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Capitolo X Fortuna infelice abbattuta da Fortezza

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Academic year: 2021

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10.1 - La Fortuna infelice abbattuta dalla Fortezza

«Questa teletta (misura cm 50,5 x 46), da me riconosciuta in una importante collezione privata urbinate, si configura quale estremo esempio della fervida poetica espressa in cifra allegorica da Lorenzo Lotto in tutto l’arco della sua attività». Con queste parole Pulini1 introduceva il lettore all’analisi di un’opera da lui recentemente scoperta all’interno di una collezione privata di Urbino - attualmente in deposito presso il Museo della Santa Casa di Loreto – che Lotto aveva in più occasioni documentato nel suo Libro di Spese Diverse2 e che fino a quel momento si credeva perduta: il “Combattimento tra Fortezza e Fortuna infelice”, oggi nota come La Fortuna infelice abbattuta dalla Fortezza (fig.1). Questa piccola tela gli si era presentata “con qualche patimento” nella parte inferiore, dovuto alla “maggiore consunzione della sottile pellicola pittorica originale”: il restauratore Isidoro Bacchiocca la imputava ad un tentativo di pulitura condotto in occasione di precedenti restauri al fine di far riemergere il primo strato pittorico, secondo una consuetudine assai diffusa in passato e che il più delle volte aveva avuto effetti devastanti. Un’indagine radiografica ha in seguito rivelato la presenza, nella parte inferiore del dipinto, del dettaglio di un “tendaggio” (fig.2): lo studioso deduceva che la tela utilizzata da Lotto doveva essere la porzione di un’opera realizzata in precedenza: «Il tessuto sul quale è stata eseguita l’Allegoria è infatti un frammento di tela già dipinta, della quale si scorge, disposta in altro senso, la parte finale di un tendaggio sospeso». Ricordandoci che l’artista aveva spesso inserito simili panneggi in qualità di fondali in molteplici ritratti e che alcuni di questi ritratti gli erano stati rifiutati, egli ipotizzava dunque che il dipinto fosse frutto del riutilizzo di una tela “rigettata”. La Fortuna infelice abbattuta dalla Fortezza è stata ricondotta da Binotto3 al periodo compreso fra il 1545 e il 1549. Sulla scorta di Pulini, la studiosa ha rimandato, quindi, al “libro dei conti” tenuto dall’artista fra il 1538 e il 1556, in cui diverse annotazioni relative all’opera in esame confermano tale datazione4.

1

M. Pulini, in “Arte Documento”, 14, 2000, pp. 80-85.

2

P. Zampetti, Il Libro di Spese Diverse con aggiunta di lettere e d’altri documenti, Roma, 1969, pp. 42, 130, 168-169.

3

M. Binotto, in Lorenzo Lotto, Milano, 2011, pp. 278-279.

4

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Fig.1 Fortuna infelice abbattuta dalla Fortezza, 1545-49, olio su tela, collezione privata (in deposito presso il Museo della Santa Casa di Loreto, 2002)

Il pittore avrebbe ricevuto da un tale Dario Franceschini l’incarico di restaurare un suo ritratto, eseguito però da un artista di cui si ignora l’identità, al quale avrebbe successivamente abbinato “lo abatimento” in qualità di coperto. Come chiariscono le annotazioni lottesche il termine “abatimento” veniva usato dal pittore per alludere al combattimento fra due concetti contrapposti, le allegorie della “Fortezza” e della “Fortuna avversa” o “infelice”. In un’altra nota, Lotto informava di aver realizzato una tela di medesimo soggetto per un altro cliente, un certo “Rocho diamanter”, probabilmente un commerciante in pietre preziose. Anche qui il dipinto era definito

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“abatimento de la forteza con fortuna” e valutato all’incirca lo stesso prezzo. Qualche tempo dopo aver ricevuto in dono il “quadretto” allegorico, “misser Rocho” gli avrebbe commissionato un dipinto di uguali dimensioni. Ma nel giugno 1550 egli restituiva all’artista, sia il dipinto ricevuto in dono, sia quello da lui espressamente richiesto: evidentemente non si erano accordati sul prezzo. Se, da una parte, Binotto5 è convinta che in origine le versioni dell’opera fossero due - una destinata a Dario Franceschini e l’altra a “Rocho diamanter” - dall’altra Pulini aveva tentato di dimostrare che in realtà nel libro dei conti Lotto alludesse alla stessa opera. Ecco la ricostruzione della vicenda proposta dallo studioso: «Sul frammento di un quadro rifiutato Lorenzo Lotto dipinge un “abatimento de la forteza con fortuna”; nel maggio del 1549 gli viene in mente di offrirlo a un potenziale committente che in seguito, rifiutando un’altra opera da lui espressamente richiesta» […] «(la commissione risale al maggio 1550)» […] «si decide a restituire anche il dono ricevuto» […] (nel giugno 1550) «Infine la teletta, tra le meno valutate all’asta, viene aggiudicata a un acquirente occasionale».6 L’asta è quella “tragica” tenutasi ad Ancona nell’agosto 1550 in occasione della quale il pittore aveva cercato di vendere “a lotto e ventura” una serie di dipinti rimasti invenduti; tra questi compariva anche “El quadro de lo abatimento de la forteza con fortuna”.7 A proposito del ruolo di Dario Franceschini nella suddetta vicenda lo studioso aggiungeva: «Le date sarebbero compatibili per inserirvi anche un ulteriore rifiuto, quello dell’amico Dario da Cingoli». Effettivamente, nel libro dei conti risulta che l’ “amico” di Lotto avrebbe ricevuto la tela il 9 giugno 1550 - due mesi prima dell’asta - il che sembrerebbe confermare l’ipotesi di un secondo rifiuto avanzata dal critico.8

5

M. Binotto, op. cit.

6

M. Pulini, op. cit., p. 85.

7

P. Zampetti, op. cit., p. 130, carta 72 v.

8

M. Pulini (op. cit., p.85, nota 10) precisava: «Dario Franceschini da Cingoli riceve dal Lotto una

allegoria raffigurante “lo abatimento de la forteza con fortuna” in data 9 giugno del 1550 (solo due mesi prima dell’asta di Ancona, ma in coincidenza con la probabile restituzione di un’operetta di identico tema da parte del già ricordato Rocho, commerciante in diamanti), come coperto di un ritratto dello stesso Franceschini non eseguito dal Lotto, ma da lui restaurato» […] «Difficilmente riusciremo a sapere se è sempre la stessa opera che il pittore cerca ripetutamente di vendere con veramente scarsa fortuna, oppure si deve pensare all’esistenza di più telette con lo stesso soggetto».

(4)

Fig.2 Radiografia della Fortuna infelice abbattuta dalla Fortezza, ruotata di 90°, particolare

10.2 - Un “testamento allegorico”

Uno studio fondamentale dedicato al soggetto illustrato da Lorenzo Lotto in questa piccola tela, oltre a quello condotto dal già citato Pulini9, è quello di Loretta Secchi10. Entrambi erano dell’avviso che l’artista, nel rielaborare con grande libertà un linguaggio iconografico avente una lunghissima tradizione alle spalle, avesse inteso, non solo dare rappresentazione ad una complessa allegoria - un’impresa - ma addirittura dire qualcosa di sé, della propria esperienza, offrendo al fruitore un espediente per sconfiggere quella “fortuna avversa” che in vita sembrava perseguitarlo. E infatti Pulini asseriva: «ora, per la prima volta, sappiamo che Lotto si espresse “di suo pugno” sulla fortuna avversa, giungendo persino a fornire un rimedio per contrastarla» […] «Come in una morra concettuale, le armi acuminate della sfortuna si spuntano incontrando la resistenza marmorea della forza morale».11 D’altro canto, Secchi riteneva che l’opera riportasse: «al vissuto dell’artista e a quei tratti biografici che rivelano una sua naturale disposizione alla perseveranza e al perseguimento volontaristico della virtù».12

Veniamo all’analisi della scena. In un’ambientazione appena accennata compaiono due figure femminili: “Fortezza” e “Fortuna”. La prima, che indossa una lorica verde

9

M. Pulini, op. cit., pp. 80-85.

10

L. Secchi, in “Arte Documento”, 14, 2000, pp. 86-91.

11

M. Pulini, ibid., p. 82.

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e una tunica rossa, ha allacciata intorno alla vita una pelle di leone di cui si scorgono a malapena la testa e la coda, mentre ai piedi porta dei calzari con protomi leonine; l’attributo più significativo che la caratterizza – pur non essendo quello più consueto - è tuttavia la colonna, che essa impugna saldamente fra le mani. Tali attributi – ricordavano i due studiosi - sarebbero ritornati nella “Fortezza” di Cesare Ripa13 (fig.3). Pulini affermava in proposito: «alla voce Fortezza si ritrovano coincidenti gli attributi della guerriera vincente, che ha annodata, a guisa di manto, una pelle leonina, la cui coda si distingue a fatica dietro la schiena della donna» […] «maculati e con una piccola testa di leone sono pure i calzari; infine la colonna, simbolo di stabilità, di fermezza, oltre che essere elemento della Costanza, lo si trova sovente accostato alla Fortezza, virtù morale affine e, nell’allegoria specifica, complementare. Sono dunque la determinazione, la coerenza etica e la costanza, confluite nell’unica personificazione della Fortezza a contrastare e vincere gli influssi malefici del caso»14. Secchi ribadiva il medesimo concetto, rimarcando il ruolo assunto nel dipinto di Lotto dalla volontà: «espresso con fermezza nell’opera lottesca dalla presenza della Fortezza che, nelle tracce leonine e guerriere dell’abito, rimanda chiaramente alla celebre descrizione iconografica del Ripa». La studiosa, inoltre, metteva in evidenza l’affinità esistente fra l’iconografia della “Fortezza” e quella dell’ “Audacia”: «nella personificazione troviamo straordinarie somiglianze con la fortezza del Lotto e se possono nascere equivoci sul concetto di abbattimento della colonna marmorea, non ve ne sono sulla descrizione dei colori della veste di Audacia: verde e rosso come nella Fortezza del Lotto» […] «In sostanza la contiguità esistente tra Costanza, Fortezza e Audacia, pone il tema della proporzione tra volontà, desiderio di affermazione e azzardo» […] «sono certamente trattazioni allegoriche di concetti e precetti, ma anche testimonianze di una personale concezione della vita e della realtà, espresse con libertà conquistata e coraggio intellettuale».15 In sintesi, nell’immagine della “forteza” concepita da Lotto - il cui obiettivo sarebbe stato quello di trasmettere la volontà di prevaricazione dell’uomo sul caso - si trovano riuniti quegli attributi con cui Ripa avrebbe in seguito

13

C. Ripa, Iconologia, Padova, 1603, ed. 1992, pp. 142, 146.

14

M. Pulini, ivi.

15

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Fig.3 Fortezza, Iconologia, Cesare Ripa, ed. 1618

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contraddistinto la “Fortezza” (pelle di leone e calzari) (fig.3), la “Costanza” (la colonna) (fig.4) e l’ “Audacia” (le vesti in verde e rosso) nell’Iconologia. Anche la “Fortuna infelice” – che Pulini diceva essere “sottomessa nella cruenta lotta volante”, “totalmente nuda ma ingoffita dall’evidente sbilanciamento” e “colta nell’attimo ormai irreparabile della caduta, mentre rovina dalla sommità di un globo o dalla poppa di una barca che sta affondando” - sembra avere punti di contatto con quella descritta dal Ripa: «Donna sopra una nave senza timone, & con l’albero e la vela rotti dal vento. La nave è la vita nostra mortale, la vela e l’albero e gli altri arnesi rotti, mostrano che la mala fortuna è un successo infelice».

Questa iconografia “marina” veniva interpretata dal critico come “rappresentazione di quelle avversità che interrompono la rotta intrapresa, tramutando in nemica l’energia naturale” - in questo caso, il vento - “che dovrebbe sospingere verso il giusto cammino”. Secchi ricordava che la “Fortuna” aveva avuto origine nel Medioevo, precisamente nell’ambito della cultura gotica16, e che in quanto personificazione del caso essa non aveva riscosso largo consenso. Durante la rinascenza, però, la situazione era mutata: «La disposizione all’impresa, intesa come allegoria complessa, quasi geroglifico, si spiega nel Rinascimento con il ritrovato amore per il discorso per immagini, inteso come rebus» […] «Anche la passione» […] «per il sincretismo allegorico, spiega l’interesse degli artisti della prima metà del Cinquecento per un simbolismo misterico, intriso sì di classicismo ma anche piegato alla funzione moralizzante e speculativa della riflessione sulla caducità, prova di un pessimismo velato che si insinua nelle arti già a partire dal tardo Quattrocento».17 Nell’ambito del Rinascimento, soprattutto veneto, il modello più adottato dagli artisti per raffigurare l’allegoria della “Fortuna” avrebbe consistito nell’immagine di una donna accompagnata dagli attributi della sfera e della vela: Secchi ne proponeva alcuni esempi. Il primo è un bulino di Nicoletto da Modena (fig.5): «Una Fortuna cosciente» […] «che ammonisce e consiglia, non troppo

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Essa le conferisce un attributo comune anche all’ “Amore carnale”, alla “Sinagoga”, alla “Notte” e alla “Morte”: la benda, che è simbolo non solo di cecità ma anche di casualità.

17

Tipico di questo periodo è il fenomeno della “pseudomorfosi” per cui la studiosa rimanda agli studi di Erwin Panofsky e in particolare al saggio Iconografia ed Iconologia. Introduzione allo studio

dell’arte del Rinascimento, in Il significato nelle arti visive, 1962, trad. it. a cura di R. Federici. Ecco

come Secchi (op. cit., p. 90) spiegava tale fenomeno: «l’iconografia dei temi rappresentati per

immagini subisce una reinterpretazione» […] «dei contenuti originari, solitamente riconducibili alla tradizione classica, ai quali vengono associate forme nuova» […] «Per la stessa ragione, a forme antiche possono essere accostati contenuti moderni».

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estranea alle altrettanto famose e complesse allegorie tardo medievali della Prudenza e del Buon Consiglio». Il secondo è un arazzo cinquecentesco (fig.6) in cui è raffigurata una donna che “sospesa sul globo regge una vela nella mano sinistra e pare volgere consapevolmente lo sguardo verso l’osservatore”.18

Inoltre, un dipinto della scuola del Mantegna (fig.7), conservato al Palazzo Ducale di Mantova, offriva alla studiosa lo spunto per approfondire il discorso su un attributo della “Fortuna” assente sia nell’incisione che nell’arazzo suddetti. Esso rappresenta le due personificazioni di “Penitentia” e “Occasio”19: quest’ultima - che allude alla necessità di cogliere l’attimo - appoggia con uno dei piedi alati su una sfera mentre una spessa ciocca di capelli le copre gli occhi.

Nell’opera lottesca questa non nasconde più il volto di “Fortuna infelice”, ma si trasforma in un “lungo ciuffo di capelli” che sembra quasi non risentire della forza di gravità che, invece, costringe la donna a precipitare nel vuoto. Sull’origine dell’attributo si era espresso Panofsky20 nell’ambito del celebre studio in cui analizzava l’iconografia di “Padre Tempo” nelle rappresentazioni classiche e tardoantiche; lo studioso sosteneva che il ciuffo, dapprima attributo tipico di Kairos/Occasio (fig.8) fosse in seguito diventato segno distintivo della “Fortuna”: «nell’arte antica» […] «scopriamo, grosso modo, due tipi principali di concezioni e di immagini. Da un lato, si tratta di rappresentazioni del Tempo come “Kairos”: del breve e decisivo momento, cioè, che segna una volta nella vita degli esseri umani o nell’evoluzione dell’Universo. Questa concezione si illustrava con la figura originariamente conosciuta come opportunità. L’opportunità veniva raffigurata in forma d’uomo (originariamente nudo), in movimento come per mutar luogo, normalmente giovane e mai molto vecchio» […] «Era dotato di ali, tanto sulla

18

Si tratta di un particolare dell’arazzo cinquecentesco Armoiries della famiglia Grimaldi ora a Bruxelles;

19

L’emblema di “Occasio” è illustrato da Alciato (ed. 2009, pp. 111-115).

20

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Fig.5 Nicoletto da Modena, Fortuna, bulino

Fig.6 Manifattura di Bruxelles, Armoiries della famiglia Grimaldi, circa metà XVI secolo, Bruxelles, Musée Royaux d’Art et d’Histoire

(10)

Fig.7 Scuola del Mantegna, Occasio e Penitentia, XV secolo, Mantova, Palazzo Ducale

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schiena che al piede. Suoi attributi erano un paio di bilance» […] «e, in periodo più tardo, una o due ruote. Inoltre , il capo spesso presentava il ciuffo proverbiale per il quale si può afferrare la calva opportunità» […] «Sopravvisse fino all’undecimo secolo ed ebbe poi la tendenza a fondersi con la figura della Fortuna, essendo tale fusione favorita dal fatto che la parola latina per “Kairos”, cioè “occasio”, ha il medesimo genere di “fortuna”». Secchi riscontrava, poi, alcune affinità iconografiche della “Fortuna” lottesca con la tarsia di Ester (fig.9), realizzata dallo stesso artista per uno degli stalli del coro di Santa Maria Maggiore a Bergamo. Si tratta di un’immagine “complessa e carica di simbologie criptiche” in cui la studiosa ritrovava i tradizionali attributi della “Fortuna”: il globo, le ali e la vela, che alludono rispettivamente all’instabilità, alla fugacità e all’illusorietà.

Come già accennato in precedenza, nella fascia inferiore del dipinto sono ravvisabili alcuni strati di ridipintura. A causa del non ottimale stato di conservazione della tela risulta, dunque, difficoltoso interpretare l’elemento sferico su cui la “Fortuna” si appoggia. Binotto21, al riguardo, ci ricorda che questa era generalmente rappresentata in piedi su di una sfera, una ruota o un vascello, e sempre in equilibrio instabile; il vascello era accompagnato da alcuni immancabili attributi: la vela e il timone. La studiosa non ha dubbi che l’allegoria abbia una doppia valenza di “Fortuna favens” e “Fortuna naufraga”, soggetti fra l’altro già trattati dall’artista nell’ Allegoria De’ Rossi. Nel celebre coperto allegorico, infatti, all’emblema del veliero che sta naufragando nella parte destra del dipinto, si accompagna quello dell’imbarcazione che è serenamente ormeggiata sulla riva nella parte sinistra (fig.10). Questo carattere ambivalente del paesaggio scelto da Lotto come fondale per il dipinto di Washington era stato giustamente notato da Pressouyre22 che affermava: «Un paesaggio marittimo ambivalente forma lo sfondo del dipinto allegorico che Lorenzo Lotto aveva associato al ritratto del vescovo Treviso, Bernardo dei Rossi ... dal lato delle arti e della saggezza dove si stende il germoglio del ceppo centrale, il mare è sereno nella baia dove un veliero ha attraccato; dietro il Pan bestiale che si stravacca tra i vasi versati, la tempesta inghiotte una nave. Da tempo, in effetti, l’idea della Fortuna era stata moralizzata».

21

Op. cit.

22

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Fig.9 Ester, coperto allegorico, Bergamo, coro di Santa Maria Maggiore

Fig.10 Allegoria De’ Rossi, particolare dello sfondo

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Riflettendo sulla particolare disposizione nello spazio accordata da Lotto alle figure dell’allegoria in esame, Secchi individuava un’analoga soluzione in altre due opere del medesimo artista: la tela che raffigura l’Arcangelo Michele che scaccia Lucifero23 (fig.11) e il coperto allegorico di Absalon, Cusai e Achitofel in consiglio (fig.12), anch’esso - come quello di Ester - realizzato per il coro di Santa Maria Maggiore. A proposito della tarsia, la studiosa spiegava: «la disposizione spaziale delle figure ospitate nella composizione riconduce a una consuetudine presente in Lorenzo Lotto, quella di rappresentare l’antagonismo tra personificazioni di concetti morali oppositivi su un ideale asse verticale percorso da linee di forza diagonali, funzionali a far percepire moto e relazione dialettica tra le polarità» […] «La lettura compositiva, e stilistico formale dello stallo, rivela precise assonanze con la Fortuna infelice e ripropone, sia pur in una nuova significazione, l’immagine della figura bendata» […] «L’affinità tra l’impresa e la tela raffigurante la Fortuna infelice è di natura principalmente formale e strutturale, ciò nonostante anche i contenuti aderenti all’idea della sconfitta, del vuoto e della perdita, con la Fortuna instabile intrattengono legami assai stretti».

Binotto ha inviduato il modello che avrebbe ispirato Lotto nella realizzazione della tela lauretana qui in esame nel Caino e Abele affrescato dal Pordenone (1532 ca) nel convento di Santo Stefano a Venezia, esemplare andato perduto ma fortunatamente noto grazie ad un’incisione di Jacopo Piccini (fig.13). La scena biblica in cui Caino uccide il fratello è stata in seguito immortalata anche da Tiziano in un olio su tela per il soffitto della chiesa di Santo Spirito in Isola – il cui edificio è andato distrutto – attualmente conservato nella sacrestia di Santa Maria della Salute (fig.14). Certo dell’influenza del Pordenone sulla produzione di Tiziano era Echols24 al quale, tra l’altro, si deve l’accostamento dell’incisione del Piccini alla tela del maestro cadorino:

23

M. Binotto (ibid., p. 278) accoglie il confronto proposto da Secchi: «in entrambi i duelli lauretani, i

protagonisti precipitano nel vuoto in pose ardite e instabili, emergono dalla nuvolaglia densa grazie alla luce che colpisce con forza gli incarnati».

24

(14)

Fig.11 San Michele Arcangelo che scaccia Lucifero, 1551-55 circa, Loreto, Museo pinacoteca della Santa Casa

Fig.12 Absalon, Cusai e Achitofel in consiglio, coperto allegorico, Bergamo, coro di Santa Maria Maggiore

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Fig.13 Jacopo Piccini, Caino uccide Abele, incisione da Pordenone, Roma, Gabinetto Nazionale delle Stampe

Fig.14 Tiziano Vecellio, Caino uccide Abele, olio su tela, 1543-44Venezia, Santa Maria della Salute

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«Pordenone’s influence is in fact very clearly evident in Titian’s ceiling paintings for Santo Spirito in Isola. The most direct connection» […] «is to a mural work rather than a ceiling painting, Pordenone’s frescoes for the convent of Santo Stefano in Venice from c. 1532» […] «Although now almost totally illegible, Pordenone’s frescoes are known from engravings by Jacopo Piccini. Comparison of Piccini’s engraving of ‘Cain and Abel’ to Titian’s version of 1542-1544 shows how strongly Pordenone’s conception influenced Titian’s».

Nella Fortuna infelice abbattuta dalla Fortezza Lotto avrebbe, dunque, citato nella figura della Fortezza il Caino immortalato nell’incisione. Una certa somiglianza si riscontra, in effetti, nella posizione delle gambe e nel modo in cui egli impugna il bastone; la Fortuna, invece, riprenderebbe in controparte la posa di Abele con le gambe divaricate e “il gesto difensivo delle braccia”.

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