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PARTE QUINTA Economie morali della Disabilità

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Academic year: 2021

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PARTE QUINTA

Economie morali della Disabilità

Capitolo 11

Studenti e famiglie

Dalle storie degli studenti intervistati emergono concezioni e valutazioni salienti inerenti il

proprio vissuto di disabilità. Concezioni e valutazioni che qui si pongono in dialogo diretto

col percorso di studi superiori intrapreso e con l’esperienza effettuata all’università,

unitamente certo alle esperienze di studio pregresse e a quelle svolte in altri contesti di vita

(familiari, amicali, ludici, sportivi, culturali). Si delinea, così, all’orizzonte l’utilizzo di alcune

rappresentazioni ed economie morali della disabilità che investono anche il rapporto di

dipendenza/autonomia, dono/reciprocità che questi studenti instaurano con famiglia, servizi e

docenti, nonché la più ampia società di appartenenza. A tali rappresentazioni ed economie

morali, peraltro, corrispondono specifici cerchi dell’etica che si allargano e si restringono a

seconda del limite categoriale prescelto: dall’individuo alla società, passando per gruppi e

sottogruppi fino alla varietà insita nella specificità di ciascuno (che riconduce così al singolo,

quasi a chiudere il cerchio). In tal senso, peraltro, non vi è necessariamente una

corrispondenza univoca fra soggetto e modello culturale, ma talvolta polivoca laddove, a

seconda dei fini della persona e del contesto di riferimento, uno stesso studente può ricorrere a

diverse accezioni di disabilità e corrispettive economie morali. Non bisogna dimenticare,

inoltre, che si tratta di giovani-adulti e che, a seconda dell’età e dell’esperienza nuova o

consolidata in ambito universitario, emergono concezioni che si percepiscono essere ancora in

fieri. Verrò, dunque, di seguito a ripercorrere le economie morali utilizzate dagli studenti

protagonisti e dalle loro famiglie, per come emergono dalle loro parole, secondo una

prospettiva emica. Queste economie morali e i loro sostenitori rappresentano il nucleo dei

cerchi di appartenenza emergenti (che talvolta, secondo la trasposizione qui effettuata, si

fanno cerchi dell’etica). Nei capitoli successivi, pertanto, le farò dialogare con quelle poste in

circolazione all’interno dell’istituzione universitaria da parte del Delegato alla Disabilità,

unitamente al personale tecnico-amministrativo dei Servizi, nonché dei docenti, dei tutor alla

pari per la didattica e degli operatori del servizio civile. Per ogni raggruppamento individuato

emergeranno, così, ulteriori economie morali che, a partire dall’interazione e dalla risonanza

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con le economie morali degli studenti, ci consegneranno specifici modelli della disabilità,

corrispettivi peraltro ai ruoli svolti dai vari attori sociali e/o a quelli in cui gli stessi vengono

maggiormente a riconoscersi. Nel declinare tali economie morali, concorreranno parimenti,

oltre ai modelli di valutazione propriamente detti, anche i modelli cognitivi e quelli di

comportamento, a palesare l’inestricabile connubio secondo cui si manifestano al di fuori

della loro stretta teorizzazione, laddove ogni modello, infine, racchiude in sé anche parte degli

altri, secondo confini sfumati che li vedono talvolta sovrapporsi e commistionarsi. Ecco,

dunque, che le economie morali emergenti, se si richiameranno soprattutto ai modelli di

valutazione, troveranno valido supporto anche negli altri due, a restituirci la complessità dei

principi e delle forme di gestione di un fenomeno quale quello della presenza di studenti con

disabilità nell’università.

Le economie morali degli studenti che ci accingiamo ad indagare paleseranno due direttrici

variamente ricorrenti e comuni, connesse da un lato alla valutazione della responsabilità

sociale e/o della responsabilità personale rispetto al vissuto di disabilità, dall’altro

all’esplicitazione del valore attribuito alla diversità e/o all’uguaglianza. Direttrici che, rispetto

alle percezioni delle altre figure considerate, ci consegneranno ulteriori modelli cui queste si

richiamo. Come avremo modo, infatti, di approfondire, l’assunzione dei vissuti di disabilità

degli studenti, incontrati durante lo svolgimento dei propri incarichi, da parte del Delegato

alla Disabilità, del personale tecnico-amministrativo, dei docenti, dei tutor e degli operatori

del servizio civile, avviene secondo corrispettive economie morali che si muovo lungo

altrettante direttrici: l’economia morale che si staglia fra richiamo al senso pratico e/o al senso

processuale nello svolgimento del proprio operato, che investe le figure accademiche e

amministrative incardinate nei Servizi, unitamente a quelle attive nel servizio civile;

l’economia morale che si muove fra riconoscimento delle effettive capacità dello studente e

risarcimento dello sforzo e della fatica connessi alla sua disabilità, inerente l’esperienza dei

docenti; l’economia morale che si colloca fra l’aspirazione ad una collaborazione lavorativa e

il desiderio di entrare in una relazione d’aiuto, che guida le scelte degli studenti part-time e ne

accompagna le prestazioni. Nel complesso, dunque, si tratta dell’individuazione di modelli

emici, che affiorano dalle parole degli attori sociali interpellati e ne sanciscono il comune

rispecchiamento in raggruppamenti che coincidono con altrettanti cerchi di appartenenza. In

tal senso, emerge come i due docenti che hanno attivamente collaborato con gli Sportelli e i

due operatori del servizio civile vengano, infine, a richiamarsi alla medesima economia

morale dell’ufficio.

Queste economie morali, emergenti dalle parole dei diversi raggruppamenti di interlocutori e

dunque emiche, saranno, inoltre, tagliate trasversalmente da quella molteplicità di concetti

teorici indagati nelle due parti introduttive e in tal senso etici: la significatività attribuita alla

dipendenza fisica e/o personale rispetto all’autonomia ed autodeterminazione; l’espressione

del proprio vissuto corporeo di disagio e/o di abitudine e apprendimento nello stare in

situazione con l’alterità corporea connessa alla disabilità; l’alternanza fra dono, reciprocità e

debito colti nelle loro varie accezioni; l’importanza assegnata, nella relazione, alle impellenze

concrete e strumentali rispetto alle esigenze espressive e processuali, connesse al percorso di

vita della persona. Tutto ciò ci restituirà una polifonia di sguardi sulla disabilità che

concorrerà allo sviluppo e svolgimento di altrettanto vari processi integrativi o non integrativi.

Nella stessa esperienza di una persona, infatti, possono emergere fattori fra sé in apparenza

contraddittori e pratiche altrettanto dissonanti, ma purtuttavia co-presenti, nonché la

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trasformazione dei propri stessi modelli di partenza all’interno di un processo di riflessività e

successiva assunzione consapevole del mutamento intercorso.

Avvieremo, dunque, adesso l’analisi delle economie morali che affiorano dalle parole degli

studenti intervistati, per poi soffermarsi su quelle degli altri gruppi individuati, a partire dal

loro posizionamento rispetto a queste. Come sopra menzionato ho, qui, individuato due

binomi al cui interno sembrano muoversi tali economie morali, collocandosi in proporzioni

variabili verso un polo o verso l’altro.

Il primo binomio è quello che colloca la responsabilità del vissuto di disabilità sull’individuo

con disabilità e/o sulla società d’appartenenza: a seconda, dunque, della posizione assunta dai

diversi interlocutori vi sono economie morali che, nell’investire maggiormente il singolo,

ricercano nella sua capacità di accettazione e autodeterminazione le modalità migliori per

relazionarsi agli altri, affrontare così le proprie esigenze e veder applicati gli eventuali diritti

(secondo una prospettiva maggiormente relazionale); altre, invece, che, nell’attribuire

maggior responsabilità alla società, vedono nelle sue risposte ai bisogni emergenti e ai

connessi diritti il vero fattore integrante/non integrante, inclusivo/non inclusivo per chi vive

una disabilità (secondo una prospettiva più strumentale). In entrambi i casi, dunque, sussiste

un ricorso variegato alla corrispettiva economia morale, secondo una gamma sfumata di

accezioni (che purtuttavia si implicano l’un l’altra). Riguardo alla responsabilità individuale,

alcuni si riferiscono in maniera preferenziale ad un principio di realtà che vede nella disabilità

una innegabile condizione di vita che il soggetto portatore deve innanzitutto accettare; altri, a

partire da tale assunzione, si concentrano piuttosto sulle modalità di quest’ultimo di proporsi

agli altri nonostante e/o secondo il proprio vissuto di handicap. Riguardo alla responsabilità

sociale, d’altro canto, vi è chi si sofferma soprattutto sulla discriminazione, sull’esclusione e

sullo stigma rivolti dal contesto di appartenenza alla persona con disabilità e chi si incentra

maggiormente sulle forme in cui il medesimo contesto può farsi inclusivo e partecipato da

tutti. In tal senso, si tratta di aspetti coesistenti e fortemente interrelati, preludio allo specifico

utilizzo dei corrispettivi modelli culturali. Sussiste poi un variegato ventaglio di economie

morali che si collocano in posizioni intermedie a queste: da un lato, infatti, l’esperienza della

disabilità può essere colta come frutto delle molteplici responsabilità che concorrono a

definirla, responsabilità sociali come pure individuali, laddove, se la società non opera per

un’effettiva inclusione e l’individuo sembra infine operare per sé stesso, si rende infine

necessario che la società cambi e l’individuo con essa, in un rapporto di reciproco

adattamento e trasformazione; da un altro, invece, l’esperienza di integrazione/non

integrazione della persona con disabilità viene ricondotta in primis alla famiglia, quale prima

responsabile della dipendenza e/o dell’autonomia del figlio e potenziale medium fra individuo

e società che, da posizioni diverse e secondo diverse modalità, compartecipano poi al

configurarsi del vissuto in questione.

A tutte queste sfumature nel continuum di economie morali tratteggiato corrispondono loro

specifici usi, anche nell’interazione con i servizi erogati dall’USID e con gli operatori

coinvolti che emergono nelle esperienze riportate da ogni studente e sopra ripercorse. Nello

specifico, mi preme soffermarmi su due accezioni dei servizi particolarmente significative

rispetto alla riflessione qui intessuta: l’una, è quella di un’auspicata accessibilità universale

(su cui ci siamo già soffermati con Shakespeare) che investa la stessa università e che,

nell’assumere come parametro di efficacia le situazioni più complesse, si rivolga nel

contempo a tutti (con o senza disabilità); l’altra, è quella che vede il soggetto attivo

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protagonista del suo vissuto, in grado di crearsi e mantenere una propria rete sociale di

confronto e sostegno, laddove i servizi rappresentano solo un aspetto della propria esperienza

di vita guidata da una sentita capacità di autodeterminazione (reale o presunto che sia). In tal

senso, la prima accezione viene a corrispondere eminentemente al modello che vede la

disabilità quale responsabilità sociale e veicola una dimensione strumentale della richiesta del

servizio, mentre la seconda si connette all’economia morale che assume la disabilità come

responsabilità personale e prospetta una dimensione espressiva della stessa richiesta.

Il secondo binomio considerato è quello che oscilla fra i due poli dell’uguaglianza e della

diversità, alla ricerca di un loro equilibrio. Sono emerse, in tal senso, due economie morali

preminenti. La prima inerisce un abbandono della nozione di disabilità in favore della

specificità o diversità di ciascuno: l’idea non è tanto che “siamo tutti disabili”, quanto che “i

disabili sono tutti diversi”. Vi è pertanto l’abbandono della categorie di disabilità e il

riconoscimento nella propria specificità, che in tal senso distingue e accosta al contempo tale

vissuto a quello di ogni altra specificità: secondo un approccio maggiormente strumentale,

ciascuno ricerca le prestazioni corrispondenti ai propri peculiari bisogni. La seconda, invece,

riguarda un’inclusione della disabilità nell’uguaglianza, laddove lo scopo è che ogni persona

con disabilità possa vivere come ogni altra, senza interventi specifici che la investano: in una

prospettiva eminentemente espressiva, ognuno convive con le esigenze connesse alla

disabilità di cui è portatore grazie ad una conoscenza, comprensione e solidarietà trasversali a

tutto il contesto di appartenenza. Anche in questo caso, come riguardo al precedente binomio,

gli interlocutori si incentrano prioritariamente su diverse accezioni corrispondenti a momenti

diversi del configurarsi dell’economia morale. Rispetto al polo della diversità, infatti, taluni

rimarcano la varietà e la specificità della disabilità, piuttosto che la sua omologazione in

un’unica grande categoria, che viene infine a dissolversi o a concernere altri vissuti che non il

proprio; talaltri si soffermano maggiormente sulle connesse esigenze, che appunto mostrano

tale diversità e richiedono risposte peculiari ed adeguate. Rispetto al polo dell’uguaglianza,

invece, vi sono coloro che si soffermano sulla comune appartenenza al mondo e all’umanità,

in quanto persone, e coloro che considerano piuttosto le modalità di convivenza umana che

possono rendere effettiva l’uguaglianza affermata, scevra da interventi specialistici e/o da

lotte di categoria. Come avvenuto per il binomio precedente, dunque, queste accezioni sono

co-presenti, sebbene i vari interlocutori vi si incentrino in maniera diversa, e si richiamano a

vicenda, per dar luogo, infine, a corrispettivi usi del modello culturale di riferimento. A

cavallo fra queste due economie morali sussiste una possibilità intermedia, che le pone in

dialogo piuttosto che vederle contrapposte: la disabilità, infatti, può essere associata

all’esperienza e al vissuto personale di ciascuno, quale percorso di vita in cui solo

l’interazione fra i più diversi membri della società consente la loro crescita, comprensione

reciproca e vicinanza empatica pur nella diversità. Inoltre, in una posizione di ancora poco

risolta incertezza fra il richiamo ad una intrinseca specificità e quello ad una piena

uguaglianza con gli altri, infine, sembra collocarsi il vissuto di studenti con Disturbi Specifici

dell’Apprendimento. Ciò certo è connesso anche al relativamente recente riconoscimento di

tali disturbi e al corrispettivo graduale emergere dei soggetti in questione. Anche le due

studentesse intervistate, in effetti, riportano vissuti combattuti fra la vergogna e l’oblio del

proprio problema, allo scopo di essere uguali agli altri (pur rischiando così di incorrere in una

eterogenesi dei fini), e la sua necessaria esplicitazione per l’ottenimento di quegli interventi

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specifici che, soli, potevano consentire loro di condurre a buon fine gli studi superiori

intrapresi.

A questo raggruppamento di economie morali, dunque, corrispondono utilizzi ben diversi per

quanto concerne la stessa fruizione dei servizi: da un lato, si richiedono interventi specifici e

professionali per ovviare alle proprie esigenze, secondo quell’accezione di servizi on demand

già riscontrata con Shakespeare, nell’auspicio che questi siano in grado di fornire risposte

personalizzate secondo la forma suggerita dall’utente stesso (in una prospettiva prettamente

strumentale); dall’altro, si propende per servizi che non richiedano una formazione specifica,

nella speranza che gli stessi possano un giorno dissolversi nella più efficace uguaglianza delle

relazioni fra pari (all’interno di un approccio espressivo).

Ecco allora che viene a prospettarsi un variegato complesso di economie morali che, se nei

primi quattro paragrafi che seguono, verranno poste in dialogo in maniera lineare, secondo le

categorie appena ripercorse che si muovono lungo le due direttrici individuate, nel quinto

paragrafo saranno riconsiderate secondo i loro incroci trasversali, anche relativamente alle

dimensioni strumentali e/o espressive preminenti. Finché, nel sesto, non verranno poste in

relazione con le forme di integrazione e/o non integrazione universitaria maggiormente

emergenti dalle parole dei nostri protagonisti.

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1. Responsabilità sociale/responsabilità personale

1.1 La disabilità come responsabilità personale

Intravedendo una sorta di continuum di queste economie morali, possiamo porre a un polo la

posizione che emerge nettamente dalle parole di Braciola:

più che altro, cioè, io l’ho sempre vista così: cioè, che gli altri, non avendo il tuo problema, non lo posson capi’ fino in fondo, quindi, sta a te farlo capire agli altri, ‘un puoi pretende’ che gli altri capiscano; prima devi esse’ te a datti da fa’ e poi puoi pretende’ dagli altri! Ma invece lì da parte delle associazioni di categoria, come quelle di persone con disabilità] vedo un po’ l’atteggiamento opposto – capito?! Ora vabbè, io parlo della mia esperienza personale, poi magari in disabilità gravissime, non lo so, perché io fortunatamente comunque il mi’ spazio e la mia vita – con più o meno difficoltà – però me la gestisco; però, ecco, me la gestisco anche perché mi son dato da fa’, non so’ stato lì a di’ “Ohiohi, ohiohi, poerino, poerino” – capito?! E quindi quando vedo un po’ questi atteggiamenti qui ci rimango un po’ male, anche perché penso che, cioè, il problema… cioè, è la società che non t’accetta, o è la famiglia all’inizio, cioè, già la famiglia che non t’accetta?! – capito?! Quindi, io, visto, cioè, anche la società, quando dicono “la società ce l’ha con me”… a me queste cose qui rigide, di di’ così, non mi garbano perché è un mondo, cioè, non lo trovo così!

Come già menzionato, dunque, secondo Braciola: «Se speri che gli altri non ti vedano un

disabile, devi esse’ te che non ti senti disabile. Io la penso così». Spiega ulteriormente a

riguardo:

Posso capi’ – diciamo – che la non conoscenza fa paura; ma fa paura a chiunque: fa paura al disabile e alla persona non disabile! Quello che non conosci fa paura, è nell’umanità, cioè, è nell’uomo, è insito nell’uomo. E quindi è solo stando con le persone, conoscendo, che puoi fa’ capi’ come è fatta una persona e quindi le persone ti conoscono e vanno oltre quelli che possono essere i tuoi difetti. Però, se tu dici “eh, allora, è perché la società qui, perché la società là, perché su e giù”… non penso… per come son fatto io, non è i’ mi’ modo di approcciammi alle cose. Quindi a me non mi garba fa’ parte delle associazioni che tutelano una cosa in particolare – capito?! Siamo tutti… cioè, in generale bisogna sta’ tutti bene – in quel senso lì – disabili e non! […] Cioè, quello che posso dire io è che quarant’anni fa, quando so’ nato io, le persone disabili le tenevano in casa e non le volevan fa’ vede’ a nessuno, e ora certe cose so’ cambiate. Ma – per ditti – anche nel lavoro, si all’inizio ti guardano un po’ così, poi la gente s’abitua, cioè, puoi ave’ la reticenza di un periodo perché la gente ti studia e ti cosa, però, se te il tuo lavoro lo fai bene, alla gente che tu sia disabile o no non gliene importa nulla – cioè, capito che voglio di’?!

La posizione di Braciola, dunque, è ben precisa e colloca le responsabilità del vissuto di

disabilità innanzitutto sulla persona e, ancor prima, sulla famiglia. Nella sua stessa fruizione

dei servizi dell’USID egli è riconoscente dell’aiuto ricevuto, ma constata anche i propri

effettivi limiti nella conduzione dello studio. La disabilità richiede, dunque, a suo avviso

un’appropriazione responsabile del proprio vissuto e una capacità di proporsi innanzitutto in

quanto persone, laddove gli altri a proprio turno impareranno a conoscerti e non percepiranno

più la tua diversità come preminente sulla tua individualità. Secondo questa economia morale

la dipendenza che la disabilità può comportare si scioglie in una reciprocità positiva in cui è la

persona disabile stessa a mettersi in gioco e darsi per prima, comportando così un ritorno nel

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momento in cui l’altro la riconosce come persona piuttosto che come disabile. Come constata

Fulanito riguardo alla sua esperienza personale:

Cioè… è un po’ questo la mia modalità. Nel senso che non si può negare di aver bisogno di altre persone per imparare. Bisogna imparare anche a chiedere aiuto, però bisogna anche mettersi in gioco, perché sennò rimani dove sei. […] E ognuno ovviamente trova il suo equilibrio. Non è che c’è una ricetta che va bene per me e per te. Però… insomma, io personalmente ho bisogno di sperimentare molto, perché sennò le cose non mi rimangono impresse. Sono fatto un po’ così, ci devo battere il naso.

Aggiunge, inoltre:

Poi io per esempio, a me mi piace un sacco viverla con ironia. Cioè, anche con gli amici… A volte mi rendo conto che lo faccio anche con persone che non conosco e lì forse sbaglio un po’ perché questi vanno in crisi. Tipo… che ne so, io scherzo sempre sul fatto che non vedo. Che so, l’altra sera la mia compagna che lavora per un’organizzazione non governativa ha organizzato un’iniziativa di… diciamo l’iniziativa annuale dell’associazione, la festa dell’associazione, e abbiamo ospitato due dei musicisti che avevano suonato. Sicché saliamo in macchina, la mia compagna dice qualcosa del tipo “Ah, cavoli, sono molto stanca” – no? – e io gli ho detto “Eh, se vuoi guido io” – no? – e i ragazzi son rimasti… “No, tranquilli, guida lei! Era solo un supporto morale, niente di più”. E quindi, cioè, a me mi piace anche… Ma perché? Cioè, non si può scherzare? Cioè… Questa cappa di cristallo, oppure questo elemento del “poverino non ci vede”… Poverino che? Perché poverino? Poverino sarai te. […] È bestiale. Specialmente nelle persone un pochino più anziane, cioè… “Poverino”, oh! Cioè, ‘sta cosa del pietismo – no?! E poi se vogliamo te studi Antropologia, lo sai bene che radici ha, e a me proprio dà fastidio. Me lo vivo addosso… Ho imparato con il tempo a non rispondere male, quando avevo diciassett’anni rispondevo pure male… secondo come mi si… mi si trattava, insomma. Secondo come mi, le persone si approcciavano a me, ecco. Cioè, se mi arrivava – capito? – io ero sulle strisce e mi arrivava il tizio col fare da buon samaritano che mi prendeva sotto il braccio senza nemmeno chiedermi il permesso e con voce soave mi diceva “Poverino, vieni, ti aiuto io a attraversare”… insomma, non è che proprio da me ricevesse un grazie, ecco. […] Eh. Cioè, adesso ho imparato a non rispondere male, però comunque sia faccio sempre capire che non è il caso.

La gestione autonoma ed assertiva della propria disabilità, dunque, unitamente

all’esternazione delle proprie esigenze, consente a questi studenti un altrettanto autonomo

ricorso ai servizi, quale corollario al loro vissuto. In egual maniera, anche Giacomo cerca di

gestire i bisogni emergenti, connessi alla sua malattia, e il conseguente ricorso all’intervento

dello Sportello in maniera ponderata e consapevole:

Eh, vabbè, diciamo la prima volta che li chiamai ero indeciso se chiamarli o meno, perché non sapevo com’erano, come non erano… Cioè, andavo un po’ nel… facevo un passo nel vuoto […]. E poi da lì vedendo insomma come… come andavano le cose ho preferito, insomma, ho preferito, li chiamavo quasi ogni giorno. Ora ultimamente mi verrebbe voglia di chiamarli ancora, però dico “No, vabbè, non ne ho questa estrema necessità” e quindi non li chiamo. Perché alla fine puntuali, ti portano dove ti devono porta’, te fai due chiacchierate, due risate in macchina, chi meglio di te? Cioè, capito? Quindi…

Secondo un consolidato percorso di autodeterminazione, dunque, egli gestisce il suo vissuto

di invalidità nel riconoscimento dei suoi bisogni e nel rispetto di quelli altrui. Da un lato,

infatti, ricorda riguardo ai periodi trascorsi in cura: «E ci son state delle volte che son stato

solo, che volevo rimanere solo e ho passato parecchi, parecchi giorni che andavo a fare

chemioterapia da solo, non avevo voglia di sentire e vedere nessuno. Ma nessuno della mia

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famiglia e purtroppo anche la mia ragazza, insomma, quando è così penso a me stesso,

insomma. […] Uno cerca lì per lì “Di che cosa ho bisogno? Di alzarmi, mi alzo”. Perché non

so… come devo comportarmi insomma. E quindi. E poi questa scoperta dell’USID che

insomma mi…». Da un altro, aggiunge in merito alla fruizione dei servizi:

Lì per lì mi dissi: “No, buoni taxi non li voglio, tante sono le persone che veramente c’hanno bisogno, insomma. Io ho un problema, ho un tumore che, ringraziando Iddio, fortunatamente è momentaneo. Ci son persone che nascono insomma diversamente-abili. Preferisco, dateli a loro”, “No, no, ma non ti preoccupare, noi non li stiamo togliendo a nessuno” mi disse Marta… […] ho detto “Vabbè, sicuramente tanto non li userò”. E da lì li cominciai ad usare e mi son stati molto, ma molto… anche tutt’ora mi son molto utili. […] Perché io muovermi con la macchina… mah, non mi piace, mi piace muovermi. Se arrivo ad usare il taxi o chiamare l’USID è perché ne ho bisogno e non ne posso fare a meno.

Conclude, infine, secondo un senso di responsabilità personale che si estende da sé, agli altri

studenti con esigenze particolari, fino all’ambiente naturale circostante: «Poi io per i vari

impegni che ho la maggior parte delle volte, ultimamente sto chiamando pochissimo, poco,

poco, perché, insomma, ora posso muovermi con la bici. Preferisco non chiamare, preferisco

che facciano altri accompagnamenti, insomma. Oppure che stanno lì e non inquinano, cioè,

insomma, non ne ho… a volte non ho estrema, estrema necessità, ecco, questo qui voglio

dire». In effetti, nel ripensare al lungo periodo di malattia trascorso e ai festeggiamenti del

suo compleanno con amici stretti mentre era nel pieno delle cure, osserva:

Quella sera sono stato benissimo, cioè, è come se io non avessi fatto mai nulla. Quella sera… ma se io ora vado… ultimamente, qualche mese fa ho rivisto le foto, ho fatto “Mamma mia”. Io lì a pensare quella sera io stavo bene, invece guarda come cavolo stavo. […] Però dentro io, dentro stavo bene. E quindi, questa è un’ulteriore conferma che… alla fine anche la, anche, secondo me il novantanove per cento è tutto nella testa, di come vivi le cose e come anche approcci le persone. […] Io sono un tipo molto socievole, insomma, mi piace molto stare a contatto con le persone a… a chiacchierare e conoscere le persone.

Questo processo di trasformazione personale, connesso all’avvento di una malattia che

stravolge la propria vita, sia nel corpo che nelle relazioni, risalta anche dalle parole di

Caterina. Questa, infatti, ha dovuto innanzitutto imparare ad accettare l’aiuto altrui, secondo

un processo di reciprocità bilanciata: «Perché insomma io mi sono sentita molto impotente,

eh. Da… Poi sai, io facevo volontariato… in ambulanza. Per cui ero abituata ad aiutare io le

persone. E trovare i miei amici della Misericordia che venivano da me a farmi i turni… per

me… […] mi son stati molto vicini, molto. Per dare il cambio ogni tanto a mia madre…». Nel

contempo, ha trovato nel forte legame con la famiglia lo sprone per affrontare la sua malattia:

«Io penso di aver sconfitto quel periodo perché non riuscivo a vedere la sofferenza negli

occhi dei miei fratelli. Per cui piuttosto, guarda… veramente, avrei fatto di tutto. Ho lottato

tanto, ma per loro». Superato il momento acuto di insorgenza, ha poi ripreso la propria vita

imparando a gestire ed accettare la propria diversità:

Mi sono iscritta all’università, ho dato le materie. Piano, piano mi rimettevo nel mondo. Anche se non uscivo di casa perché ero così… dai farmaci. […] I miei amici mi venivano a prendere e andavamo a farci le serate a casa di un amico… così. Però andar in giro, no. Perché poi mi guardavano tipo l’appestata, era proprio tipo… […] mi indicavano così e io ci sono andata e gli ho detto… proprio di petto, di pugno, perché volevo prendermi, insomma, la soddisfazione,

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ho detto “Ma chi stai indicando? Hai visto un mostro?”. Sono stati insomma… un periodo brutto.

Infine, la scelta di trasferirsi a Pisa e sperimentarsi con sé stessa e con le proprie capacità, in

una assunzione assertiva del proprio vissuto:

Poi mi sono messa alla prova, perché piano, piano recuperavo, piano, piano dimagrivo. Sono partita in vacanza dopo, l’anno dopo, quindi dopo un anno che ho fatto fisioterapia per recuperare la forza delle gambe, perché ancora non riuscivo a camminare bene, perché non avevo muscoli. Un anno di terapia dove ho ripreso bene o male tutto. Ad agosto dell’anno dopo, quindi del 2007… praticamente le mie amiche, le mie migliori amiche di giù partono, partivano per il Portogallo. Io ho detto… devo ritornare com’ero, devo, devo vincerla questa paura. Quindi gli ho detto “Posso venire con voi?”. Insomma, sono partita con loro in Portogallo. Ho visto che… ero capace di stare lontana dalla mia famiglia, capace di auto, insomma, giostrarmi da sola. Sono tornata a casa e ho detto “Cari genitori, a settembre mi iscrivo a Pisa e mi trasferisco”. I miei “Uaaaaa! Tu sei matta!”, mio fratello che non mi ha parlato per un mese. “Tu ci vuoi fare morire, dobbiamo stare tutto il giorno con la tensione perché tu sei lì da sola”. Niente, ma io ero irremovibile. […] Mi sono iscritta qua, ho fatto il cambio, autenticato tutti documenti… ho conosciuto le dottoresse [dell’USID]. E insomma, poi il percorso è questo.

Ecco allora che, infine, al recupero delle forze fisiche è corrisposto un recupero della propria

vita e una nuova assunzione di responsabilità verso le proprie aspirazioni.

Anche Red propone una modalità di percepire e gestire la propria disabilità all’interno di un

processo di assunzione consapevole di ciò che questa comporta nella sua vita. Una assunzione

che, tuttavia, emerge in maniera preponderate nei termini dell’accettazione raggiunta grazie

ad una salda presenza genitoriale:

Allora penso… che ci vorrebbe… una… io la vivo bene [la disabilità], perché comunque io sono seguito e ho la possibilità di viverla bene e di viverla giorno dopo giorno bene, perché ho due genitori che hanno due palle che non sono palle, sono di più. Hanno un carattere, mi hanno forgiato, anche se io non sono proprio il figlio… ce ne sono anche più bravi di me, diciamo. Anche nei confronti, perché a volte per farmi capire le cose ce ne vuole di cose. Però diciamo che io la vivo serenamente. E anche gli altri attorno a me la vivono, la vivono serenamente. Chi non la vive serenamente è chi non ha accettato la propria disabilità o la propria difficoltà. Bisogna accettarle le cose, bisogna che tu vai avanti, davanti alle persone. Bisogna mettere l’essere alla prima cosa. È difficile, però bisogna, bisogna farlo.

Braciola, infine, che viene così a consegnarci una meta-riflessione a riguardo: «è un mondo un

po’ strano quello della disabilità, nel senso, perché… c’è difficoltà, e quello penso che sia

anche una cosa comprensibile, perché la difficoltà nasce dal fatto dell’accettarsi – capito?!

Perché è difficile accettarsi, è un cammino non facile». La difficoltà insita nella disabilità,

dunque, è data innanzitutto dall’accettazione di sé e dal percorso personale effettuato per

pervenirvi. Tale economia morale, infine, viene utilizzata da Red secondo una percezione del

ruolo associazionistico opposta rispetto a quella di Braciola, laddove tuttavia rimane centrale

l’atteggiamento attivo e combattente del soggetto (quasi in assonanza con lo studio di

Eideliman):

No, non sono attivo in nessuna associazione, però… io so che bisogna in realtà combattere, anche se poi la… la maschero a volte con… altre cose. Però la mia anima è combattente. A me… “stupido” lo dici perché o sei veramente incazzato per me, con me, o non lo dici per pietà, perché io me ne accorgo.

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1.2 La disabilità come responsabilità sociale

Al polo opposto di questo continuum sembra collocarsi l’economia morale che emerge in

maniera netta dalle parole di Ofelia: «la disabilità dipende tanto dal contesto sociale». Tale

responsabilità attribuita al contesto affiora, anche, dalle parole di Ilaria:

a me mi sembra, in effetti, il fatto di dire che sono la studente disabile… Ecco, per me è ghettizzante invece questa cosa. Io, a me non mi piace. E dover aver bisogno di qualcosa, dover… necessariamente far riferimento a qualcuno, cioè, è vero, meno male che ci sono, certo, è vero. Però, però è mortificante. Io… come ora per esempio ho visto alla televisione una, una ragazza che è ritardata ed è di una scuola di A. [una città del Centro Italia]… non so se alle Medie o alle Superiori. Comunque, lei fa, fa pallacanestro con… cioè, in squadra sono persone con handicap mentali e non. Ecco, a me mi piacerebbe non fare la squadra di persone in carrozzina. Oppure quando mi dicono “Quelli come te” – quelli come me chi sarebbero? Chi sono io? Come te. Io… è questo che io non approvo.

Ilaria, dunque, pur partendo dallo stesso rifiuto di Braciola dei raggruppamenti per categorie,

percepisce fortemente la responsabilità del contesto sociale circostante per l’emarginazione

che vive: «ma me lo scriverò “Non mordo”». Sembra fargli eco Lorenzo nel ricordare la sua

esperienza scolastica: «è mancata la volontà di considerare persona “uno come me”. Di

solito chi commette un reato perde per cinque anni almeno i diritti civili, a me hanno sospeso

qualsiasi diritto come se l’handicap fosse il più grave dei delitti. Non posso neanche dire che

ci sia stato un tentativo di omologazione, direi piuttosto che c’è stata la pretesa di quella

normalità che non possiedo. […] Se volessi usare un unico termine direi che la scuola è stata

una “palestra”... di combattimenti all’ultimo sangue». Secondo questa economia morale la

paura dell’ignoto menzionata da Braciola prevarica il desiderio di conoscenza del diverso: la

disabilità dunque fa paura e il contesto sociale circostante stigmatizza (Goffman 2003) e/o per

difesa lascia nel limen (Murphy et al. 1988).

Nel ripercorrere le diverse opzioni terminologiche per indicare la persona con disabilità Ofelia

pone in questione l’atteggiamento della società che ciascun vocabolo sottende:

O: Guarda, non so perché, mi stai facendo domande che casualmente, in questo periodo, m'è capitato discorsi di questo genere. Perché, proprio una settimana fa, leggevo su Internet un articolo proprio riguardo alle terminologie utilizzate – mi sembra il sito Superabile, se t’interessa […] – e c’erano le riflessioni, appunto, di un giornalista sulle varie terminologie – no?! – handicap, disabile, eccetera eccetera. Ehh, senti, io colloquialmente, parlando, uso il termine disabile, non so perché. Semplicemente, forse, perché handicap, handicappato, roba del genere… pur essendo secondo me teoricamente corretto, perché handicap vuol dire ostacolo, handicappato ostacolato: cosa c’è di più ostacolato, ma non dalla malattia di per sé, quanto dalla società?! Quindi, secondo me, di per sé la parola non sarebbe sbagliatissima, però purtroppo c’ha questa connotazione negativa “ah, come sei handicappato!”, cioè, proprio offensiva, quindi non mi piace, per questo motivo. E poi, appunto, ostacolato, cioè, alla fine, è proprio una critica mia personale nei confronti della società che, per quanto possa esser vera, magari non tutti ci si rispecchiano, ché non puoi far di tutta l’erba un fascio, quindi sarebbe anche un po’ razzista fare tutto un insieme di cose. Diversamente-abile mi sembra voler mettere i puntini sulle “i” per evitare di offendere qualcuno. Perché dire disabile vuol dire non sei abile a far niente e quindi, allora, un po’ per usare un termine politicamente corretto diversamente abile perché, sì, le cose le fai in modo diverso però le fai. Disabile mi sembra, pur sbagliato che sia, la parola più corta e più, cioè… la capisci al volo. Però, non mi sembra corretta nemmeno questa, perché in effetti, appunto, disabile vuol dire una persona che non è abile e questo non è vero, perché io, con i mezzi adeguati, sono capace come gli altri se non di più. Cioè, anch’io ho

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delle mie abilità, quindi, insomma, disabile… Però, alla fine, tra tutti i termini uso quello più semplice, ecco.

F: Un’alternativa?

O: Persona. Con difficoltà, non lo so, eventualmente, persona con difficoltà, basta. Cioè, non penso che sia necessaria un’etichetta, perché io non è che vado a distinguere: ah, grassa, magra, bionda… Cioè, non c’è una distinzione sociale in questo senso. Anche il fatto, che ne so – ora magari parlo un po’ a ruota libera – il fatto dei bagni per disabili: perché ci dev’essere il bagno per gli uomini, il bagno per le donne e il bagno dei disabili? Allora, innanzitutto mettiamo i puntini sulle “i” anche i disabili sono uomini e donne, quindi già dovresti fare, se proprio vuoi, fai i bagni per disabili uomini e i bagni per disabili donne – a parte questo. Ma non puoi fare semplicemente un bagno grande per uomini e un bagno grande per donne, e basta? Cioè, perché devi fare anche il bagno per disabili? Lo fai grande, ci metti i maniglioni, ci metti se c’è la possibilità di un lettino o quello che vuoi, però che lo usino tutti! Cioè, questa… Cioè, come una volta, c’era il bagno per i bianchi e il bagno per i neri. Perché far questa distinzione!?!

Dunque, secondo questa economia morale, è la società a categorizzare e stigmatizzare,

impedendo in tal modo uno scambio paritetico fra persone pur nella loro diversità.

Tornando alle parole di Ofelia, è dunque sempre la società a doversi sforzare nel dare a tutti le

medesime possibilità di realizzarsi ed esprimersi, nonché di vivere. Prosegue a riguardo:

È importante perché quello che la massa – perché poi non puoi parlare di individui a sé – in generale l’opinione comune è quella, uno di fare di tutta l’erba un fascio e poi di considerare più il tipo di disabilità, d’invalidità, chiamala quello che ti pare, piuttosto che la persona. Cioè, anche, che ti posso dire, il fatto di progettare l’albergo con l’ingresso sul retro [un albergo altrimenti non accessibile a tutti]: cioè, te risolvi il problema a livello puramente burocratico, o comunque a livello materiale, ma non tieni conto della persona, dell’essere, che comunque si trova umiliata dal dover passare dal retro. Quindi, è proprio questo il problema: vedere la disabilità come qualcosa, non te lo so spiegare, comunque non considerare la persona in quanto, che ne so, simpatica, intelligente, brava, ma persona che non può fare questo, non può fare quest’altro, usa la carrozzina… Ché poi io quando passo per la strada, cioè, la gente nota la mia carrozzina, non guarda me. Non vede, cioè, che ti posso dire: passa la bionda con gli occhi azzurri, tutti “Ah, che begli occhi azzurri!”, “Ah, che bel sedere!”, “Ah, che bel seno!” – a me quando passo io mi guardan la carrozzina, poi magari dici “ma di che colore ce li aveva gli occhi?”, non ti sanno rispondere, perché riguardano l’involucro esterno, capito?! Uhm, non so se mi son spiegata.

Questo modello della disabilità – cognitivo, di valutazione e di comportamento insieme,

sebbene a noi interessi qui specificamente per la sua valenza di economia morale – viene

utilizzato dunque dai suoi sostenitori per raggiungere il riconoscimento auspicato: se la

disabilità è data dalle barriere fisiche, comunicative e simboliche, frapposte dalla società, è

necessario che quest’ultima operi in direzione opposta, per una accessibilità davvero

universale piuttosto che contingente. Prosegue Ofelia:

Un’utopia: fare un censimento di tutte le barriere architettoniche di tutti gli edifici universitari e, indipendentemente dalla richiesta, abbatterle. Perché la tendenza è: si abbattono quando c’è necessità. Tipo: io devo andare a lezioni in una certa aula, ci son le scale, faccio domanda, si mettono in moto per metter la rampa, mettere l’ascensore, però nel frattempo passa il tempo. Quindi, è un’azione a posteriori – capito?! – solo quando il problema si presenta. […] Ché poi, anche lì, ecco, quest’altra cosa: quando si par... – questo in generale, eh?! – quando si parla di accessibilità – […] – quando si fa un sopralluogo o quando si progetta qualcosa di accessibile, l’effettiva accessibilità dovrebbe essere testata dall’utente finale. Quindi, cioè anche a livello “Ok, abbattiamo le barriere architettoniche in questo edificio”, c’è modo e modo di abbatterle,

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perché, non è semplicemente mettendo uno scivolino che le abbatti – capito?! Ché magari, io entro dentro, supero lo scalino, però poi magari c’è l’aula con le sedie ancorate al pavimento e il corridoio disponibile è troppo stretto e la carrozzina non ci passa. Quindi, io sono entrata dentro, però poi rimango sulla porta. Quindi è proprio… è una cosa molto ampia la questione dell’accessibilità.

Ecco allora che perché la società si faccia carico anche della dipendenza estrema è necessario

che vi sia un rapporto di reciprocità in cui la società si adopera per mettere la persona in grado

di avere pieno accesso al suo contesto di vita e la persona, una volta testata la reale efficacia

degli strumenti predisposti, può condurre una vita come gli altri e compartecipare al benessere

comune. Riguardo dunque all’Università, questa economia morale che vede nel contesto la

responsabilità di una accessibilità non universale, e dunque di una disabilità pervasiva,

interviene in questi termini:

Che riguarda anche, che ne so, poi, secondo me, l’unica, cioè l’università non può stare nel centro storico! L’università dovrebbe essere tutta accorpata, un po’ come i campus universitari americani, in modo che sia agibile anche a piedi, fra dieci metri e vai nell’edificio accanto, tutto pari, tutto liscio, niente mattonelloni sconnessi, niente marciapiede con le biciclette parcheggiate, posti riservati occupati abusivamente, eccetera eccetera. Anche questo alla fine è accessibilità. Perché se te mi metti un edificio nel centro storico, con la strada sconnessa, il posto riservato dove ci sono i motorini sopra, cioè, che accessibilità è?! Io me ne sto a casa, faccio prima. […] Perché se io mi faccio 50 metri su una strada sconnessa mi viene mal di testa e son fregata per tutta la giornata. Se io non trovo il parcheggio davanti all’università, poi mi devo fare un pezzo di strada a piedi: te il pezzo di strada a piedi lo fai correndo, io lo faccio passo passo. Se piove, me la prendo tutta. Il marciapiede non ci posso andare perché è stretto, c’è lo scalino, ci sono i motorini sopra, le auto parcheggiate sopra, devo passare in mezzo alla strada, in mezzo alla strada c’è la gente che passa e che ti suona col clacson. Quindi, sei nervosa, sei stanca, arrivi stressata, alla fine ‘un ci vai proprio. Però, t’ho detto, questo non dipende dall’USID. […] Poi, io, hai beccato proprio una persona che ha mille esigenze! Magari, un’altra persona in carrozzina, però autonoma, tutti questi problemi non ce li ha. Capito?! Quindi… Ti ho detto, tutto è molto relativo al tipo di disabilità. Ovvio, per fare una cosa che va bene per tutti, dovresti fare una cosa che va bene a quelli più gravi, che automaticamente poi va bene per tutti.

Sebbene in questo caso Ofelia parli di accessibilità fisica, tuttavia tale nozione può essere

colta in senso più ampio, sia in quanto interferisce con la dipendenza/autonomia fisica e

sociale insieme della persona in questione, sia perché in effetti l’accessibilità investe anche i

canali comunicativi e culturali (tanto più riguardo a un tema come quello dell’accesso allo

studio universitario). In tal senso, constata Red: «Alla fine l’uni[versità], l’università, bene o

male o studi o lavori. Siccome i lavori purtroppo, i lavori per i disabili non sono all’altezza,

magari delle aspettative, se ne hai qualcuna, dopo alla fine finisci in un ginepraio, dove tu

non vuoi finire, dove magari ti senti… insomma, è… ancora la società si deve adeguare, cioè

deve adeguarsi alla diversità». Ecco allora che la società frappone barrire che ineriscono

parimenti l’accesso al lavoro come quello alle strutture. Ricorda, ad esempio, Bibliologa

riguardo alla sua ricerca di lavoro tramite collocamento mirato: «Diciamo, sostanzialmente

settore bibliotecario ovviamente, poi colloqui anche con l’assistente sociale, ma – t’ho detto –

le offerte non mi soddisfacevano, perché sostanzialmente venivo messa lì soprattutto a scopo

di socializzazione e quindi io – come dissi alla mia cara assistente sociale che al colloquio

non ci capiva un piffero – gli dissi: “Signora cara, io non sono mica scema, non ho mica

bisogno di venire a scaldare il banco”!». La nostra interlocutrice, peraltro, riscontra forme di

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pregiudizio diffuse. Nel menzionare una conferenza sulla disabilità rivolto a studenti di

fisioterapia a cui lei stessa ha partecipato come relatrice portando la propria esperienza –

«Figurati che io c’ho fatto anche delle conferenze sulla disabilità, per cui, sarò d’accordo

[con l’uso del termine]?! […] È una condizione di vita, per cui, perché vergognarsi! Cioè…»

– ricorda: «È bellino, una cosa carina che ti posso... che ti voglio raccontare, ho fatto una

conferenza sulle… sulla disabilità con la mia fisioterapista a una classe di studenti [di

Fisioterapia, a Firenze]. Allora, io mi sono meravigliata quando ho raccontato loro tutte le

cose che facevo: la loro reazione e le loro domande, cioè, son state fantastiche! Qualcuno ha

fatto delle domande proprio che ‘un stavano nemmeno in piedi! […] Ma come fai a

mangiare, ma come…? Cioè!». Ecco dunque emergere, nel racconto di Bibliologa, una

diffusa disinformazione ed una scarsa attenzione alle problematiche di cui era chiamata a

parlare:

Molti luoghi comuni. […] I disabili sono tutti stupidi? […] Cioè, non è che me lo chiedevano proprio esplicitamente, però, cioè… c’era proprio questo cliché. Cioè, capito: il disabile è stupido, si fa la pipì addosso – e invece – non è capace d’anda’ in bagno, e quindi… […] ‘Unn’ha voglia di fa’ nulla, ‘un po’ fa’ nulla, cioè… […] Sì sì, proprio “esseri inferiori”. Addirittura mi sconvolse il fatto che non ci ved[essero]… che non ci vedessero neanche come ‘umani’, tra virgolette! Uno addirittura mi disse: “Vabbè, noi ti si fa fisioterapia e te… e voi dovete sopporta’”! E quindi ho detto: “Che?! Ma che cavolo…”.

Da tali parole affiora lo stigma che sovente investe coloro che presentano una disabilità fisica

connessa a dipendenza estrema, laddove, la difficoltà a gestire in autonomia i propri bisogni

viene connessa ad una incapacità intellettiva.

Anche Cassandra, peraltro, adotta una prospettiva simile, che riassume in queste parole: «Mi

rispecchio [nella definizione di disabile] nella misura in cui la vedo negli occhi degli altri,

insomma, ecco. Questo… è ovvio, nel senso che è una cosa che, è un dato di fatto, quindi…

Sai… molto spesso io credo che… nel senso, gli altri, quelli – consentimi di usare questo

termine – normodotati, ti pongono molto spesso più limiti di quanto in realtà tu ne avresti –

no?! Cioè, nel senso che te li pongono proprio loro, non so se, se riesco a spiegarmi a

sufficienza». Prosegue ancora a delucidazione: «te li pongono nella misura in cui pensano che

certe cose magari, che nella loro me[nte], nella loro mente tu non sei in grado di fare e in

realtà tu riesci in qualche maniera con diversi accorgimenti a farlo nello stesso modo –

capito? Non mi sono spiegata…». È il contesto, dunque, a porre limiti e a non fornire gli

strumenti per una piena ed autonoma espressione di tutti. Conclude Cassandra riguardo a

questo modello di disabilità:

Ecco, io dico, i miei limiti ci sono, però i limiti, nel senso, ci sono anche per le persone normodotate, perché ovviamente credo che ognuno di noi abbia dei limiti… personali, insomma, no? Credo. Non è che anche una persona normale possa fare qualsiasi cosa in qualsiasi momento, ecco. Quindi credo che, cioè, nel senso… i limiti se li debba porre il disabile, non il non disabile. Nel senso che magari cose che per una persona normodotata, proprio perché magari non è abituata a pensare – ecco, hai capito? – in questi termini, e quindi questo può rappresentare un ostacolo, per il disabile non lo è – Capito?! Forse ti potrei fare un esempio concreto. Non so, per esempio… è facile – no? – per un normodotato, come dire, prendere una qualsiasi cosa o dare un qualsiasi utensile pensando che quello non riesca a raggiungerlo o… – hai capito? – o a fare una determinata cosa, ecco. In realtà secondo me va lasciata un po’ più di autonomia. […] E anche di mettersi alla prova, perché no – capito?!

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Perché alla fine… credo che ognuno di noi si debba misurare poi con le proprie forze, con le proprie capacità, ecco. Poi…

La riflessione della nostra interlocutrice, dunque, si sofferma su un’ulteriore sfumatura di

questa economia morale della disabilità: quella stessa società che col suo sguardo decreta la

diversità di chi ne è l’oggetto; quella stessa società che, nelle parole di Ofelia, non rende

accessibile il mondo a chi necessita di particolari accorgimenti; quella stessa società che

infine per Cassandra preferisce sostituirsi alla persona con disabilità, per ovviare ai suoi

limiti, facendosi così essa stessa limite. Limite insito nella dipendenza che le persone con

disabilità vivono quotidianamente e che la società, nella sua normalità, sembra corroborare

piuttosto che attenuare.

L’utilizzo di questa economia morale, dunque, volge all’ottenimento di strumenti che

consentano a ciascuno, anche in presenza di grave disabilità, di vivere a pieno la propria

esistenza ed esprimere le proprie potenzialità. Il risvolto positivo di quanto ricercato risalta a

pieno dalle parole di Paola:

Secondo me, i termini che si usano hanno poca importanza. Io sono innanzitutto una persona e in quanto tale vorrei fare parte della società attivamente. Credo che posso essere una “risorsa” e non solo un peso ma ho bisogno di strumenti diversi. Vorrei essere “protagonista” della mia vita; decidere che cosa fare, dove andare, che cosa mangiare, come vestirmi, dove abitare e con chi ecc. Un ottimo punto di partenza sarebbe costituto dalla Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità. Se si attuasse concretamente questo manifesto, si darebbe davvero delle opportunità alle persone con disabilità di “crearsi” il loro futuro. Non voglio favoritismi, vorrei solo una chance per mettermi alla prova, per migliorare il mio stile di vita (per esempio mi piacerebbe viaggiare).

Il senso di abbandono e di emarginazione espresso da Paola, unitamente al desiderio di

assumere un ruolo attivo rispetto al proprio vissuto, potendo fare scelte e prendere decisioni

(anche relativamente alle più semplici attività quotidiane), trova nella Convenzione un

proficuo punto di partenza per il riconoscimento, anche nel nostro Paese, di un diritto ad avere

diritti (richiamandosi alle parole di Hanna Arendt).

Tale economie morale, dunque, nel convogliare la responsabilità della disabilità sulla società

viene parimenti a richiamarsi al linguaggio dei bisogni e a quello dei diritti. Da un lato, infatti,

come suggerito da Paola, nel momento in cui tali diritti siano effettivamente applicati e

rispettati, possono portare ad una piena partecipazione sociale e culturale dei soggetti in

questione. Diritti che, peraltro, possono essere di ampio respiro, come quelli della

Convenzione ONU, o di applicazione più immediata, come quelli sanciti dalla Legge 17/99,

collegandosi ad un utilizzo molteplice della stessa economia morale qui prospettata. Osserva,

ad esempio, Marco riguardo all’esenzione degli studenti con disabilità dal pagamento delle

tasse universitarie: «cioè, mi sembra giusto. Perché abbiamo già molti problemi, non vedo

perché… me ne devo aggiungere altri. Poi considerando il… il fatto che uno… una tassa

universitaria non credo che sia molto bassa… conviene tenerseli sotto al cuscino!». Dall’altro

lato, al contempo, nelle parole di Orazio, emerge anche il linguaggio dei bisogni che entra nel

merito, ad esempio, dei servizi dell’USID, laddove la loro portata integrativa è valutabile

nella loro capacità di sopperire ai bisogni manifestati dallo studente, al di là di ogni

discussione terminologica:

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Sinceramente da ‘sto punto di vista non c’ho mai fatto… caso alla fine [dell’adeguatezza del ricorso al termine disabilità, anche nell’acronimo USID, per indicare problematiche come le sue]. Cioè, mi sembra, mi danno una mano a venire a lezione, come si chiamano si chiamano, a me non è che mi… che mi importi più di tanto. Non ho mai avuto… problemi… Cioè, mi è indifferente… da questo punto di vista. Non ci son problemi da ‘sto punto di vista. […] T’ho detto, di fondo il problema… che appunto ho bisogno di qualcuno che mi dia una mano, poi o lo chiami disabile, o lo chiami diversamente-abile, quello è il problema. Come lo chiami non… […] L’importante è che qualcuno mi dia una mano, poi com’è, è… T’ho detto non, non ci bado a ‘ste… ‘ste cose.

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2. Disabilità fra società e individuo

2.1 La disabilità come co-responsabilità sociale e personale

Una posizione che si pone a cavallo fra le due summenzionate è quella che assume la

disabilità come responsabilità sociale e al contempo personale, nel connubio di dimensione

strumentale ed espressiva.

Lo stesso Orazio, con cui abbiamo chiuso l’economia morale che assegna maggiore

responsabilità alla società e alle sue istituzioni, si sofferma parimenti sul senso di

responsabilità personale, corroborato da una consapevolezza del proprio vissuto di disabilità

che si è accresciuta nel tempo. In effetti, nel periodo in cui si è svolta l’intervista, egli era

pervenuto ad una nuova assunzione del limite esistente fra le sue aspirazioni lavorative e di

vita in genere e le esigenze di cura connesse alla sua disabilità. In tal senso, infatti, il nostro

interlocutore viene a raffrontare gli anni trascorsi a Pisa per effettuare gli studi universitari

con il suo successivo ritorno per ricoprire un ruolo lavorativo:

Beh, magari all’inizio il fatto di vedere che qua non… cioè, non vedevo un ambiente bello chiaro, una situazione nitida, magari ha contribuito a mettermi quello stato di ansia addosso. Però anche all’inizio… ho avuto un po’ di difficoltà qui a casa perché… diciamo il motivo per cui me n’ero voluto andare [dalla città d’origine] perché stavo col ricordo comunque sia degli anni trascorsi qua con, in casa con questi amici che son stati anni belli. Quindi mi mancava quel, quell’atmosfera. Però il fatto di essere ritornato qua e vedere che… quell’atmosfera non riuscivo più a ricrearla perché pure il ragazzo che doveva stare in casa con me qua praticamente non è mai venuto, non s’è mai trasferito. Quindi son venuto qua per stare in casa sempre con mia madre, quindi… cioè, ho trovato ‘sta situazione non ideale per… E quindi m’ha messo tutto ‘sto stato d’ansia e ho detto forse se devo pensare anche a… a sistemarmi da un punto di vista… della vita anche futura, magari stare giù [nella città d’origine] è la… è il compromesso migliore.

Ecco allora che Orazio si è dovuto scontrare con le crescenti difficoltà connesse ad una

disabilità degenerativa, che lo vede sempre dipendente da altri per bisogni di cura. In tal

senso, dunque, è giunto ad assumere una nuova consapevolezza delle sue esigenze e delle

prospettive per lui effettivamente realizzabili: «E quindi poi quando c’è stata la possibilità di

venire a lavorare di nuovo qua [a Pisa]… cioè, pensandoci parecchie volte, però mi sentivo

di dover fare questo passo. Poi le cose qua non sono andate nel migliore dei modi e quindi…

ora appunto ritorno… ritorno giù [nella città d’origine]. Ho preso atto delle difficoltà… che

ci sono a stare lontano da casa e forse ora sta volta… penso che sia la scelta migliore… da

fare». Conclude, così: «anche se ho sbagliato – magari ora dico non è stata l’idea, la scelta

migliore venire qua – però la dovevo fare, appunto, per avere quest’esperienza negativa e… e

accontentarmi di ciò che avevo prima». Ecco allora che, unitamente alla responsabilità

sociale, risalta da queste parole una forte responsabilità personale, che ha infine portato

Orazio a effettuare un percorso esperienziale di crescita all’interno della sua stessa disabilità e

delle connesse difficoltà.

Questo percorso di crescita nella consapevolezza della propria disabilità, all’interno di una

assunzione di co-responsabilità personale e sociale, emerge in maniera più sedimentata e,

dunque, rielaborata, nelle parole di Carlotta:

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ho avuto la fortuna di trovare delle persone [il gruppo scout che frequentava] che mi hanno spronata a tirare fuori questo rospo [le difficoltà connesse alla disabilità visiva], che io lo rigettavo completamente, quindi è stato proprio… un grosso colpo. E vedere che dopo la gente spontaneamente ti si avvicina, ti chiede aiuto, ma non perché gli fai pietà, perché… perché è un modo spontaneo, così, di rapportarsi con te. Perché magari fino al giorno prima non sapeva come rapportarsi e gli hai aperto un mondo e adesso lo sa. E allora si può fare. […] E i primi approcci con l’università, con i ragazzi dell’università sono stati così, perché aveva funzionato alle Superiori, alla fine aveva funzionato con gli scout, perché non doveva funzionare anche all’università? […] Spiegando che c’erano delle difficoltà, che io sono così e che quindi… ho necessità e che quindi se cammini per strada devi pure dirmi quando ci sono i gradini magari. E… il problema, sì, è che veramente ne devo parlare, perché soprattutto nei posti in cui conosco la gente non se ne rende conto.

In tal senso, se nel tempo gli ambienti sociali e amicali in cui ha vissuto l’hanno supportata

nell’accettazione della propria disabilità e nella connessa assunzione di responsabilità verso il

suo vissuto, lei stessa, adesso, può farsi consapevole propositrice del suo essere, consentendo

agli altri di relazionarsi adeguatamente rispetto alle sue esigenze.

Una sentita prospettiva di co-responsabilità sociale e personale emerge, in altra forma, ma

egualmente esplicita, dalle parole di Morfeo, il quale parte da una riflessione sull’opportunità

o meno di classificare la disabilità e le persone con disabilità, per poi soffermarsi sulla

responsabilità della società nel fare la disabilità stessa e del singolo nel viverla e rielaborarla a

modo suo:

M: La parola [disabilità] implica... è vero, hai ragione, una classificazione. Sai, classificare è difficile, per il fatto che ogni persona ha un problema che è soggettivo. Il tipo di livello quanto ci senti, o il tipo di, insomma, di problema motorio che hai. Ci sta che un pochino zoppichi e cammini e altre volte non cammini e hai bisogno della sedia a rotelle. Ogni persona è soggettiva e ha livelli, diversi tipi di disabilità. Definirla... il problema è che... il problema è proprio che la definisci. Nel senso che... se te la definisci, cioè, non risolvi un problema definendola. Non so spiegartelo. Non è... Se te definisci quella cosa sai chi è, come è e la definisci. E sai che è così, punto, finita lì. Invece il definirla non è finita lì, perché c'è tutto un lavoro dietro, che, che non è soltanto definirlo. Hai questo problema? Ok. […] se lo definisci ne fai un problema forse più grosso di quello che è definendo la cosa. Secondo me.

F: Quindi per certi aspetti dici sarebbe meglio non...

M: … non classificare. Perché il classificarla vorrebbe dire che, che hai quel problema. Ovvio, devi essere consapevole del problema. Ma io penso che già di te, per suo, come persona lo sai qual è il problema. Perché il dire che è disabilità… È vero, è una disabilità, ma la disabilità deriva dal fatto sociale. È la società che ti crea la disabilità. E quindi poi tutti i deficit che, che, ne vengono di conseguenza. È la società che costruisce le case con le scale, se sei uno con la sedia a rotelle. Ok, i palazzi, architettura, è bella l’architettura. Eh, però è la società che ha creato quella disabilità. Perché se creavano le scale... le rampe per tutte le abitazioni non era una disabilità. Chi era in sedia a rotelle andava in giro tranquillamente. Per dire. È come la vedi la cosa. Almeno io inizio a pensarla così. Io ancora il mio problema non l’ho accettato del tutto. Quindi... Però quella per dire... il mio non udire purtroppo non è un problema di nessuno, ce l’ho io e devo io trovare la soluzione. Se poi la società mi viene incontro ben venga. Però comunque è e rimane un problema mio. L’uomo di per sé è egoista, come di per sé pensa solo alle sue cose. È vero. È egoista le persone. E quindi è un problema che se è mio me lo devo risolvere da solo. Ti rimbocchi le maniche e lo fai. Ti ci vuole due mesi, sei mesi, un anno, eccetera e poi uno si spera ti ripigli. Se non ti ripigli... ti spari, che devo fa’?

In tal senso, nel momento in cui questa economia morale entra nel merito della fruizione dei

servizi e della didattica nell’università, richiede un adattamento reciproco della società al

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