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Metel’ di Vladimir Sorokin 74

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CAPITOLO III

Metel’di Vladimir Sorokin

1.1 GENESI

In un intervista al giornale americano The Guardian1 Vladimir Sorokin alla

domanda del reporter su quale delle sue opere consiglierebbe ad un lettore che per la prima volta si approccia al suo lavoro, risponde che la più adeguata sarebbe Metel’(Astrel’, Moskva 2010). In quest’opera, infatti, i taglienti procedimenti postmodernisti sono sfocati ed attenuati proprio per scelta dell’autore, che ha voluto finalmente creare un oggetto letterario a tutti gli effetti, una classica povest’ russa. Che l’autore si sia posto un compito eccessivamente utopico o postmodernista è irrilevante, in quanto più importante è stato il suo desiderio di mettersi alla prova con questa grande forma russa a lui fin’ora estranea, ma che rappresentava allo stesso tempo un desiderio da molto tempo presente nei suoi pensieri. Già dalla stesura di alcuni dei racconti di Norma e Winterreise pensava a questa povest’ sul viaggio degli uomini russi durante l’inverno, viaggi che in molti casi si concludono con tristi esiti e con una diffusa mancanza di speranza. Ad una radio moscovita, l’Eco di Mosca, confessa che « tra le mie opere non c’è ancora una semplice povest’; io amo molto l’inverno, mi affascina. Quando la neve cade e copre la terra russa, nascondendo tutta la vergogna e il grottesco, qualcosa succede, per così dire. Per me è molto importante la neve, per il senso della vita, e d’inverno mi viene voglia di scrivere. C’è ancora un altro fondamentale personaggio della vita invernale russa: la tormenta di neve che [in lingua russa]ha vari nomi e denominazioni»2.

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http://www.theguardian.com/books/2013/may/15/man-booker-international-prize-shortlist-interviews

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Stando alle parole dell’autore, pare cha abbia scritto Metel’ nel periodo invernale e che l’inverno stesso l’abbia ispirato ed aiutato nella stesura di questa epopea invernale.

La tempesta diventa un personaggio con carattere assoluto, il protagonista assoluto, è soggetto e oggetto allo stesso tempo. La tempesta crea lo scenario su cui si svolge l’azione, partecipa attivamente e condiziona le azioni dei personaggi, «è l’eroe e il paesaggio, il carattere e la scena» [ Kočetkova 2010:1], è l’elemento che determina la vita o la morte delle persone, sancisce il loro destino. Sorokin non ha scritto quest’opera per il sistema politico ma proprio in onore di questa forza naturale da cui il popolo russo ha sempre dipeso e sempre dipenderà, questa forza immutabile ed estemporanea che altro non è la geografia russa di questi interminabili e vastissimi campi innevati, spazi in maggior parte disabitati in cui le persone si smarriscono, che rendono l’ambiente tutto uguale, ovattato, in cui non si distingue nulla se non saltuari contorni di abitazioni o spogli boschi. Ciò crea una situazione di estemporaneità perché la campagna russa è sempre rimasta uguale, e come sostiene Sorokin, proprio perché lo sfondo non cambia mai, si potrebbero rappresentare fatti inerenti al XVIII secolo o al XIX così come al XX o XXI secolo, senza che si possa effettivamente dedurre dal contesto naturalistico di che periodo si tratti. « Se ora una persona si siede in macchina o su un treno locale e si allontana 50 km da Mosca ed esce, vedrà recinzioni, bazar, persone vestite incomprensibilmente secondo tendenze di moda irriconoscibili. Perderà quindi il senso del tempo. E ciò mi affascina profondamente. Adoro le lacune temporali e le stazioni ferroviarie dove non è mai chiaro cosa succede. E questa provincia russa in questo modo arricchisce la letteratura. Ci si può sentire scrittori del XIX secolo vedendo questi personaggi, queste vecchiette. Qui si perde il senso del presente.» [Eco Moskvy]

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76 Metel’ continua la linea di Goluboe salo, Den’ opričnika e di Sacharnyj Kreml’: la sua azione si svolge in una fantasmagorica scenografia di una

Russia del futuro. Il sottotesto politico-civile cede il posto ad uno filosofico-esistenzialistico, per mantenere il nucleo tematico della « metafisica della vita russa e dello spazio russo, la non distinzione tra passato e futuro, la mancanza di comodità nella vita russa, la poca considerazione dell’uomo e la sua confusione in questi spazi immensi e minacciosi. » [Kočetkova 2010: 7]

Sorokin vuole quindi nella sua povest’ trattare la metafisica russa della vita provinciale e della vita russa in generale.

Una delle curiosità legata all’ispirazione per la stesura di Metel’ è stato un racconto del defunto nonno di Sorokin: durante un’escursione invernale nel vicino villaggio, il nonno e amici si ritrovarono sulle loro slitte immersi in una tormenta di neve; durante la notte avevano smarrito la strada, nonostante l’impressione di aver percorso un percorso dritto. I viaggiatori per tutta la notte tagliarono e spaccarono il legno delle slitte per mantenere acceso un piccolo fuoco, così fino al mattino quando poi la bufera si era calmata e poterono ripartire.

Questa è la metafisica della vita russa che intende l’autore: condizioni scadenti della vita ma anche delle strade russe dissestate, di cui nessuno si preoccupa, nessuno tenta di trovare una soluzione per renderle percorribili, ma soprattutto visibili anche nelle peggiori condizioni atmosferiche, storie di viaggiatori congelati e di immancabili guasti che portano a soste forzate e soprattutto rischiose.

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La povest’ si apre in medias res con l’arrivo del dottor Platon Il’ič Garin in una stazione di posta, dove con assillante insistenza cerca di ottenere dal capostazione dei cavalli da sostituire ai suoi, ormai troppo stanchi dal viaggio. La necessità è impellente perché il personaggio ci comunica che ha una missione di vitale importanza, raggiungere il villaggio di Dolgoe dove imperversa una grave epidemia. Alla stazione di posta, però, non è disponibile nessun cavallo. Su suggerimento della moglie del capostazione, viene proposto il chlebovoz3 Perchuša.

I due futuri compagni di viaggio si accordano per una partenza immediata al prezzo di cinque rubli. Perchuša mostra al dottore il suo

samokat4 e i suoi adorati cavallini, della dimensione di non più di una

pernice.

L’avventura inizia: il percorso da coprire è di 17 verste ( il capostazione aveva fornito al dottore un numero inferiore, 15)e dopo un breve calcolo, il dottore stima la durata del viaggio di circa un’ora e mezza, stima basata sulla normale velocità invernale di 12 verste l’ora.

Le sue aspettative saranno ampiamente insoddisfatte. Il viaggio procede a fatica a causa di una tormenta di neve. Improvvisamente il

samokat finisce sopra ad un oggetto a forma di piramide che si incastra

e rompe un pattino della loro ‘vettura’. Prontamente il dottore provvede ad una soluzione: dalle sue sacche da viaggio estrae delle bende elastiche, in modo da fasciare al meglio il pattino, dopo averlo intriso con un unguento chiamato ‘Višnevskij’, riparazione che gli permette di procedere di ancora tre verste dopodiché il samokat si ferma definitivamente. Ormai è quasi notte e Perchuša suggerisce di fermarsi in un luogo vicino per poter così aggiustare il pattino al riparo dal forte vento, sebbene avesse avuto in precedenza dei problemi col padrone

3 Con questo termine si intende colui che porta il pane nei vari villaggi.

4 Letteralmente monopattino. Qui si intende un mezzo di trasporto costituito da un

grande cassone di compensato il cui interno è diviso in cinque file da dieci posti per i cinquanta cavallini. Il samokat poggia su dei pattini in teoria molto simili a quelli della slitta.

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di casa. Passano quindi la notte a casa del nano-mugnaio e della sua formosa e accattivante moglie, la mugnaia.

Il dottore viene accolto benevolmente mentre la vista di Perchuša scatena l’ira del mugnaio, il cui carattere iracondo viene tenuto a bada dalla mano ferma della moglie. Perchuša si ritira ad aggiustare il pattino mentre il dottore si rifocilla. Mangiano e bevono fino a che il mugnaio si addormenta ormai ubriaco, Perchuša si ritira a dormire sulla stufa e al dottore viene riservata una stanza al piano superiore, dove viene raggiunto dalla mugnaia con cui consuma vari rapporti sessuali. La mattina i due viaggiatori riprendono la strada con il pattino aggiustato: mancano ancora 9 verste. La tormenta imperversa e la neve copre del tutto la strada; Perchuša e poi anche il dottore sono costretti a scendere dal samokat e a cercare a tentoni coi piedi la strada. Ad un certo punto, pensando di esser giunto a Posad, il vetturino Perchuša guida il

samokat vicino ad un cimitero, rendendosi conto che effettivamente

non sa dove siano finiti. In lontananza scorgono una tendone su cui brillano due occhi vivi e ammiccanti, che entrambi i viaggiatori riconoscono al primo sguardo. È la tenda dei ‘Vitaminder’, un gruppo di kazaki con nomi strani : Drema, Baju Baj, Skažem, Zaden’ (questi ultimi «avevano un viso europeo, Baju Baj aveva una vivace espressione asiatica» [Sorokin 2010: 147]).

Nel presentarsi come dottore, Garin viene subito accolto perché uno di loro ha urgente bisogno di soccorso: Drema è stato picchiato fino quasi alla morte dai suoi compagni per aver perduto degli oggetti preziosi lungo la strada. Ora i suoi amici sono preoccupati e in cambio dell’aiuto, i Vitaminder propongono al dottore una prova gratuita del loro nuovo prodotto, prova che viene accettata di buon grado, dato che Platon Il’ič aveva già fatto uso di sostanze narcotiche di provenienza dei

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Il dottore visita l’uomo che risulta inaspettatamente essere vivo e gli viene diagnosticata una commozione cerebrale a cui provvede con la somministrazione di pastiglie di Metal’gin-Plus.Il nuovo prodotto proposto al dottore è una piramide, la stessa che aveva provocato la rottura del pattino lungo la strada. La piramide produce nel dottor Garin visioni terribili: lui si ritrova in una Varsavia medievale, dove sta per essere giustiziato nella piazza centrale, all’interno di un grande calderone pieno di olio che inizia a scaldarsi sempre di più. Al risveglio il dottore è in preda alle convulsioni che si trasformano gradualmente in eccessi isterici di riso. Estasiato dagli effetti del nuovo prodotto, decide di comprare due piramidi con i restanti soldi. Riprendono la strada e il buon umore del dottore influenza anche Perchuša, nonostante la tempesta non accenni a calmarsi. Mancano solo 4 verste all’obbiettivo.

Il dottore e il vetturino discutono del bene e del male, si inerpicano su discorsi filosofici-esistenziali e nel frattempo la strada continua ad essere coperta e loro continuano a cercarla. La tempesta poi si calma e sembra il momento propizio per procedere quando improvvisamente tra i cespugli in lontananza appaiono degli occhi che brillano nella notte e i cavallini, avendo fiutato l’odore dei lupi, arrestano la loro corsa terribilmente impauriti. Perchuša è a conoscenza di questo loro timore e cerca di spiegare al dottore che stanno aspettando che i lupi si allontanino: per velocizzare il processo, il dottore tira fuori dalle sue borse da viaggio un revolver e spara in direzione dei lupi che scappano.

I cavallini però non si muovono, iniziando a far scemare il buon umore e l’eccitazione del dottore, provocando un’animata discussione che si conclude con un bel pugno assestato sulla faccia di Perchuša.

Per fare pace e combattere il freddo in attesa della partenza, si dividono il restante alcool che il dottore conservava nelle sue borse per ogni eventualità. Finalmente i cavallini ripartono a tutta velocità e sempre a tutta velocità viene preso dal samokat un cumulo di neve che

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invece si rivela essere la narice di un gigante che è morto ed è rimasto congelato lungo la strada.

Provano a liberare il pattina dalla narice, colpendola e tagliandola con un’ascia, ma in questo tentativo il pattino si rompe di nuovo.

Perchuša tenta di riaggiustarlo creando un nuovo pattino da un abete, però i chiodini per poterlo fissare al samokat non sono sufficienti. Ricomincia a nevicare e il dottore definitivamente perde le staffe e, maledicendo Perchuša, decide di raggiungere a piedi il villaggio più vicino, abbandonando Perchuša e il samokat lungo la strada.

Dopo poco si rende conto di girare in tondo fino a che non incappa in un pupazzo di neve alto due piani con un gigante fallo di neve. Spaventato chiama a gran voce aiuto, chiama Perchuša, corre e si inciampa continuamente fino a che in lontananza scorge qualcosa di simile al samokat. Quando si fa più vicino nota che sul samokat non c’è nessuno, pensa di esser stato abbandonato e si appoggia desolato alle pareti di compensato….. quando improvvisamente sente dei nitriti dall’interno del kapor (il cassone di compensato), alza la stuoia che lo copre e scopre che Perchuša si è rifugiato al suo interno. Il grosso e maldestro dottore si infila all’interno del kapor ma con la sua goffaggine crepa un lato del cassone che qualche estate prima Perchuša aveva riparato alla bell’e meglio. Trascorre la notte e all’alba la stuoia viene alzata e compaiono due visi di cinesi che tirano fuori i due uomini: Perchuša durante la notte è morto congelato, il dottore invece ha perso la sensibilità delle gambe. Nella scena finale campeggia l’immagine di un treno-slitta cinese trainato da un cavallo gigante, alto quanto una casa di tre piani: Perchuša viene abbandonato nel suo samokat, i suoi cavallini vengono messi in un sacco e portati via dai cinesi così come il nostro dottore, il cui futuro non fa presagire nulla di buono.

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Nell’ipnotica, affascinante e riccamente descrittiva opera Metel’, Sorokin drammatizza una situazione metafisica senza tempo, in cui i personaggi, in questo mondo post-apocalittico, sono costantemente in movimento ma al tempo stesso sono fermi, immobili, incastrati in questa Russia ghiacciata, combattendo giorno e notte contro la bufera di neve, contro la natura non da loro tregua. Allo stesso tempo, però, la tormenta permette loro di fare incontri straordinari, avventure pericolose, fantasie di tortura e vicende amorose. Approfondiamo le figure dei personaggi principali con l’aiuto di frammenti del testo. Il dottor Garin, Perchuša, la Piramide e la Tormenta.

1.3.1 Il medico del distretto Platon Il’ič Garin è un robusto uomo di 42 anni, alto con un viso stretto, allungato e dal grande naso, rasato fino a diventare livido e sempre con un’espressione di concentrata insoddisfazione.

« Voi tutti mi impedite di fare l’unica cosa che è molto importante e possibile per me, [la cosa] a cui sono stato predestinato dal destino, [la cosa] che posso fare meglio di tutti voi e nella quale ho speso gran parte della mia consapevole vita» [Sorokin 2010: 11] Il medico, fin dalle prime pagine, si sente frenato e bloccato nella

sua missione dal mondo circostante, in questo caso è la mancanza di cavalli a causare il primo ostacolo del suo percorso. Come spesso vedremo, ad ogni ostacolo corrisponde una subita soluzione, che arriva nella figura del vetturino Perchuša.

La missione del dottore consiste nel raggiungere ad ogni costo e al più presto il villaggio di Dolgoe, dove infuria una misteriosa epidemia, la Černucha, di provenienza boliviana. Questa epidemia minaccia di diffondersi in tutta la Russia e trasforma le persone in zombie. Il dottore nelle sue borse da viaggio trasporta il

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vaccino n° 2 che è in grado di completare la cura per la prevenzione della diffusione di questa terribile malattia. Il vaccino n°1 era già stato portato dal dottore collega di Garin, il dottor Zil’berštejn, con il quale si deve trovare a Dolgoe per poter procedere alla somministrazione del vaccino.

In quest’opera il dottor Garin rappresenta il tipico intellettuale illuminato e liberale del XIX secolo che sogna di servire bene la patria e che crede nel dovere prima di tutto: fedele al suo dovere di medico, porta avanti la sua missione incurante di ciò che sta intorno, è il suo unico scopo. Lungo il percorso, affronta tutte le sfide tipiche per un membro dell’intelligencija: si concede ad una passione fuggevole, diventa amico di un vetturino (quindi fraternizza con una classe sociale inferiore) per poi, in una situazione di tensione, colpirlo in viso con un pugno, cerca la redenzione e la trova in tormenti infernali causati dell’effetto psichedelico della droga dei Vitaminder.

In seguito a questa esperienza ultrasensoriale, il dottor Garin diventa un’altra persona, rinnovato, rinato, illuminato. Le sostanze narcotiche riportano Garin alla vera concezione di quelle che sono le autentiche bellezze della vita. Sotto l’azione della piramide dei Vitaminder cambia la percezione del mondo del dottor Garin che indubbiamente può essere esaminata come ironia dell’autore, orientata verso l’eroe principale.

« Il dottore si sentiva molto bene, era da molto tempo che non stava cosi bene. -Che miracolo la vita!- Pensò lui, guardando la tempesta come se la vedesse per la prima volta.

Il Creatore ci ha regalato tutto questo, ci ha regalato tutto questo disinteressatamente, ci ha regalato tutto questo affinché vivessimo e lui non esige niente da noi per questo cielo, per questi fiocchi di neve, per questo campo! Noi possiamo vivere qui, in questo

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mondo, semplicemente vivere, noi andiamo nel mondo come in una nuova casa costruita per noi e lui ospitalmente spalanca a noi le porte, spalanca questo cielo e questi campi. Questo è un miracolo! Questa è la dimostrazione dell’esistenza di Dio! Lui con godimento aspirò l’aria tempestosa, rallegrandosi del contatto con ogni spruzzo di neve. Lui in tutta la sua pienezza, con tutta la sua essenza, si rese conto della potenza del nuovo prodotto: la piramide» [Sorokin 2010: 187-188]

Questa sua illuminazione ha però un carattere negativo: in primo luogo è passeggera, perché, dopo aver conosciuto l’armonia, la bellezza del mondo e la grandezza del Creatore e dopo aver smaltito l’effetto della piramide, torna ad essere lo stesso uomo scontroso ed irrequieto di prima. In secondo luogo è un’illuminazione fittizia, in quanto avviene sotto l’effetto di narcotici.

L’eroe della povest’ viene descritto da Sorokin con alte maniere, fin già dalla sua immagine: il pince-nez, le due borse da viaggio, il portasigarette, la giaccone di pecora dalle falde lunghe con un alto bavero, un ampio colbacco di volpe e una lunga e bianca sciarpa; ma questa elevatezza del personaggio traspare anche dalle saltuarie frasi o pensieri in lingua tedesca o addirittura nella conoscenza della lingua cinese, capacità che ci viene presentata nel finale.

Nonostante l’inizio eroico, il personaggio pagina dopo pagina subisce una riduzione morale. Passa la notte con la moglie del mugnaio che li ospita, umilia e colpisce il suo accompagnatore, frusta senza pietà i piccoli cavalli. Dopo l’avventura presso i Vitaminder, il nuovo dottor Garin può finalmente suscitare simpatia, la sua presenza non comporta più un clima di ansia e tensione, che invece permeava in ogni discorso nella prima parte.

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Il lettore seguendo le vicende, costantemente spera che i viaggiatori non debbano incappare in altri ostacoli, sente crescere l’irritazione nel dottor Garin e allo stesso tempo prova pena e comprensione per il povero vetturino, capro espiatorio di Garin per tutti gli inconvenienti. Questa sensazione di simpatia dura poco, esattamente quanto dura l’effetto della droga: da quel momento il personaggio precipita verso il tragico finale, e di quella simpatia non c’è più traccia, sostituita da una certa irritazione. Sorokin distrugge il suo eroe che non risulta essere degno neanche della morte depuratrice, non riesce a fare di lui un personaggio positivo a tutto tondo. L’autore però è molto soddisfatto sia del personaggio che ha creato sia del finale: « sono troppo affascinato dalla nostra intelligencija. Se io ne fossi stato deluso, il dottor Garin, con ogni probabilità, sarebbe morto congelato insieme a Perchuša. Invece sopravvive con solo le gambe gelate. Per il moderno intellettuale russo questo è indubbiamente un finale felice.»[Kočetkova 2010]

1.3.2. Il chlebovoz Perchuša è un ometto di circa trent’anni, magro e di bassa statura, con spalle strette e gambe curve. È il tipico esempio di uomo innocente, convinto alla maniera di Candide che questo sia il migliore dei mondi possibili. Perchuša è un uomo libero, libero come un uccello di Dio, e questo suo essere uccellesco è sottolineato dalle descrizioni delle sue caratteristiche fisiche: in aggiunta al sorriso possiede anche una testa a forma di gazza. Grandi mani sproporzionate, indurite dal duro lavoro, un naso affilato che gli conferisce un sorriso ‘uccellesco’5 incorniciato da

una capigliatura rossa, vellutata ma arruffata, come la cespugliosa barbetta. Si presenta abbigliato in modo più umile

5 птичья улыбка è l’epiteto che costantemente appare in relazione al personaggio di

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rispetto al dottor Garin: un golf di lana grigio rozzamente lavorato a maglia, pantaloni ovattati tirati su da una cintura di soldato, quasi al petto e un paio di stivali grigi.

È l’immagine collettiva del popolo russo che soffre ma è impotente : rassegnato al destino, timorato di Dio, silenzioso, un grande lavoratore. Sorokin sceglie, come immagine agli antipodi del dottor Garin, il vetturino Kozma soprannominato Perchuša. Nel racconto Perchuša narra la storia del suo soprannome: da giovane lavorava alla frontiera dove aprivano varchi nel bosco. I lavoratori vivevano tutti insieme in una baracca. Una notte iniziò a tossire senza più riuscire a smettere, tutti dormivano e lui continuava a tossire e da qui in suo soprannome: in russo il verbo tossire è перхать e il passo è breve.

Perchuša è un uomo infinitamente buono, senza pretese, obbediente alla volontà di un altro, conosce il suo lavoro ed è in generale un tuttofare. La sua semplicità si concretizza anche nell’uso del prostorečie: per esempio l’uso delle parole "dochtur", "čavo", "ničavo", "ščas", "podymimsi", "pogod’" sono tipiche di un discorso semplice e carente di formazione. Perchuša è profondo, sensibile, ama i suoi cavallini: si prende cura di loro come se fossero i suoi figli, è disposto a sopportare percosse da un medico arrabbiato, ma non gli permette di offendere i suoi piccoli cavalli. L’amore è corrisposto: al suono della voce di Perchuša i cavallini nitriscono allegramente, capiscono il padrone e il padrone a sua volta capisce loro, li conosce uno ad uno, conosce la loro storia, da dove venivano, i loro genitori, le loro inclinazioni e caratteri. Questi cavallini sono descritti più come animali domestici che come mezzo di trasporto. « [al sentire la voce Perchuša] si impennarono, scalciando con le zampe posteriori, i cavalli sotto le stanghe (nel tiro a tre) e quelli delle steppe brontolarono,

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scrollarono e scossero le teste. Perchuša abbassò verso di loro la sua grande e rozza mano con un pezzo di pane e iniziò a toccare i cavalli. Li sfiorò con le dita, li toccò sulla schiena, accarezzò le criniere, e loro nitrivano, alzando verso l’alto il musetto e senza sforzo mordicchiavano la sua mano con i loro piccoli dentini, urtando le dite con le tiepide narici. Ognuno dei cavalli era non più [grande] di una pernice» [Sorokin 2010: 23-24].

Circa la metà della mandria di 50 cavallini era composta da stalloni bai dal largo petto e i restanti erano divisi tra cavalli di razze diverse: vi erano cavalli bai, sauri, stalloni morelli, ce n’erano di grigi, di rossastri come il padrone, di pomellati e di ramati. Guardando la mandria, il suo viso si illumina e sembra ringiovanire: come un padre coi suoi figli, dopo una lunga e faticosa giornata il solo passare del tempo insieme gli risolleva lo spirito, sia stanco, umiliato o ubriaco. Tra gli studiosi si è molto discusso sulla possibilità di interpretare i cinquanta cavallini come il motore da 50 cavalli delle vetture. L’interpretazione è azzardata e si fonda sul fatto che questi cavallini spostino il samokat dall’interno di un cassone di compensato, quasi fossero dentro al cofano di un’auto. Il forte legame affettivo porta a pensare che Sorokin non abbia creato questa strana mandria in sostituzione del vero motore, quanto piuttosto abbia voluto mostrare una simpatica evoluzione di ciò che prima voleva dire 50 cavalli. Nel momento di bonarietà del dottore, sotto effetto della droga, affrontano un discorso di carattere filosofico ma anche esistenziale al tempo stesso, che

chiarifica la semplicità d’animo di quest’uomo6 :

« - G.: Kozma, dimmi fratello mio, per te cosa è davvero importante nella vita?

- P.:Importante? Non so signore… è importante che tutto sia ok.

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In seguito riporto parti di questo dialogo indicando con G. il dottor Garin e con P. il vetturino Perchuša

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- G.: cosa significa che tutto sia ok?

- P.: che i miei cavalli siano in salute, che ci sia abbastanza pane da comprare.. [..]

- G.: cosa vorresti cambiare nella vita?

- P.: nella mia?Niente. Sono contento della mia vita. - G.:No, in generale nella vita.

- P.: In generale?Che le persone cattive fossero meno.

- G.: Non esistono persone malvagie. L’uomo inizialmente è buono, è stato fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Il male è un errore dell’uomo.» [Sorokin 2010: 191-193]

Il genuino Perchuša è fermamente convinto che il bene sia importante e che se fai del bene questo poi ti ritornerà. Ovviamente non può immaginare che la sua grande opera di bene nell’accompagnare il dottor Garin in questo viaggio non gli porterà del bene, anzi lo condurrà ad una morte patetica e ingiusta se rapportata alla grandezza d’animo di quest’uomo. Il dottor Garin, uomo che crede nel progresso, presto inquadra Perchuša, come ostacolo al suo progresso, uomo statico e di corte vedute: « all’improvviso capì che Perchuša, questo uomo senza scopo e che non aspirava a niente, con la sua lentezza agitata, con la primordiale speranza umana che forse c’è qualcosa che ostacola il cammino del dottore, il suo diretto movimento verso lo scopo ». [Sorokin 2010: 221]

L’evoluzione del rapporto tra il medico e il vetturino è descritto dettagliatamente e abilmente. Conducendo la narrazione in modo calmo e spassionato, Sorokin vuole mostrare al lettore che Perchuša non si è mai scoraggiato, ha trovato ripetute vie d'uscita alle più difficili situazioni: ripara il pattino rotto della slitta sulla strada, protegge i suoi cavalli, accende un fuoco sulla neve ghiacciata per il medico perché stava congelando, lo incoraggia

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e si prende cura di lui. Il medico, al contrario, diventa sempre più impaziente, arrabbiato, lo rimprovera bruscamente e lo colpisce in faccia, accusandolo ogni volta dei guasti e ritardi sulla strada, e anche se è ben lontano dall’essere senza peccato, e in parte, se non del tutto, è colpevole per la miseria di questo viaggio senza fine perché, sebbene mosso dall’alto principio del dovere prima di tutto, sembra talmente distaccato dalla realtà da non rendersi conto che arrivare a Dolgoe in tempo per somministrare il vaccino numero 2 sfidando la tormenta di neve russa è una missione impossibile, o almeno lo è fino a che la tormenta non si sia calmata.

1.3.3. La piramide gioca un ruolo fondamentale nello svolgimento della trama. Il primo guasto al pattino del samokat è causato dall’urto contro una di queste piramidi. Sono rappresentate come trasparenti ma dure come l’acciaio. Suscitano subito l’interesse del dottor Garin, il quale però non collega la piramide alle droghe dei

Vitaminder, sebbene avesse già provato altri loro prodotti come la

sfera e il cubo. L’innovazione probabilmente sta nella trasparenza, è il nuovo prodotto a cui hanno lavorato il gruppo di strani kazaki ,« guardiamo oltre, ci prepariamo alla primavera » [Sorokin 2010: 158]. In viaggio, dopo aver aggiustato il pattino del samokat, Garin pensa a quanto tempo abbiano già perso a causa della piramide e si interroga su questo strano oggetto : « Incredibile, abbiamo avuto la sfortuna di imbatterci in questa strana piramide. A cosa serve? Probabilmente è una semplice decorazione che stava su tavolo. È evidente che non è un dettaglio di una macchina (quindi le macchine passano?) o di un apparecchio. Un convoglio che portava molte di queste piramidi, che era carico di esse, e ne sarà balzata fuori una, per andare poi a finire

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sotto il samokat» [Sorokin 2010: 51]. Effettivamente il dottor Garin aveva quasi colto nel segno: non era un convoglio intero ma soltanto un Vitaminder che trasportava una borsa piena di queste piramidi e che nel tragitto ne aveva persa qualcuna ed è per questo motivo che il Vitaminder sarà curato dal dottor Garin a causa delle ferite e contusioni infertegli dai suoi compagni per aver perso una droga così preziosa. Vorrei soffermarmi sulla scelta della figura geometrica della piramide, è curiosa e significativa al tempo stesso. La piramide è una delle figure geometriche più interessanti e misteriose e il suo uso nel testo non è casuale. Soprattutto è necessario pensare al rimando alle piramidi egiziane, che sono ancora un mistero per l’uomo moderno. Molti studiosi affermano che le piramidi non erano solo un luogo di sepoltura per i governanti ma anche un ambiente di consacrazione. Nell’enciclopedia dei simboli la piramide è un simbolo della gerarchia dell’Universo. In un altro settore la figura della piramide può aiutare a passare da un piano inferiore di molteplicità ad un piano più alto di unità. L’unità è data dalle sue 4 facce che possono essere relazionate ai 4 elementi naturali : acqua aria terra e fuoco e alla cui sommità c’è lo Spirito (Dio). Effettivamente questa piramide ha una potenza inaudita, Garin sotto il suo effetto prova tali sofferenze che dopo la vita risulta molto più leggera. In un’intervista viene chiesto a Sorokin se ha deciso di registrare nel libro il fatto che in realtà lui non sia un drogato « volevo solo sognare sulle droghe del futuro: e perché esse non diventino terribili per il loro effetto del risvegliare nell’uomo il rapporto narcotico con la realtà. Per questo bisogna drogarsi. Probabilmente questo anche aiuta le persone a sopravvivere in qualche modo in questi spazi. Dopo il suo trip, il dottor Garin abbraccia la tormenta, chiarisce il suo amore per lei ed è pronto

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per lei ad andare fino alla fine del mondo.» [Kočetkova 2010] Come ben presto scopre il dottore, l’assunzione della droga avviene con modalità leggermente diverse dai prodotti precedenti: sotto la piramide si accende un becco a gas, non evapora subito come la sfera e il cubo, ma bisogna scaldarla uniformemente almeno per quattro minuti. Al termine di questa attesa, la piramide emana un sottile e sibilante suono per poi evaporare. « Il becco a gas si spense. E in quello stesso secondo, sopra al tavolo, separando i quattro seduti dal restante spazio e dal mondo, si chiuse in un attimo una semisfera trasparente di plastica vivipara, così tanto sottile che solo questo suono di chiusura era simile allo scoppio di una bolla di sapone troppo grande o all’apertura mezza addormentata delle umide labbra di un gigante, che ne producono l’origine». [Sorokin 2010: 163]

In che cosa differisce questa piramide dai vecchi prodotti sopra citati? Il cubo e la sfera regalavano una gioia impossibile e irraggiungibile altrimenti sulla terra, perché rendevano concreti i sogni e i desideri più reconditi e nascosti. Dopo l’uso la vita sulla terra era veramente pesante, grigia, povera ed ordinaria; la piramide invece rivelava la vita terrena ex novo, « dopo la piramide si voleva non semplicemente vivere, ma vivere come se fosse la prima e ultima volta, si vuole cantare l’inno gioioso della vita». [Sorokin 2010: 188-189]

La vasta distesa di neve senza fine, ogni fiocco di neve gli sembrano un miracolo e lo rendono felice di essere vivo. Ma una volta che l’effetto allucinogeno si placa, soffre ancora per il freddo, per l'inaccessibilità del paese, e per l'assurdità della vita russa. Nella felicità impareggiabile che il dottor Garin prova quando si rende conto che la morte agonizzante era solo un sogno, e che in realtà è ancora vivo e vegeto si capisce il motivo

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per cui gli orrori sadici sono utili per il potere, soprattutto quando vengono convertiti dal passato. Il potere antidemocratico utilizza per le proprie esigenze le iniezioni d'orrore sulle persone, ma questa non è solo una vecchia tradizione solo russa, ma ancora più antica, risale persino a Caligola, l’imperatore romano.

1.3.4. Infine c’è il personaggio principale, la tormenta di neve, che muove le fila delle azioni dei personaggi e ne stabilisce il destino. La bufera di neve consuma tutto, ostacola il percorso dei personaggi, trasforma quello che sarebbe dovuto essere un viaggio di poche ore in auto in un viaggio di giorni, un viaggio verso l’eternità. Più i personaggi si muovono nella bufera, l’obbiettivo finale si allontana sempre di più, ogni approssimazione è illusoria. La tempesta, che fin dall’inizio nasconde a Garin la strada, gli apre diversi percorsi, sempre chimerici: anche quando Garin decide di abbandonare Perchuša per raggiungere a piedi il villaggio più vicino, il villaggio rimane lontano, irraggiungibile. La tempesta di neve fa girare a vuoto i personaggi, li confonde, ora mostra loro il cammino ora copre qualsiasi traccia che permetta il proseguimento del percorso, ora si calma e ora con il freddo e gelido vento toglie loro tutte le forze vitali. La presenza della tormenta è ondeggiante, è presente la maggior parte del tempo, salvo rare eccezioni in cui si placa e da tregua ai viaggiatori. All’inizio della storia, quando il dottor Garin sta andando a cercare Perchuša, la tormenta aspetta minacciosa di scatenarsi: «faceva leggermente freddo, era nuvoloso; il vento era debole ma nelle ultime tre ore non si era calmato, come prima portò una fine neve» [Sorokin 2010: 11]; se all’inizio del viaggio la neve cadeva fine, appena prima dell’incidente le neve ha iniziato a scendere a fiocchi e il vento si era fatto più forte. In aiuto ai viaggiatori ci sono

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radi picchetti che corrono lungo la strada e che, sporgendo dalla neve, ne indicano i limiti. Improvvisamente i picchetti finiscono, ma sulla strada si scorge una pista per slitte, su cui è passato qualcuno da non molto tempo: questa notizia incoraggia il dottore. Mentre Perchuša sta aggiustando il pattino rotto poco prima contro la piramide, la tempesta si fa sempre più forte, la neve cade copiosa e vortica intorno a loro. Una volta aggiustato il pattino, Perchuša chiede al dottor Garin se non sia il caso di tornare indietro, il quale con veemenza rifiuta, facendo leva sul suo sentimento di dovere verso la professione : «la vita di onesti lavoratori è in pericolo! Questo, fratello, è un fatto di stato. Non abbiamo diritto a tornare indietro. Non è una cosa da russi. E neanche da cristiani». [Sorokin 2010: 48-49]. Prima che la benda elastica che era fissata intorno al pattino si sfilasse, la situazione non cambia, la neve cade fitta e soffice, con la differenza che il vento si stava calmando, non colpiva più i loro visi con fiocchi di neve [Sorokin 2010: 55].

La sosta presso il mugnaio e sua moglie per aggiustare comodamente il pattino si allunga fino al mattino dopo, in quanto la neve cadeva incessantemente e non si vedeva più niente, il che rendeva pericoloso il viaggio, soprattutto perché non vi era possibilità di distinguere la strada. La mattina dopo il peggio sembra passato , «il cielo era nuvoloso, il tempo ventoso ma non cadeva più la neve». [Sorokin 2010: 119]

Una volta ripreso il cammino, il samokat corre veloce lungo la strada, il vento, come ad aiutarli, soffia contro la loro schiena, spingendoli ancora più veloce. Questa situazione dura per neanche una pagina, infatti poco dopo la neve ricomincia a cadere appena entrano in bosco di betulle. All’inizio cade rada, poi, passando attraverso il bosco, inizia a scendere fitta e grossa.

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Copiosi fiocchi di neve e un forte vento rendono ancora più difficile a Perchuša il ritrovamento della strada: l’ometto infatti cammina nella neve alta, tastando coi piedi il terreno alla ricerca della strada battuta, invano. A questo punto si scatena nei pensieri di Garin una certa rabbia : « Maledetti!... I picchetti non stanno lungo le strade… E’ un fatto perseguibile per legge, se si guarda.. Nessuno ne ha bisogno… né l’amministrazione stradale, né i boscaioli, né i guardiani a cavallo.. La cosa più semplice sarebbe spaccare i carri d’autunno, farne dei picchetti e conficcarli ogni mezza versta, affinché d’inverno la gente possa viaggiare tranquilla.. E’ una puttanata… Un’autentica puttanata!!». [Sorokin 2010: 125-126]

Non si vede più niente, i viaggiatori devono procedere piano piano, girano su se stessi, perché dopo poco ritrovano le loro tracce, il vento assume una natura antropomorfa, come se li deridesse in questo momento di difficoltà, continua a soffiare, sbatacchiandoli. Il vento ha preso talmente tanta forza che spinge, dondola e scuote il samokat, come se fosse vivo. In questo momento la forza del vento è positiva perché libera la strada dalla neve, rendendo ben visibile come questa si sia trasformata in una crosta ghiacciata e compatta.

Mai il dottor Garin nelle sue uscite a domicilio durante l’inverno si era trovato di fronte ad una tale tempesta. La strada ben presto scompare di nuovo, inghiottita dalla neve, che uniformemente copre la bassa pianura in cui Garin e Perchuša si ritrovano. Dopo la sosta presso i Vitaminder, la situazione meteorologica non cambia, la tormenta continua a spazzare tutto, cambia invece lo stato d’animo del dottore e di riflesso anche Perchuša si sente più rilassato. La luna non c’è, il cielo è coperto, ma loro continuano a procedere dritto, senza mai svoltare, contro il vento che gli

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scaraventa in faccia i cristalli di neve. Il dottore, essendo un tradizionale intellettuale russo, crede nel progresso, in un costante movimento in avanti: « muoversi contro il vento, superare tutte le difficoltà, tutte le assurdità, andare diritto, non aver paura di niente e di nessuno, andare e andare per il proprio percorso, il percorso del nostro destino, andare irremovibilmente, andare avanti in modo testardo. In questo c’è il senso della nostra vita!». [Sorokin 2010: 195]

Di nuovo perdono la strava, la neve è così profonda che neanche coi piedi riescono a tastarla. Non trovano tracce né della strada né di orme umane. La tempesta si intensifica e cercano di scaldarsi accendendo un fuoco: il vento sembra cercare in tutti i modi di spegnere la fiamme, ma prontamente Perchuša impedisce che il fuoco si spenga. Tutto intorno gemeva e turbinava la tempesta.

Dopo essersi riscaldati, riprendono la strada, che ora Perchuša ha ritrovato. Come a preannunciare l’arrivo di qualcosa di spiacevole, il vento soffia via le grosse nuvole scure, lasciando che le stelle e la luna brillassero sui campi innevati e silenziosi.

« Un pulito cielo notturno si estende sugli immensi campi innevati. La luna, torreggiante (in modo autocratico), brilla nel cielo, scintillò in una miriade di cristalli di neve caduti da poco, dipinse d’argento la stuoia sopra il cassone del samokat.

Le alte stelle presuntuosamente iniziarono a splendere come una moltitudine di diamanti. Il vento gelido e debole soffiava da destra, portando odore di notte profonda, neve fresca e di lontani villaggi umani». [Sorokin 2010: 214]

La quiete dura poco: la presenza di cinque lupi arresta la marcia, causando l’ira del dottor Garin. Successivamente, in una nuova situazione di difficoltà, Perchuša tenta di aggiustare il pattino

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incastratosi nella narice del gigante. Il cielo si è nuovamente coperto di nubi, la brillante luna è scomparsa così come la miriade di stelle. La neve ora cade verticale, senza il vento, cade così densa che tutto intorno si perde in essa. « come una beffa ai viaggiatori, la neve cadeva, cadeva, cadeva….» [Sorokin 2010: 264] e la neve continua a cadere ininterrottamente fino alla mattina, quando un raggio di sole, ormai troppo tardi cade all’interno del samokat, accompagnato da due visi cinesi che tirano fuori gli sfortunati viaggiatori. Soltanto quando il dottore realizza che la missione che deve compiere è impossibile, la tempesta si placa ed esce persino il sole.

1.4 LA RUSSIA FUTURISTICA

La Russia futuristica immaginata e descritta da Sorokin è costituita da una compenetrazione di elementi dal passato, a testimonianza di ciò che è stato, ed elementi del presente o futuro, se ad osservare la scena

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è il lettore. Gli elementi di questo presente futuristico sono spesso caricati di una forza assurda, sia nel porre accanto passato e futuro, sia proprio nella scelta cosciente di introdurre elementi assurdi. La visione futurista della Russia è quindi legata indissolubilmente alla poetica dell’assurdo e del grottesco, di cui ci occuperemo nel paragrafo successivo. Passiamo quindi ad un’analisi spazio-temporale del futuro russo.

A prima vista sembra che il romanzo di Sorokin sia scritto nella migliore tradizione della letteratura classica russa, stilizzando magistralmente il XIX secolo. Ma a poco a poco si percepisce un sentimento di illusorietà ed extratemporalità, inizia a descrivere la realtà come una sorta di alterità, in cui il passato è trasparente attraverso il presente e il futuro. Il tempo in questo mondo artistico di Sorokin sembra fermarsi, il tempo non c'è più. Questo stato d'animo ultraterreno, calmo e distaccato e la storia che suona un po’ ironica, in realtà è già dato dall’epigrafe, un senso misterioso che si ritrova solo nel contesto generale della narrazione: Il morto si mette a dormire

Sul letto bianco.

Nella finestra turbina spensieratamente Una calma tempesta

L'epigrafe è tratta da una poesia di Alexander Blok, datata 9 febbraio 1909, scritta a nome di un "defunto", soggiornato nel freddo e impassibile mondo dell’eternità, in un mondo in cui già "non è mai".

Questo particolare atteggiamento di Sorokin verso il tempo è tipico del postmodernismo, e rappresenta in Sorokin la base ideologica-filosofica. Dopo tutto, il marchio di identificazione principale dei postmodernisti è l’indicatore "post", che significa situazione culturale del "dopo": non solo dopo il modernismo, dopo la modernità, ma dopo la storia, dopo Dio, anche dopo l’uomo.

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Dopo le prime pagine il lettore è convinto che la scena sia ambientata nel XIX secolo, in un tipico racconto invernale della tradizione russa: la stazione di posta, il guardiano della stazione di posta abbigliato secondo la tradizione del secolo passato (corto corpetto, pantaloni di pelo e alti stivali di cuoio), il fatto che il dottor Garin cerchi dei cavalli da sostituire ai suoi ormai stanchi dal lungo viaggio ed infine il piccolo villaggio, in cui gli indirizzi vengono dati per posizione di casa ( la casa di Perchuša è otto case avanti rispetto al dottore, p.11).

La descrizione della capanna del guardiano della stazione di posta mostra un luogo tradizionale, che può appartenere ad un contesto del XVIII così come al XX secolo:

« nell’izba era abbastanza caldo, luminoso e più disabitato che nei fienili: la legna bruciava in una grande stufa russa, sul tavolo da sola stava una saliera in legno, una tonda pagnotta giaceva sotto un asciugamano, un’icona solitaria si intravedeva nell’angolo e con aria smarrita erano appesi degli orologi a pendolo che erano fermi alle sei e mezzo ». [Sorokin 2010: 14]

L’esatta collocazione temporale ci viene data soltanto verso la fine: il bisnonno del dottor Garin, contabile, ha vissuto nei lontani e duri tempi stalinisti [Sorokin 2010: 250].

In questo momento si capisce chiaramente che quello che Sorokin ci mostra è il nostro futuro, un futuro in cui evidentemente la benzina sarà così costosa che si cercheranno modi alternativi per spostarsi nelle grande distese russe, come per esempio si imparerà ad allevare una nuova razza di cavalli, di misura ridotta, simili a pernici.

Questo altro non può essere che la conseguenza dei risultati ottenuti dall’ingegneria genetica, in un momento in cui la Russia non era ancora tornata all’economia naturale del medioevo. È proprio in quest’ottica che va interpretato il principio di sopravvivenza sia fisica che sociale

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proposto dall’autore: più si è animali, più si è vulnerabili negli immensi spazi russi. E l’uomo è estremamente vulnerabile.

Nella casa del nano-mugnaio il lettore è disorientato: da un lato sono presenti elementi della storia russa, che facilmente si possono riconoscere come per esempio il ritratto del sovrano e delle sue figlie, incastrati in cornici iridescenti (in questo momento il lettore si interroga sul perché delle cornici iridescenti, che non hanno nulla a che fare con gli antichi ritratti), un fucile a doppia canna, un Kalašnikov automatico appeso al muro su corna d’alce, un arazzo raffigurante dei cervi alle cascate e un distillatore rudimentale, che mai potrebbe mancare nelle campagne russe, sulla falsariga dei Moonshiner americani, che producono liquori casalinghi di contrabbando[Sorokin 2010: 66].

Una ventina di pagine dopo, invece, l’atmosfera novecentesca viene stravolta, prima da un orologio analogico con le cifre giallognole incastrato in una macchina da cucire e in seguito da una radio molto particolare. Si tratta di un apparecchio radio conservato dalla moglie del mugnaio sotto una sorta di coperta fatta a maglia e comandato attraverso una scatoletta di controllo nera con un pulsante.

All’accensione, «sopra di noi rimase sospeso un ologramma tondo con la spessa cifra ‘1’ nell’angolo destro. Nel primo canale davano le notizie, parlavano della ricostruzione di una fabbrica di automobili Žiguli e di nuovi mezzi di trasporto automatici monoposto con motore a patate. Sul secondo canale davano la messa feriale [e si potevano osservare] il vecchio prete e i giovani diaconi mentre sul terzo era trasmesso un eterno concerto». [Sorokin 2010: 92-93]

Particolare attenzione merita la notizia del lancio in produzione di

samokaty col motore a patate, un’invenzione per velocizzare e facilitare

i viaggi dato che nel periodo in è ambientata la povest’ la benzina si vendeva a peso d’oro e solo in pochi erano in grado di sostenere una

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tale spesa. Soltanto i Vitaminder lo erano: nell’arrivare alla loro tenda, il dottor Garin e Perchuša sentono il rumore di un costoso generatore a benzina in funzione che illumina modestamente l’interno della tenda. Ad accrescere l’incredulità e lo stupore dei viaggiatori è la presenza di ben due samokaty a benzina. [Sorokin 2010: 143-145]

Sembra che Sorokin voglia dirci che anche nel futuro la Russia rimarrà sempre la stessa: insicura, povera, desolata, senza strade segnalate, innevata e fredda.

La civiltà moderna è superficiale ed estranea, ma nella sua profondità è rimasta la stessa di cento anni fa e la stessa rimarrà per sempre. Si capisce che Sorokin voglia mostrare il periodo post-putiniano, soltanto inserito in un’altra epoca, da qualche parte dopo circa trenta-quarant’anni dopo la Russia di Sacharnyj Kreml’, quando l’ex civiltà neo ortodossa e totalitaria che ha prodotto le meraviglie di bioingegneria, olografia ed elettronica, è giunta alla sua

fine ingloriosa. Dopo che l'energia in Russia si è esaurita, il paese è stato gettato un secolo e mezzo indietro.

1.5 LA POETICA DELL’ASSURDO

Uno dei capisaldi dell’intera opera di Sorokin è l’uso della poetica dell’assurdo e del grottesco, che si declina in ogni opera in modo diverso. In Metel’ gli elementi in cui si riscontra la presenza dell’assurdo sono vari : dalle ‘misure’ di alcuni personaggi/animali, l’assurdo effetto

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della futuristica droga della piramide e la bizzarra tecnologia dei

Vitaminder ed infine, non meno importante, gli assurdi sogni del dottor

Garin e di Perchuša nel finale della povest’.

1.5.1. La poetica dell’assurdo in questa povest’ si realizza in vari modi, uno tra tanti è la presenza di personaggi ‘scalati’: incontriamo piccoli e grandi uomini, piccoli e grandi cavalli. Continua in ogni caso ad esistere parallelamente la dimensione media, a cui appartengono la maggior parte dei personaggi. Seguendo il tracciato di “Metel’” il primo personaggio scalato o meglio i primi personaggi scalati che incontriamo sono i cavallini di Perchuša, non più grandi di una pernice, ma con un cuore grande e molto legati al padrone. Perchuša ha stretto un particolare legame con l’unico cavallino morello-grigiastro della mandria. Perchuša barattò con un sarto il cavallino, che allora aveva sei mesi, con un bidoncino di benzina. Il sarto, ubriaco, si vantava di essere stato pagato per due vestiti da donna e due giacche con un piccolo stallone.

«Tirò fuori dalla tasca il cavallino grigiastro e lo mostrò. Era di un colore inusuale, rosso con del grigio, con una criniera rossa fuoco, svelto sebbene non largo di petto. E nitriva incessantemente. Gli piacque subito Perchuša. Forse perché da poco gli erano morti due stalloni a causa di una malattia incomprensibile e nella terza fila mancavano due collarini. O forse perché il grigiastro era rosso come lo stesso Perchuša». [Sorokin 2010: 286]

Il secondo personaggio che si incontra nella lettura è il nano- mugnaio: appare la prima volta al dottor Garin al nome di Perchuša, con il quale aveva avuto problemi in passato. «Sul tavolo accanto al samovar, sedeva, facendo penzolare le gambe, un piccolo uomo. In quanto a misure non era più grande

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di questo splendente samovar nuovo di zecca. L’ometto era vestito con abiti piccoli ma condegni e sufficienti per il suo essere: indossava una giacchetta rossa fatta a maglia, pantaloni di lana di colore grigio topo, stivali rossi alla moda che lui stava agitando. Nelle mani dell’ometto c’era una minuscola sigaretta fatta a mano che in quel momento stava arrotolando e incollando con la sua piccola linguetta». [Sorokin 2010: 69]

Le dimensioni ridotte si riflettono anche nell’ambiente circostante: al nano-mugnaio, seduto comodamente intorno ad un piccolo tavolino di plastica, infatti viene servito da bere in un ditale d’acciaio. Sul tavolino c’erano dei bicchierini, dei piattini con dentro antipastini di formato minore rispetto a quelli serviti nei piatti sopra al «tavolo per la persone normali». [Sorokin 2010: 73] Nel descrivere i cavallini si ha l’impressione di trovarsi davanti a dei giocattoli per bambini, tutti colorati, che saltellano, nitriscono e mordicchiano. Allo stesso modo nella descrizione del tavolino con tutte le mini stoviglie si ha la netta sensazione di vedere un tavolo per le bambole; persino nella descrizione iniziale l’immagine del nano-mugnaio che si forma nella mente del lettore è quella di un bambino, seduto con le gambe a penzoloni, dondolandole. L’immagine subisce poi una grottesca evoluzione, in quanto il nano-mugnaio fuma e beve come una persona normale, ubriacandosi dal suo ditale insieme agli altri commensali. Ritorna la raffigurazione fanciullesca quando la mugnaia porta a letto il marito, ormai troppo ubriaco, sistemandolo nel letto come fa una madre col proprio figlio. Se si volesse dividere la povest’ in due parti, nella prima parte domina indubbiamente la misura del piccolo ( Perchuša ometto non troppo cresciuto, i suoi cavallini grandi quanto pernici e il nano-mugnaio con suo ditale come bicchiere) mentre nella seconda

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parte a padroneggiare il campo è la misura del grande, o meglio dei grandi: con questo termine Sorokin indica i giganti. Il primo incontro avviene quando il pattino del samokat si incastra nella narice di un gigante di sei metri che è morto congelato sulla strada. Accanto al cadavere viene ritrovata una damigiana gigante, della capienza di tre secchi fatta di uno spesso vetro verde alla cui base vi era una sorta di cesto con verghe intrecciate. Annusandone l’interno, Perchuša riconosce l’inconfondibile odore di vodka: la deduzione è immediata, il gigante era così ubriaco che o si è addormentato sulla strada oppure è caduto, ma in ogni caso l’eccessivo alcool lo ha fatto morire lungo la strada. In seguito a questo inaspettato incontro/scontro, Perchuša ricorda quando per la prima vide un

grande, un gigante. Aveva solo dieni anni e viveva ancora nella

casa del padre nel ricco villaggio di Pokrovskoe. In quell’anno i mercanti del luogo decisero di spostare la fiera autunnale da

Dolgoe a Pokrovskoe e a questo scopo decisero di abbattere il

bosco di Gnilaja e al suo posto costruire le botteghe per la fiera. Le querce del bosco erano enormi, alcune si erano seccate altre erano marcite. Per abbattere in poco tempo il bosco, i mercanti decisero di assumere 3 giganti. Perchuša rimase affascinato dal lavoro: di giorno abbattevano, segavano, frantumavano e sradicavano i ceppi con estrema facilità, di sera invece si sedevano sui ceppi sradicati, mangiavano patate e bevevano latte, cantando canzoni con le loro tonanti e grezze voci. Ad un rapido esame del cadavere, il dottor Garin molto professionalmente ricostruisce la storia clinica del gigante: sinusite, vagabondo, ha bevuto eccessivamente, è caduto, si è addormentato ed è morto. Anche per Garin non è la prima volta che incontra un gigante: una volta aveva dovuto rimettere a

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posto l’ernia di un gigante assunto nel suo villaggio, Repišnaja, per lavori di sterro. Poco dopo quando Garin decide di proseguire per conto suo, si imbatte nell’opera del gigante fatta prima di morire. La prima cosa con cui i suoi occhi vengono in contatto è una cosa orizzontale, sembra un lungo ramo d’albero intorno al quale è stata aggrappolata della neve. Camminando intorno a questa cosa, si rende conto che dietro a questa ramo innevato c’era qualcosa di più grande e più largo, da cui sporgeva il ramo. Non capendo di cosa si trattasse, Garin fece dei passi indietro per avere una visione completa: si trattava di un mostruosamente gigantesco pupazzo di neve con un enorme fallo di neve.

«Il pupazzo di neve, dell’altezza di una casa di due piani, svettava verso l’alto davanti a lui. Il suo fallo minacciosamente pendeva sulla testa del dottor Garin. La testa tonda, modellata dalla neve, guardava dalle tenebre attraverso due ciottoli calcati nella neve da uno sconosciuto e poderoso scultore. Al posto del naso spuntava un tronco di tremolo. [..]Di fronte alla sua morte da ubriaco, aveva deciso di modellare qualcosa con un materiale di fortuna per l’indifferente e lontana umanità. Stava lì con la sua inflessibile prontezza a perforare il mondo circostante con il suo fallo. ». [Sorokin 2010: 271-272]

Se fino a questo momento Sorokin ci ha mostrato sia il piccolo uomo che il grande uomo, il lettore si aspetta di incontrare un opposto, in senso di grandezza, ai cavallini di Perchuša. Le aspettative non vengono disattese, infatti alla fine del racconto breve, quando Garin viene salvato dai cinesi, lo sguardo dell’autore inquadra un enorme cavallo, alto come una casa di tre piani. Il cavallo era un pomellato grigio, la cui schiena era coperta da una coperta rossa, mandando vapore dalle larghe

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narici. «Le cornacchie giravano sopra di lui e si fermavano sulla sua schiena rossa. La bianca criniera del cavallo era graziosamente intrecciata, la bardatura luccicava al sole con gli anelli d’acciaio». [Sorokin 2010: 300]

Questo cavallo gigante trainava un treno slitta composto da quattro vagoni, uno verde, passeggeri, e tre azzurri, merci. Il cavallo sembra assumere il ruolo di una locomotiva vivente, che viene forse ‘alimentata’ a uomini, o che semplicemente non ama trasportare corpi morti, questo non è molto chiaro dal contesto.

1.5.2. Quando il dottor Garin si trova all’interno della tenda coi

Vitaminder, Perchuša è nell’adiacente stalla, pronto per

aggiustare il pattino rotto. In questo momento il lettore viene in contatto per la prima volta con la tecnologia dei Vitaminder. Non aveva ancora fatto caso al fatto che in quel posto si producesse, oltre alle droghe, un feltro viviparo. Perchuša assistette allo straordinario processo di costruzione della sua momentanea stalla, ad opera di un servo kazako dei Vitaminder. Inizialmente ordinò a Perchuša di sistemare il samokat il più vicino possibile alla tenda, «poi conficcò in terra tre pettini7, tracciando

il perimetro della stalla, in seguito, indossando guanti protettivi, spremette sui pettini un mastice di feltro viviparo da un tubetto, vi spruzzò sopra lo spray ‘Acqua Viva’ e vittoriosamente lanciò uno sguardo a Perchuša. [..]La pasta grigia cominciò a muoversi, da essa iniziò a crescere il feltro, peluzzo dopo peluzzo. Crebbero tre pareti di feltro, non prestando attenzione alla crescente tempesta, circondando il samokat e il suo padrone. [..] E’ la tecnologia! [..]Una volta che le pareti di feltro crebbero fino alla

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testa del servo Bachtijar, questi stappò lo spray ‘Acqua Morta’ e lo spruzzò alle estremità delle pareti. La crescita del feltro terminò. Il kazako ficcò il pettine al limite della parete più grande, lo spruzzò di ‘Acqua Viva’ e iniziò a far crescere il tetto della stalla». [Sorokin 2010: 159-161]

Perchuša si ritrovò quindi in un cubo di fetro, isolato dal vento e dalla tempesta. Dopo poco, il kazako con una lama metallica dall’esterno tagliò nel feltro uno sportello, a mo’ di porta. La loro invenzione è potenzialmente geniale: hanno inventato uno spray per poter far crescere a partire da pettini una quantità illimitata di feltro. L’idea è geniale soprattutto per la scelta di un materiale come il feltro, che isola dal freddo e riscalda: possedere lo spray ‘Acqua Viva’ e ‘Acqua Morta’ nelle sterminate campagne russe durante l’inverno rappresenta una garanzia di sopravvivenza, in qualsiasi situazione il viaggiatore si trovi, ha la possibilità di costruirsi intorno un sicuro e caldo riparo, garantendosi in questo modo di sopravvivere. Altrettanto assurdi come i padroni, sono i cani dei Vitaminder: se nel comportamento non mostrano nessun tipo di differenza con i cani normali (ringhiano all’arrivo di sconosciuti a protezione dei loro padroni), le loro fattezze fisiche smentiscono la loro normalità. Si tratta di due alani giganti di colore viola, con dei collari muniti di scintillanti campanellini, che con i loro occhi altrettanto viola scrutano e ringhiano contro i nuovi arrivati. E’ eccezionale il modo in cui Sorokin ci presenta dei semplici oggetti, o degli animali in questo caso, e la rappresentazione è inizialmente del tutto normale, per poi ‘scoppiare’ e mostrarci la sua visione assurda, un percorso che mai il lettore si sarebbe immaginato.

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1.5.3. L’attenzione e la curiosità del lettore sono catturate dalla scena in cui il dottor Garin ed altri tre Vitaminder provano la piramide, la loro nuova droga. All’inizio di questo ‘viaggio’ mentale la realtà fisica in cui si trova il corpo del dottor Garin si sfoca gradualmente: da un grigio cielo cadono fiocchi di neve, continuano a cadere, un vento debole porta odore di fumo e d’inverno. L’inquadratura si stabilizza poi sulla figura del dottor Garin che si ritrova circondato da un liquido denso e conosciuto: si tratta di olio di girasoli. Si ritrova seduto in un recipiente pieno di olio di girasole. Era un nero e grosso calderone con uno spesso bordo. Tutt’intorno c’era una piazza gigante, piena di centinaia e centinaia di persone ed incorniciata ai lati da case europee e da una chiesa.

« Aveva già visto da qualche parte quella chiesa. Forse, era Praga. Molto simile. Si, probabilmente, Praga. O, forse, non era Praga. Varsavia? O Bucharest. Cracovia? Probabilmente, ancora Varsavia». [Sorokin 2010: 164-165]

Tutte le persona intorno a lui lo guardano, lui si vuole muovere ma si rende che non può perché è legato da una spessa corda, i polsi sono legati ai piedi e lui assume una posizione fetale così con le ginocchia raccolte al petto. È seduto sul fondo del calderone, è come un galleggiante. Si ricorda da piccolo quando faceva il galleggiante nel fiume e il padre dalla riva lo guardava. Erano tempi lontani. Ora lui era legato. La caldaia era sopra qualcosa e a sua volta era sopra ad un palco. Nei due fori laterali del calderone passavano delle catene. Intorno a lui la gente sorrideva, vicino alla Chiesa alcuni leggevano qualcosa solennemente, cantilenando. Non riusciva però a distinguere di che lingua si trattasse. Forse latino, forse polacco, forse serbo, forse rumeno. Era chiaro però che stessero leggendo qualcosa e

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gli altri ascoltavano, guardandolo. Lui cerca di avvicinarsi al bordo, ma scopre che la corda che lega i suoi piedi alle caviglie è fissata sul fondo ad un occhiello che si trova al centro del calderone. Si rende conto che non può scappare dal calderone. Grida dal terrore e la folla invece ride ed urla beffeggiandolo. Perde coscienza dal terrore. Quando torna in sé, inizia ad essere inondato di olio puzzolente, nel naso e nella bocca, tossisce. Puzza talmente tanto che dall’odore gira la testa. Radi e grossi fiocchi di neve cadono nell’olio e scompaiono.

Colui che recitava solennemente ha pronunciato l’ultima parola: la folla ora urla e alza le mani al cielo. Il ruggito risuona persino nel calderone di ghisa, producendo piccole onde d’olio. Qualcuno sale sul palco, è un adolescente con una fiaccola in mano, la alza e la folla grida, poi la abbassa sotto al calderone, si sente un debole crepitio, poi sempre più forte. Un leggero tepore inizia a diffondersi da sotto il calderone.

Cerca di liberarsi, inutilmente. Si scuote e dondola, ma ingoia solo quel puzzolente olio, tossisce. Inizia a raccontare alla folla della sua innocenza. Racconta di sé, dice il suo nome, quello della madre e del padre. Parla di un mostruoso errore. Lui non ha fatto nulla di male alle persone. Parla della sua professione di medico, elenca chi ha salvato. Parla di Cristo e dell’amore. Intanto i talloni iniziano a diventare tiepidi. Grida per il terrore, perde di nuovo conoscenza. Quando si riprende, inghiotte l’olio, si soffoca, lo rigetta. Tocca l’occhiello, cerca di raccogliere le idee e calmarsi. Continua il suo discorso parlando della fede, che lui è un uomo di fede. Parla della sua vita. Si sforzò di vivere degnamente e di fare del bene. Certo, gli errori ci sono stati. Una volta, ubriaco, lanciò dalla finestra una bottiglia che cadde sulla testa di un passante. Un’altra volta non andò da un malato e questo morì. Non volle

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figli per poter vivere libero. Per questo lui e la moglie si lasciarono. Lui rispose male al potere. Desiderava che la Russia sprofondasse nel Tartaro. Rideva dell’uomo russo, del governo. Ma lui non era mai stato un criminale. Era un cittadino rispettoso delle leggi. Pagava le tasse. Il fondo del calderone divenne più caldo. È strano giustiziare un innocente. Questa esecuzione è molto più strana di un omicidio. L’omicidio è diverso da un’esecuzione perché la vittima in qualche modo ha una chance di sopravvivere, può scappare oppure a sua volta può uccidere il criminale. Nell’esecuzione mortale c’è solo terrore e crudeltà. I talloni scivolano e toccano il fondo. Il fondo è sempre più caldo. Parla della fede. La fede deve fare le persone migliori. Le persone devono amare le altre persone. Sono passati due millenni dalla morte di Cristo e le persone non hanno ancora imparato ad amarsi l’uno con l’altro. Non hanno smesso di ingannarsi. Non hanno smesso di uccidersi. L’occhiello si è riscaldato. Le pareti sono diventate calde. Il fondo è ancora più caldo. Fa leva su qualcosa ma ricade con le natiche sul fondo. Se le brucia. Il fumo del fuoco turbina intorno al calderone egli cade negli occhi. Urla che tutti sono criminali. Che la città sarà giudicata da un tribunale internazionale. Che commettono un reato contro l’umanità. Che andranno tutti in prigione. La folla ride e ulula. L’olio si fa sempre più caldo. Le lingue del fuoco sfiorano la sua schiena, il suo petto. Non si può riparare da esse. Grida con tutte le sue forze. Maledice questa città. Maledice le persone sulla piazza. Maledice i suoi genitori e i suoi figli. Maledice i suoi nipoti. Maledice il suo paese. Inizia a singhiozzare. Vomita tutte le bestemmie che conosce. L’olio è caldissimo. Si spinge via dal fondo e rimane sospeso. Così per molte volte. Danza nell’olio. Danza! Le famiglie. Danza! Le madri preparano la

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colazione. Danza! I bambini giocano. Danza! Dormono nei loro letti. Danza! La madri ricamano fiori sui loro cuscinetti, e loro dormono, dormono e dormono. Dormono di giorno. Lui crede ai bambini. Crede alle colombe sui tetti. Ama le colombe. Le colombe possono perdonarlo. Le colombe perdonano tutte le persone. Le colombe non uccidono le persone. Muoio? Le colombe lo salvano. Si trasforma in colomba. Muoio? Vola via. La folla inizia a cantare e comincia a dondolare ritmicamente. Muoio! Cos’è? Una canzone popolare? Una canzone di questa città? Questa maledetta città. Questa cattiva città. Loro vogliono la sua morte. È il coro del ‘Nabucco’. Muoio! Loro cantano. Va, pensiero, sull’ali dorate. Cantano. Muoio. Muoio. Muoio. Muoio. Muoio. Muoio. Muoio. Muoio. Muoio. Muoio. [Sorokin 2010: 164-177].

L’esperienza è talmente forte e reale che nel risvegliarsi il dottor Garin è in preda alle convulsioni, come fosse epilettico. Gradualmente le convulsioni si affievoliscono, il dottore rimane qualche minuto in uno stato di torpore, cercando di raccogliere i pensieri e scacciare la terribile sensazioni di poco prima. Si rende conto che è vivo, il pince-nez è al suo posto così come il naso, sopra alle labbra. Garin viene investito da un sentimento talmente forte che scoppia in pianto, «come un bambino, cade sulle ginocchia, affondando il viso nei palmi delle mani». [Sorokin 2010: 178]

Dopo poco si ricompone ed esordisce con una frase molto significativa: «Che fortuna che siamo vivi!» [Sorokin 2010: 179]; il sorriso presto si trasforma in risata isterica, talmente forte che cadde a terra, contorcendosi sul pavimento di feltro dal riso inarrestabile.

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