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Sun e coll., 2007, 2008)

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5. DISCUSSIONE

I risultati del presente studio mostrano che il gruppo dei pazienti presenta valori plasmatici medi di Aβ42 significativamente inferiori rispetto al gruppo di controllo e, allo stesso tempo, un rapporto Aβ40/Aβ42 significativamente più alto. Questi dati sono in linea con studi precedenti che avevano rilevato in pazienti depressi rispetto ai controlli: livelli plasmatici di Aβ42 più bassi, livelli di Aβ40 sovrapponibili nei due gruppi ed un rapporto Aβ40/Aβ42 maggiore (Qiu e coll., 2007; Sun e coll., 2007, 2008). Lo studio di Sun e coll. del 2008, inoltre, ha messo in luce come la depressione “amiloide-associata” (rapporto Aβ40/Aβ42 più elevato) correli con un più grave deficit nella memoria, nelle abilità visuospaziali e nelle funzioni esecutive. Tali studi, tuttavia, sono stati condotti su pazienti geriatrici e hanno interpretato la depressione senile, in presenza della sovradescritta disregolazione del sistema della Aβ, come una possibile manifestazione prodromica della Malattia di Alzheimer (AD). Successivamente Kita e coll. (2009) hanno dosato i livelli sierici dei peptidi Aβ in campioni di pazienti depressi anziani e giovani (cut-off = 60 anni) riscontrando un rapporto Aβ40/Aβ42 significativamente più alto rispetto a due gruppi di controllo omogenei per età. In particolare i livelli di Aβ40 erano significativamente più alti nei pazienti giovani rispetto ai controlli, mentre non differivano tra pazienti anziani e controlli, e, i livelli di Aβ42 risultavano omogenei tra i pazienti e i controlli indipendentemente dall’età. Il nostro studio, pertanto, è il primo a rilevare in un campione di bipolari depressi eterogeneo per età valori di Aβ42 inferiori e un rapporto Aβ40/Aβ42 superiore rispetto a controlli sani. Poiché numerose evidenze precliniche attribuiscono agli oligomeri Aβ una significativa azione neurotossica associata ad antagonismo funzionale nei confronti del

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BDNF (fattore neurotrofico protettivo nei confronti dei disturbi dell’umore) e ad un potenziale depressogeno in modelli animali (Colaianna e coll., 2010), nell’insieme i dati preclinici e gli studi sui pazienti depressi inducono a speculare circa il ruolo di un danno Aβ-mediato nella fisiopatologia dei disturbi dell’umore.

Sono ampiamente documentati una riduzione della Aβ42, un incremento della Aβ40 e del rapporto Aβ40/Aβ42 nei pazienti AD in fase conclamata e nei soggetti a rischio di AD e MCI (Graff-Radford e coll., 2007; Xu e coll., 2008;

Van Oijen e coll., 2006). La riduzione della Aβ42 plasmatica nei pazienti AD è stata interpretata dalle ricerche neurobiologiche più recenti come il risultato della concentrazione intracerebrale della Aβ che avrebbe inizio decenni prima della formazione delle placche senili e della comparsa dei marcati deficit cognitivi tipici della AD, rendendosi responsabile di una neurotossicità protratta e di una lenta neurodegenerazione, e che dipenderebbe dalla compromissione della funzione di clearance della barriera ematoencefalica (Deane e coll., 2009). In particolare, a livello della barriera ematoencefalica, sono state descritte la iperespressione del recettore per i prodotti di glicosilazione avanzata (RAGE), che sostiene l’ingresso della Aβ nel cervello, e la disfunzione di una proteina associata al recettore per le lipoproteine di bassa densità (LRP1) che favorirebbe invece l’uscita dal cervello della Aβ e allo stesso tempo la sua ricaptazione epatica (Sagare e coll., 2011).

Dato il riscontro di Aβ42 plasmatica ridotta e rapporto Aβ40/Aβ42 aumentato nel nostro studio e negli altri studi sovracitati e considerato l’aumentato rischio di demenza e deterioramento cognitivo descritto nei pazienti affetti da disturbi dell’umore (Geerlings e coll., 2008), potrebbe essere interessante studiare la clearance della barriera ematoencefalica anche nei pazienti depressi.

Il nostro studio ha inoltre dimostrato una correlazione negativa statisticamente significativa tra i livelli plasmatici di Aβ42 e il parametro Durata

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di Malattia, che esprime la percentuale di vita trascorsa in malattia. Un dato in qualche modo affine al precedente è la correlazione positiva statisticamente significativa riscontrata tra il rapporto Aβ40/Aβ42 e il numero di episodi affettivi. Questi risultati sottolineano l’importanza del decorso di malattia nei pazienti affetti da disturbi dell’umore poiché i pazienti studiati con decorso peggiore in termini di ricorrenza di malattia e con maggiore durata del disturbo hanno presentato una maggiore disregolazione dei peptidi Aβ. Del resto, è documentato che i pazienti affetti da disturbi dell’umore con episodi multipli di malattia hanno un rischio a lungo termine maggiore di sviluppare deficit cognitivi e forme demenziali conclamate (Kessing e coll., 2004) e presentano alterazioni neuroanatomiche, spesso di tipo atrofico, maggiori (Strakowski e coll., 2005). Un recente focus della ricerca neuroscientifica attuale è rappresentato dallo studio dell’impairment cognitivo nei disturbi affettivi. Il dibattito si concentra prevalentemente sulla comprensione dell’eziopatogenesi dei deficit cognitivi, non essendo chiaro se essi dipendano da un alterazione del neurosviluppo, come accade nella schizofrenia, o se siano il risultato di un processo neurodegenerativo intrinseco ai disturbi affettivi e legato al ripetersi degli episodi di malattia. Una review di Goodwin e coll. (2008) ha analizzato la Letteratura in proposito evidenziando come sia difficile ipotizzare una alterazione del neurosviluppo nel disturbo bipolare. A differenza di quanto accade nella schizofrenia, infatti, bambini che successivamente svilupperanno il disturbo bipolare, mostrano performances cognitive (verbali e intellettive) superiori rispetto ai controlli (Cannon e coll., 1997) e inoltre, molti studi non hanno riscontrato deficit cognitivi significativi nei familiari di primo grado di pazienti bipolari (Ferrier e coll., 2004;

McIntosh e coll., 2005; Clark e coll., 2005a, 2005b). Tali evidenze sono incompatibili con l’ipotesi di alterazione del neurosviluppo. Di contro, molti studi clinici e di neuroimaging suggeriscono l’esistenza nei pazienti con disturbi

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dell’umore di fenomeni neurodegenerativi legati al ripetersi degli episodi affettivi.

A tal proposito, numerosi studi hanno dimostrato che la depressione costituisce un fattore di rischio per lo sviluppo di AD (Devanand e coll., 1996; Wilson e coll., 2002; Ownby e coll., 2006) e che il rischio è ancora più alto nelle forme depressive early-onset (Geerlings e coll., 2008). Il rischio di demenza, inoltre, aumenta in relazione al numero di episodi nei disturbi depressivi e bipolari (Kessing e coll., 2004). In generale, il rischio di declino cognitivo sembra correlare con il numero di episodi depressivi in pazienti affetti da depressione ricorrente (Geerlings e coll., 2000). In un recente lavoro Gualtieri e Johnson (2008) hanno confrontato pazienti affetti da disturbi dell’umore e controlli sani appaiati per età riscontrando, soprattutto nella fascia d’età 65-85 anni, una significativa accelerazione del declino cognitivo (memoria, attenzione, funzioni esecutive) e un incremento del rischio di demenza nei pazienti con disturbi dell’umore, e ipotizzando l’esistenza di eventi fisiopatologici condivisi dalla patologia affettiva e da quella neurodegenerativa. Anche studi condotti su pazienti bipolari in fase eutimica hanno mostrato una relazione tra il numero di episodi affettivi e la gravità del declino cognitivo (Tham e coll., 1997; Van Gorp e coll., 1998). Due recenti lavori di review e metanalisi hanno confermato l’associazione tra la gravità della storia e del decorso del disturbo bipolare e la gravità della compromissione nei pazienti di domini cognitivi quali attenzione, memoria e funzioni esecutive (Robinson e coll., 2006; Torres e coll., 2007). Studi di neuroimaging hanno rilevato che regioni cerebrali come il verme cerebellare, i ventricoli laterali e la corteccia prefrontale inferiore sembrano degenerare con il ripetersi degli episodi affettivi in pazienti bipolari (Strakowski e coll., 2005). Un follow-up di 4 anni su pazienti bipolari e controlli appaiati per età ha mostrato un progressiva compromissione della funzione mnestica nei pazienti bipolari associata alla riduzione di volume della corteccia temporale mediale e correlata

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alla gravità di decorso del disturbo (Moorhead e coll., 2007). Altri studi hanno mostrato come l’entità della riduzione volumetrica ippocampale nei pazienti con depressione ricorrente sia direttamente proporzionale al numero e alla durata degli episodi (Sheline e coll., 2003). Considerando nell’insieme i dati derivanti dai suddetti studi clinici e di neuroimaging e visto che dal nostro studio emerge che i pazienti con maggiore ricorrenza di malattia hanno un rapporto Aβ40/Aβ42 più alto, ulteriori ricerche sono necessarie per comprendere se i pazienti bipolari con decorso più grave siano maggiormente esposti alla neurotossicità Aβ-mediata e abbiano conseguentemente un rischio più elevato di neurodegenerazione.

D’altra parte, il nostro studio ha riscontrato valori del rapporto Aβ40/Aβ42 e di Aβ40 plasmatica significativamente più alti sia nei pazienti con punteggio HRSD>30 rispetto agli altri con punteggi minori che in quelli con punteggio MMSE<24 rispetto agli altri con punteggi maggiori. Ne consegue che alti valori del rapporto Aβ40/Aβ42 e di Aβ40 plasmatica sembrano individuare un sottogruppo di pazienti depressi con sintomatologia più grave e con maggiore compromissione cognitiva. Ulteriori studi su campioni più numerosi sono necessari per chiarire se esista, quindi, un sottogruppo di pazienti che, indipendentemente dal decorso di malattia, presenti un disturbo dell’umore

“amiloide-associato” (come già ipotizzato da Sun e coll. nel 2008) caratterizzato da maggiore compromissione cognitiva e in grado di conferire un rischio a lungo termine maggiore di declino cognitivo e demenza.

Il nostro studio presenta, comunque, alcune importanti limitazioni.

Innanzitutto è da considerare la scarsa numerosità del campione anche se le analisi effettuate sono da ritenersi analisi preliminari in attesa di avere a disposizione un campione di pazienti maggiore. Un altro limite importante è rappresentato dalla scarsa caratterizzazione degli episodi di malattia: nella

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raccolta dei dati anamnestici è stato agevole identificare il numero degli episodi di malattia e definirne la cronologia ma è stato decisamente problematico cercare di definire con ragionevole sicurezza la polarità degli episodi. Infine, anche se a tuttora non sono noti gli effetti dei farmaci psicoattivi sui livelli cerebrali e periferici di Aβ, un possibile bias potrebbe risiedere nel fatto che tutti i pazienti studiati erano in trattamento psicofarmacologico. Sun e coll. (2007) non avevano riscontrato differenze nei livelli plasmatici di Aβ42 tra i pazienti depressi in trattamento e non. Di contro, i livelli di Aβ40 erano risultati inferiori nei pazienti in trattamento antidepressivo. Inoltre, uno studio condotto su modelli murini transgenici di AD ha mostrato una significativa riduzione dei livelli di Aβ nell’ippocampo degli animali trattati con paroxetina (Nelson e coll., 2007).

Pertanto, sarebbe auspicabile in futuro allargare lo studio dei peptidi Aβ anche ai pazienti drug-free. La scelta di pazienti farmacoresistenti è dipesa dal fatto che la condizione di resistenza ai trattamenti sembra associarsi a un impairment cognitivo maggiore soprattutto a carico di funzioni quali attenzione e memoria e ad alterazioni neuroanatomiche maggiori a livello della corteccia prefrontale (Li e coll., 2010).

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