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Academic year: 2021

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Introduzione

Il soggetto della mia ricerca è il documentario d’autore, quel documentario che si occupa di politica, società, cultura, arte, antropologia, ambiente, animali, potenzial-mente di qualsiasi soggetto, ma sempre con l’intenzione di interrogare il mondo in cui viviamo con un punto di vista e un trattamento originali. In questo si distingue da un altro tipo di documentario, quello istituzionale o televisivo, classicamente acritico e convenzionale, detto anche docucu1. Il documentario d’autore ha suscitato

il mio interesse sotto vari aspetti: a livello di metodologia di lavoro e modi della narrazione, alternativi a quelli dominanti del cinema di finzione e dello stesso docucu; dal punto di vista del contenuto, poiché da sempre rivendica un rapporto privile-giato con la realtà sociale; infine per l’approccio “filosofico”, poiché si è misurato con le problematiche legate alla rappresentazione della “realtà” e al concetto di “verità”. Ritengo che l’analisi di questi aspetti possa gettare luce sulla cultura di una società, non solo perché la società è il soggetto rappresentato, ma anche perché il documentario è un’espressione al margine della cultura dominante e, come tale, ne definisce meglio i limiti. Per questo motivo, nonostante vi fossero molti grandi autori del passato sui quali avrei fatto volentieri una ricerca, ho deciso di concentrarmi

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sulla produzione attuale che mi offre l’opportunità di approfondire le relazioni tra l’espressione documentaria e il tempo in cui viviamo.

In Italia il documentario è sempre stato un genere poco frequentato, se non si considerano le prime prove di registi importanti come Antonioni o Visconti, oppure i documentari militanti degli anni ’60 e ‘70 di Grifi, Agosti e altri. La situazione non è cambiata negli anni. C’è chi sostiene dipenda dall’eredità storica del Neorealismo, il quale da solo avrebbe soddisfatto la necessità di un cinema ispirato alla realtà [Gauthier, 1995]. Altri teorizzano un boicottaggio politico attraverso la distribuzione cinematografica e la programmazione televisiva. Nemmeno il dibattito critico si è mai sviluppato molto benché oggi non manchino associazioni (Doc/it2), produzioni

(piccole), festival (Festival dei Popoli per citarne uno), spazi televisivi (ancora minimi e in orari da nottambuli) e sia possibile cogliere segnali di ripresa del settore. Ma si tratta di una situazione relativamente nuova forse stimolata dalle recenti politiche europee di rilancio del documentario (Doc in Europe ad esempio). Pertanto una ricerca sul documentario italiano sarebbe stata ostacolata dalla difficoltà a reperire film e materiale critico sull’argomento.

La mia attenzione si è quindi spostata alla Francia, la cui produzione attuale di

documentari di creazione3 è una delle più sviluppate in Europa. Questa scelta mi

ha permesso di conservare una prospettiva europea e di osservare la situazione del documentario in una fase più avanzata, in cui il dibattito è molto vivace (anche se coinvolge quasi esclusivamente professionisti del settore e critici) e l’esistenza del genere è riconosciuta dalle Istituzioni. In Francia il CSA4 fissa quote orarie e

investimenti che televisioni pubbliche e private devono obbligatoriamente riservare ai

documentari di creazione. Inoltre finanziamenti pubblici sono stanziati annualmente

dal CNC5 e altre istituzioni. Alcune questioni di cui tratterò, benché facciano

principalmente riferimento al documentario francese, hanno un respiro più ampio, sia perché risentono di evoluzioni storiche, politiche, tecniche ed economiche che hanno influenzato le società occidentali industrializzate, sia perché la “comunità dei documentaristi” si raccorda a livello internazionale. Sono quindi partita per la Francia, dove ho avuto accesso a film e materiale critico. La frequentazione di alcuni festival ha contribuito a formarmi un’opinione sulla produzione e sulla consistenza del pubblico (sicuramente di nicchia) e di apprezzare le differenze rispetto

2Cui si deve la pubblicazione dei rari interventi teorici, tra cui L’idea documentaria [2003], a

cura di Marco Bertozzi.

3Definizione nata negli anni ‘80 per distinguere i documentari autoriali da serie televisive, film

istituzionali, docucu ma anche film militanti, etc. . .

4Conseil Supérieur de l’Audiovisuel. 5Centre National de la Cinématographie.

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alla programmazione e al pubblico televisivo. La possibilità di intervistare alcuni documentaristi ha arricchito le mie conoscenze da punti di vista interni al settore.

L’insieme di queste informazioni dipinge un quadro che contraddice la presupposta “buona salute” del documentario francese contemporaneo. La critica parla spesso di crisi, mediamente il pubblico televisivo non vede la differenza tra un documentario di

creazione e un docucu, molti documentaristi si lamentano della situazione produttiva

e distributiva. Questi dati contribuiscono a spiegare l’impressione di stanchezza, ripiegamento narcisista o convenzionalità che avevo ricevuto dalla visione di molti film contemporanei. La mia ricerca si è quindi sviluppata lungo questo asse, attraverso l’approfondimento critico, lo studio dell’attuale situazione produttiva e distributiva, l’adozione di una prospettiva storica e l’analisi dei film.

Tra le varie letture ho trovato uno stimolo importante nella Tesi di Dottorato in Sociologia di Didier Mauro [2003], documentarista e sociologo dell’arte. Pur non accogliendone in toto lo svolgimento e le conclusioni, ho trovato varie corrispondenze fra la sua e la mia ipotesi di ricerca. Mauro ritiene, ispirandosi a Herbert Marcuse e a Pierre Bourdieu, che l’odierno documentario di creazione francese viva una situazione in bilico “tra alienazione e ribellione”, cioè tra soggezione e rifiuto rispetto alla cultura dominante. A suo avviso questo è dovuto all’attuale situazione produttiva e distributiva, dipendente dai finanziamenti pubblici e dalle televisioni. Pur concordando con quest’analisi, trovo che difetti di precisione nel definire l’oggetto della ricerca. Il docucu (o documentaire simplet secondo la sua definizione) è definito in poche frasi come un documentario senza punto di vista, che si conforma alla cultura dominante e nasconde sotto la professionalità della forma il vuoto di idee. Il documentario di creazione sarebbe all’opposto un film che nasce da una lunga documentazione, da un punto di vista e un trattamento formale originali, da un forte senso etico sconosciuto alla “televisione-spettacolo”. Affermazioni che condivido, ma che avrei desiderato vedere corroborate da esempi concreti. Inoltre la classificazione in due grandi categorie, documentario di creazione e docucu, l’uno ribelle e l’altro soggetto alla cultura dominante, risulta un po’ troppo schematica. A mio parere il panorama del documentario francese presenta invece molte sfumanture intermedie che suggeriscono un’alternanza dinamica tra resistenza e adattamento, in una situazione in cui la creazione subisce pressioni della convenzionalità televisiva. Ritengo ad ogni modo che la tesi di Mauro sia un contributo importante anche per mole di dati e sforzo di sistemazione. Ad esempio raccoglie, sistematizza e mette in relazione i dati su finanziamenti pubblici, produzione e distribuzione che fino a quel momento avevo trovato sparsi in molte fonti diverse (articoli, libri, ma anche siti internet del CNC,

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CSA, Scam6, etc. . . ).

Dall’analisi di Mauro emerge il fatto che il documentario di creazione vive grazie alla combinazione di aiuti statali e diffusione televisiva e che questa dipendenza condiziona pesantemente i processi creativi. La stessa possibilità di produzione di un film è determinata da preventivi accordi di diffusione da cui dipende l’attribuzione di finanziamenti statali. Come già sottolineato le televisioni sono obbligate a produrre e diffondere quote annuali di documentari, tuttavia non considerano i documentari

di creazione un prodotto redditizio e cercano di aggirare queste norme classificando

come tali reportages e docucu o trasmettendo i documentari d’autore in fasce orarie di audience molto basso. Inoltre impongono ai documentari di creazione la medesima formattazione dei reportages, come la durata in base alle interruzioni pubblicitarie, e limitano la libertà di forma e contenuto. Il canale televisione pubblico Arte7 è

un’isola felice che consacra il suo palinsesto quasi esclusivamente a programmi di tipo culturale, fra cui molti documentari di creazione. In realtà anche Arte non è esente dalle critiche di autori e produttori indipendenti che l’accusano di estromettere le tematiche politiche dalla sua programmazione.

A mio avviso è possibile individuare come sintomi della crisi alcune tendenze della produzione contemporanea, quali la conformazione ai modelli televisivi e la rinuncia a un’analisi globale o ad una presa di posizione sulla società. Lo strumento necessario a questa operazione è l’analisi filmica, volta a individuare caratteristiche estetiche e narrative dell’oggetto documentario, da cui una tesi di storia del cinema non può prescindere. Gran parte della semiologia del cinema è concepita sulla struttura del film classico di finzione, quindi ho dovuto personalizzare il metodo di analisi prendendo in prestito da diversi studi gli elementi opportuni. Mi sono ispirata in parte all’approccio semio-pragmatico di Roger Odin, perché è uno dei pochi teorici che abbia dedicato un’opera intera oltre che svariati interventi al documentario [1998; 2000] e perché trovo interessante la riflessione sul rapporto del pubblico con un genere oggi più che mai relegato a una posizione di nicchia. Questa indagine richiede anche un excursus nel contesto storico, sociale e politico in particolare degli ultimi due decenni, messo in relazione alla storia del cinema documentario. Il documentario, come il cinema di finzione, ha una doppia natura, artistica e commerciale, e risente delle influenze socio-culturali ed economiche. La sua storia e la sua vocazione civile rendono ancora più evidenti gli indici dei cambiamenti.

Il boom economico e la rivoluzione culturale degli anni ‘50 e ’60 sono tra i

pre-6Société Civile des Auteurs Multimédia.

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supposti della rivoluzione tecnica ed estetica del Cinéma Direct a inizio anni ’60 che, seguito a ruota dalla Nuovelle Vague, si dota di cineprese leggere 16 mm e di registratori portatili Nagra con cui è possibile registrare il suono sincronizzato alle immagini. Il documentario esce dagli studi, dai musei, dagli archivi per riversarsi nelle strade, nelle case e poi nelle fabbriche dando la parola alla gente comune. Negli anni ’70, svanito il sogno di una rivoluzione di massa, nascono collettivi di avanguardia politica in cui prolifera il cinema militante, che darà luogo anche a sperimentazioni narrative8. Nel corso degli anni però il “dogma della verità” si

estremizza fino a escludere qualsiasi intervento soggettivo: l’autore (concetto quasi “tabù”) deve cancellarsi per mettersi a servizio della causa9. La preponderanza

attribuita all’intervista produce film unicamente “di parola”, eccessivamente ver-bosi. La normatività e lo schematismo hanno finito per uccidere la creatività e l’elaborazione formale, senza cui non c’è cinema. Dal 1973 i paesi industrializzati, tra cui la Francia, entrano in una congiuntura economica negativa e cominciano a risentire della crisi strutturale della società tradizionale, prodotta dalla precedente

età dell’oro [vedi Hobsbawm, 1994]. Nel corso del decennio nel cinema militante

sono riscontrabili cambiamenti che preludono al suo declino, che si completa ad inizio anni ’80. Chris Marker, fra gli altri, realizza nel 1977 Le fond de l’air est

rouge, un “film-bilancio” sul periodo che va dal 1968 al 1977. Nell’articolo Pour le dépérissement du cinéma militant Jean-Paul Fargier [1976] interviene in modo

molto significativo sull’argomento, rinnegando la sua esperienza di cineasta militante e invocando un ritorno all’umanità e a un cinema più personale. Emerge forse quella soggettività che era esplosa sotto gli auspici del ‘68 ed era stata sostituita dall’ortodossia dei gruppi marxisti-leninisti. La spinta liberatoria, che avrebbe potuto essere positiva, viene soffocata dal dilagare di una crisi socio-culturale ed economica profonda. L’intellettuale militante si trova privato del rapporto con i suoi interlocutori privilegiati, colpito dalla crisi ideologica e culturale, reso ostaggio della crisi economica e non può più fare appello alle concezioni del mondo che per lungo tempo hanno indicato la strada. In quegli anni è diventato dominante un pensiero definito postmodernista o “pensiero debole”, che rigetta gli ideali di razionalità, obiettività e verità, proclamando la validità di ogni opinione. Si tratta in realtà di una sospensione del giudizio nei confronti di un mondo divenuto incomprensibile [cfr. Hobsbawm, 1994]. Il legittimo desiderio di esprimere la propria visione personale si volge in un intimismo narcisista, favorito dal clima dei tempi in cui prevalgono

8Vedi soprattutto il gruppo Iskra fondato da Chris Marker (pag. 33).

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l’egoismo, l’atomizzazione, la ragione del più forte e del capitale. “Corpo sociale” è diventata una definizione vuota di senso, come “lotta di classe”, “solidarietà”, “senso del giusto e del necessario”. Il vuoto è stato prontamente riempito dal pensiero unico capitalista, veicolato efficacemente dalla televisione.

I documentari di creazione degli anni ’80 e ‘90 presentano notevoli differenze rispetto ai film militanti degli anni ‘60 e ‘70. Innanzi tutto nel tipo di discorso che è sotteso: il sociale sostituisce il politico (Denis Gheerbrant) o se ci si occupa di politica lo si fa alla maniera del reportage giornalistico (Jean-Louis Comolli). L’esposizione si fa esplorazione, la scelta di soggetti meno universali e più vicini all’esperienza personale rispecchia la volontà di basarsi unicamente sulla propria osservazione e percezione. La narrazione assume spesso la forma del diario, del viaggio, della confessione, talvolta del film di finzione. In questo clima si situano le rivendicazioni dei documentaristi organizzati nell’associazione La Bande à Lumière allo scopo di salvare la creazione documentaria proprio nel momento in cui il documentario fa ingresso nelle televisioni, segnando il proprio destino. Il riferimento alla creazione artistica è un fattore molto significativo, riconducibile alla nuova posizione sociale del documentario: dipendente dalla politica per gli aiuti finanziari e dalla televisione per la diffusione. Lo statuto di artista diventa necessario per ottenere la protezione statale e per resistere alla formattazione televisiva. La crisi culturale indirizzata dai mass-media produce nuove forme di alienazione: ad esempio l’autocensura, dettata secondo Mauro [2003] dall’interiorizzazione delle norme imposte dal sistema televisivo.

La fondazione di Addoc10 nel 1992 sembra portare a compimento questa nuova

identità del documentario11. Non si tratta di una associazione creata in difesa del

documentario né di un sindacato, ma di un’associazione di cineasti autori nata per discutere intorno alla scrittura e alla creazione. È da notare che il manifesto di Addoc si richiama a due ispirazioni principali: la psicanalisi e il cinema tout court. A mio avviso anche la rivendicazione dello statuto di cineasti da parte dei membri di Addoc può essere considerata una forma di alienazione: nasce da una polemica nei confronti della televisione, ma anche dalla frustrazione di non essere considerati parte della dominante simbolica cinematografica (Mauro [in 2003] fa notare che questo avviene comunemente tra molti autori e studenti di cinema che ritengono sia necessario avere una produzione cinematografica alle spalle per produrre opere interessanti). Di

10Association des Cinéastes Documentaristes.

11Addoc non è l’unica espressione di questa particolare forma di alienazione: basti pensare al

volume Le Documentaire est un film [Niney, 1991], catalogo della 2ème Biennale Européenne du

Documentaire di Marsiglia, o alla stessa scelta che opera Mauro nella sua tesi [2003], preferendo

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fatto Addoc, oggi la principale associazione di documentaristi francesi, ci dà il polso dei cambiamenti avvenuti nella società transalpina. La Revue Documentaires12

14 (1999), dedicata all’autore nel documentario, ci da ulteriori elementi in questo senso. In un articolo piuttosto polemico Michael Hoare [1999] elenca quelle che a suo giudizio sono le tendenze caratteristiche dei membri di Addoc, accusati di fare un cinema narcisista e civilmente disimpegnato. La querelle è riconducibile alla questione del ruolo del documentario nel nostro tempo. Il cinema militante aveva scelto di porsi al servizio dell’ideologia marxista, ma aveva finito per sacrificare l’arte al dogma. Oggi l’interesse verso i processi di creazione monopolizza il dibattito, sottolineando la distanza dei documentaristi dalla realtà sociale che li circonda. Questo dal mio punto di vista non ha giovato nemmeno all’elaborazione formale poiché riscontro una generale mancanza di coraggio, tanto nei contenuti quanto nella forma, e il pericolo per il documentario di annegare nel fiume di immagini e informazioni.

Nella mia esposizione il primo capitolo sarà dedicato all’evoluzione storica del documentario francese dalle origini alla fine degli anni ’70. Nel secondo capitolo affronterò la situazione dagli anni ’80 in poi, prendendo in esame il panorama di autori, gruppi, associazioni, sindacati, festivals, case di produzione. In particolare analizzerò le cause che hanno determinato il passaggio di testimone da La Bande

à Lumière a Addoc. Il terzo capitolo è costituito dall’approfondimento su quattro

documentaristi di Addoc e dall’analisi di alcuni dei loro film attraverso cui cercherò di individuare oltre alle caratteristiche particolari alcuni aspetti rappresentativi della produzione odierna.

12Rivista creata nel 1986 dall’associazione La Bande à Lumière (vedi pag. 47); il numero 14 è

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