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La Stella della redenzione

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Academic year: 2021

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85 III

La Stella della redenzione. Una filosofia della religione o un “sistema di filosofia”?

III, I. Il carattere “sociologico” dell’analisi di ebraismo e cristianesimo. Fra la “Stella della redenzione” e il “Nuovo Pensiero”

Nel Nuovo pensiero Rosenzweig, come abbiamo detto poco sopra, scrive che il carattere ebraico della Stella della redenzione risiederebbe nelle “vecchie parole” di cui si serve per mettere in relazione gli elementi essenziali – Dio, mondo e uomo – che la tradizione filosofica aveva colto nel loro reciproco isolamento ontologico. In tal senso, nella Stella non troviamo la volontà di rintracciare un’essenza dell’ebraismo, come nemmeno quella del cristianesimo, ma piuttosto il proposito di mostrare come l’intreccio di Dio, uomo e mondo si realizza concretamente nei due universi di fede; come si configura l’esperienza della relazione con Dio che la dinamica della rivelazione è in grado di innescare. Alla domanda filosofica per eccellenza, il ti esti, “che cos’è”, si sostituisce la domanda circa il “come” il rapporto religioso si dispiega.

Nel 1900 Adolf Harnack, noto esponente della teologia liberale dell’epoca, pubblica un libro sull’ Essenza del cristianesimo e, servendosi del metodo storico-critico che di questa scienza è proprio, individua quest’ultima nella predicazione di Gesù e nel messaggio evangelico. Lo segue Leo Baeck, che nel 1905 pubblica l’Essenza dell’ebraismo, e che rinviene tale essenza nei comandamenti divini e nella loro natura etica, in ciò differente da quella teoretica e maggiormente dogmatica del messaggio cristiano. Rosenzweig, per parte sua, ritiene che le religioni non possano venire fissate in un’essenza statica e monolitica, per quanto questa venga indagata con un metodo storico. Abbiamo visto come nell’introduzione alla seconda parte della Stella la “vecchia teologia” liberale venga sottoposta a una critica serrata, a causa dei suoi tentativi di razionalizzazione della fede che vorrebbero erodere lo spazio dell’esperienza della rivelazione e del “miracolo” ad essa associato. Abbiamo visto anche come, nel saggio Credere e sapere, rigetti il termine stesso “religione”, perché di

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86 un’esperienza che riguarda tutti gli uomini, quella di fede e speranza, farebbe una “disciplina specialistica”1.

In modo analogo, nel Nuovo Pensiero scrive che la presentazione che la Stella offre, nella sua terza sezione, di ebraismo e cristianesimo, non ha che vedere con

la “scienza delle religioni”, ma piuttosto con un’impostazione “sociologica”2. La

filosofia indaga l’essenza delle cose, e nella sua storia, ha sempre inteso ricondurre l’intera realtà di volta in volta a una delle sue tre dimensioni fondamentali:

Ogni filosofia indagava circa l’essenza […]. Al mondo non è per niente concesso di essere mondo, a Dio di essere Dio, all’uomo di essere uomo, bensì tutti e tre devono essere «in verità» qualcosa di totalmente diverso. Questo infatti ha voluto ogni filosofia precedente […]. Ancora vengono trasformate le possibilità di ricondurre «qualcosa» ogni volta a qualcos’altro, le quali, viste in generale, caratterizzano le tre epoche della filosofia europea: l’antichità cosmologica, il medioevo teologico, l’epoca moderna antropologica3.

Anche la “nuova filosofia”, che ha delineato il nostro pensatore, indaga circa l’essenza degli elementi fondamentali della realtà, senza però che ciascuno di essi venga ricondotto all’altro quanto alla sua definizione, bensì enucleando la dialettica che si svolge all’interno di ciascuno di essi. La dialettica di affermazione

del qualcosa e negazione del nulla4 studiata nella prima sezione della Stella non è

però in grado di esorbitare dall’elemento stesso al fine di porlo in relazione con gli altri. La teologia, come ripensata da Rosenzweig, attraverso le parole bibliche di creazione, rivelazione e redenzione, andrebbe a gettare tali ponti relazionali, configurandosi come una scienza di “rapporti”. Cogliere l’essenza della religione, come aveva fatto Schleiermacher, per citare un autore che Rosenzweig menziona

1 Idem, Credere e sapere in Ebraismo, Bildung e filosofia della vita, op.cit., p. 75. 2 Idem, Il Nuovo Pensiero, op. cit., pp. 276-277.

3 Ivi, pp. 261-262.

4 “Dobbiamo all’inizio porre il nulla del concetto cercato, indi portarlo alle nostre spalle, perché

davanti a noi sta come meta un qualcosa: la realtà di Dio […]. Dal nulla al ‘qualcosa’ […] portano due vie, la via dell’affermazione e la via della negazione. L’affermazione di ciò che si cerca, del non-nulla, e la negazione del presupposto, cioè del nulla”. Idem, La stella della redenzione, p. 24.

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87 nella sua critica alla “vecchia teologia” nella Stella, significherebbe non poter rendere giustizia alla relazione dinamica e vitale in cui essa consiste.

Il pensatore di Kassel cambia la formulazione della sua domanda: non si chiede che cosa sia l’ebraismo, o che cosa sia il cristianesimo nella terza sezione della Stella, dove effettivamente li troviamo dettagliatamente descritti, ma come

viene a caratterizzarsi l’ambito delle due grandi religioni monoteistiche5. Come

tale ambito viene esperito e concretamente vissuto dai rispettivi fedeli. Tale analisi di ebraismo e cristianesimo secondo l’autocomprensione del Nuovo pensiero, dicevamo, non è scienza delle religioni ma una loro “sociologia”, o, come la

letteratura critica al riguardo precisa, una loro “fenomenologia”6. Il primo e il

secondo libro della terza sezione della Stella sono intitolati rispettivamente: Il fuoco o la vita eterna e i raggi o la via eterna. Da un punto di vista socio-antropologico l’ebraismo si configura, agli occhi di Rosenzweig, come una brace che si autoalimenta e si rigenera da sé eternamente; il popolo ebraico è tale per via di generazione.

Mentre ogni altra comunità che aspira all’eternità deve preparare dei dispositivi particolari per poter trasmettere al futuro la fiaccola del presente, la comunità di sangue, essa sola, non ha alcun bisogno di tali dispositivi della tradizione, non ha bisogno di scomodare lo spirito; nel naturale riprodursi dei corpi essa ha la sua garanzia di eternità7.

Il cristianesimo, in questo medesimo approccio metodologico, è l’insieme dei raggi che da questo nucleo ebraico si dirama, diffondendo la stessa verità albergata dall’ebraismo come comunità “di sangue” nel mondo. Non è di per sé un’entità eterna, ma essendo sospeso tra l’eternità di tutto ciò che viene prima della nascita di Cristo, e l’eternità di ciò che seguirà il suo ritorno e il suo giudizio finale, è “via eterna”8.

5 Cfr.: Adriano Fabris, Introduzione e alla filosofia della religione, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 80. 6 Ibidem.

7 Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, op. cit., p. 308.

8 Ivi, p. 347: “Il tempo è divenuto un’unica via, ma una via il cui inizio e la cui fine si trovano al di là

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88 L’esposizione tracciata nella Stella, ci dice il Nuovo pensiero, intende indagare la “forma esterna, visibile, tramite la quale essi [ebraismo e cristianesimo] faticosamente strappano al tempo la loro eternità e cioè per l’ebraismo quel dato di fatto che è il popolo e per il cristianesimo l’evento che

fonda la comunità”9. La questione in cui si concretizza la prospettiva

socio-antropologica con la quale il pensatore accosta, nella terza sezione della Stella, i due monoteismi biblici è quella per cui l’eternità escatologica in essi si renderebbe “esistente”. Questa presenza dell’eterno nel presente della temporalità inaugurata dalla rivelazione è data dalla preghiera e dalla liturgia, quali prefigurazioni del mondo messianico, in cui la comunità dei credenti sarà “una” con Dio. Più precisamente, la scansione dell’anno liturgico nelle sue festività sempre ricorrenti, trasforma la pura temporalità in un ciclo che è anticipazione dell’eterno. Tale assunto vale sia per l’ebraismo che per il cristianesimo, con la differenza che l’ebreo, secondo Rosenzweig, come popolo eletto, è già presso Dio, è già alla meta, per cui per esso “la sua temporalità […] vale solo come un attendere, tutt’al più come un peregrinare, ma mai come una crescita”. Il cristiano, essendo sulla “via” che conduce dal Cristo che è venuto a quello che ritornerà, si fa strada nel mondo in cerca di nuovi proseliti assumendo il compito del “missionario”. La testimonianza della fede, nel cristianesimo, non si dà mediante la pura e semplice rigenerazione del popolo come comunità di “sangue”, bensì nella capacità di conversione dei pagani, che si suggella nell’atto battesimale, in cui ciò che si effonde non è il “sangue”, ma lo “spirito” santo. Per questo motivo, al fine di essere missionaria e di guadagnare proseliti, la Chiesa e la cristianità necessita di contenuti fissati nel dogma, di essere fede “in qualcosa”, “il puro e semplice essere credente”, proprio dell’ebro, non gli permetterebbe di

“conquistare il mondo”10.

e grazie a questa sua posizione centrale nell’interregno temporale dell’eternità è eterno a sua volta”.

9 Idem, Il nuovo pensiero, op. cit., p. 276-277. 10 Idem, La stella della redenzione, op. cit., p. 351.

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89 La liturgia, secondo quanto Rosenzweig ci dice nell’introduzione alla terza sezione della Stella, è il vero e proprio linguaggio (organon) con cui è possibile esprimere il sovra-mondo redento. Come la matematica era quello degli elementi primordiali dell’essere - Dio, mondo e uomo nella loro reciproca separazione – e la grammatica lo era del mondo reale della rivelazione, così la liturgia è l’espressione del mondo messianico, con la differenza che

le figure della liturgia non posseggono questa contemporaneità con quanto devono dare a conoscere, anzi lo anticipano; si tratta di una realtà a venire che esse trasformano in oggi. Così esse non sono né chiave né bocca del loro mondo, bensì rappresentanti11.

Per quanto riguarda l’ebraismo, nel lasso di tempo immortalato dall’anno con le sue festività, nell’andamento ciclico e circolare che queste vi conferiscono, viene a convergere l’eterno. Tali festività che forniscono consistenza e circolarità al succedersi degli anni - vale a dire la festa della liberazione dall’Egitto, della rivelazione della Legge, quella delle capanne nel deserto, e quella dei “giorni

terribili”12 - vengono descritte nella loro fenomenologia nel primo libro della terza

parte della Stella, quello dedicato all’analisi dell’ebraismo come “vita eterna”. L’approccio di studio – lo ripetiamo - secondo quanto chiarisce il Nuovo Pensiero, non ha che vedere con la teologia nel senso tradizionale del termine, che sia dogmatica o apologetica, ma piuttosto con quella lui ha chiamato una “sociologia” delle due religioni. Mentre la teologia si colloca all’interno di una determinata prospettiva di fede, al fine di elaborarne i contenuti preventivamente accolti, la sociologia e la fenomenologia hanno la qualità di esaminare il fenomeno religioso dall’esterno, senza l’influenza di un presupposto confessionale che ne orienti l’analisi13.

Le festività liturgiche in cui si scandisce l’anno cristiano, invece, non costituiscono un’anticipazione dell’eternità futura nello stesso modo e nello stesso senso in cui lo sono quelle giudaiche. La differenza fondamentale risiede,

11 Ivi, p. 303. 12 Ivi, pp. 325-332.

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90 come abbiamo poco prima accennato, nel fatto che il cristiano non è ancora presso Dio, redento nel momento stesso della rivelazione, come lo è l’ebreo. Ma la sua prospettiva di salvezza si inaugura nel momento del sacramento battesimale, in cui l’individuo, da pagano che era, entra nella comunità dei credenti, nella Chiesa. Questo sia detto a proposito del singolo, nella misura in cui dal punto di vista della comunità ecclesiale che lo precede, la redenzione è già venuta con l’incarnazione di Dio nel Figlio. Nell’anno cristiano mancherebbe una celebrazione istituzionalizzata della redenzione, in quanto questa si compirebbe dinamicamente nel cammino aperto e imprevedibile della storia, in cui è possibile guadagnare sempre nuovi credenti, destare la risposta della conversione. La festa della redenzione verrebbe, sostiene il pensatore, fatta convergere in quella del Natale, coincidente con l’incarnazione del redentore e quindi con una festività della rivelazione. Scrive Rosenzweig nel libro della Stella dedicato all’analisi del cristianesimo:

La festa dell’inizio della rivelazione è quindi l’unica che nel cristianesimo possa reggere in qualche misura il confronto con la nostra festa della redenzione. Una vera e propria festa della redenzione invece manca. Nella coscienza cristiana, dove tutto si concentra attorno all’inizio ed al cominciare, si appanna la netta differenza che esiste per noi tra rivelazione e redenzione. Nella vicenda terrena di Cristo, almeno nella sua morte sulla croce ma propriamente già nella sua nascita, la redenzione è già avvenuta […]. Nel cristianesimo il pensiero della redenzione viene reinglobato in quello della creazione, e in quello della rivelazione14.

“Sociologia generale” è l’espressione che Rosenzweig utilizza nel Nuovo pensiero per indicare la disamina che svolge dell’ebraismo all’interno della terza sezione della Stella, mentre “sociologia delle arti” allude a quella del cristianesimo articolata nella medesima sezione.

Che il popolo ebraico si fondi su quel dato di fatto che esso stesso è, e che la comunità cristiana si fondi sull’evento attorno al quale essa si aduna, conduce là a una sociologia generale, qui a una sociologia delle arti15.

14 Ivi, p. 377.

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91 Il popolo ebraico come “dato di fatto”, come popolo che con la sua semplice esistenza testimonia la realtà del mondo messianico e del legame col Dio che lo ha eletto, non ha bisogno di preparazione alla dimensione comunitaria che della liturgia è propria. Il cristianesimo sì, essendo una scelta individuale quella della conversione dalla condizione pagana di partenza, scelta che si suggella nel sacramento del battesimo. Il cristianesimo come “evento”, come condizione dinamica e progressivamente espansiva di sé, non è “una figura comune, un risultato comune, un’esistenza comune”, bensì un “comune andare, un fare comune, un comune divenire”. Le tappe che la precedente “sociologia generale” dell’ebraismo aveva scandito come capaci di costruire l’invocazione comunitaria di Dio – l’ascolto comunitario, il pasto comunitario come “apprendistato del silenzio comunitario” - nel caso del cristianesimo si propongono nella

“preparazione della singola anima alle dimensioni comunitarie”16. Rosenzweig

nella sua analisi fenomenologica del cristianesimo nella Stella scrive che il nome stesso di ekklesìa deriva da quello delle assemblee popolari della Grecia antica, in cui i cittadini deliberavano autonomamente, cosicché in essa, nella sua configurazione cristiana, “il singolo è e rimane singolo e solo la decisione è comune

e diviene res publica”17.

Il cristiano come propedeutica alla dimensione comunitaria del culto ha bisogno di quella serie di manifestazioni artistiche - architettoniche, musicali e rappresentative – predisposte nell’edificio della chiesa, che si compiono nell’ascolto comune della parola di Dio. In questa sede Rosenzweig non si rifà a quell’arte che insieme al suo fruitore vorrebbe “appartarsi dal mondo intero in un estremo recesso” che lo farebbe sfociare nell’idolatria, ma a quell’arte che ha trovato “la strada del ritorno da quel reame appartato alla vita”. Quella che riconduce l’uomo “dentro la vita da cui egli, finché era interamente dedito a

«puro» godimento artistico, si era allontanato”18.

16 Idem, La stella della redenzione, op. cit., p. 362. 17 Ivi, op. cit., p. 352.

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92 Così, scrive il nostro autore nel Nuovo Pensiero, “un’estetica cristiana” fa da conclusione al secondo libro della terza sezione della Stella, quello in cui troviamo esposta la “sociologia delle arti” in cui trova espressione fenomenologica la dimensione eventuale che costruisce progressivamente la comunità cristiana. La sociologia generale dell’ebraismo, invece, culminerebbe in una “politica messianica”, esposta alla fine del primo libro della terza sezione. Il senso in cui Rosenzweig parla di “politica messianica” a proposito dei popoli nell’ “era cristiana del mondo”, mi pare molto importante ai fini della comprensione dell’impostazione sociologica che egli fa valere come approccio privilegiato ai due orizzonti di fede biblici. A parere del pensatore l’idea di “elezione” non ha fatto la sua comparsa presso l’autocoscienza dei popoli nel momento dell’elezione del popolo ebraico da parte di Dio, bensì si è stagliata nell’immaginario collettivo piuttosto con il cristianesimo, che ha introdotto nel paganesimo la coscienza di una possibilità di salvezza tramite il fenomeno dell’incarnazione. Le categorie di “salvezza” e di “fede” che il cristianesimo ha introdotto nel mondo - o più precisamente l’idea dell’armonia tra fede e salvezza, che verrebbero ad essere in esso una cosa sola – sarebbero state prese e mistificate da parte dei popoli del

mondo, subendo una progressiva secolarizzazione19. L’ebreo, riposando già da

sempre presso l’eterno, vivendolo e sperimentando attivamente nel ciclo dell’anno liturgico, non ha bisogno di attingerlo tramite il percorso della storia universale, il cui esito resta sempre aperto, cosa che è tenuto invece a fare il cristiano percorrendo la sua “via eterna”.

La storia universale, da cui l’ebreo è sottratto dalla “consacrazione” di Dio, è costitutivamente attraversata dalla tensione e dall’opposizione tra essere e dover essere, tra “terra e cielo”, che è la sua vera e propria “forza motrice”. I popoli nell’epoca cristiana del mondo, infiammati dall’idea cristiana di salvezza, cercano già in essa la soluzione delle contraddizioni. Lo scorrere inesorabile della

19 “Agostino […] spiega che per la chiesa una discrepanza […] tra la propria salvezza e la propria

fede consacrata all’unico Essere superiore, non può sorgere, che per lei salus e fides sono una cosa sola […]. Ciò che Agostino qui dice della chiesa vale in una certa misura anche per la comunità profana, vale per popolo e stato, una volta che questi abbiano incominciato a vedere il loro proprio essere da punto di vista più alto”. Ivi, p. 339.

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93 temporalità acquista per essi una consistenza ontologica e una conciliazione secolarizzata nello “stato”, quella “forma sempre mutevole sotto la quale il tempo

passo a passo si muove in direzione dell’eterno”20. In questo modo lo stato si

annuncia come una sorta di emulo dell’ebreo, che nella liturgia e non nel politico vive l’esperienza della verità e dell’eterno. Lo stato si serve di due strategie per imprimere nel tempo una “curvatura ad anello” simile a quella che la liturgia

ebraica incide sul tempo21. Una curvatura però, che non può che configurare solo

una spirale, la spirale della storia universale che culmina nella redenzione. Questi due mezzi sono il diritto, la legge, che infonde compiutezza sul costume, il quale tenderebbe sennò semplicemente ad accrescersi; e la violenza, che costituisce l’affermazione di uno nuovo diritto, di una nuova soluzione circolare che imiti la scansione liturgica del popolo ebraico, l’unico popolo veramente eterno. Perciò “la vera eternità del popolo eterno deve rimanere sempre estranea ed irritante

per lo stato e per la storia universale”22.

La politica, dopo che l’idea di elezione e di salvezza hanno fatto la loro comparsa col cristianesimo, si carica di una valenza messianica, subendo una radicale trasmutazione d’essenza. Questo conduce l’autocoscienza dei popoli all’incapacità di distinguere fra guerra santa e guerra profana, essendo ogni guerra ricolma di significato salvifico–redentivo. In questa prospettiva Rosenzweig vede l’ebreo come l’unico pacifista autentico, in grado di distinguere fra guerra santa, per esso confinata e relegata in un mitico passato – quella contro “i sette popoli di Canaan” - e guerra profana, in cui non riviene alcuna espressione dell’eterno.

“La «guerra santa», la guerra come atto religioso, dopo che il popolo ebraico l’ebbe inventata, rimase riservata all’epoca cristiana del mondo”23.

E alla prospettiva secolarizzata e degenerata di salvezza che in quest’epoca può dischiudersi.

20 Ivi, p. 341.

21 Cfr.: Emilia D’Antuono, Ebraismo e filosofia, Saggio su Franz Rosenzweig, Guida, 1999, Napoli, p.

163.

22 Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, op. cit., p. 343. 23 Ivi, p. 339.

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94 Rosenzweig alla fine del primo libro della terza parte della Stella, dedicata alla politica messianica, libera l’ebreo dall’ipoteca della storia universale che ha nella politica, inopportunamente riempita di significati messianico-redentivi, un destino sempre pronto ad imporsi. Tale liberazione e separatezza, intese come prossimità a Dio ed esperienza vissuta e agita dell’eterno, verso cui i popoli nella loro configurazione statuale sempre spingono, nella prospettiva del pensatore è tale da suscitare la loro “irritazione”. Non poteva però immaginare che l’esodo dal giogo della necessità, la libertà dal destino della politica, pochi anni più tardi sarebbe diventato per una certa parte dell’occidente una fonte d’irritazione tanto

profonda da farle decretare per l’ebraismo il più terribile destino24. Il pensatore di

Kassel cerca, così, di dare una propria lettura del diffuso Judenhass che ha sempre perseguito gli ebrei in quasi tutta la loro storia.

Come Cristo rappresenta l’idea di uomo, così gli ebrei dell’Antico Testamento, se fossero scomparsi anch’essi dalla terra come Cristo, rappresenterebbero l’idea di popolo e Sion l’idea del centro del mondo. Ma ad una tale «idealizzazione» si oppone la tenace vitalità del popolo ebraico, innegabile, testimoniata proprio dall’odio contro gli ebrei25.

La prospettiva di sociologia delle religioni, su di una base fenomenologica, che il pensatore fa valere per l’ebraismo e il cristianesimo nella Stella, era già in un certo modo presente nella mente del pensatore poco prima della stesura del suo capodopera. In una lettera al cugino Rudolf Ehrenberg parla della Sinagoga che “con la verga infranta e la benda agli occhi” rinuncia ad ogni “lavoro nel mondo”, a favore della Chiesa, “riconoscendo in essa la salvezza per tutti i pagani in ogni tempo”. La Sinagoga, di fronte ad una Chiesa che nella testimonianza che le è propria rischia di “perdersi nell’universale” - ogni volta che dimentica che la rivelazione è “scandalo” per il Greco-pagano, il quale venera tanti dèi - si configura come “l’ammonitrice muta” che, con l’occhio della sua fede vede soltanto

24 Cfr.: Emilia D’antuono, Ebraismo e filosofia, op. cit., p. 166. 25 Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, op. cit., p. 426.

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95 “l’ultimo e l’estremo”, il regno escatologico, piuttosto che soltanto il presente e

ciò che è prossimo26.

III, II. Considerazioni sull’approccio socio-fenomenologico rosenzweighiano alle religioni

Ci chiediamo adesso se tale approccio socio-fenomenologico ai due universi religiosi in questione, e alla religione nel suo complesso, sia adeguato a renderne conto in maniera globale. Abbiamo messo in luce come il pensatore non voglia enucleare un’essenza - con gli strumenti del logos apofantico - delle due religioni, cosa che aveva fatto la teologia liberale della sua epoca. In essa aveva riconosciuto Schleiermacher, a cui noi abbiamo aggiunto Adolf Harnack per il cristianesimo e Leo Baeck per il giudaismo. Il carattere fissante e identificante proprio del concetto filosofico, non è in grado di esplicitare la relazione dinamica in cui la fede e una teologia ripensata filosoficamente consiste. Alla domanda tipicamente filosofica “che cos’è?”, enunciata chiaramente da Socrate per la prima volta, Rosenzweig contrappone la descrizione del come la sfera religiosa avviene nell’esperienza e nella prassi comune. L’analisi fenomenologica della liturgia e delle festività sacre ebraiche e cristiane nel terzo volume della Stella risponde appunto a questa esigenza. La professione di fede che nella liturgia e nella preghiera si concretizza, costituisce, per l’ebreo e per il cristiano, la possibilità di mettere in opera, secondo l’idea rosenzweighiana della verità come processo e realizzazione pragmatica, il dato esperienziale della propria fede.

Il problema che, tuttavia, potremmo porre è se tale prospettiva sociologica, che pure ha il merito di dare alla fede come sentimento privato una dimensione condivisa e comunitaria, non offuschi il principio, in una considerazione semplicemente descrittiva, della decisione individuale della fede. La semplice appartenenza a una comunità o a una tradizione, ci chiediamo, potrebbe non

costituire l’unica possibilità di giustificazione della fede27. Riprenderei in questo

26 Lettera a Rudolf Ehrenberg, in Franz Rosenzweig, La Scrittura, op. cit., p. 286. 27 Cfr.: Adriano Fabris, Linguaggio della rivelazione, op. cit., p. 86-87.

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96 contesto una suggestione di Remo Bodei per cui il singolo individuo, che Rosenzweig vuole salvare dalle maglie della concettualità idealistica, facendolo uscire dall’idea del Tutto, non corra il pericolo di venire riassorbito in una comunità in cui la professione di fede, da un punto di vista assiologico, precede l’adesione volontaria. Sottolineo: da un punto di vista assiologico, perché da un punto di vista fenomenologico l’esperienza individuale della fede, l’Erlebnis, che attiva la facoltà responsoriale dell’uomo, è esplorata da Rosenzweig prima della sua concretizzazione nella vita comunitaria di una collettività religiosa, cioè nella

seconda sezione della Stella28.

Altro pregio dell’approccio sociologico rosenzweighiano alla religione è quello di introdurre non solo l’alterità e la collettività all’interno dell’esperienza di senso del fedele, istanza che la mistica cerca di escludere ponendosi come

“tirannia del regno dei cieli”29, ma anche la dimensione mondana. Buber, amico e

collaboratore di Rosenzweig al Freies juedisches Lehrhaus, nell’ Io e Tu30 aveva

considerato il principio dialogico fra l’io e Dio, e fra l’io e il proprio prossimo come l’unica via percorribile per la redenzione, mentre invece Rosenzweig concepisce la redenzione come la capacità di “dare del tu” al mondo, rendendolo così vivo e atto ad anticipare nel presente “l’eterno sovra-mondo”. Una lettera di Rosenzweig all’amico e collega è illuminante per la comprensione del disaccordo rosenzweighiano a proposito dell’occultamento dell’”esso”, come Buber chiamava il mondo, all’interno del principio relazionale e dialogico:

Caro dottore, io sono un cavaliere […] dell’Esso […]. Che cosa deve venire fuori dall’Io e Tu, quando questi debbono inghiottire il mondo intero e insieme ad esso il creatore? Religione? Io lo temo […]. Per amor mio e amor Tuo, ci dev’essere dell’altro oltre al me e a te31!

28 Precisamente nel libro sulla Rivelazione, che è la “nascita incessantemente rinnovata

dell’anima”.

29 Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, op. cit., p. 279.

30 Io e tu, in Martin Buber, Il principio dialogico e altri saggi, a cura di Andrea Poma, San Paolo,

Milano, 2014.

31 Franz Rosenzweig, Martin Buber, Amicizia nella parola, Carteggio, a cura di Nunzio Bombaci,

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97 Anche qui troviamo la netta svalutazione del termine religione, come già avevamo visto nel saggio Credere e sapere, per il carattere specialistico e, come scrive nel Nuovo Pensiero, “istituito” che esso porta con sé. A proposito di ebraismo e cristianesimo, secondo il pensatore, non è corretto parlare di “religioni”, ma, come abbiamo visto, di “dato di fatto” per l’ebraismo e di “evento” per il cristianesimo. La prospettiva sociologica adottata da Rosenzweig per inquadrare i due monoteismi biblici si oppone dunque all’approccio che tenta di dare loro un’identificazione concettuale nella categoria di religione, costringendoli in delle “recinzioni”. La prospettiva rosenzweighiana li considererebbe nel “campo

aperto della realtà” che è a loro proprio32 e in cui troverebbero la propria

realizzazione e manifestazione più concreta. I lemmi di creazione, rivelazione e redenzione, seguendo questo solco, da teologumeni biblici diventano parole che

esprimono la “trama relazionale” complessa nella quale consiste l’intera realtà33.

Infatti, scrive il nostro autore nel Nuovo Pensiero, “Dio non ha creato la religione, ma il mondo”.

E’ altresì vero che il dato dell’appartenenza all’orizzonte di fede ebraico, che sembrerebbe configurare nella terza sezione della Stella la legittimazione di un approccio semplicemente fenomenologico e descrittivo alle religioni sondate, non è vissuto dallo stesso Rosenzweig come una condizione che si autoimpone disinnescando la possibilità di una adesione deliberata e responsabile. Durante un colloquio avvenuto nel 1913 con il cugino Eugen Rosenstock, convertitosi al cristianesimo sotto la spinta dell’assimilazione ebraica nella Germania dell’epoca, aveva maturato il proposito di convertirsi a sua volta. Ormai deciso a ricevere il battesimo, decide di recarsi per un’ultima volta in Sinagoga, alla celebrazione dello Yom Kippur (giorno d’espiazione), durante il quale ebbe una sorta di illuminazione,

che lo risolse a “restare ebreo”34. Diversi anni più tardi, in una lettera a Friedrich

32 “La posizione peculiare di ebraismo e cristianesimo consiste proprio nel fatto che, persino

quando sono diventati religioni, trovano in se stesigli stimoli per liberarsi da questa loro aderenza al religioso e ritrovare la via del ritorno dalla specificità e dalle sue recinzioni nel campo aperto della realtà”. Franz Rosenzweig, Il nuovo pensiero, op. cit., p. 275.

33 Francesco Paolo Ciglia, Fra Atene e Gerusalemme, op. cit., p. 168.

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98 Meinecke, con il quale aveva scritto la propria tesi di dottorato, così racconta la crisi che lo aveva colto e che lo condusse a rimanere ebreo:

Mi è accaduto nel 1913 qualcosa che, se debbo parlarne, non posso chiamare con altro nome che crollo. Mi trovai improvvisamente in una campo di macerie, o piuttosto: constatai che il cammino che percorrevo si inoltrava tra irrealtà. Era appunto il cammino che soltanto il mio talento o i miei talenti mi indicavano […]. Tra i brandelli dei talenti cercavo me stesso, tra i molti l’Uno. Così avvenne che allora io discesi in me stesso […] nel sotterraneo del mio essere, dove i miei talenti non potevano accompagnarmi e mi accostai all’antico scrigno la cui esistenza non avevo certo mai dimenticato […]. Erano i miei tesori, il mio possesso più proprio, ereditato, non preso a prestito. Possedendo e amministrando questi beni avevo ora quanto prima mi era mancato: il diritto di vivere e persino di avere dei talenti, perché ormai ero io a possedere loro, non loro me”35.

A questo “scrigno” racchiuso sul fondo della sua anima, Rosenzweig dà il nome di “mio ebraismo”. Questa lettera testimonia del travaglio che condusse il pensatore a dare il proprio assenso alla religione d’origine, della crisi che gli fece scoprire come non sarebbe stato necessario per “venire al Padre”, passare per

l’intermediario del Figlio, perché il suo popolo si trovava già presso il Padre36.

Riprendendo l’interrogativo in cui ci siamo chiesti se l’approccio sociologico sia sufficiente a rendere conto del fenomeno e dell’esperienza religiosa in maniera adeguata, possiamo dire che tale ottica non è l’unica da cui tale fenomeno viene osservato nella Stella della redenzione. Rosenzweig con il ripensamento delle parole bibliche di creazione, rivelazione e redenzione in chiave speculativa ed esistenziale, fa valere una posizione non semplicemente fenomenologica bensì ermeneutica. Questo ripensamento non colloca la trattazione rosenzweighiana all’interno di una filosofia religiosa, tale cioè da accogliere preventivamente i contenuti dogmatici di una determinata religione. Lo abbiamo parzialmente notato nel capitolo precedente: nel Nuovo pensiero l’autore dice espressamente che il suo libro, la Stella, non tratta di “cose ebraiche”, ma che per il “nuovo che

35 Lettera a Friedrich Meinecke, in Emilia D’Antuono, Franz Rosenzweig e Friedrich Meinecke, in

Archivio di storia della cultura, IV, 1991, pp. 302, 303.

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99 intende esprimere”, ossia per dare conto della trama relazionale in cui consiste la realtà, “affiorano alle labbra le vecchie parole ebraiche”, che non vengono così recepite nei loro significati originari codificati dalla tradizione teologica.

L’attività ermeneutica applicata a tali parole bibliche nella seconda sezione della Stella ha fatto sostenere a Luca Bertolino che quest’ultima si possa configurare come un’“ermeneutica dell’esperienza religiosa”, sulla scorta

dell’elaborazione che di questa formulazione ha dato Luigi Pareyson37. Secondo

quest’ultimo l’ermeneutica applicata all’esperienza religiosa non si presenta come una considerazione oggettiva che si ponga di fronte ad essa esaminandola dall’esterno, ma di una riflessione in grado di calarsi all’interno di essa senza per questo dissolversi; e di sottoporla da lì a un’”interrogatorio” da cui ottenere risposte “proprie e non sopraggiunte” eppure valide in campo filosofico e speculativo. Anche Pareyson, infatti, come Rosenzweig nel Nuovo Pensiero, parla di questa sua riflessione filosofica come di una forma di “empirismo”, capace di dar conto filosofico della realtà della sfera religiosa, senza per questo “deformarla o trasformarla”. Come accade nella riflessione rosenzweighiana sul suo ebraismo, non per il fatto che l’esperienza di fede è da lui personalmente vissuta che la riflessione su di essa cessa di essere propriamente filosofica. L’ermeneutica di Pareyson è tale, come quella rosenzweighiana, di

cogliere il significato filosofico di temi religiosi […]. Il tema religioso rimane religioso, e non è assunto come tale nella filosofia, la quale d’altra parte è riuscita a carpirne il significato filosofico senza perciò snaturarne la consistenza religiosa38.

Il proposito rosenzweighiano, quale emerge nella sua rielaborazione della tradizione biblica vetero- e neo-testamentaria, è quello di rendere questa tradizione, nei suoi luoghi teologici cardinali, valida in campo filosofico, e quindi quanto più condivisibile su di un piano universale. Come la riappropriazione rosenzweighiana del “suo ebraismo” gli aveva consentito di riunire la dispersione

dei suoi talenti storico-filosofici e legati alla Bildung tedesca in “unità”39, una unità

37 Luca Bertolino, Il nulla e la filosofia, op. cit., pp. 221,222.

38 Luigi Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino, 1995, p. 146.

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100 dotata di nuova vita e vitalità, poteva auspicare che questo stesso percorso potesse essere fruibile e valido su scala storico-universale.

III, III. La nozione rosenzweighiana di “esperienza”

Possiamo parlare di ermeneutica dell’esperienza religiosa a proposito della Stella della redenzione, evitando di parlare di filosofia della religione, in quanto tale termine è espressamente rigettato in vari luoghi della sue opere. L’autocomprensione dell’autore nel Nuovo Pensiero esclude categoricamente questa “etichetta”, dicendo che la parola “religione” neppure comparirebbe nella Stella. Il merito di questa differente formulazione è anche la centralità in cui è posto il tema, caro al pensatore, dell’esperienza. L’esperienza religiosa, quale vissuta e performata all’interno del plesso creazione – rivelazione e redenzione è quella che si offre allo sguardo dell’’ermeneuta, che calandosi in essa ne ricava il particolare linguaggio o organon, squisitamente “grammaticale” piuttosto che logico-matematico, e lo propone in sede filosofica per un possibile rinnovamento del suo procedere. Ed ecco che al “metodo del pensare”, che “pensa indipendentemente dal tempo”, si può accostare proficuamente quello “del parlare”, che è “legato al tempo […], non sa in anticipo dove andrà a parare, lascia

che siano gli altri a dargli la battuta”40. Questo è ciò che avviene nella parte

centrale della Stella, in cui la rivelazione divina è vista al modo di un dialogo fra Dio e l’uomo, che è chiamato a una risposta. Un dialogo che si innesta su un precedente approccio logico-matematico alle strutture degli elementi coinvolti in esso, posto in essere dalla filosofia al fine di rispettarli nella loro reciproca differenza. L’esperienza nella seconda sezione della Stella si declina come esperienza di relazioni e nelle relazioni, e il dialogo si pone come organon adeguato e come motore che le pone in essere. E’ opportuno, però, fare una precisazione: l’esperienza delle relazioni e l’esperienza che l’uomo fa nel suo vissuto personale all’interno della relazione è denotata da Rosenzweig con due termini differenti. Il termine Erfahrung si riferisce all’esperienza, in primo luogo,

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101 della fattualità dei tre fenomeni originari colti nella loro reciproca separazione. Tale esperienza, scrive Rosenzweig nel Nuovo pensiero, “scopre nell’uomo sempre solo l’umano, nel mondo soltanto il mondano, in Dio soltanto il divino”. Tale esperienza è in grado di indirizzarsi all’essere e alla fattualità degli elementi primordiali salvandoli da una loro riconduzione al concetto del pensiero, che li

categorizzerebbe in qualcosa d’altro41. Ma l’esperienza intesa come Erfahrung non

si rapporta solo a realtà autosussistenti e separate, ma è in grado di cogliere anche la loro reciproca connessione. In tal senso non si rivolge più a fattualità, ma a relazioni, le relazioni di creazione, rivelazione e redenzione, che l’esperienza così

intesa è in grado di attestare e riconoscere42. Un esempio fra tutti dell’esperienza

di relazioni, lo troviamo in quella della creazione, della rivelazione e della redenzione, che il soggetto può constatare senza esserne direttamente coinvolto.

Nell’unica realtà di cui abbiamo esperienza si gettano, a superarla, dei ponti, e tutte le nostre esperienze sono esperienze (Erfahrungen) di questi ponti gettati43.

Altra denominazione ha per il pensatore l’esperienza in cui l’uomo si trova coinvolto in prima persona, e che sperimenta nel proprio vissuto personale. Tale è l’Erlebnis, che l’uomo sperimenta come coinvolto in prima persona nella relazione con Dio, la rivelazione. In altre parole, l’esperienza come Erfahrung è in grado di constatare la sussistenza di tale relazione come esperienza di un “ponte” gettato tra l’uomo e Dio. Ma l’uomo può anche viverla soggettivamente e in prima persona come esperienza d’amore, che suscita una risposta nella forma della sua fede.

III, IV. Esperienza e verità

Nella terza sezione della Stella tale esperienza vissuta e squisitamente soggettiva, l’Erlebnis, acquista una concreta dimensione ed esistenza sociale per

41 Cfr.: ivi, p. 261-262.

42 Cfr.: Adriano Fabris, Esperienza e paradosso. Percorsi filosofici a confronto, FrancoAngeli, Milano,

1994, p. 145.

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102 prendere la forma di una credenza comunitaria, espressa nelle forme del rito e del

culto che dei due monoteismi indagati sono proprie44. La credenza comunitaria

che costituisce l’oggetto dell’analisi socio-fenomenologica di tale terza sezione, è la verificazione pragmatica dell’esperienza di fede intesa come Erlebnis. La verità esperita nell’Erlebnis diviene qui un’attestazione e una prassi dinamica. La verità in Rosenzweig, dunque, non è più concepita come necessaria e atemporale, e convalidata per il tramite della dimostrazione logico-deduttiva. Ma, diversamente da come avviene nella concezione dialettica e sistematica, come una prassi che si svolge nel tempo ed il cui esito resta indeterminato e sempre aperto: come inveramento45. La stessa idea aristotelica della verità come non-contraddizione

viene rivalutata in senso positivo e affermativo, per il quale l’esperienza testimoniata e messa in opera di una verità soltanto pensata costituisce la sua feconda contraddizione. E tuttavia soltanto

Una contraddizione di un’esperienza nei confronti di un pensiero e una connessione necessaria e indissolubile tra i due […] Soltanto questo significa realtà. Un pensiero da solo può essere sbagliato. Un fatto da solo può essere un inganno. Ma un pensiero e un fatto che necessariamente sempre di nuovo, sebbene non coincidano, sempre di nuovo s’incontrano, allora sono entrambi reali, il fatto e il pensiero”46.

La verità da questione di teoria della conoscenza diviene problema

soprattutto dell’etica47. La vecchia gnoseologia, cui Rosenzweig fa riferimento nel

Nuovo Pensiero, legata a una concezione proposizionale e corrispondentista della verità, viene sopravanzata da una “gnoseologia messianica”, che valuta le verità sulla base del “prezzo del loro inveramento”, del “sacrificio” legato alla loro

44 Cfr.: Fabris, Linguaggio della rivelazione, p. 84.

45 “La verità cessa di essere ciò che «è» vero e diventa ciò che vuole essere confermato vero. Il

concetto di inveramento della verità diviene il concetto cardinale della nuova gnoseologia”. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, op. cit., p. 279.

46 Idem, Dio, uomo e mondo, op. cit., p. 100-101.

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testimonianza nella vita concreta, e dell’impegno di tutte le generazioni48. Il

termine “messianico” è anche questo di matrice biblica, e rinvia alla tensione escatologica propria di entrambi i monoteismi biblici. Tale tensione si esprime nella preghiera, anticipazione performativa del regno dei cieli oltre che richiesta, e nel ciclo liturgico dell’anno, in cui la verità delle rispettive fedi si esprime in forme condivise e pragmatiche. In questo senso la verità ha il proprio prolungamento veritativo, operativo, nell’etica che caratterizza le tradizioni di ebraismo e cristianesimo. Entrambi sono chiamati a testimoniare la loro “parte” di verità,

dell’unica verità che è tale soltanto in Dio – di cui essi possono solo “partecipare”49

- secondo le modalità che di ciascuna sono proprie: l’ebreo nell’anno liturgico e nella vita del suo popolo, e il cristiano nella missione di conversione dei pagani. La comune tensione escatologica e la comune radice da cui promanano, l’Antico

Testamento50, garantisce la sinergia e il comune obiettivo del loro operare.

Ma l’inveramento della verità di cui parlano la Stella e il Nuovo Pensiero non ha che vedere solamente con l’orizzonte dell’agire messianico. E’ il lettore stesso il destinatario di Rosenzweig, indipendentemente dalla prospettiva religiosa che di quest’ultimo è propria. L’invito del Nuovo Pensiero è quello ad aprirsi, una volta completata la lettura della Stella, alla vita, alla responsabilità di “giustificare” la teoresi del libro nel quotidiano della vita, in cui è possibile “filosofare oltre”, oltre anche la forma propria del testo filosofico. L’invito è anche ad una nuova fruizione della sua opera, alle differenti interpretazioni che i lettori ne sapranno dare: anche questa è per l’autore un’operazione di “giustificazione” del libro, un’operazione

48 Cfr.: Rosenzweig, Il nuovo pensiero, op. cit., p. 280. 49 Idem, La stella della redenzione, op. cit., p. 427.

50 “Poiché […] anche le radici di questa speranza, che nell’uno e nell’altro caso è il Dio di tutto il

tempo, scaturiscono insieme, la rivelazione dell’Antico Testamento ci è comune: allora la Chiesa e la Sinagoga vengono rinviate l’una all’altra”. Idem, Lettera a Rudolf Ehrenberg, in La Scrittura, op. cit., p. 289. In un carteggio con Rosenstock Rosenzweig definisce il cristianesimo come “l’albero che cresce dal seme dell’ebraismo e fa ombra su tutta la terra, ma il suo frutto conterrà di nuovo il seme di cui nessuno però vedendo l’albero, seppe accorgersi”. Franz Rosenzweig, Eugen Rosenstock, La radice che porta. Lettere su ebraismo e cristianesimo, a cura di Gianfranco Bonola, Marietti, Genova, 2002, p. 90.

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104 responsoriale e testimoniale, che esclude la possibilità che diventi “un risultato raggiunto”. Egli è refrattario anche a darne una designazione tematica, che lo confinerebbe nelle categorie di classificazione della storia della filosofia, categorie statiche e conclusive che rischierebbero di relegare il nuovo pensiero nel “cimitero della loro [dei lettori] cultura”. L’unica etichetta che si sente di apporre è quella di “empirismo assoluto”, il metodo che scandisce l’approccio a ognuna delle tre dimensioni ontologiche che indaga la Stella: “il pre-mondo del concetto, il mondo della realtà, il sovra-mondo della verità”. E’ con l’esperienza intesa come metodo che Rosenzweig esplora i fenomeni originari della prima sezione, visti, secondo una ripresa della “filosofia positiva” del tardo Schelling, come cose di fatto

(“Tatsachlichkeiten”51) che precedono il pensiero. E’ tramite l’esperienza che si

possono cogliere le relazioni fra gli elementi Dio, uomo e mondo. Ed è sempre l’esperienza che può permettere di vedere Dio nella sua verità, anche se “questo

è un contemplare al di là della vita”52, una visione che non è possibile in vita.

Nel Nuovo Pensiero l’autore evoca due tipologie di lettore: lo “specialista” e il “profano”. Lo specialista saprebbe già, sin dalla lettura delle prime battute di un libro di filosofia, che cosa quest’ultimo contenga, secondo l’assunto di un general reader per cui questo dovrebbero essere “particolarmente logico”, con ogni asserto dipendente da quello che precede. Come se un libro di filosofia fosse l’esposizione di un teorema geometrico. In ciò contravviene al principio del nuovo pensiero secondo cui “non si può conoscere in modo indipendente dal tempo”, che varrebbe anche per quanto riguarda la comprensione di un testo. Il motivo è che “scrivere non è lo stesso che pensare. Nel pensiero un pensiero solo produce davvero mille collegamenti, nello scrivere questi mille collegamenti devono essere

delicatamente e accuratamente infilati nello spago di mille righe”53. A patto che si

intenda uno scrivere calibrato sul nuovo “pensiero parlante”, che “ha bisogno dell’altro”, o il che è lo stesso, “che prende sul serio il tempo”.

51 Rosenzweig, Cellula originaria de «La stella della redenzione», in La Scrittura, op. cit., p. 254, 52 Idem, La stella della redenzione, op. cit., p. 427.

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105 Il percorso delineato nel Nuovo Pensiero per il lettore, invitato a “filosofare oltre” il libro La stella della redenzione, a fare dell’epilogo un centro, ad entrare “al centro del quotidiano della vita”, vale anche per l’autore stesso. Terminata la stesura della Stella infatti, Rosenzweig, allo scopo di inverare il suo testo nel proprio quotidiano, apre a Francoforte sul Meno un istituto di formazione per gli ebrei tedeschi suoi contemporanei, ormai assimilati nella cultura tedesca, allo scopo di far loro riscoprire le proprie radici ebraiche. Nel Freies jüdisches Lehrhaus la struttura portante dell’insegnamento è per lo più dialogica, fa proprie e cerca di dare risposte a quelle domande “urgenti” postegli dagli uomini, non più dalla scienza nella sua configurazione libresca o accademica. Nello stesso anno infatti (1920), aveva declinato la proposta di Friedrich Meinecke, noto esponente dello storicismo tedesco, di una cattedra all’università di Berlino. La lettera che abbiamo

già potuto menzionare54, in cui Rosenzweig risponde alla proposta di Meinecke,

sottolinea l’importanza di un conoscere come “servizio” reso all’uomo, non più alla scienza. Il pensatore scrive di essere diventato “da storico abilitabile, filosofo non abilitabile”, e specifica che la sua immersione giovanile nella scienza storica, che lo aveva condotto a scrivere una tesi di dottorato sulla dottrina hegeliana dello Stato, si poteva qualificare come “una fame di forme”, un’ “estetica”, sostituita adesso da un’”oscuro impeto” che era il suo “ebraismo”.

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