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CAPITOLO II

IL DIRITTO A DISPORRE DEL PROPRIO CORPO E LA

LIBERTA’ DI MORIRE NELLA COSTITUZIONE

ITALIANA

SOMMARIO: 1. Necessità di un'interpretazione evolutiva della Costituzione. - 2. Centralità della persona e

della dimensione del corpo. Il principio personalista. - 3. Il diritto alla vita. - 4. Libertà di autodeterminazione e diritto alla salute. - 5. Dovere di vivere o diritto a morire? - 5.1. Indisponibilità della vita. - 5.2. Indisponibilità ed incoercibilità della vita. - 5.3. Libertà di vivere e di morire.

1. Necessità di un'interpretazione evolutiva della Costituzione

Nessun dibattito in merito all’eutanasia potrebbe darsi se non dopo un previo confronto con la Carta Costituzionale, depositaria di quei <<diritti inviolabili dell’uomo>> (art. 2 Cost.) che non solo costituiscono i principi supremi dell’ordinamento e qualificano la stessa struttura democratica dello Stato, ma che, soprattutto, positivizzano il patrimonio identificativo ed irretrattabile della persona umana. La garanzia della loro tutela è affidata alla rigidità della Costituzione e al controllo di costituzionalità della Corte Costituzionale.

La Carta, però, non ci fornisce alcuna esplicita ed univoca indicazione in merito ad un eventuale “diritto all’eutanasia”, motivo per cui si rivela necessario ricorrere ad un’interpretazione evolutiva. A tal proposito, la Corte Costituzionale non ha mai esplicitamente preso posizione in ordine alla vexata quaestio sorta attorno all’art 2 Cost, ovvero se esso si configuri quale clausola “chiusa”, nel qual caso si esimerebbe nel rinviare all'elenco dei diritti espressamente riconosciuti in Costituzione (e di

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conseguenza, i diritti nuovi troverebbero fondamento da uno o più di questi ultimi) ovvero “aperta”, sicché fungerebbe da “valvola” per conferire il carattere di inviolabilità ai nuovi diritti di libertà. Ad ogni modo, il contenuto normativo delle disposizioni costituzionali non è di certo fisso ed immutabile, ma, al contrario, incorporando valori, sono suscettibili di una lettura aggiornata, sollecitata dalle nuove istanze e dall’evoluzione della coscienza sociale.

Alla luce di ciò, può dirsi che i diritti, siano essi espliciti o impliciti, sono sempre oggetto e frutto di interpretazione, a maggior ragione giurisprudenziale. Infatti, i principi costituzionali vengono concretizzati in relazione al singolo caso prospettato, talvolta bilanciati in caso di conflitto in relazione alla medesima fattispecie, mediante la creazione di una gerarchia assiologica mobile tra essi, oppure ancora combinati. Sotto un secondo profilo, poi, è la Corte Costituzionale che, chiamata in un giudizio di legittimità, nell’esaminare la portata applicativa di una libertà fondamentale ad una determinata fattispecie, può ritenere che il parametro costituzionale evocato introduca un nuovo aspetto, connesso o conseguente, di un principio fondamentale, suscettibile di autonoma considerazione e di autonoma garanzia giuridica, dando così forma ai “nuovi diritti”.

Questo non significa che gli interpreti abbiano piena disponibilità dei contenuti costituzionali, l’attività ermeneutica ed in particolar modo il riconoscimento di ulteriori situazioni di libertà, è pur sempre condizionata dal limite del rispetto dei valori esplicitamente desumibili dalla Costituzione, nonché da regole positive sull’interpretazione.

In sostanza, nel nostro caso preme capire se, attraverso un’interpretazione evolutiva del dettato costituzionale, sia possibile, alla luce dei principi esplicitamente enucleati,

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trarre un “indizio” utile al fine di consentire il riconoscimento della richiesta di quei malati terminali che, sottoposti ad incessanti sofferenze, chiedono di disporre del proprio corpo in modo estremo con l’intervento di un terzo.

2. Centralità della “persona” e della dimensione del “corpo”. Il

principio personalista.

I problemi di bioetica ricevono risposte differenziate a seconda della concezione di “uomo” assunta dall’ordinamento1, riverberandosi essa su una o l’altra visione del

“corpo, il quale costituisce, per definizione, <<il più fisico dei momenti di incrocio tra le libertà dell’individuo e il potere>>2.

Il periodo dei lumi aveva dato centralità ai diritti dell'uomo e del cittadino, elevando la persona, la sua volontà e disponibilità a protagonisti del diritto, condizionando non poco le codificazione del periodo a cavallo fra Ottocento e Novecento. Queste, del tutto disinteressate ad accogliere bisogni spirituali e a riconoscere valori individuali, assumevano una concezione in chiave volontaristica del diritto, di modo che la funzione della legge era di farsi interprete della volontà del singolo, ritenuta espressione delle libertà di sua competenza. L'uomo era, allo stesso tempo, titolare del potere di disposizione ed “oggetto” della disposizione stessa; il corpo si configurava, di

1 A tal proposito F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, in Criminalia 2006, 58.

L'autore evidenzia come, in relazione ai problemi di bioetica, la contrapposizione dialettica avvenga tra concezione utilitaristica dell'uomo-oggetto e concezione personalistica dell'uomo-valore. Corollario della prima è la massima disponibilità dell'essere umano, mentre della seconda l'indisponibilità dello stesso. In particolare, la concezione personalista subordina la liceità degli interventi sull'essere umano a due condizioni cumulative: 1) limiti oggettivi, quali il principio della salvaguardia della vita, integrità fisica e salute; della dignità umana; dell'eguaglianza e pari dignità dei soggetti umani; 2) limiti soggettivi, da identificarsi con il principio del consenso informato del soggetto.

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conseguenza, come elemento scindibile dalla persona, su cui poter esercitare i poteri proprietari e reali.

Un approccio radicalmente diverso è attestato, all’indomani delle drammatiche vicende storiche e del rinnovato clima culturale, dalle moderne costituzioni pluralistiche, espressione di valori che la coscienza comune ritiene di dover incondizionatamente tutelare. La dignità umana diviene l'unità di misura assoluta, sicché l’uomo non è più mera astrazione di valore, ma anche essere ontologico3, un tutt'uno di fisicità e spiritualità, cui non sono riconosciuti “poteri” sul corpo, bensì “libertà” su di esso”4.

Nell’ambito di questa linea direttrice si colloca la nostra Carta Costituzionale nella quale, benché non sia rinvenibile una definizione esplicita di “persona”, sono molteplici i dati da cui si desume una concezione di “uomo” non astratta ed avulsa dal mondo, bensì, e al contrario, colta in tutta la sua concretezza ed individualità, calata altresì nell’ambito dei rapporti sociali e di relazione che la sostanziano.

È infatti chiara la volontà espressa dai Costituenti, positivizzata nell’art. 2 Cost., in base al quale <<La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità … >>. Con ciò hanno infatti mostrato non solo di optare per una netta rottura con l’esperienza del fascismo ma, e soprattutto, di porre alla base della costruzione dell’ordinamento la “persona” in quanto tale. Simile presa di posizione era già emersa in sede di discussione della Costituente, allorché tutte le componenti politiche-culturali furono concordi nell’adottare un nuovo angolo di visuale: non più l’uomo per lo Stato (uomo-mezzo), ma l’uomo come fine dello Stato, e negarono esplicitamente che il pieno sviluppo della

3 M.B. MAGRO, op. cit., 10.

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persona fosse riconducibile a particolari visioni del mondo5. Solo imboccando quest'ultima direzione può prendere effettivamente corpo una società pluralista, aperta a molteplici e variegate concezioni, valori ed ideali, senza pretendere di innalzare particolari visioni del mondo a “verità assolute” da far prevalere, imponendole, su altre. Tale prospettiva pluralista, però, non deve essere intesa lato sensu come “assoluto relativismo”. In altre parole, non significa <<muoversi in uno spazio vuoto di principi in cui il relativismo cancella ogni possibile riferimento a valori forti>>6; la prospettiva indicata è sì la valorizzazione del diverso, ma soprattutto confronto e compromesso tra relatività di ciascun soggetto particolare, cercando in esse le soluzioni che appaiono più appropriate in virtù dell’evolvere del tempo. Per cui <<ciò che magari sembra opportuno o costituzionalmente giustificato oggi, non è detto lo sia necessariamente domani>>7.

Analogamente può dirsi con riferimento al principio personalista in senso stretto; ovvero, il fatto che la nostra Costituzione sia stata concepita per dare ampio adito all’autodeterminazione dell’uomo, non significa abbia accolto uno sfrenato individualismo. Infatti ogni diritto nasce di per sé limitato, giacché <<nell’ambito dell’ordinamento le varie sfere giuridiche devono di necessità limitarsi reciprocamente, perché possano coesistere nell’ordinata convivenza civile>> 8 , al contrario si ingenererebbe inesorabilmente una guerra di tutti contro tutti. E’ lo stesso art. 2 Cost., tra l’altro, che configura doveri di solidarietà (<<La Repubblica … richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale>>) suscettibili di essere composti con quelli della persona; senza contare poi le numerose

5 P. VERONESI, op. cit., 10

6 S. RODOTA', Valori, laicità, identità, 15 gennaio 2007, in www.costituzionalismo.it.

7 Così P. VERONESI, op. cit., 33, il quale riporta testualmente l'osservazione di G. Giorello. 8 In questi termini si è espressa la Corte Cost. sent. 1/1956

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clausole rinvenibili nel tessuto costituzionale che rinviano all’ “interesse collettivo” o all’ “utilità sociale”, nonché i casi in cui, per conflitto tra più principi in relazione ad un medesimo caso concreto, sia necessario un loro bilanciamento.

Constatato come il principio personalista costituisca l’anima della Costituzione, non è dunque peregrino pensare che esso di presti ad essere utilizzato non solo nell’interpretazione degli altri principi costituzionali, ma anche come parametro e guida difronte a casi difficili. E' soprattutto nei momenti di “crisi”, infatti, come accade in materia di bioetica e, per quel che qui interessa, di eutanasia, dove i valori in campo sono particolarmente forti, in quanto attengono alla vita di ognuno, e nessuno è disposto a riempirli di un significato imposto da altri, che si rivela quanto mai necessario un approccio che muova dalle istanze personali e concrete, si mostri sensibile alla composita dinamica delle fattispecie, dando risposte che si collochino nel quadro del perseguimento della “pari dignità sociale” solennemente proclamata dall'art 3 Cost.

3. Il diritto alla vita

Il primo valore ad essere investito dalla discussione sull'eutanasia è la vita, giacché se si ponesse in termini di indisponibilità, verrebbe meno ogni possibilità di un riconoscimento dell'eutanasia.

La nostra Costituzione non contiene previsioni che definiscano, disciplinino e tutelino esplicitamente un vero e proprio “diritto alla vita”. Secondo alcuni9 la

mancanza di un'espressa enunciazione ad opera della Costituente è stata dettata dalla volontà di evitare una possibile contraddizione con l'art. 52 Cost. che sancisce il dovere

9 A. BARBERA, Eutanasia: riflessioni etiche, storiche e comparatistiche, in S. Canestrari, G. Cimbalo,

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alla difesa della patria. Tuttavia molti concordano nel ritenere che la vita trovi copertura, seppur implicitamente, nelle altre previsioni costituzionali. Tra queste, in primo luogo, l'art. 2 Cost. che, riconoscendo i diritti inviolabili dell'uomo, non può non ricomprendere anche il diritto alla vita10.

Ricostruito in questi termini, il diritto alla vita, alla stregua di ogni altro diritto fondamentale e in un’ottica liberale, viene precipuamente tutelato avverso aggressioni esterne, non rilevando al contrario le condotte poste in essere dagli stessi titolari.

Si tratta dunque di stabilire se il titolare del bene giuridico protetto possa disporre dello stesso e, in caso di risposta positiva, entro quali limiti e a quali condizioni.

4. Libertà di autodeterminazione e diritto alla salute

In materia di atti di disposizione del corpo, occorre far riferimento ad una serie di norme, in quanto non è rinvenibile una disciplina unitaria di essi. A tal proposito vengono in rilievo gli artt. 2-3-13-32 Cost., nonché l'art. 5 c.c. e 50 c.p..

Per molto tempo il referente principale di tutti gli atti di disposizione del corpo è stato l'art. 5 c.c., ciò anche dopo l'entrata in vigore della Carta costituzionale e in qualche modo, ancora oggi, continuando esso ad influenzare alcuni orientamenti in materia.

Delineato dal legislatore fascista, si era reso necessario al fine di limitare interventi dispositivi del corpo a favore di terzi, tenendo conto dell'esistenza dell'art 50 c.p. che escludeva la punibilità di chi avesse disposto di un diritto altrui con il consenso di

10 In questi termini si è espressa la Corte costituzionale nella sent. 223/1996, punto 2.3. del Ritenuto in

fatto. Si tratta del c.d. “caso Venezia”, in relazione al quale la Consulta ha vietato l'estradizione di un

cittadino italiano in Florida, dove sarebbe stato suscettibile di condanna a pena di morte; in tale occasione, ha ricondotto il diritto alla vita in seno all'art. 2 Cost., adducendo a sostegno il divieto di pena di morte sancito dall'art. 27 Cost. .

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quest'ultimo. Si optò per l'affermazione di una generale legittimità di simili atti, ma entro certo limiti, ovvero purché non comportassero una <<diminuzione permanente dell'integrità fisica>> tale da impedire alla persona di esercitare i propri interessi e di ottemperare la propria funzione sociale nell'ambito della famiglia e della società. Tale scelta era il riflesso di una concezione che poneva la vita e l'integrità fisica come beni superindividuali, coerente col perseguimento e l'accrescimento della potenza dello Stato11.

Come anticipato, l'articolo in esame si è imposto come chiave interpretativa delle norme costituzionali anche all'indomani dell'entrata in vigore della Carta. La dottrina dominante venne infatti ad elevare l'art. 5 c.c. a norma fondamentale, portatrice di un principio generale assoluto ancorché suscettibile di deroghe.

Una norma ordinaria, tuttavia, può essere ritenuta esprimente un principio generale solo ed in quanto non contrasti con norme gerarchicamente sovraordinate, quali i principi costituzionali.

Nel novero dei diritti inviolabili, il cui pieno godimento deve essere consentito dalla Repubblica in virtù del suo impegno ad assicurare un'effettiva eguaglianza di fatto, rientra l'art. 13 Cost., norma che prima fra tutte attesta l'assunta centralità della persona nel nostro ordinamento. Il particolare valore conferito alla norma emerge già dal dato strutturale, collocandosi essa alla base di quella piramide rovesciata comprensiva di tutti i diritti individuali e pubblici12.

L'art. 13 concerne le guarentigie supreme dell'habeas corpus: delineata al fine di tutelare la libertà fisica da qualsiasi forma di costrizione o limitazione esterna, è ormai

11 M. B. MAGRO, op.cit., 63. 12 P. VERONESI, op.cit., 10.

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pacifico si estenda anche alla sfera morale della persona. La sua portata, tuttavia, è andata ulteriormente ampliandosi nel tempo, in concomitanza con un'interpretazione evolutiva che ha toccato direttamente il concetto di salute e che è culminata con il riconoscimento del “paziente” quale nuovo <<soggetto morale e giuridico>>13.

In questa parabola ascendente, iniziata negli anni Sessanta con l'affermazione del carattere immediatamente precettivo dei principi fondamentali di libertà14, si inserisce anche un ripensamento dell'art. 5 c.c., a fronte dell'emersione della sua inadeguatezza nel disciplinare i problemi sollevati dagli attuali atti di disposizione del corpo. Iniziano inoltre ad esserne sottolineate le ambiguità lessicali, in quanto l'art. 5 c.c. si pone in termini di “potere” e di “indisponibilità” ovvero “disponibilità” del corpo, riflettendo una concezione di esso quale oggetto separato dalla persona, secondo una visione ormai anacronistica15.

Il primo segnale della svolta si è manifestato con il riconoscimento del rilievo rivestito dai profili psichici oltreché meramente organici della salute. La salute non è più intesa in negativo come mera assenza di malattie, ma in positivo, come benessere globale, sicché, data la sua maggior ampiezza, tale ultima nozione ha finito per assorbire quella di integrità fisica. Ulteriore conseguenza è la diversa interpretazione data all'art. 5 c.c., in senso del tutto opposto alla precedente: prima si riteneva vietasse gli atti di disposizione, ora invece viene letta come legittimante tali condotte, ma entro i limiti ivi previsti, con il consenso dell'interessato. Inoltre, il suo campo di applicazione viene ristretto, in quanto i divieti da esso posti si afferma attengano ad atti di autonomia negoziale.

13 A. SANTOSUOSSO, Eutanasia, in nome della legge, in Micromega, n. 1, 2007, 28 ss.

14 Corte Costituzionale, sent. 45/1968. 15 M. B. MAGRO, op. cit., 62 ss.

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L'evoluzione del concetto di salute è testimoniato dall'entrata in vigore della legge del 1982 che ha consentito ai transessuali di mutare sesso sottoponendosi ad operazioni chirurgiche. Il che ha trovato riscontro nella giurisprudenza della Consulta, la quale, chiamata a giudicare la legittimità di suddetta legge, ha definito tali operazioni come <<atto terapeutico teso alla realizzazione del diritto alla salute>>, in quanto volte ad equilibrare gli aspetti fisici e psichici della sessualità del transessuale. In questo modo si è affermata implicitamente la prevalenza dell'art. 32 Cost. sull'art. 5 c.c..

Il secondo passo è stato segnato dall'ingresso del diritto alla salute nel rapporto tra medico e paziente, grazie alla serie di sentenze sul caso del “chirurgo di Firenze” con cui viene affermato il diritto del paziente a rifiutare le cure mediche anche se ciò comporti un danno alla sua salute o, finanche, la morte, giacché <<la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente dal soggetto interessato dal volere o, peggio, dell'arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell'avente diritto, trattandosi di una scelta che […] riguarda la qualità della vita e che pertanto lui e lui solo può legittimamente fare>>. La salute si configura così quale espressione del principio personalista, e premessa per garantire il rispetto della propria dignità e libertà. L'art. 32 include anche il diritto ad essere informato sul proprio stato di salute: il consenso non solo è collegato al diritto alla salute, ma è espressione generale della libertà dell'individuo.

Determinante è la sent. 471/1990 con la quale, per la prima volta, la Corte Costituzionale afferma che la libertà di ciascuno di disporre del proprio corpo è corollario dell'inviolabilità della persona, esplicitata nell'art. 13 Cost.. In questo modo, l'autodeterminazione circa gli atti di disposizione del corpo, trova definitiva collocazione nel principio di libertà personale. Successivamente, con la sent. 238/1996,

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la Corte costituzionale definisce la libertà personale come <<indefettibile nucleo essenziale dell'individuo>>, non suscettibile di limitazione se non a fronte di una legge che ne disciplini casi e modi. Si tratta di un <<diritto inviolabile rientrante tra i valori supremi>> alla stregua del connesso diritto alla vita e all'integrità fisica <<con il quale concorre a costruire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona>>.

Dunque, alla luce del combinato disposto degli artt. 13 e 32 Cost. così come interpretati dalla Corte costituzionale, è possibile affermare che la regola generale è quella della libera determinazione della persona, anche con riguardo ai rapporti interprivati che hanno luogo nel contesto medico. A fronte dell'allargamento del concetto di salute e dell'affermazione del principio del consenso informato, è scaturita una diversa connotazione del rapporto medico-paziente. Se prima il medico era paternalisticamente considerato unico titolare della gestione della salute del paziente, oggi si parla invece di “alleanza terapeutica”, ad indicare una posizione di parità tra i due soggetti in relazione.

Il contenuto degli artt. 13 e 32 Cost. risulta conforme alla normativa sovranazionale. L'art. 5 della Convenzione sui diritti umani e biomedicina di Oviedo del 1997, autorizzata dal parlamento ad essere ratificata con la legge 145/2001, stabilisce che <<nessun intervento in campo sanitario può essere effettuato se non dopo che la persona a cui esso è diretto vi abbia dato un consenso libero ed informato>>. La Carta fondamentale dei diritti dell'Unione prevede, sotto il titolo <<Dignità all'integrità della persona>>: <<Ogni persona ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. Nell'ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati il consenso libero ed informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge [...]>>.

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La stessa Corte Costituzionale, di recente (sent. 438/2008 e 253/2009) ha affermato come il consenso informato debba considerarsi proiezione del diritto di salute e del diritto all'autodeterminazione; e negli stessi termini si è posta anche la Cassazione (S.U. 18 settembre 2008). Ad ultimo, si può citare l'intervento della Corte Europea del 10 giugno 2010, secondo la quale, affinché la libertà sia piena, il paziente deve potere effettuare scelte <<che siano coerenti con i propri punti di vista e valori, per quanto irrazionali, stolti o imprudenti queste scelte possano apparire ad altri>>.

5. Dovere di vivere o diritto di morire?

Dalle disposizioni costituzionali è arduo stabilire con certezza quale sia stata la posizione dei Costituenti circa la disponibilità o meno della vita. I diritti inviolabili dell'uomo richiamati in Costituzione sono suscettibili di letture diverse, tali da condurre a bilanciamenti opposti più o meno sostenibili. Infatti in dottrina non si riscontra una posizione univoca, quanto piuttosto opinioni antitetiche, a seconda del significato dato da ciascuna di esse ai principi personalista e pluralista. In generale, possiamo individuare tre filoni interpretativi.

5.1. Indisponibilità della vita

Secondo una prima interpretazione la vita, sia che si muova dal considerarla come diritto inviolabile riconducibile all'art. 2 Cost., sia che si muova dal considerarlo un

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“bene incondizionatamente tutelato dal diritto”16 non ascrivibile alla categoria dei diritti

soggettivi, è assolutamente indisponibile.

In questo senso, si ritiene che i Costituenti non abbiano a caso omesso di positivizzare esplicitamente un “diritto alla vita”17: è un valore metapositivo, matrice e

presupposto per l'esercizio di ogni altra libertà costituzionalmente riconosciuta, dunque necessariamente indisponibile. Tale suo carattere è ben desumibile anche dal dettato costituzionale. In primo luogo, con riferimento all'indisponibilità del bene vita da parte dello Stato, ne sono chiari indici l'art. 27 Cost., il quale esclude la pena di morte; e l'art. 11 Cost., il quale, anche in caso di guerra difensiva, prevede che ai consociati non possa essere richiesto un sacrificio che vada oltre il limite dell' “esposizione al pericolo”; lo stesso principio personalista avvalorerebbe simile conclusione. A dire di alcuni, ciò sarebbe sufficiente per affermare l'indisponibilità del bene vita anche con riguardo al titolare di esso, in quanto <<l'articolato sistema dei principi fondamentali impone di non concedere ad alcuno dei consociati la titolarità di un diritto non spettante neppure allo Stato>>18. In ogni caso, si rinvengono indicazioni anche nel senso dell'indisponibilità della vita ad opera del singolo, basti pensare che è proprio la persona ad essere presupposto e condizione per l'esistenza e la continuità dell'ordinamento, il cui fine principale, infatti, è di garantire la sopravvivenza dei consociati; nonché gli obblighi solidaristici delineati dall'art. 2 Cost., cui il singolo non potrebbe ottemperare se disponesse in modo estremo della propria vita. È interesse della collettività, dunque, che

16 I. NICOTRA, “Vita” e sistema dei valori nella Costituzione, Giuffrè, Milano 1997, 31 ss. 17 I. NICOTRA, op.cit., 46

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ciascuno viva19. A supporto di tale conclusione, viene invocato il diritto penale, il quale è evidente tutela incondizionatamente la vita, anche contro la volontà del titolare.

L'indicazione è quindi univoca: nessuno spazio è riservato all'autonomia del singolo quando si tratti della sua vita. In ogni caso sarà sempre quest'ultima a dover prevalere, anche nel caso in cui si prospettassero motivi di pietà o solidarietà umana20.

Tale interpretazione si presta a critiche su almeno duplice piano. In primo luogo, sembra che la vita venga assunta come sinonimo di un mero “esistere”, un esistere “degnamente” secondo una prospettiva intrisa di ideologia sacrale e colta nel suo unico valore sociale. Quasi a negare che la vita si caratterizzi piuttosto per il fatto di comporsi di vicende uniche ed individuali, capaci di dar luce a situazioni di estrema sofferenza, dove il dolore può essere compreso in tutta la sua drammaticità solo da chi lo vive, fino al punto di spingerlo ad avanzare istanze che vanno oltre al comune senso di dignità e di appartenenza sociale. È lo stesso principio personalista che impone di guardare la persona prima come individuo “in quanto tale” e poi come membro della collettività, nei cui confronti ha sì doveri, ma dalla quale deve anche ricevere solidarietà. In secondo luogo, come già accennavo, l'accoglimento di un'unica concezione della vita sembra cozzare con il principio pluralista. In breve, addurre a priori e in assoluto l'indisponibilità del bene vita, significa collocarsi nell'ottica di una concezione etica ed autoritaria dello Stato21, dove l'individuo è funzionalizzato al volere e alle visioni del

19 F. GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematica, in Riv. it. proc.

pen., 1997, vol. I, 115, non ritiene si possa a priori ed incondizionatamente subordinare la libertà del

singolo all'interesse della collettività. Afferma infatti che <<per risultare legittima, ogni scelta di delimitazione dei diritti dell'uomo>> sui beni dell'integrità fisica e della vita <<deve farsi carico di dimostrare piuttosto le ragioni per le quali le singole istanze collettivistiche vanno ritenute prevalenti>>.

20 I. NICOTRA, op.cit., 143. Così anche F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita,

cit.,71, il quale sostiene l'intangibilità della vita umana <<come valore in sé dal suo primo palpito al suo momento terminale>> e mai suscettibile di bilanciamento. Nega così la liceità di atti quali la pena di morte, l'aborto e l'eutanasia in ogni sua forma.

21 L. STORTONI, Riflessioni in tema di eutanasia, in S. Canestrari, G. Cimbalo, G. Pappalardo (a cura

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mondo di poteri “superiori”. Non solo, ma come alcuni hanno correttamente osservato <<costringere a vivere uno che voglia morire è tanto riprovevole quanto condannare a morte chi invece voglia vivere>>22.

Per quanto concerne, in particolare, le libertà, si è notato come la dottrina tradizionale assuma una lettura oggettiva di esse23. Più precisamente, le libertà sono concepite come limiti alle condotte dei terzi, i quali non possono attivarsi in modo da impedire al titolare del diritto di esercitarlo. Le pretese dei singoli, però, sarebbero di per sé fonte di disordini se non venissero limitate: solo così può essere garantito il perseguimento di quella “giustizia comune” altrimenti irrealizzabile. In quest'ottica, dunque, i diritti appaiono prima di tutto come doveri o, meglio, doveri da cui discendono diritti, e per questo non rinunciabili.

La dottrina costituzionalista è solita distinguere due piani delle libertà: un aspetto negativo (“libertà da”) che configura limiti a capo di terzi, i quali non possono ostacolare l'esercizio del diritto ad opera del titolare; e un aspetto positivo (“libertà di”), che disciplina le modalità di esercizio del diritto ad opera del titolare di esso, delineandone eventualmente l'ambito esplicativo.

Ebbene, quanto all'aspetto positivo della libertà di autodeterminazione, l'art. 13 Cost. non contempla esplicite limitazioni all'esercizio della stessa. Analogamente accade per il diritto alla salute: mentre il secondo comma dell'art. 32 prevede espressamente limiti concernenti l'aspetto negativo del diritto alla salute (ovvero il <<rispetto della

intervenire contro la volontà dell'individuo negandogli la disponibilità del bene vita>> sembrerebbe al contrario ispirarsi <<alla stessa ideologia che legittima l'eutanasia eugenetica>>.

22 V. PUGLIESE, op. cit., 26. Al contrario, I. NICOTRA, op.cit., 44, secondo cui il dettato costituzionale

nel suo insieme <<impone di non concedere ad alcuno dei consociati un diritto che non spetta neppure allo Stato>>.

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persona>>), manca invece un'espressa limitazione quanto ai limiti dell'aspetto positivo. La posizione dottrinale sopra citata, dunque, ha operato nel senso di estendere il limite del <<rispetto della persona>> anche all'aspetto positivo del diritto alla salute. Così, a fronte di un conflitto tra libertà di autodeterminazione e salute, è sempre la prima a dover soccombere. La libertà del singolo, infatti, non può mai spingersi fino al punto di violare la dignità umana. Se si ammettesse il contrario, sostengono, verrebbe adottata una prospettiva individualizzante estranea alla nostra Carta, dalla quale emerge invece il grande rilievo dato alla persona. D'altronde, è lo stesso diritto alla salute, configurato altresì in termini di “interesse della collettività”, a suggerire la doverosità nel mantenerla, in tutta coerenza con i doveri solidaristici di cui all'art. 224.

Solo in ipotesi circoscritte, ai sensi del secondo comma dell'art. 32 Cost., la salute può soccombere a fronte dell'autodeterminazione del soggetto, cioè quando sia necessario per tutelare la propria dignità, ovvero in virtù del perseguimento di scopi socialmente utili. In altri termini, viene rigettata l'opinione di quanti hanno invece letto nel riconoscimento del diritto al rifiuto delle cure un indice della possibilità di disporre della propria vita25. Al contrario, il secondo comma dell'art. 32 pone un'eccezione alla

regola, consentendo al singolo di disporre della propria integrità fisica e della vita solo a fronte di ingerenze volte ad imporgli trattamenti e cure non vantaggiosi né per la sua salute, né per l'interesse della collettività.

24 <<Il diritto alla salute non è solo un diritto soggettivo, ma anche un interesse della collettività>>, A.

BARBERA, op. cit., 2. In termini analoghi anche I. NICOTRA, op. cit., 44 ss. In senso contrario, invece, V. PUGLIESE, op. cit., 32: <<Al riconoscimento del diritto alla salute non è correlato il dovere alla salute, in quanto sussiste una libertà di salute come libertà individualistica e non funzionale […] garantito al singolo a prescindere dai vantaggi e dagli svantaggi derivabili allo Stato>>.

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5.2. Indisponibilità ed incoercibilità della vita

La maggior parte della dottrina si attesta in altra posizione, ricostruendo l' “inviolabilità” della vita come attributo che si rivolge ai terzi, dunque tutelata a fronte di eteroaggressioni, e non del tutto indisponibile per il titolare né, meno ancora, coercibile26.

Ciò sulla base di un'interpretazione ragionata degli artt. 13 - 32 secondo comma Cost., da cui emerge come l'autodeterminazione del singolo sia idonea non solo a prevalere sul diritto alla salute, nel caso di rifiuto alle cure, ma anche sulla vita, nel caso in cui si tratti di terapie salvavita. In questo senso, i terzi che intervenissero per impedire che il singolo si “lasci morire”, lungi dall'essere legittimati in virtù di obblighi solidaristici, agirebbero invece in netta violazione di un principio costituzionalmente sancito. La libera autodeterminazione del singolo può essere limitata solo nel caso in cui si tratti di trattamenti sanitari obbligatori, i quali devono essere previsti da apposita legge e, in ogni caso, con la garanzia del “rispetto della persona”.

Viene dunque data una lettura diversa dei doveri solidaristici di cui all'art. 2 Cost. e all' “interesse della collettività” richiamato dall'art. 32. Infatti, il diritto al salute diventa un dovere solo nel caso in cui si tratti di patologie tali da porre a repentaglio la salute dell'intera collettività. Analogamente può dirsi con riguardo alla libertà personale, la quale si estende in tutta la sua ampiezza, fintantoché non arrechi danno agli altri27. E questa, si sottolinea, non è di certo la situazione che si realizza allorché l'individuo decida di disporre della sua vita. Anzi, secondo alcuni, la libera autodeterminazione della persona comprende altresì il diritto a giudicare il valore della propria vita e, di

26 Così A. SANTOSUOSSO, op.cit., 28 ss.; V. PUGLIESE, op. cit., 23 ss.; R. ROMBOLI, op. cit., 239 ss. 27 F. GIUNTA, op. cit., 116.

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conseguenza, di decidere il quando della propria morte, in difesa della propria dignità umana28.

Tuttavia, allorché si tratti di bilanciare la libertà di autodeterminazione e il diritto alla salute e alla vita, si deve distinguere: da un lato, i casi in cui gli effetti della libera scelta ricadono esclusivamente nella sfera oggettiva del singolo (morire e lasciarsi morire); dall'altro, i casi in cui vengono coinvolti i terzi (aiuto a morire). Nella prima ipotesi, sarà sempre la prima a dover prevalere, in senso contrario deve concludersi invece nella seconda. Infatti, lo Stato non può mai autorizzare terzi a compiere atti lesivi dell'integrità e della vita di altri, neppure con il consenso di quest'ultimi; il bilanciamento tra i due valori in gioco non può prescindere dalla considerazione delle finalità alla base dell'atto di disposizione, e da un loro raffronto rispetto alle finalità perseguite dallo Stato29.

Rispetto al precedente filone interpretativo, tale ricostruzione appare maggiormente coerente con l'impianto deducibile dal dettato costituzionale e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Non si riscontra, infatti, una valorizzazione assiologica del principio personalista, quanto piuttosto una valorizzazione di esso in una prospettiva di apertura a scelte legislative che concedano alla “persona concreta” spazi di manovra più adeguati alle esigenze del caso. In questa direzione, dunque, sembra potersi intravedere un'apertura quanto alla possibilità di ammettere la prevalenza dell'autodeterminazione del singolo che, nella fase terminale della malattia, ovvero affetto da patologie che gli impongano atroci sofferenze, chieda in un contesto medico, di essere coadiuvato nella scelta di anticipare cronologicamente la propria morte.

28 V. PUGLIESE, op.cit., 26

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Tornando agli atti di disposizione che l'individuo ponga in essere manu propria (i quali richiamano la problematica dell'inquadramento giuridico del suicidio in generale, e in relazione ai malati in gravi situazioni di sofferenza, in particolare) dobbiamo evidenziare una particolare posizione dottrinale. Da un lato, abbiamo visto, si sostiene la prevalenza dell'autodeterminazione del singolo, anche in caso di atti di “estrema” disposizione di sé; il suicidio si configurerebbe quindi come libertà di fatto, un comportamento non approvato dallo Stato, ma non eliminabile ad opera di quest'ultimo. Da altro lato, invece, si sostiene che nell'ordinamento sia configurabile un vero e proprio diritto a morire (ovvero, diritto al suicidio). Si tratterebbe del “risvolto negativo” del diritto alla vita, per questo riconducibile all'art. 2 Cost30. Il suo

riconoscimento non si porrebbe in antitesi rispetto al diritto alla vita, in quanto quest'ultima viene tutelata solo nei confronti di eteroaggressioni. Tant'è che il codice penale non punisce gli atti autolesionisti, nemmeno nel caso in cui essi superino i limiti di cui all'art. 5 c.c.; quest'ultimi rilevano infatti come limiti al consenso di cui all'art. 50 c.p. che riguarda etero aggressioni31.

30 A questa asserzione si oppone A. BARBERA, op. cit., 3-4, il quale richiama il caso di Diane Pretty

affrontato dalla Corte Europea dei diritti il 29 aprile 2002. La donna aveva fatto appello alla Corte EDU in quanto si era vista negare dalle Corti inglesi il diritto ad autorizzare il marito ad aiutarla nel suo proposito suicida, stante la malattia di cui era affetta, che non le consentiva di agire personalmente. La Corte Europea, rigettando la richiesta della ricorrente, ha stabilito che l'art. 2 CEDU, il quale sancisce il diritto alla vita, non comporta specularmente il suo risvolto negativo. R. BIFULCO, Esiste un diritto al

suicidio assistito nella CEDU?, in Quad. cost. 2003, 166, ha però fatto notare come in realtà la Corte di

Strasburgo non abbia delegittimato le normative statali che ammettono l'aiuto al suicidio, sembrando piuttosto che essa apra <<per la prima volta, anche se non in maniera decisa, la porta all'affermazione di un diritto all'autodeterminazione come fondamento di un diritto al suicidio assistito>>,

31 L’art. 50 c.p. anche se non disciplina espressamente le autoaggressioni lesive dell’integrità fisica,

esprime implicitamente il principio della liceità penale degli atti di disposizione sul proprio corpo, se realizzati direttamente manu propria dal titolare del diritto. Infatti, dall’interpretazione del consenso dell’avente diritto si desume la piena liceità, almeno fattuale, di atti autolesionisti che non si riverberano nella sfera di terzi. Dunque il contenuto della norma è duplice: da un lato, implicitamente, sancisce la libertà di disporre dei propri beni personali; dall’altro, riconosce al titolare del diritto la possibilità ridisporne tramite altri, acconsentendo alla lesione e rinunciando alla tutela che l’ordinamento gli appresta.

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Alla stregua di ciò, non solo dovrebbe ritenersi lecito il suicidio, ma anche il comportamento di chi aiuti la persona nel proposito suicida, in quanto si tratterebbe di una “condotta di agevolazione di un atto lecito”32. La stessa cosa non potrebbe invece

dirsi per l'eutanasia attiva, dal momento che, in tal caso, la morte viene cagionata direttamente dal terzo, pur col consenso dell'interessato. Nonostante naturalisticamente la conseguenza sia la medesima, se venisse accordata la medesima disciplina, si finirebbe per equiparare due fattispecie profondamente diverse sul piano giuridico. Dunque, si deve distinguere tra suicidio assistito ed eutanasia attiva, ancorché alcuni ritengano al contrario si tratti di mera “lealtà semantica”, in quanto al contrario esse coinciderebbero33.

Due sono le osservazioni che possono essere avanzate al riguardo. In primo luogo, stante l'esistenza di un diritto al suicidio, non si vede come non possa altresì configurarsi un diritto ad essere uccisi, nel caso in cui il soggetto non sia in grado di porre fine autonomamente alla propria vita (a causa di patologie fisiche che glielo impediscano). Si configurerebbe, infatti, violazione del principio di eguaglianza: a parità di sofferenze e nella terminalità della malattia, il soggetto fisicamente autonomo si vedrebbe riconoscere un diritto che l'infermo non avrebbe. In secondo luogo, in quanto rientrante tra i diritti inviolabili, il suicidio si configurerebbe quale libertà da riconoscere a chiunque, e non solo a chi si trovi in situazione di sofferenza, in una prospettiva ai limiti dell'individualismo, estranea alla nostra Carta.

Quanto alle maggiori critiche opposte dalla dottrina, si fa notare anzitutto come il riconoscimento del diritto in questione comporterebbe conseguenze abnormi34: lo Stato dovrebbe predisporre gli strumenti utili al compimento del proposito suicida, quanto ai

32 L. STORTONI, op. cit., 90. 33 S. AGOSTA, op. cit., 42.

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terzi che intervenissero ad impedire il gesto, essi sarebbero suscettibili di incriminazione per violenza privata.

Il codice penale non qualifica espressamente il suicidio come reato, ma ciò non significa di per ciò solo che sia lecito e, ancor meno, che ci si trovi di fronte ad una libertà costituzionalmente garantita. Il suicidio non è né lecito né illecito, ma “giuridicamente tollerato”35: ciò non è tuttavia sufficiente per affermare che la

Costituzione ammetta vengano scalfiti i valori su cui essa stessa si fonda. Il suicidio non è sanzionato per motivi di opportunità politico-criminale, ma costituisce pur sempre un disvalore giuridico. Ne è prova l'art. 580 c.p. Il quale punisce sia l'istigazione che l'aiuto al suicidio, l'art. 2 Cost. Che richiama i doveri solidaristici, nonché le disposizioni costituzionali nel loro compresso, che sono volte a prevenire situazioni che potrebbero indurre a compiere gesti simili36.

5.3.

Libertà di vivere e di morire

Un terzo filone interpretativo, più “innovativo”, propone una lettura dinamica dei diritti soggettivi, considerando le libertà come facoltà di scelta del soggetto, non solo in direzione dell'agire, ma anche dell'omettere, tra momento positivo e negativo. In tal modo, il contenuto delle libertà viene di molto ampliato. Così, ad esempio, la libertà personale comprenderebbe anche il diritto a disporre negativamente del proprio corpo, o a non disporne affatto. Quanto alle posizioni soggettive negative, esse vengono considerate quali manifestazioni negative del diritto di libertà. Dunque, dalla configurazione della libertà personale è già desumibile anche la disponibilità in senso

35 F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit.,, 71.

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autodistruttivo del proprio corpo. Quanto alla salute, il non curarsi e il rifiuto delle cure troverebbero già sede nel relativo diritto, senza che si riveli necessario il riferimento alla specificazione di cui al secondo comma dell'art. 32 Cost. La libertà e la salute individuale, sarebbero limitate solo nel caso in cui compromettessero interessi collettivi. Verrebbero così evitate quelle conseguenze inaccettabili sopra accennate, che si configurerebbero rinvenendo nel diritto a morire una situazione giuridica autonoma ed indipendente. Infatti, è lo stesso diritto alla vita che comprende, strutturalmente, anche il suo aspetto negativo, quale la libertà di morire, specularmente a quanto dispone il secondo comma dell'art. 32 con riguardo alla salute. <<Così come la vita è un diritto di libertà, altrettanto la morte, che è una parte di essa>>37.

In altri termini, poiché la vita è un diritto di libertà, si ritiene che esso non possa tramutarsi in un obbligo di vivere, tant'è che non risulta alcuna sanzione a capo di chi non ottemperi al dovere di vivere, neppure nel caso in cui si sia tentato di morire. Alla luce di una Costituzione, quale la nostra, che dà assoluta preminenza alla persona, la morte e il morire devono essere visti come un aspetto della manifestazione della propria personalità.

In particolare, con riguardo all'eutanasia attiva, essa viene giustificata in una prospettiva solidaristica, come richiesta di liberazione dal dolore per il quale la scienza medica non può fornire rimedio o sollievo, ma anche come tutela del diritto a porre fine ad un'esistenza che non corrisponda più alla propria tavola valoriale38.

La dignità si riempie di nuovi contenuti, denotando un patrimonio personale e unico di ciascun individuo. Difficilmente definibile sul piano giuridico, il suo significato viene

37 M.B. MAGRO, op.cit., 59.

38 Secondo D. NERI, op. cit., 118-119, ogni individuo <<se valuta che in certe condizioni ciò rappresenti

il suo bene, dovrebbe avere la facoltà di rinunciare a vivere; e se, a questo scopo, ha per varie ragioni bisogno dell'aiuto di altri, questo aiuto dovrebbe essere concesso>>.

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rimesso alle determinazioni del singolo. Se da un lato tale prospettiva è da condividersi, dando essa adito alle istanze di libertà intrinseche nella natura umana, venendo empaticamente incontro, per quel che interessa il tema dell'eutanasia, alle istanze di chi versa in situazioni di estrema sofferenza, da altro punto di vista rischia di cadere in un eccessivo individualismo. Infatti, lascia impregiudicate le conseguenze di simili asserzioni, le quali, se è vero che sono rispondenti alle esigenze di chi davvero necessita di un aiuto a morire per porre fine ad un'esistenza non “umana”, è anche vero che finiscono per andare incontro a richieste di morte avanzate non in virtù di situazioni di eccezionale gravità, ma da mere spinte ideologiche, di convenienza, condizionate da terzi o da circostanze particolari, che non possono trovare ingresso in base al dettato costituzionale.

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