopedica, tre studi clinici randomizzati controllati e uno studio prospettivo, basato sull’osservazione dei dati in pazienti sottoposti ad intervento di protesi di ginocchio, dimostrano una significativa riduzione della perdita ematica postoperatoria con l’utilizzo delle colle, senza aumento della percentuale di complicazioni postoperatorie1[54-57]; questo dato, tuttavia, non viene messo in evidenza in due studi clinici randomizzati, effettuati in pazienti sottoposti ad intervento di protesi d’anca1[58-59] : è sicuramente necessario che vengano effettuati studi clinici randomizzati e controllati più ampi e metodologicamente rigorosi, prima di poter giungere a una raccomandazione definitiva del loro uso. Un problema che può sorgere nell’utilizzo di questi agenti, è il pericolo di trasmissioni virali; tuttavia non sono stati al momento riportati casi gravi di infezioni, sebbene esista la possibilità teorica di trasmissione della malattia di Creutzfeldt-Jacob, quando nel preparato sia presente trombina bovina. Le colle di fibrina in commercio devono essere, infine, usate con attenzione in quei pazienti che in precedenza abbiano assunto aprotinina1[60]. Ovviamente tali effetti collaterali vengono a mancare qualora si utilizzino colle di fibrina a base di proteine autologhe.

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Emostasi pneumatica

L’emostasi pneumatica (EP) è una procedura, utilizzata in chirurgia ortopedica, che garan- tisce al chirurgo un campo operatorio esangue, permettendo così una migliore visione ed una riduzione della durata dell’intervento; sembra inoltre migliorare la cementazione della protesi negli interventi di artroplastica totale di ginocchio10.

Prima dell’applicazione del tourniquet è essenziale escludere la presenza di alterazioni quali malattie vascolari periferiche, la presenza di protesi vascolari nell’area di applicazio- ne, alterazioni dei tessuti molli, anemia falciforme.

Il tourniquet pneumatico deve essere mantenuto il minor tempo possibile ed eventualmen- te alternato a periodi di riperfusione, se il suo utilizzo dovesse protrarsi per oltre 90 minuti.

Per quanto riguarda la pressione di gonfiaggio, è certo che essa debba essere la più bas- sa possibile rispetto alla pressione massima del paziente8[39]. Manicotti pneumatici più lar- ghi permettono di raggiungere una pressione di gonfiaggio minore di quelli più stretti, mini- mizzando quindi gli eventuali effetti collaterali. Il sistema di emostasi pneumatica deve es- sere regolarmente sottoposto a controlli di manutenzione in modo da garantire un’accurata misura della pressione. Dopo l’applicazione il gonfiaggio deve essere rapido per prevenire il riempimento delle vene superficiali prima della chiusura arteriosa; è prudente eseguire lo sgonfiaggio prima della chiusura della ferita, in modo da permettere l’identificazione e la chiusura di eventuali vasi sanguinanti. In caso di chirurgia bilaterale, e quindi di uso simul- taneo di due tourniquet, deve essere evitato il gonfiaggio contemporaneo dei due manicot- ti.

Il momento del rilascio del laccio pneumatico è molto importante: deve essere lento ed è compito del chirurgo avvertire l’anestesista qualche minuto prima di tale momento, in modo che quest’ultimo abbia modo di anticipare le variazioni metaboliche conseguenti.

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Questa tecnica non è univocamente accettata da tutti ed il suo effettivo rapporto rischi/be- nefici è tuttora oggetto di discussione8, tanto che in molti casi può portare ad un aumento delle perdite ematiche. Tetro e Rudan15, infatti,ritengono che l’emostasi pneumatica non sia una tecnica valida per ridurre le perdite ematiche: nel loro studio nei pazienti sottoposti ad artroplastica totale di ginocchio le perdite ematiche totali risultavano maggiori utilizzan- do il tourniquet, sebbene vi fosse una riduzione di quelle intraoperatorie, con conseguente aumento della domanda trasfusionale. I risultati di un recente studio (Li et al.16), su pazienti sottoposti, come nel precedente, ad intervento di protesi totale di ginocchio, non riportano differenze significative nella riduzione delle perdite ematiche totali tra l’utilizzo o meno del tourniquet, sebbene vi sia una riduzione delle perdite intraoperatorie con l’emostasi pneu- matica. Inoltre usando il torniquet si assiste all’aumento della portata dell’ecchimosi, del gonfiore, della richiesta media di morfina ed al prolungamento dei tempi di riabilitazione.

Altri autori ritengono, invece, che questa tecnica possa essere comunemente accettata negli interventi di protesi totale di ginocchio per ridurre le perdite ematiche, ponendo come questione principale quale sia il momento più adatto per rilasciare il tourniquet durante l’in- tervento. Alcuni chirurghi rilasciano il tourniquet prima di chiudere la ferita per effettuare un’emostasi sicura dei vasi: Theory et al.17 nel loro studio, su pazienti sottoposti ad artro- plastica totale bilaterale simultanea di ginocchio, non hanno notato una differenza signifi- cativa nella perdita totale di sangue tra il gruppo in cui il rilascio del tourniquet avveniva prima della chiusura della ferita chirurgica e quello dove era rimosso dopo la sutura della stessa. Tuttavia essi consigliano, in accordo con altri studi che riportano un aumento delle perdite ematiche e delle complicazioni postoperatorie rilasciando precocemente il tourni- quet, di chiudere prima la ferita chirurgica per ridurre la durata dell’intervento, evitando così i rischi legati ad un prolungata anestesia. I risultati di una recente meta-analisi18 (1765 pazienti sottoposti ad intervento di protesi totale o parziale di ginocchio) sottolineano che il rilascio precoce del tourniquet si associa ad un aumento delle perdite ematiche; tuttavia gli

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stessi evidenziano un aumento delle complicanze postoperatorie nel caso il tourniquet sia rimosso dopo la chiusura della ferita (danno da riperfusione post-ischemica, con conse- guente iperemia reattiva ed edema10[101]), con la possibilità di sottoporre il paziente ad un secondo intervento.

Gli effetti collaterali conseguenti all’utilizzo del tourniquet pneumatico non sono certamente da sottovalutare in quanto possono alterare anche in modo grave la qualità della vita del paziente: variazioni della coagulazione, variazioni emodinamiche che possono deprimere la funzione cardiorespiratoria nel periodo postoperatorio15[4-6], potenziali alterazioni cellulari a livello neuromuscolare con variazioni della funzione muscolare conseguenti alla prolun- gata ischemia e danni a livello dei nervi periferici per compressione diretta8,15. Sebbene complicanze gravi siano rare, sono riportate embolie polmonari fatali ed occlusioni arterio- se15[7-10].

Da quanto detto fin qui, l’emostasi pneumatica è ad oggi una metodica che necessita si maggiori approfondimenti, soprattutto per valutarne con precisione il rapporto rischi/benefi- ci.

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Elettrocoagulatori

I primi esperimenti di correnti a radiofrequenza su soggetti umani, cominciarono verso la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. Nel 1892 , Arsene d’Arsonval studiò per primo l’effetto di correnti ad alta frequenza su pazienti. Nel 1899 Oudin descrisse la distruzione del tessuto causata da scintille provocate dal rilascio di corrente attraverso un’apparecchiatura risonante. Per la diffusione dell’elettrochirurgia occorre attendere il 1926 quando Harvey Cushing, utilizzando il dispositivo di Bovie, applicò corrente ad alta frequenza durante una procedura neurochirurgica. I risultati furono eccellenti e a quel punto anche pazienti ritenuti in operabili, per il pericolo di emorragia cerebrale, furono sottoposti ad intervento. Cushing e Bovie pubblicarono e diffusero il loro lavoro ottenendo un grande successo, contribuendo a diffondere l’applicazione di unità elettrochirurgiche nelle sale operatorie di tutto il mondo. La tecnologia rimase invariata fino al 1967, quando Valleylab mise a punto il primo sistema portatile ad onde elettriche complex, con uscite isolate e indipendenti e comandi manuali. L’elettrobisturi è uno strumento elettromedicale impiegato nell'ambito della chirurgia al fine di effettuare il taglio dei tessuti in maniera rapida e semplice e di esplicare anche un’azione di coagulo. Il principio applicativo di un elettrobisturi prevede l’utilizzo di un generatore, ovvero di un’unità nella quale arriva corrente elettrica dall’alimentazione principale e viene convertita in energia ad alta frequenza. Questa corrente ad alta frequenza passa attraverso un cavo di alimentazione, un manipolo isolato ed un elettrodo attivo. Nel punto di applicazione dell’elettrodo attivo e nel tessuto circostante al punto di contatto si ottiene un’elevata concentrazione di energia. Questa nell’ambito di una piccola superficie produce l’effetto termico desiderato. Tuttavia utilizzando un elettrobisturi monopolare, l’energia transita attraverso il paziente e viene raccolta da un elettrodo neutro con una superficie di contatto sul paziente molto più ampia e dove la concentrazione d’energia è quindi ridotta. In questo modo nella zona di contatto

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dell’elettrodo neutro sui tessuti del paziente non c’è effetto termico. Il circuito elettrico si completa con un cavo che dall’elettrodo neutro riporta l’energia al generatore. Il generatore ad alta frequenza può essere attivato sia da un pedale che da pulsanti alloggiati in un manipolo. Bisogna prestare attenzione affinché l’elettrodo neutro sia applicato con l’intera superficie sul paziente. Altrimenti c’è la possibilità di provocare ustioni, in quanto si verifica un incremento della densità di corrente dove l’elettrodo neutro è applicato parzialmente. Gli elettrobisturi sono costruiti sulla base del principio fisico della conversione dell’energia elettrica in calore. Il principio ha origine dalla legge di Joule sulla termodinamica nella quale la relazione sulla quantità di calore è data dalla corrente elettrica (I), dalla resistenza ohmica (R) e dal periodo di durata (t):

Q = I2 x R x t

L’impiego e il successo dell’elettrobisturi nascono dalla capacità di risolvere alcuni problemi legati all’utilizzo del bisturi tradizionale, primo fra tutti la fuoriuscita di sangue a seguito della recisione di vasi sanguigni. Il suo principio di funzionamento è basato sul fenomeno della formazione di calore prodotto dalla presenza di una corrente, di una certa intensità ed in alta frequenza. È necessario che la corrente utilizzata dall’elettrobisturi per effettuare il taglio e il coagulo dei tessuti biologici provochi solo effetti termici, rendendo trascurabili sia l’effetto elettrolitico sia la stimolazione di nervi e muscoli. La corrente elettrica pulsata o corrente a bassa frequenza causa un effetto di stimolazione neuro- muscolare sul corpo umano, originato dalla stimolazione del processo fisiologico di scambio ionico, responsabile della trasmissione degli stimoli. Stimolazioni elettriche di questa natura provocano spasmi muscolari che possono estendersi a fenomeni cardiaci di extrasistole e fibrillazione ventricolare. Con la corrente alternata ad alta frequenza (superiore a 200 kHz) il sistema fisiologico del corpo umano non riesce a tradurre questi stimoli, poiché il cambio di polarità è così veloce da non influire sul paziente, generando reazioni neuromuscolari. Per questa ragione, tutte le apparecchiature per uso chirurgico

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sono ad alta frequenza e lavorano giustappunto su frequenze di base superiori a 300 kHz.

TECNICHE ED ELETTRODI

L’elettrobisturi prevede l’utilizzo di una tecnica monopolare o bipolare. Con la tecnica monopolare (Fig. a), come abbiamo detto prima, il flusso di corrente dall’elettrodo attivo transita attraverso i tessuti del paziente per raggiungere l’elettrodo neutro. La potenza è prodotta da un generatore di corrente ad alta frequenza. Il circuito elettrico si completa con un cavo isolato che collega il generatore ad un manipolo chirurgico: da questo, mediante l’elettrodo attivo, giunge sui tessuti del paziente, per poi ritornare tramite l’elettrodo neutro e il rispettivo cavo isolato al generatore. L’utilizzo di basse potenze e quindi basse correnti permette di utilizzare questa tecnica senza causare ustioni al paziente.

Fig. a: elettrocoagulatore monopolare

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A differenza della tecnica monopolare, con la tecnica bipolare (Fig. b) la porzione di tessuto interessata dal passaggio di corrente in alta frequenza è piccolissima. Utilizzando le pinze bipolari, specifiche per questa tecnica, si hanno due elettrodi, attivo e neutro, rispettivamente sulle due estremità distali della pinza. Serrando tra l’estremità della pinza il tessuto che si intende trattare, il passaggio di corrente ad alta frequenza avverrà da un elettrodo all’altro, sfruttando come ponte elettrico quella stessa piccola quantità di tessuto che dobbiamo trattare. La traiettoria della corrente è quindi molto corta e semplice, il tessuto viene coagulato in una zona delimitata utilizzando bassa potenza. La tecnica bipolare è molto sicura in quanto la direzione della corrente ad alta frequenza è sempre determinata e prevedibile e non riserva incognite e potenziali direzioni erronee, e le potenze utilizzate sono molto più basse che con la tecnica monopolare. La forma dell’elettrodo attivo è determinante per valutare la densità di corrente nel punto di applicazione, permette inoltre di regolare la temperatura nelle immediate vicinanze e quindi il risultato finale.

Fig. b: elettrocoagulatore bipolare

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Gli elettrodi a sezione sottile creano un’alta densità di corrente, un’elevata temperatura e quindi favoriscono il taglio. Elettrodi ad ampia superficie creano invece una densità di corrente più bassa e, di conseguenza, una temperatura più bassa per provocare l’effetto di coagulazione.

Bisogna ricordare che le apparecchiature ad alta frequenza implicano potenziali rischi.

Prima dell’utilizzo, gli operatori devono ricevere tutte le istruzioni necessarie per utilizzare al meglio l’elettrobisturi ed i relativi accessori. L’apparecchiatura deve essere sempre verificata prima di ogni utilizzo, non deve mai venire utilizzata in modo improprio e non previsto dalle istruzioni. Se si presentano dubbi sull’efficienza dell’apparecchiatura occorre immediatamente interrompere l’utilizzo e verificarla tramite l’assistenza tecnica.

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