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48 CAPITOLO III LO STATO, LA PAURA E LA MENZOGNA

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CAPITOLO III

LO STATO, LA PAURA E LA MENZOGNA

“La lingua è un dialetto più l’esercito. Quando la lingua perde l’esercito diventa dialetto, cioè lingua minoritaria. Le identità hanno il diritto di essere ancorché non hanno un esercito e ancorché non hanno un territorio.”

(Leoluca Orlando, conferenza stampa dell’11 ottobre 2007 di presentazione della proposta di legge di modifica della legge n.482/99)

“ In nome delle istituzioni democratiche, in nome della libertà d’opinione, l’antisemita reclama il diritto di proclamare ovunque la crociata antiebraica. (…) Ma mi rifiuto di chiamare opinione una dottrina che prende di mira espressamente persone determinate, che tende a sopprimere i loro diritti e a sterminarle.(…) L’antisemitismo non rientra nella categoria dei pensieri protetti dal diritto di libera opinione.”

(Jean – Paul Sartre, Riflessioni sulla questione ebraica)

3.1 LA SITUAZIONE ITALIANA: L’ASSENZA DI UN QUADRO NORMATIVO NAZIONALE E L’ISTITUZIONALIZZAZIONE DELLA SEGREGAZIONE RAZZIALE

L’Italia non ha alcuna legislazione che tuteli la minoranza Rom e Sinta, anche se essa si è insediata su molte parti del territorio nazionale già a partire dal secolo XV e comprende attualmente circa 70.000 persone (cittadini italiani Rom e Sinti) che parlano la lingua romanés. Questa minoranza dovrebbe di conseguenza rientrare a pieno titolo nelle minoranze storico-linguistiche da tutelare, ai sensi della Carta Europea delle Lingue regionali e minoritarie.

In Italia è tuttora in vigore una legge, la n. 482 del 15 dicembre 1999, intitolata “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, che “tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco– provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo.”1

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Le popolazioni Rom e Sinte non compaiono perché durante l’iter parlamentare della legge vi furono forze politiche che minacciarono di non votare la legge se non si fosse stralciato il riferimento a tali minoranze. Ufficialmente il motivo addotto per tale presa di posizione fu la mancanza del requisito della territorialità, essendo Rom e Sinti una minoranza frammentata in piccoli gruppi sparsi su tutto il territorio nazionale. In realtà la Carta Europea delle Lingue regionali o minoritarie, che avrebbe dovuto essere il quadro europeo di riferimento della legge n.482 , prevede espressamente che la tutela sia garantita anche “alle lingue sprovviste di un territorio”, ovvero quelle lingue che “benché tradizionalmente parlate nell’ambito del territorio di tale Stato, non possono essere identificate con una particolare area geografica dello stesso”2. Il riconoscimento dello status di minoranza nazionale venne rinviato ad una legge ad hoc per Rom e Sinti, che però non fu mai varata.

Il 3 luglio 2007 alcuni parlamentari italiani, in stretta partnership con le organizzazioni Rom e Sinte, hanno presentato in parlamento una proposta di legge di modifica della 482, per l’estensione della tutela delle minoranze linguistiche storiche alle minoranze dei Rom e dei Sinti3. Eva Rizzin, attivista Sinta membro dell’associazione Osservazione e del Comitato Rom e Sinti insieme, ha affermato durante la conferenza stampa di presentazione della proposta di legge: “ Il riconoscimento della lingua è il diritto stesso all’esistenza individuale e collettiva”4. Lo scopo della proposta di legge risulta chiaro:

“riportare l’attenzione sulle minoranze sinte e rom in quanto portatrici di una cultura propria, al fine di superare le logiche segreganti e assistenziali che hanno condizionato le politiche degli ultimi anni. Dopo secoli di bandi, espulsioni, persecuzioni, culminate con l’internamento e lo sterminio nel periodo nazifascista, non riconoscere la specificità di questa cultura costituirebbe infatti una ingiustificata e ulteriore forma di discriminazione. Il primo passo, a nostro parere, è il riconoscimento dello status di minoranze linguistiche (negato nel 1999 in Italia, ma riconosciuto da paesi europei come Spagna, Svezia e Austria) al fine di costruire percorsi di riconoscimento reale delle diverse espressioni

2 Parte I, articolo 1, comma c della “Carta europea delle lingue regionali o minoritarie”, adottata dal

Consiglio d’Europa a Strasburgo il 5 novembre 1992. Fonte: Ufficio dei Trattati del Consiglio d’Europa, http://conventions.coe.int . In realtà l’Italia ha aderito alla carta con grande ritardo, soltanto il 27 giugno 2000, quindi dopo la legge 482 del 1999, ed al momento attuale non ha ancora provveduto alla ratifica.

3 Si veda il testo integrale della proposta di legge, primo firmatario l’on. Mercedes Frias, del

PRC-Sinistra Europea, in Appendice.

4 Conferenza stampa 11 ottobre 2007, sala stampa di Montecitorio ( Camera dei Deputati). Il testo e

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culturali presenti nel Paese. Tali percorsi devono inevitabilmente passare per la valorizzazione della lingua e della cultura proprie dei popoli sinti e rom.”5

La tutela della lingua e della cultura Rom e Sinta, pur concernendo da un punto di vista strettamente giuridico solamente i Rom e Sinti italiani e quindi non comportando da questo punto di vista alcun miglioramento dello status giuridico dei Rom immigrati dai Balcani, avrebbe però anche su di essi culturalmente e socialmente una ricaduta positiva. Infatti il romanès , ricco di modulazioni dialettali in base all’area geografica di provenienza ed al gruppo etnico di appartenenza, è la lingua parlata da tutti i Rom e Sinti, immigrati o italiani e dunque tutelarlo a livello nazionale significherebbe garantirne la sopravvivenza e la conoscenza, oltre a costituire un importante riconoscimento del valore e della ricchezza della cultura Rom e Sinta.

Durante la conferenza stampa dell’11 ottobre 2007, Leolouca Orlando, anch’esso firmatario della proposta di legge, ha affermato che “ il primo dei diritti umani è il diritto all’identità che viene prima del diritto alla libertà e alla vita”. In effetti, riprendendo una riflessione di arendtiana memoria, l’identità culturale e sociale di una persona e di un popolo si distingue dalla mera esistenza fisica, in quanto l’identità (intesa come un essere in relazione e non una essenza a sé) è l’elemento che caratterizza gli esseri umani nella società, l’elemento attraverso il quale essi sono inseriti e partecipano attivamente alle relazioni sociali. Privare qualcuno della propria identità, ridurlo a mera esistenza, significa isolarlo dall’ambiente delle relazioni umane, fare quell’operazione che vide il suo perfetto compimento nei campi di concentramento nazisti e di cui anche Rom e Sinti fecero le spese.

La proposta di legge per il riconoscimento delle minoranze Rom e Sinte, per quanto sia verosimilmente destinata ad arenarsi, visti i recenti sviluppi della politica italiana, ha tuttavia indicato ed indica un percorso politico ed istituzionale in controtendenza totale, sia nei fini che nei mezzi, rispetto alle tradizionali politiche dello Stato italiano nei confronti di Rom e Sinti. Per quel che riguarda i fini, essa sancisce il ruolo fondamentale della conoscenza della cultura e della storia sinta e rom, conoscenza che può avvenire solo dopo aver riconosciuto la pari dignità e valore degli altri. D’altro lato, questa legge è frutto di un’intensa collaborazione fra associazioni Rom e Sinte e forze politiche ed istituzionali, dato che, forse per la prima volta nella storia italiana, mette in mostra la vitalità e le capacità politiche dell’associazionismo di Rom e Sinti, e soprattutto rappresenta un primo passo per l’instaurarsi di una prassi politica che ne ascolti la voce e ne riconosca il protagonismo nei processi decisionali che li

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riguardano. Politicamente ciò significa uscire non solo dalle logiche repressive e securitarie, ma anche da quelle assistenziali e paternalistiche dominanti in Italia, che hanno sempre definito Rom e Sinti soggetti da “educare”, “civilizzare” ed incapaci di stabilire da soli le proprie priorità.

I Rom emigrati dall’Europa dell’Est, in particolar modo quelli della ex- Jugoslavia, giunti in Italia in due ondate, prima negli anni ‘60 e poi negli anni ’90, in seguito alla guerra e alla disgregazione della Federazione Jugoslava, devono sovente fare i conti con una condizione di “apolidi di fatto” non riconosciuta dallo Stato italiano. Molti di loro sono sul territorio italiano da almeno trent’anni, e si tratta di un’immigrazione ormai risalente alle terze generazioni: spesso sono stranieri nati in Italia da genitori stranieri, essi pure nati in Italia. Pur essendo stranieri, molti di loro non appartengono più di fatto, allo Stato di origine e potrebbero, in teoria, accedere allo “status di apolide”. Tuttavia restano bloccati in un limbo in cui lo Stato Italiano li considera cittadini stranieri e lo Stato di origine non li riconosce più come propri cittadini: di fatto sono stranieri in Italia, senza avere un passaporto straniero che li identifichi come cittadini stranieri. Questo perché negli attuali Stati della ex- Jugoslavia, con la scomparsa della Federazione, le nuove leggi repubblicane in materia di cittadinanza hanno previsto requisiti etnici e residenziali per il riconoscimento o l’acquisto della cittadinanza, che buona parte dei Rom stabilitisi in Italia non possiede, risultando dunque a tutti gli effetti “apolidi”.

Con l’entrata in vigore della legge Bossi–Fini, che modifica il Testo Unico sull’Immigrazione, molti Rom hanno perduto l’iscrizione nel registro dei residenti con tutte le nefaste conseguenze che questo comporta: perdita dell’iscrizione anagrafica, impossibilità di rinnovare la carta d’identità e, per coloro che sono nati in Italia e vi hanno sempre soggiornato, la possibilità di chiedere il riconoscimento della cittadinanza italiana. Infatti per la legge, per essere considerati residenti legalmente si deve essere stati inscritti tempestivamente all’anagrafe, i genitori devono essere regolari in Italia e dovevano aver conservato questa legalità fino a che il figlio non avesse ottenuto un titolo di soggiorno individuale, infine dovevano aver conservato tale residenza per tutto il periodo di permanenza in Italia, requisiti che per la maggior parte non vengono soddisfatti.6 In un lungo documento compilato dal Centro europeo per i diritti dei rom (Errc), dall'Associazione per il diritto alla casa e contro gli sgomberi (Cohre) e dalle italiane OsservAzione e Sucar Drom, un testo inviato a metà gennaio 2008 alla Commissione delle Nazioni Unite per l’eliminazione della

6 Questa descrizione della situazione dei Rom della ex- Jugoslavia deriva interamente dalle ricerche e

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discriminazione razziale (CERD ) per contestare il roseo ed ottimistico rapporto 2007 inviato dal governo italiano, si legge:

“Molti Rom o non- Rom provenienti soprattutto dalla ex- Jugoslavia, hanno avuto i permessi di soggiorno quando erano inclusi nei passaporti dei loro genitori , permessi che duravano solo fino all’età di 18 anni. A tale età è stato chiesto loro di lasciare il Paese o di richiedere la cittadinanza italiana. Inoltre, a queste persone molte volte viene negato un formale riconoscimento da parte del paese di origine dei loro genitori – spesso a causa del fatto di essere nati in Italia. A loro viene impedita anche l’acquisizione della cittadinanza italiana perché i campi in cui abitano, o hanno abitato, non forniscono loro il diritto ad una residenza o ad un domicilio ufficiale, rendendo impossibile a queste persone di conformarsi alla legge italiana sulla cittadinanza, che tra l’altro, richiede un domicilio documentato dalla nascita fino all’età di 18 anni. Ogni persona senza permesso di soggiorno, o senza cittadinanza italiana ha diritto a cure mediche urgenti presso gli ospedali (tramite il pronto soccorso), però non può conseguire l’assistenza sanitaria pubblica che hanno le altre persone. La loro unica possibilità di ottenere assistenza medica non di emergenza consiste in visite mediche private; ma queste persone potrebbero non essere in grado di permettersele a causa della povertà o estrema povertà che regna tra i gruppi Rom immigrati. Queste persone poi non possono essere legalmente impiegate. Infine non possono ricevere l’assistenza sociale standard fornita dallo stato perché la legge non lo permette.”7

Tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ’90, dieci regioni italiane8 hanno prodotto delle leggi per la creazione di “aree sosta” riservate “alle minoranze nomadi”. In sostanza tali leggi hanno creato i campi-nomadi, di fatto delle zone ghetto nelle quali isolare Rom e Sinti dal resto della popolazione.

La costituzione dei campi nomadi si basa su una duplice menzogna che viene istituzionalizzata con essi. La prima è quella che vorrebbe Rom e Sinti, tutti e in ugual misura nomadi, senza fissa dimora, da cui la definizione di “aree sosta” come qualcosa di temporaneo, perennemente provvisorio, destinato prima o poi ad essere smantellato e ricostruito altrove, proprio per l’intrinseco “spirito errante” di Rom e Sinti. La seconda è che questi “nomadi” abbiano una naturale tendenza ad isolarsi dal resto della popolazione “civile”,

7 European Roma Rights Centre (ERRC), Centre on Housing Rights and Evictions (COHRE), OsservAzione,

Sucar Drom,, Rapporto sulla situazione italiana. Presentato alla Commissione delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale (CERD) riunito per la 72a sessione, gennaio 2008, p. 4-5. Il rapporto delle associazioni, così come le critiche osservazioni del CERD al governo italiano, si possono consultare sul sito: http://www.osservazione.org.

8 Veneto, Lazio, Provincia autonoma di Trento, Sardegna, Friuli-Venezia Giulia, Emilia- Romagna,

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amino vivere in grandi accampamenti promiscui ai margini delle città, dove sia loro possibile condurre una vita all’aria aperta. Queste menzogne, fatte passare dalle autorità cittadine come caratteristiche essenziali dell’identità Rom e Sinta, divengono realtà, si materializzano, con la costruzione dei campi. Attraverso queste leggi essi sono sempre più percepiti come nomadi, asociali e promiscui.

L’idea che postula il nomadismo di Rom e Sinti recentemente è stata sconfessata anche da quelle stesse organizzazioni ed autorità che negli anni ‘60 si erano fatte promotrici dei campi nomadi. Infatti i Rom immigrati in Italia negli ultimi decenni del secolo scorso, provenienti quasi tutti dai Balcani e dalla ex- Jugoslavia, erano popolazioni sedentarie da centinaia di anni, costrette a lasciare casa e lavoro a causa delle guerre e dalle persecuzioni. La stessa cosa vale per i Rom rumeni, provenienti soprattutto dal sud- est della Romania. Per quel che riguarda i Sinti, presenti soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, vi sono alcune sfumature in più, dal momento che il loro “nomadismo” era basato sulla stagionalità dei lavori che tradizionalmente conducevano, cioè gli spettacoli viaggianti e circensi. Tuttavia questa stagionalità viene ostacolata dalle aree sosta che diventano gli unici luoghi all’interno dei quali sostare liberamente e senza incorrere in sanzioni.

Per quanto riguarda la presupposta naturale tendenza all’isolamento di Rom e Sinti, nonostante sia più che altro un corollario a quella del nomadismo, tende a sopravvivere ad essa. In realtà le aree sosta autorizzate vengono solitamente costruite nelle periferie delle città, in zone industriali, o nei pressi di discariche, fra cavalcavia autostradali e ferrovie. Sono aree malservite dal trasporto pubblico e spesso malsane. I servizi igienici sono spesso insufficienti per il numero elevato di persone che vi risiedono e l’erogazione di acqua e di corrente elettrica può risultare intermittente. Le unità abitative, costruite senza consultare Rom e Sinti, sono costituite da prefabbricati o containers facilmente deteriorabili dagli agenti atmosferici. In genere nessun area verde o spazio pubblico veniva previsto all’interno di tali aree.

Poiché appare abbastanza inverosimile pensare che a qualche essere umano piaccia vivere per motivi “innati” in queste condizioni, questa idea opera a sostegno del pregiudizio che vuole gli zingari tutti sporchi, malmessi e incompatibili con la vita civile. Viene operato un ribaltamento della realtà: non sono più le condizioni di vita disumane nelle quali Rom e Sinti vengono costretti a vivere a crearne l’isolamento e il degrado fisico, ma sono le loro caratteristiche genetiche o culturali che li portano “naturalmente” a vivere così. Uscendo invece dal meccanismo del pregiudizio, si può ritenere che Rom e Sinti, vivrebbero al loro interno una molteplicità di stili di vita differenti, soprattutto per quel che riguarda la casa, se fosse loro consentito da un punto di vista legislativo, economico e sociale. Molte famiglie

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opterebbero per una casa popolare, se potessero accedere alle graduatorie e/o se avessero i mezzi economici per sostenere i costi che una casa comporta; altre famiglie vorrebbero vivere in camper o roulottes se potessero istallarsi su un terreno privato.

In realtà la soluzione univoca data alla questione abitativa di Rom e Sinti attraverso i campi nomadi, che le regioni italiane hanno istituito per legge, nasconde il tentativo delle autorità locali gagé di controllare, emarginandole, le comunità Rom e Sinti immigrate in Italia. L’assenza di una legislazione nazionale a tutela delle minoranze Rom e Sinti rappresenta una delega di fatto alle regioni e agli enti locali della gestione della materia. Nonostante le leggi regionali prevedano, oltre all’istituzione delle aree sosta, altri interventi per l’inserimento lavorativo e scolastico, di fatto essi restano in gran parte lettera morta. Gli unici interventi di questo tipo, laddove esistono, vengono realizzati da associazioni “pro-nomadi” in un’ottica meramente assistenziale.

L’assenza di una legislazione sul piano nazionale e la delega informale alle regioni mettono in luce il disegno politico sottostante: l’integrazione di Rom e Sinti è concepita come un problema di ordine pubblico e controllo del territorio, problemi per i quali l’intervento a livello regionale, provinciale e comunale è più efficace. Le ripercussioni a livello locale di queste politiche sono enormi. Una prima ripercussione sta nella crescita di un brodo di cultura di indifferenza e sospetto nel quale si rafforzano i sentimenti xenofobi e l’antiziganismo.

Lo Stato italiano, per più di un ventennio si lava le mani della questione dell’integrazione di Rom e Sinti, senza predisporre innanzitutto misure adeguate sul piano formativo e culturale, ovvero senza preparare la società alle trasformazioni in atto. In altre parole la società italiana di fronte alle migrazioni di popolazioni ( non solo Rom e Sinti) avrebbe potuto essere preparata attraverso politiche interculturali, nella scuola e negli enti pubblici, e il finanziamento di progetti diversi sul piano locale. Non avendo lo Stato fornito linee guida alle regioni, esse hanno poi optato per soluzioni relativamente semplici e realizzabili.9

La svolta securitaria vera e propria arriva però solo nel 2007. Il 20 marzo 2007, lo Stato italiano firma un patto di sicurezza nazionale con l’ANCI ( Associazione Nazionale dei Comuni Italiani) per la cooperazione sul tema della sicurezza. Questo patto segna un punto di svolta per almeno due ordini di motivi. Innanzitutto esso riconosce per la prima volta ai sindaci e ai prefetti il potere decisionale nell’ambito della repressione dei fenomeni di microcriminalità e di controllo del territorio, oltre che l’ampliamento dei finanziamenti

9 Semplici e realizzabili rispetto alla complessità che sarebbe derivata con l’aprire il confronto e il

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destinati alla sicurezza e alle forze dell’ordine. In secondo luogo esso stabilisce alcune importanti linee guida delle politiche governative in tema di prevenzione sociale, riqualificazione del tessuto urbano, recupero del degrado ambientale e delle situazioni di disagio sociale, per contribuire ad elevare i livelli di sicurezza e vivibilità urbana10.

I temi sociali che il patto Governo-ANCI chiama in causa sono estremamente rilevanti per l’intera società. Se affrontati attraverso strategie adeguate, improntate ad esempio a modificare le politiche abitative e di progettazione urbana verso una maggiore integrazione sociale ed eliminando la ghettizzazione di alcuni gruppi etnici in determinate zone periferiche delle città, avrebbero potuto produrre risultati interessanti. Ciò che risulta difficile da comprendere è invece in che modo il governo abbia pensato di fare prevenzione sociale e di riqualificare il territorio, nonché di recuperare le situazioni di disagio sociale, potenziando in termini numerici, finanziari e logistici l’apparato poliziesco delle città italiane, poiché questi sono gli strumenti operativi messi a punto dal patto. In questo modo anziché compiere passi verso il raggiungimento degli obiettivi prefissati, il governo e gli enti locali hanno gettato le basi per una riduzione di questi temi così complessi ed articolati ad un mero problema di ordine pubblico.

In questo modo, l’effetto generato dal patto nell’opinione pubblica è stato quello di far credere che la crescente insicurezza sociale ed economica avesse origine nei cittadini immigrati e nei Rom e Sinti in particolar modo. Il patto Governo-ANCI ha dato il via alla stipulazione di patti sulla sicurezza in tutte le più importanti città italiane. In questi patti, la città è concepita come una fortezza da difendere dalle incursioni di chi vive ai margini di essa, attraverso pattugliamenti costanti, video-sorveglianza, poliziotti di quartiere e l’istituzione di Forze di Intervento rapido in caso dell’insorgere o acuirsi di “fenomeni criminali aggressivi”11 non meglio definiti. Di fatto vengono riconosciuti poteri speciali alle forze di polizia, che hanno dai Patti in poi, “mani libere” per controllare i campi dove vengono concentrati Rom e Sinti12 , infrangendo molti diritti costituzionali

Milano e Roma sono le prime città nelle quali vengono firmati i Patti per la sicurezza. Il Patto di Roma, firmato dal sindaco, dal prefetto di Roma, dal presidente della provincia, dal presidente della regione Lazio e dal Ministro degli Interni, prevedeva l’istituzione di una

10 Il testo del Patto Governo-Anci è reperibile sul sito www.anvu.it

11 Si veda a titolo d’esempio il “ Patto per la sicurezza dell’area metropolitana fiorentina”, firmato il

19 luglio 2007, consultabile sul sito: http://www.interno.it .

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commissione con tre mesi di tempo per progettare “4 villaggi della solidarietà” alla periferia di Roma e altri 9 mesi per costruire prefabbricati e per preparare le aree per le abitazioni di circa 4.000 Rom. Contemporaneamente una task force di 150 officiali di polizia è istituita per “riabilitare le aree”. Il Patto di Milano, firmato dal prefetto, dal sindaco di Milano e dal viceministro dell’Interno, individua nei campi nomadi non autorizzati uno dei problemi principali da risolvere per ridurre la criminalità. In tre mesi dalla firma del patto, le autorità responsabili devono “definire una strategia che conferirà poteri straordinari al Prefetto per implementare un piano strategico per risolvere l’emergenza Rom a Milano”. Il Patto prevede inoltre l’intensificazione dei controlli nelle periferie ( dove vivono molti Rom) per garantire la sicurezza dei residenti milanesi 13.

I Patti sono preceduti e seguiti da un’intensa campagna mediatica volta a far crescere il senso di insicurezza (la cosiddetta “insicurezza percepita”) dei cittadini e la paura verso lo straniero, in particolare Rom. A titolo di esempio, possiamo citare l’articolo apparso sul quotidiano “la Repubblica” il 18 maggio 2007, a firma della giornalista Claudia Fusani, che sembra fornire apparentemente soltanto “innocenti” informazioni statistiche sulla presenza dei Rom in Italia ed in Europa, affermando che in “Romania c’è una bomba” potenziale di due milioni e mezzo di Rom in partenza verso le porte spalancate dell’Europa14. L’articolo però si era aperto con l’elenco dei delitti commessi in Italia, ed attribuiti a Rom, che avevano tenuto recentemente banco sui mass media. Il meccanismo causa-effetto per il lettore risulta del tutto automatico: “attenzione, pericolo, siamo di fronte ad una possibile “invasione degli Unni”.

L’articolo citato prosegue con un schematico elenco delle varie comunità Rom presenti in Italia, fornendo per ogni gruppo numeri del tutto non documentati ed opinabili sulla frequenza scolastica o la disoccupazione, facendo credere che si tratti di caratteristiche inerenti quel dato gruppo. Per i Rom della ex- Jugoslavia, ad esempio, si informa che soltanto il 10 per cento dei minori va a scuola, adombrando l’idea di un analfabetismo congenito dei Rom jugoslavi. I pregiudizi dell’autrice sono infine svelati quando, al punto “caratteristiche sociali”, vengono elencati: “quasi totale disoccupazione”, “analfabetismo diffuso”, “degrado ambientale”, ”emergenza abitativa”, “emarginazione sociale”, “devianze varie” (da leggere evidentemente come microcriminalità). Le condizioni di vita in cui Rom e Sinti sono costretti

13 Cfr. ERRC ( European Roma Rights Centre) e Osservazione ( Centro di ricerca azione contro la

discriminazione di Rom e Sinti), Lettera del 23 maggio 2007 al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, al Presidente del Consiglio dei Ministri Romano Prodi, al Ministro degli Interni Giuliano Amato e a Marco De Giorgi, direttore generale Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR), dal titolo “Sgombero forzato di più di 10.000 Rom annunciato in Italia”.

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dalle istituzioni a vivere, vengono presentate acriticamente come caratteristiche sociali del popolo Rom e Sinto.

Lanciata e consolidata tra i lettori la percezione dell’insicurezza, individuati i capri espiatori, il quotidiano la Repubblica è pronto per esaltare il pronto intervento delle istituzioni e delle autorità preposte alla sicurezza, ed il giorno successivo, il 19 maggio 2007, grande risalto viene dato alle dichiarazioni di Achille Serra, prefetto di Roma: “…10.000 Rom che vivono negli insediamenti abusivi sulle rive del Tevere devono andarsene…”15. Resta da notare che la maggior parte dei Rom ai quali il prefetto faceva riferimento erano rumeni, e dunque a tutti gli effetti cittadini europei.

I patti per la sicurezza tracciano a grandi linee “una geografia variabile dell’insicurezza urbana” che ha inevitabilmente i suoi poli principali nei progettati nuovi grandi campi Rom. L’identificazione dei campi come luoghi da evitare, luoghi pericolosi, avviene in maniera inevitabile proprio per le grandi dimensioni dei nuovi insediamenti. Concentrare centinaia, se non migliaia, di persone in un’unica area, sorvegliata giorno e notte dalle forze di polizia, munendo gli abitanti di tesserino di riconoscimento, è un’operazione politica che mira all’acuirsi delle tensioni sociali fuori e dentro ai campi e a creare un’atmosfera di “emergenza permanente” tale da poter giustificare qualsiasi provvedimento repressivo.

I nuovi insediamenti che devono allontanare i Rom dal centro della città, ipocritamente chiamati dal prefetto di Roma “villaggi della solidarietà”, e che seguono l’esempio del“ modello milanese”16, sono dunque enormi campi-ghetto costruiti senza tener conto né della volontà dei Rom, né di qualsiasi altra considerazione relativa alla salubrità e alla raggiungibilità del luogo. O meglio i luoghi considerati più adatti sono proprio i luoghi più lontani dal centro città e dai servizi pubblici, ed anche quelli spesso più insalubri.17

Non tener conto minimamente della volontà delle persone, significa ammassare centinaia di persone l’una vicina all’altra, senza prendere in considerazione legami familiari o di parentela, né di altro genere, né avendo riguardo alla provenienza geografica o etnica, riducendo le persone a veri e propri oggetti da immagazzinare. Il risultato prevedibile sarà l’esplodere di tensioni e incomprensioni, rivalità e invidie, anche a seconda del ruolo che si ricopre all’interno del campo. Le gerarchie dei ruoli purtroppo si creano spesso in relazione al

15 Cfr. quotidiano “la Repubblica”, 19 maggio 2007 : “Prefetto Serra: chi vive negli insediamenti

abusivi deve andarsene. La polizia garantisce l’ordine nei campi. E nella capitale l’ordine aumenta: via 10.000 Rom irregolari”.

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rapporto con i sorveglianti non-Rom del campo, agli incarichi e alla fiducia accordata da questo o quel rappresentante della società gagé.

Lo studio delle dinamiche di potere che si creano all’interno di questi ghetti esula dalla presente tesi ; basti qua sottolineare il fatto che la segregazione abitativa porta con sé inevitabilmente anche questo genere di contrasti.

3.2 I FATTI DI OPERA: ARCHEOLOGIA DI UN ODIO COLLETTIVO

Lo scopo di effettuare un’inchiesta sui “fatti di Opera” attraverso interviste, articoli di quotidiani nazionali, l’esame di due blog, “ La voce di Opera” e “ Festa dei popoli. L’altra voce di Opera”, schierati su posizioni opposte, ed infine il periodico dell’amministrazione comunale di Opera, mi era sembrato in un primo momento principalmente, se non unicamente, quello di offrire una ricostruzione degli avvenimenti accaduti ad Opera fra dicembre 2006 e febbraio 2007. Mentre raccoglievo le interviste a Milano e ad Opera nel maggio 2007, mi resi però conto che vi era qualcosa d’altro, e forse di altrettanto importante, da cogliere. Gli intervistati infatti non mi stavano solo aiutando a capire come erano andate “davvero” le cose, ma mi stavano dando qualcosa di più prezioso: la loro lettura dei fatti.

Lo scopo delle interviste è quindi divenuto non solo la ricostruzione degli avvenimenti, ma anche riflettere sulla versione che degli avvenimenti davano gli attori sociali. Più dei fatti di Opera, la cui ricostruzione difficilmente potrà essere completa e incontestabile, è l’analisi dei discorsi sui fatti accaduti che è al centro di questo paragrafo.

Le “versioni date della realtà”, ovvero i discorsi sulla realtà, producono e riproducono le dinamiche di potere insite nelle relazioni sociali, le loro gerarchie, i loro steccati e i loro tabù, richiamano continuamente i centri del potere, le fonti che li legittimano e, elemento non poco rilevante, contengono in nuce l’immagine dell’altro su cui si basa tutta la struttura discorsiva. L’altro è contenuto anche quando è negato, cioè è contenuto come negazione, come incapacità di pensarlo come soggetto agente, interlocutore presente dentro al proprio discorso. In questo caso esso rimane materia inerte del discorso, pura merce di scambio di relazioni umane in cui non ha alcuna parte attiva.

L’impotenza che governa le relazioni con gli altri raggiunge i picchi più alti quando non si riconosce che l’altro sia una parte fondamentale della propria identità, senza il quale la propria identità non è altro che una cassa di risonanza vuota; l’identità senza l’altro è sorda a se stessa, priva cioè di un punto di riferimento per orizzontarsi. In queste condizioni, in cui

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l’altro, in quanto traccia viva della molteplicità in ogni persona, è espulso dall’ordine del discorso, il senso di impotenza prende il sopravvento. Il senso di impotenza degenera facilmente nella violenza da parte di chi espelle e d’altro lato chi si sente rigettato ripiega spesso nell’autoesclusione. Teun van Dijk descrive così questo meccanismo discorsivo in ambito educativo:

“Come nei mass media, così nei libri di testo le minoranze sono additate come “loro” e raramente come parte di “noi”, nonostante il fatto che una crescente percentuale dei bambini che utilizza questi libri faccia parte di “loro”. Questa forma di esclusione simbolica, e l’alienazione che può causare, sono largamente ignorate come possibile causa della presunta “mancanza di motivazione” e del conseguente abbandono (o meglio costruzione dell’abbandono) della scuola da parte dei bambini appartenenti alle minoranze.”18

In questo capitolo, ci occuperemo dell’esclusione simbolica delle minoranze Rom e Sinti partendo dal caso studio di Opera. Le radici di quest’esclusione, presenti in quasi tutti i discorsi degli intervistati, si palesano in quanto “paura di perdere qualcosa”. Di volta in volta questo qualcosa è la proprietà dei beni, il potere sociale, la ripetitività monotona della vita quotidiana, il decoro urbano, la serenità familiare. Al centro dell’attenzione non sono mai gli altri ( in questo caso il gruppo di famiglie Rom fatto sgomberare fino ad Opera), bensì le cose e/o le persone, e l’ordine fra le cose e le persone, che potrebbero essere modificati o stravolti se si accettasse di includervi nuovi soggetti agenti. In altre parole ciò che si teme in massimo grado è l’instabilità dei rapporti e delle relazioni umane. La paura di doversi mettere in discussione è talmente forte che la presenza dell’altro viene oscurata da riti di accorpamento identitario, come il rogo delle tende o il presidio permanente.

Gli avvenimenti accaduti fra Opera e Milano da dicembre 2006 a marzo 2007 hanno costituito il modello di riferimento sull’esempio del quale si sono sviluppate le strategie locali e nazionali per quel che riguarda la gestione dei campi Rom e le politiche per l’integrazione. In particolare Opera rappresenta un importante precedente per ciò che concerne:

1) le relazioni fra società civile non Rom , rappresentanti politici e istituzioni;

2) le relazioni fra società civile non Rom e comunità Rom;

3) le strategie di legittimazione dell’ esclusione;

4) le strategie per l’ascesa politica di esponenti di partito di estrema destra.

In ognuno di questi ambiti le vicende legate ad Opera hanno tracciato un percorso chiaro e preciso che è poi stato riprodotto in molte altre località italiane, a iniziare dalla stessa

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Milano. Prima di Opera negli anni ’80 e ‘90 vi erano stati molti altri casi di campi Rom sgomberati e di proteste accese della popolazione locale, sfociate talvolta in vere e proprie violenze razziste.19 Tuttavia Opera inaugura una stagione, che non è ancora terminata ed anzi raggiunge picchi estremi proprio in questi giorni, caratterizzata da un elevato grado di legittimazione dell’odio razziale, nonché da una sua istituzionalizzazione.

L’istituzionalizzazione dell’odio razziale fa parte di una più ampia ideologia politica che mira a trasformare l’intera questione sociale in un problema di ordine e sicurezza pubblica, mentre gli spazi del dibattito pubblico si riducono a spazi di svago e di ricreazione. Si punta ad uno svuotamento della discussione politica attraverso l’annichilimento della dimensione politica dell’essere umano. In ogni settore della vita sociale, la politica è piegata alle leggi del mercato e ai fattori tecnici e tecnologici.

L’apoliticità diventa una bandiera della quale vantarsi sia per gli intellettuali che per gli uomini di potere che pretenderebbero in questo modo di “salvaguardare gli interessi di tutti i cittadini”. L’arretramento della dimensione politica a tutti i livelli coincide con un pari arretramento della coscienza civile e morale: in assenza della prima non vi può essere nemmeno la seconda .

3.3 LA RICOSTRUZIONE DEI FATTI

Il 14 dicembre 2007 il campo di Rom rumeni in via Ripamonti a Milano, formato da circa 100 persone tutte in possesso di regolare permesso di soggiorno, viene sgomberato dalle forze dell’ordine20. Il campo era da tempo “seguito”21 dagli Operatori della Casa della Carità, che ne ha ospitato un gruppo la prima notte dopo lo sgombero nella sede dell’organizzazione. I Rom rumeni vivevano ormai da tre anni in via Ripamonti. Secondo Laura, attivista dell’associazione Voce dei Popoli, il terreno apparteneva a Salvatore Ligresti, uno dei più ricchi e potenti imprenditori edili milanesi. A inizio dicembre Ligresti avrebbe richiesto lo sgombero, che è stato eseguito quasi immediatamente all’alba del 14 dicembre.22

19 Cfr. P. Brunello (a cura di), L’urbanistica del disprezzo. Campi rom e società italiana,

Manifestolibri, 1996.

20http://www.globalproject.info/print-10351.html

21 “Noi della Casa della Carità li conoscevamo già, perché avevamo fatto per loro tutta l’iscrizione a

scuola dei bambini. Quando hanno fatto lo sgombero, è chiaro che conoscendoci ci hanno chiamato.” Intervista a Don Massimo Mapelli della Casa della Carità

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La Casa della Carità, che aveva ospitato temporaneamente la comunità Rom, chiede al Comune di Milano di “ riprenderseli”23. Venerdì 15 dicembre, il Comune di Milano decide in maniera unilaterale di costruire un campo di prima accoglienza in via Borsellino a Noverasco, su di un terreno privato, dove “risistemare” provvisoriamente la comunità Rom, senza alcuna garanzia sulla modalità di gestione e sui tempi di permanenza.24 Fra le ragioni dell’inadeguatezza della sede scelta il periodico dell’amministrazione comunale indica oltre” la mancanza di servizi minimi”, anche la vicinanza con alcune abitazioni e con una casa di riposo.25

L’amministrazione comunale di Opera dichiarò di aver appreso solo nel momento dell’inizio degli scavi, dai cittadini di Noverasco, che si stava costruendo un campo. Il Comune di Opera, dopo aver consultato e chiesto spiegazioni all’amministrazione milanese e dopo aver bloccato i lavori a Noverasco, firma insieme alla Prefettura di Milano, la provincia di Milano, il Comune di Milano un protocollo di intesa il 21 dicembre 2006. In questo protocollo veniva individuata l’area per l’ubicazione di una struttura provvisoria per le famiglie sgomberate da via Ripamonti , inoltre la provincia di Milano, attraverso la “protezione civile”, si impegnava alla costruzione, inclusa la realizzazione dei servizi essenziali, ed infine il Comune affidava alla Casa della Carità la “gestione sociale” della struttura e si impegnava a garantire il trasporto pubblico dei bambini a scuola e la copertura finanziaria della struttura. Lo smantellamento della struttura veniva fissato per il 31 marzo e veniva programmato entro un mese un incontro per individuare una situazione alternativa. Il Protocollo all’art. 3 lanciava un “ Patto di Socialità e Legalità”: “ Gli ospiti dell’area attrezzata sottoscriveranno un patto di socialità e legalità, redatto in collaborazione con il gestore, dove saranno contemplate le prescrizioni per la permanenza nella struttura.”

Il 21 dicembre 2006 alle ore 21, dopo che nel pomeriggio era stato firmato il protocollo, la seduta del Consiglio Comunale, nella quale il sindaco avrebbe dovuto illustrare gli accordi presi, viene interrotta da una folla di gente, almeno 400 persone, che gridano di mandare via gli zingari da Opera. Già verso le 19, alle auto della protezione civile di Milano, che stavano montando le tende nell’area circense scelta come sede della struttura provvisoria, vengono

23 “ …allora, dopo lo sgombero, abbiamo detto al Comune di Milano: - adesso però riprendili -. Il

Comune di Milano li riprende ed esce un Patto fra il Comune di Milano, la Provincia di Milano, la prefettura di Milano, dove esce l’idea del campo di Opera, come soluzione non definitiva, ma transitoria, dove loro potevano stare fino al mese di marzo e non di più”. Intervista a Don Massimo Mapelli.

24 “Il Comune di Opera”, periodico a cura dell’amministrazione comunale, numero11-2006. 25 Ibidem

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rotti i vetri . Le persone che irrompono nell’aula consiliare sono incitate e guidate dal consigliere comunale del partito della Lega Nord , Ettore Fusco e da quello di Alleanza Nazionale, Pino Pozzoli. Dopo aver protestato con grida e incitamenti all’odio razziale verso i Rom, escono dal Comune, vanno verso l’area dove si era iniziato a montare il campo, e un gruppo di essi dà fuoco alle tende con una tanica di benzina. Poi le tende a cui era stato appiccato il fuoco vengono trascinate lungo la strada principale, al centro del paese, fino al municipio, dove restano lì a bruciare per alcune ore, bloccando il traffico. Mezzi di soccorso ed autobus vengono bloccati da alcune persone e viene impedito loro di raggiungere il campo. La polizia durante tutte queste azioni non interviene e lascia mano libera alla folla.

Nei giorni successivi si forma un presidio permanente, costituito da tutti quei cittadini che avevano dato vita e/o avevano appoggiato il raid razzista del 21, davanti all’area circense per impedire di montare il campo Rom. Ma alla fine, il 29 dicembre i 70 Rom entrano comunque nel campo transitorio di Opera, controllato dalla polizia 24 ore su 24. Nonostante l’assenza di qualsiasi autorizzazione, il presidio si consolida, sia nel numero dei partecipanti che nella struttura, e diventa un punto di incontro per gli abitanti di Opera che volevano far smantellare il campo. Per 55 giorni i presidianti lanciano intimidazioni ed insulti continui alle famiglie Rom e ai volontari che entrano ed escono dal campo, senza subire nessun tipo di sanzione da parte della polizia che “controlla” il campo.

Il 10 febbraio il campo viene smantellato, in anticipo rispetto alla data fissata dal protocollo del 31 marzo. La Casa della Carità diffonde una lettera nella quale le famiglie Rom dichiarano di non sopportare più i continui insulti e le continue minacce provenienti dal presidio26:

“Siamo il gruppo di persone,uomini, donne,bambini che da mesi vivono nelle tende ad Opera in una situazione d’ emergenza, con un presidio di gente che non ci vuole, con la polizia che è sempre all’entrata del campo. Non ce la facciamo più. Soprattutto i nostri bambini hanno paura. Per questo non vogliamo stare neanche un’ora in più perché siamo stanchi. Ci sentiamo e siamo offesi continuamente. Soprattutto la presenza della polizia che dovrebbe garantire la nostra sicurezza continua a far emergere un‘immagine brutta di noi. E’ completamente sbagliata e per questo vogliamo, con questo gesto, dire basta. Non siamo gente che ruba, che offende. Vogliamo vivere tranquillamente con le nostre famiglie, i figli piccoli, quelli che vanno a scuola.

Abbiamo detto e scritto i nostri impegni, stiamo attendendo pazientemente una soluzione più dignitosa. Vogliamo dire con questo gesto che siamo noi, soprattutto i nostri bambini ad aver paura.

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Quando passiamo vicino al presidio noi salutiamo sempre, ma loro ci trattano male. Passiamo ogni giorno attraverso cartelli che ci offendono. Siamo persone come voi e molti, anche cittadini di Opera, lo possono affermare. Ora non abbiamo più il coraggio di uscire dopo le 17 per prendere da mangiare. Chi viene a trovarci deve essere riconosciuto dalla polizia, spesso non passa. Ma perché? Avevamo detto che saremo rimasti quel gruppo e così é. Siamo intimiditi e impauriti. Non ce la facciamo più. Ringraziamo il sindaco, chi lo sostiene, la parrocchia che ci ha dato fiducia, tutti quanti, cittadini, Casa della Carità soprattutto che ci state vicini. Confidiamo ancora in una soluzione che ci permetta di vivere in modo dignitoso come ci è stato promesso. I nostri bambini però non ce la fanno più. Vi ringraziamo e porgiamo i nostri saluti.”

La maggior parte delle famiglie Rom vengono “risistemate” nel “villaggio solidale” allestito dal Ceas presso il Parco Lambro a Milano, nel quale rimane in vigore il Patto di Socialità e Legalità. Il 14 gennaio in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, il sindaco di Milano, Letizia Moratti, rilancia il “modello di Opera” come possibile soluzione per l’integrazione dei Rom a livello italiano27. Il sindaco di Milano si riferisce esplicitamente al Patto di Socialità e Legalità che viene fatto firmare anche nel più grande campo Rom di Milano: quello di via Triboniano. Il “modello di integrazione” delle popolazioni Rom inaugurato ad Opera, diventa “il modello milanese”. Esso viene lanciato come una proposta all’avanguardia a livello nazionale attraverso la trasmissione televisiva “ L’infedele”.

Le conseguenze dei fatti di Opera, devastanti quanto i fatti stessi, sono il risultato da una parte dell’attacco alla dignità delle popolazioni Rom dei rappresentanti dei partiti xenofobi di destra ( Lega Nord e An ) e dall’altro della risposta a questo attacco in realtà connivente nei principi di fondo con esso, orchestrata dalle istituzioni religiose e rappresentanti delle istituzioni.

3.4 OPERA RACCONTA OPERA : COME SI COSTRUISCE IL SENSO COMUNE RAZZISTA.

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Il 21 dicembre 2007 il blog “ La Voce di Opera”28 pubblica un comunicato dal titolo “Un deciso no al campo nomadi”. Nel comunicato vengono spiegate le ragioni del no al campo nomadi: il tracollo dei prezzi delle case degli operesi e l’impennata della criminalità. Accogliere una comunità di famiglie Rom, seppur in via temporanea, nel territorio comunale, secondo gli autori sarebbe in grado di intaccare “ la tranquilla natura” di Opera e porterebbe molti cittadini della città ad andarsene. Per questi motivi si invitano i cittadini a passare al contrattacco, e vengono suggeriti alcuni “provvedimenti”: informare ogni interessato all’acquisto delle nuove case del progetto del campo, organizzare riunioni periodiche, la prima fissata per la sera stessa alle 21, mandare mail in massa al Sindaco per esprimere una totale e indiscutibile contrarietà. “ Intanto organizziamo forme di protesta democratiche e legali, ma molto incisive”. ( spedito alle 4.24 PM del 21 dicembre 2006)

Il 22 dicembre, dopo gli avvenimenti della notte precedente, l’irruzione nel Consiglio Comunale e il rogo delle tende, viene pubblicato un altro comunicato dal titolo: “Opera in rivolta contro il campo nomadi”. Il comunicato prosegue: “Tutti chiamati a difendere la città dal pericolo campo nomadi recandosi al sit-in permanente all’area spettacoli viaggianti dove vorrebbero allestirlo. Andate lì anche per firmare le petizioni! Con questo atto antidemocratico l’amministrazione ha compiuto il proprio suicidio politico. Ramazzotti si deve dimettere in quanto non avrà più oggettivamente le condizioni per governare Opera. Con la più ferma condanna verso qualsiasi forma di violenza esortiamo tutti i cittadini a mettersi in prima linea per scongiurare la realizzazione del campo nomadi”. Di seguito viene poi aggiunto un volantino, in formato pdf, con l’invito a scaricarlo e ad attaccarlo nell’androne del proprio condominio:

“ NO al campo nomadi ad Opera! Opera è stata sempre un paese tranquillo e per questo apprezzato da chi ha scelto di viverci. Come un fulmine a cielo sereno il Sindaco ha deciso di ospitare un campo nomadi, oltretutto all’ingresso del paese ( area spettacoli viaggianti), senza prima consultare la popolazione. Se questo avverrà, la sicurezza del paese sarà compromessa e anche l’economia sarà danneggiata a cominciare da una svalutazione degli immobili di tutti i cittadini. Impegnati con noi per evitare che tutto questo avvenga!”29

28 L’autore del blog “La Voce di Opera” si firma Franco Giusti. Tuttavia molti di coloro che scrissero

nei mesi di dicembre 2006, gennaio e febbraio 2007 condividevano l’idea che dietro questo nome fosse usato come pseudonimo per coprire la vera identità. In ogni caso al di là di ogni possibile congettura il blog, che era già attivo molto prima dei fatti accaduti in quei mesi, e che trattava della gestione della cosa pubblica ad Opera, portò avanti, pubblicizzò e diffuse in quei mesi idee e posizioni perfettamente sovrapponibili a quelle dei partiti dell’opposizione: Lega Nord e An in primis.

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Il post termina con il lancio di un sondaggio, su due questioni parallele. La prima è: “ Vuoi il campo nomadi ad Opera?” sì 43% , no 55%, non so 2%. La seconda questione è : “Ramazzotti deve dimettersi ? sì 51%, no 55%, non so 7%. L’autore del blog è Franco Giusti, uno pseudonimo per nascondere un’identità che sarebbe probabilmente scomoda da gestire in relazione agli scopi dichiarati che il blog si prefigge. Tali scopi si palesano a partire dal nome del blog “ La Voce di Opera”. Con questo nome chi ha lanciato il blog, intende darne immediatamente un’immagine di strumento libero e indipendente che appunto dà voce alle istanze di tutti i cittadini, indipendentemente dall’affiliazione partitica. La scelta del blog appare in questo senso vincente, in quanto il blog per sua natura è un mezzo telematico che permette virtualmente a tutti i cittadini di esprimere la propria opinione, naturalmente sempre in riferimento a quello che scrive l’autore del blog. Nei primi due post riguardanti “l’emergenza campo nomadi”, Franco Giusti imposta già la strategia politica che utilizzerà successivamente fino a ché non otterrà i risultati voluti.

Le ragioni della protesta, o meglio le ragioni che servono all’autore per fomentare la protesta popolare, ma che non sono le ragioni per le quali egli incita alla protesta popolare, sono il “tracollo dei prezzi delle case” e “ l’impennata della criminalità”, postulati come logiche conseguenze dell’insediamento del campo Rom. Infatti all’entrata del paese sono stati costruite diverse serie di palazzi che a dicembre 2006 aspettavano solamente di essere venduti. L’area destinata al campo Rom era proprio davanti a questi palazzi: dunque il rapporto di causalità fra l’insediamento del campo Rom e la svalutazione degli immobili era evidente a tutti. Per quel che riguarda la seconda motivazione, cioè la criminalità, si tratta di un pregiudizio su Rom e Sinti, talmente diffuso che l’enunciazione risulta quasi superflua. Entrambe le motivazioni, vanno a colpire gli interessi più intimi della classe media, ovvero la proprietà edilizia in primis, la proprietà privata in genere e l’imperturbabilità della vita quotidiana. Questi interessi colgono perfettamente il sentire comune della classe media operese, in maniera trasversale ai partiti di destra e di sinistra, al punto da essere riusciti a stimolare immediatamente la sera del 21 dicembre una reazione collettiva di massa.

Tuttavia la ragione che spinge l’autore del blog, e i politici dei partiti di destra che dietro a lui si nascondono, a sfruttare l’emergenza dell’arrivo dei Rom è chiaramente espressa nel post del 22 dicembre: “ Con questo atto antidemocratico l’amministrazione ha compiuto il proprio suicidio politico, Ramazzotti si deve dimettere in quanto non avrà più oggettivamente le condizioni per governare Opera”. Nonostante il blog si presenti a più riprese come la voce apartitica della protesta dei cittadini di Opera contrari al campo Rom, non di meno non si

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perde occasione per insistere sulla necessità delle dimissioni del sindaco. La strategia dell’estraneità a qualsiasi formazione politica ha buon gioco, anche perché l’amministrazione milanese di centro-destra è accusata di aver “scaricato” i Rom su Opera.

Il 23 dicembre 2006, sul blog, si può leggere il seguente messaggio:

“Campo nomadi. Ultime. Hanno chiuso la strada, sono arrivati decine di poliziotti in più, appoggio politico della Moratti che forse oggi verrà ( per forza: ce li scarica), messa a favore dei nomadi, magari dando qualche manganellata agli inermi cittadini presenti. La destra non ha capito che un campo in più a Milano non cambia niente elettoralmente mentre ad Opera risulta cruciale. Speriamo ci ripensino…

Questo quello che secondo me andrebbe fatto nelle prossime ore:

- recarsi a piedi al presidio e impedire in ogni maniera pacifica che installino il campo; - boicottare la festa organizzata in parrocchia per i nomadi ( che sono già arrivati);

- organizzarsi in un comitato puramente civile, che non sia soggetto al controllo di nessun

partito, per fare sì che il campo non sia fatto, che Ramazzotti si dimetta al più presto e che anche tutti i componenti di questa giunta che lo stanno sostenendo (partendo dal vicesindaco Liguori ) in queste ore concludano al più presto la loro carriera politica ad Opera. Stanno aspettando solo che la gente si stanchi per fare i loro comodi. Ma se ci sapremo organizzare e trasformare lo sgomento in qualcosa di intelligente, compatto e apolitico li mandiamo tutti a casa e salviamo il paese. Continuano le iniziative iniziate coi post precedenti.”

-

Sempre lo stesso giorno, qualche ora dopo, appare un nuovo messaggio:

“ Campo nomadi. A proposito di VERGOGNA: una città lasciata sola. Come previsto, in queste ore il popolo della sinistra operose si è messo in moto per sostenere il progetto campo nomadi. I cattocomunisti di tutte le varie “associazioncine” dove girano le stesse facce, e che riempiono spesso di inutilità il periodico comunale ( pagato da tutti) di propaganda per l’amministrazione, sono in fermento.(…) Bella mistificazione vogliono far passare come vandali, incivili e xenofobi tutti i contrari al campo. Non fatevi fregare, la manifestazione di domani è solo un paravento per far sgombrare i cittadini operesi dal posto e permettere l’istallazione del campo nomadi, e non lo dico io, lo ha detto lo stesso prete Don Colmegna ( che fa la “carità” a casa degli altri) in un ampia intervista a radio popolare. Alla stessa radio ampio spazio è stato concesso a Ramazzotti che ha incentrato tutto sull’atto vandalico ( che continuiamo a condannare) dicendo praticamente che i contrari al campo sono ignoranti da educare. Non si sa se il sindaco neghi la realtà di un paese che ormai non lo vuole più o proprio non capisca di non poter cavarsela ignorando il problema e facendo finta che sia causato da un gruppetto di estremisti “ peraltro non-operesi”. In questo modo offende ancora di più chi si sta impegnando pacificamente contro un progetto imposto dall’alto, senza democrazia. I media hanno dato

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voce solo alle prediche dei preti ( che risentirete a messa ad Opera, potete scommetterci ) e a sproloqui di un asserragliato Ramazzotti che ha invocato aiuto da parte del vice- sindaco milanese De Corato (An) (...).I partiti del centro-destra se arriverà ( come temo) l’ordine dall’alto lasceranno che il campo si faccia : fa comodo a Milano che è molto più potente, elettoralmente rilevante e di centro-destra.

Gli operesi resteranno quindi forse i soli a lottare. Questa non è più una lotta politica, una lotta fra partiti: è la società civile di una cittadina che si batte contro le imposizioni dall’alto, contro un sindaco che rema contro il suo paese, una lotta per salvare il proprio futuro. Non arrendiamoci.La violenza è da condannare ma ci sono infiniti modi per averla vinta: leggete il post prima di questo e ne saprete alcuni.”

Nei giorni successivi i messaggi continuano ad arrivare sul blog. Ci è sembrato importante riportarne alcuni. Il 26 dicembre, sotto il titolo “Il moralismo degli ipocriti“, si può leggere:

Non è chiaro se domani riprenderanno i lavori per il campo nomadi. Personalmente mi ha molto disturbato in questi giorni il comportamento di molte persone: sia dei contrari al campo che contaminano politicamente la resistenza contro un progetto imposto dall’alto, sia dei ( pochi ) favorevoli che si sono improvvisati giudici di religiosità e di intelligenza impartendo lezioncine ai contrari al campo. Credo che sia un atteggiamento errato perché vuole confondere la religione con la vita politica ed istituzionale del paese. Non dovrebbe essere importante per la vita pubblica se i contrari al campo nomadi sono o non sono “ buoni cristiani”. Per fortuna viviamo in uno stato laico e su qualsiasi questione ci si dovrebbe esprimere a maggioranza e non sulla base di testi religiosi ( che oltretutto possono sempre essere interpretati in diversi modi) che siano essi cristiani, musulmani, buddisti o animasti.

Faccio ora una provocazione volontaria: perché chi ci parla tanto di emergenza, Vangelo, e di brave persone al freddo non dà l’esempio ospitando Rom a casa sua? (…) Solo così potreste poi parlare, per ora ogni vostro discorso rimane pieno di ipocrisia ed esprime più che altro faziosità: parole senza fatti.

Messo quindi da parte il discorso “ buoni cristiani”, diverso è se parliamo di accoglienza. Potrò sbagliarmi, ma credo che la stragrande maggioranza degli operesi siano d’accordo ad aiutare i bisognosi, anche se, come per ogni argomento, si aspettano trasparenza e correttezza da parte di chi amministra la cosa pubblica. Il grave errore è avvenuto dal punto di vista istituzionale, facciamo finta che si faccia il campo come e dove vuole il sindaco, egli dovrebbe comunque dimettersi perché dal punto di vista politico ha completamente fallito gestendo la vicenda in modo da provocare tutto il trambusto che è successo.

Voglio poi aggiungere che, a mio parere, l’emergenza è stata creata a tavolino dalle autorità milanesi, quando hanno sgombrato in pieno inverno quella gente e, il giorno dopo, quelle stesse

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autorità, sono venute ad insegnare a Opera che cosa è l’accoglienza: non facciamoci prendere in giro, che la gestisca Milano l’emergenza che ha creato.”

Un altro messaggio, che ci può aiutare nella comprensione dei fatti e del “discorso” sui fatti, compare il 5 gennaio 2007, sotto il titolo “Epifania in compagnia”:

“ Domani 6 Gennaio, mentre all’interno del campo nomadi zingari e volontari festeggeranno la vigilia del Natale ortodosso, all’esterno si ritroveranno al presidio permanente contro il campo tutti i cittadini di Opera per festeggiare insieme l’Epifania con castagne e vin brulè per ribadire la contrarietà al campo, alla gestione che viene fatta della vicenda e che non hanno nessuna intenzione di smettere di protestare.Tutti invitati, naturalmente” .

Infine, un ultimo messaggio, forse quello maggiormente significativo, viene mandato al blog il 20 febbraio 2007, con il titolo: “La fine di un’avventura”:

“18 Febbraio 2007 – ore 10.00.L’ultimo saluto davanti al Comune per quelli del Presidio che in un centinaio si sono ritrovati per la richiesta di dimissioni del Sindaco. Verso le 11 si sono tutti incamminati verso l’area circense per appendere un ultimo striscione di richiesta scuse nei confronti di tutti gli operesi che hanno appoggiato la protesta nei due mesi precedenti. Il tutto si è svolto con la solita allegria ; il ritrovarsi nuovamente di fronte all’area circense ha fatto riaffiorare diversi momenti vissuti da Dicembre fino a pochi giorni fa. Quella che è venuta a formarsi in questo lungo periodo è una vera e propria comunità in cui tutte le generazioni presenti sul territorio hanno socializzato fra loro. Giovani e meno giovani ancora adesso si ritrovano quotidianamente per fare 4 chiacchiere al bar, approfittano di ogni occasione per improvvisare una grigliata in zona industriale, si sfidano a calcetto ogni settimana. Chi risente di più della mancanza del presidio e del suo rom.pi.bar? Sono tutti quei signori e tutte quelle signore di mezza e della terza età che sono dovuti tornare alla routine quotidiana troppo spesso noiosa e in alcuni casi tristemente solitaria.

Il presidio di Opera è stato anche questo. E’ riuscito a resistere nel tempo proprio grazie a quei rapporti di amicizia e di solidarietà nati all’interno dello stesso nonostante la contrarietà del Sindaco, della sua giunta e dei 15 manifestanti di Rifondazione Comunista operesi che hanno portato nel nostro paese 300 persone vicine ai centri sociali esterne alla nostra realtà. Migliaia di operesi hanno scritto un pezzo di storia del nostro paese e forse non solo.(…) Siamo proprio orgogliosi di quanto abbiamo fatto!”

L’ultimo messaggio che abbiamo riportato contiene, in particolare nell’ultima parte, tre elementi che occorre sottolineare: l’innocenza dei toni e la semplicità dello stile tipica del tema scolastico; la “funzione sociale” assegnata al presidio; la mitizzazione del presidio. Per

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quel che riguarda il primo punto ciò che conta rilevare è la reale assenza di qualsiasi preoccupazione e/o dubbio sull’eticità del presidio stesso. Si vuole trasmettere l’idea che i presidianti rappresentino la quasi totalità degli abitanti di Opera ed inoltre siano costituiti da persone aperte, solari, solidali ( anche fra diverse generazioni) e uniti fra loro, persone che hanno svolto per il territorio un’importante funzione sociale anche se purtroppo non sono stati capiti dagli amministratori.

La funzione sociale che viene assegnata al presidio si fonda sull’esclusione e l’emarginazione sociale, politica e simbolica di tutti coloro che sono contrari ad esso: la comunità Rom in primis, 15 manifestanti di Rifondazione Comunista e “300persone vicine ai centri sociali” che infatti vengono definite “esterne alla nostra realtà”. L’unione e la solidarietà dei presidianti fra loro è quindi direttamente proporzionale alla carica di odio e di disprezzo che viene riversata all’esterno..

Le strategie discorsive utilizzate nel blog sono composte da alcuni elementi chiave. Innanzitutto i cittadini del presidio “rappresentano” l’intera città di Opera e l’intera città di Opera “si sente rappresentata” dai cittadini del presidio. In secondo luogo, la rivendicazione dell’ apoliticità della rivolta e del suo carattere spontaneo e popolare. Per conferire maggiore credibilità a questa ipotesi non si perde occasione per accusare il comune di Milano ( amministrato dalla destra) di aver scaricato “il problema dei nomadi sgomberati” su Opera. La scorretta gestione della vicenda, da parte sia dell’amministrazione di Milano che di quella di Opera, è utilizzata come scudo per difendere le azioni razziste del presidio permanente. Il ragionamento portato avanti è il seguente: tu (amministrazione milanese e operese) non hai aperto un confronto con la società civile locale sulla situazione dei Rom sgomberati da via Ripamonti, allora implicitamente tu legittimi i cittadini a seguire il tuo esempio, cioè a lottare per sgomberare ed espellere e non per conoscere e includere. Viene utilizzata la ritorsione incrociata come arma politica per giustificare la protesta: “noi ( quelli del presidio) siamo a favore dell’accoglienza, ma poiché il sindaco l’ha imposta ai cittadini senza consultarli, allora l’accoglienza la faccia lui e quelli che la vogliono a “casa loro”.

In questo gioco a chi scarica ad altri la responsabilità delle proprie azioni e dei propri discorsi, l’ultimo anello della catena, sul quale si riversa la mancata assunzione di responsabilità politica di tutta la collettività non – Rom, dai politici ai comuni cittadini, è proprio la comunità Rom. Se le ragioni reali (e non quelle dichiarate) del presidio fossero veramente l’opposizione ad un provvedimento non democratico dell’amministrazione comunale, e non l’odio e il disprezzo nei confronti dei Rom, allora verrebbero a mancare le ragioni per fare un presidio di fronte al campo Rom. Infatti l’azione dei cittadini sarebbe

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dovuta in questo caso essere diretta a modificare il processo decisionale, ad esempio attraverso un dibattito costruttivo in consiglio comunale e/o una richiesta di dialogo con le istituzioni e la comunità Rom stessa. In realtà il 21 dicembre 2006, una folla inferocita entrava in consiglio comunale non per essere informata, per contestare civilmente o fornire proposte alternative, bensì per interrompere violentemente il dibattito pubblico, fulcro della vita democratica di un paese, per destabilizzare le istituzioni e per delegittimare di lì in avanti ogni tipo di intervento istituzionale.

I partecipanti alla rivolta razzista del 21 dicembre non hanno mai manifestato la necessità, l’interesse o anche solo la curiosità di instaurare un dialogo con la comunità Rom del campo, ed anzi hanno rivelato attraverso le intimidazioni quotidiane, gli insulti e le minacce a chi dentro al campo viveva, la vera natura e le vere ragioni del presidio. D’altro canto l’amministrazione di Opera non ha reagito con fermezza per fermare questi avvenimenti, ed anzi ha troppo a lungo preferito acconsentire implicitamente (cioè non opporsi concretamente) al presidio, legittimandone le ragioni, e incontrando persino i rappresentanti del presidio, ma non la comunità Rom. In terzo luogo, nemmeno una volta nel blog viene dichiarato che i consiglieri comunali di Lega nord e Alleanza Nazionale, rispettivamente Ettore Fusco e Pino Pozzoli, sono dall’inizio della rivolta alla sua conclusione, gli animatori e la guida della protesta. In questo modo si vuole far passare l’idea che il motivo della protesta sia una questione di principio comune a tutti gli operesi, la cui rivolta sarebbe quindi del tutto spontanea.

Il blog fa una presentazione estremamente positiva dei cittadini del presidio. In particolare essi sono descritti come una comunità di gente socievole, amichevole, scherzosa e non-violenta da un lato, eroica e determinata dall’altro, nonché come l’ultimo baluardo dei diritti e della sicurezza degli abitanti di Opera, il cui unico scopo è quello di lottare contro un provvedimento ingiusto e antidemocratico, deciso in maniera autoritaria dall’amministrazione della città, senza previa consultazione dei suoi cittadini. L’amministrazione di sinistra di Opera è additata come “traditrice” della fiducia di tutti gli Operesi sia di destra che di sinistra. Le dimissioni sono considerate la necessaria conseguenza di questo tradimento alle spalle degli operesi, col quale in un batter d’occhio esso ha perso la facoltà di rappresentare la cittadinanza.

Paradossalmente, per controbattere alle accuse di razzismo, il campo nomadi viene descritto come una minaccia generica alla sicurezza dei cittadini di Opera, cioè esso viene equiparato ad una discarica o ad un inceneritore, contro i quali essi manifesterebbero nello

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stesso modo. Ogni accusa di razzismo e intolleranza verso i Rom è respinta categoricamente, salvo poi paragonare delle persone ad una discarica o ad un inceneritore!

Infine le controparti del dibattito/scontro pubblico individuati dal blog sono: l’amministrazione di sinistra di Opera, quella di destra di Milano, alcuni organi mediatici, i “ cattocomunisti” favorevoli al campo e la Casa della Carità. In nessun caso i Rom entrano a far parte del dibattito in quanto soggetti attivi e portatori di istanze politiche proprie. Gli unici momenti nei quali essi sembrano diventare soggetti agenti sono quelli dove vengano accusati di essere portatori di comportamenti criminali.

Attraverso questa strategia discorsiva di esclusione politica dell’altro si ottiene il fine di svuotare di senso il richiamo ad una coscienza morale. Infatti se i Rom non rientrano fra gli avversari politici verso i quali la protesta è diretta, allora essi vengono esclusi dall’ ambito delle considerazioni morali e politiche. Le accuse di razzismo e xenofobia rivolte alla protesta degli operesi e al presidio sono automaticamente rigettate proprio in virtù della mancanza di qualsiasi interesse nei riguardi dei Rom come persone.

L’attività del blog “ La Voce di Opera” sugli avvenimenti relativi al campo Rom può essere suddivisa in tre fasi distinte:

1) Una prima fase dal 21 al 31 dicembre potremmo definirla metaforicamente di “ chiamata alle armi”. E’ questa la fase più complessa nella quale si cerca di attrarre il maggior numero di consensi possibili da parte dei cittadini operesi e che dà avvio al presidio permanente davanti al campo Rom. Le ragioni della protesta vengono depurate da qualsiasi interferenza partitica. E’ questa la fase nella quale col blog prende avvio una “ depoliticizzazione” dell’intera vicenda che viene presentata come un sommovimento popolare spontaneo dei cittadini per difendere i propri diritti. Tale processo di sottrazione della matrice politica ed ideologica delle rivolte razziste è forse l’elemento più pericoloso e pervasivo che “ il caso Opera” ha introdotto nella scena politica italiana. In questa fase viene elaborato un piano d’azione a livello pratico comprendente la costituzione di un comitato “ puramente civile”; un presidio permanente ; manifestazioni; boicottaggio delle iniziative per l’integrazione delle comunità Rom organizzate dagli altri cittadini.

2) La seconda fase va dal 2 gennaio al 10 febbraio ( data di smantellamento del campo). In questa fase proseguono tutte le azioni avviate alla fine di dicembre, e si consolida l’immagine dei “ cittadini del presidio”. Il blog “ La Voce di Opera” rappresenta ora l’organo mass mediatico di diffusione dei comunicati stampa del presidio, la voce narrante della vita dei presidianti : “la Voce del presidio”. Il presidio viene descritto come luogo d’incontro e di fraternizzazione per tutti i cittadini “onesti” di Opera ( spesso contrapposti ai volontari che

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