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CCaappiittoolloo IIIIII IIll NNaattuurraall SSeemmaannttiicc MMeettaallaanngguuaaggee

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Academic year: 2021

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1. Presentazione del Natural Semantic Metalanguage

Qualsiasi tipo di confronto, stando a quanto si è appurato nel precedente capitolo, richiede una sorta di tertium comparationis, ovvero una misura comune1.

Se, esplorando diversi linguaggi naturali, si può stabilire un ipotetico apparato di concetti primitivi, condiviso da tutta l’umanità, possiamo allora sistemare questa serie di elementi come a formare una sorta metalinguaggio indipendente, per la descrizione e lo studio comparato di tutti gli idiomi e le culture del mondo, senza essere condannati ad un ineludibile etnocentrismo2. Il problema di partenza,

difatti, è l’impossibilità di comparare diversi significati, dovuta a sua volta, all’impossibilità di esplicitarli senza distorcere la loro essenza effettiva: da qui deriva la necessità di un metalinguaggio semantico. Se poi, i significati in questione sono radicati in culture molto lontane una dall’altra, è anche necessario il mantenimento di una posizione indipendente da ogni particolarità o specificità ma anche capace, al contempo, di rapportarsi a qualsiasi mondo culturale.

Allo scopo di garantire una perfetta accessibilità a tale strumento, da parte di ogni cultura specifica, e di mantenerne la massima apertura interpretativa, Wierzbicka è arrivata ad ideare il Natural Semantic Metalanguage (abbreviato in “NSM”), un metalinguaggio basato su un corpo di ipotetici primitivi semantici identificati attraverso un’ardua analisi empirica inter-linguistica. L’obiettivo che la ricercatrice si prefigge è quello di riuscire ad esplicitare il significato di qualsiasi tipo di termine, espressione, interiezione o enunciato, in qualsiasi lingua del mondo, in modo che appaia intuitivamente e immediatamente comprensibile e

1 Cfr. Wierzbicka (1997a), cap.1, par.8, cit; e cfr. capitolo II, par. 1.1. 2 Cfr. Wierzbicka (1996), parte I, cap. 1, par. 6, cit.

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verificabile. Tale metalinguaggio deve mantenere un punto di vista esterno rispetto alla cultura esaminata, ma deve anche essere capace di descriverla dall’interno in modo chiaro e consapevole. Questo è possibile proprio perché il “NSM” è estrapolato dal linguaggio naturale che decidiamo di utilizzare. Presupponendo, infatti, che ogni primitivo semantico sia un tassello di questo metalinguaggio, e assumendo che tali concetti fondamentali siano poi necessariamente lessicalizzati in tutte le lingue esistenti (sebbene talvolta siano affetti da polisemia o altro), si può ragionevolmente concludere che esistano tante versioni isomorfe di “NSM”, ognuna intuibile come sua controparte in un linguaggio specifico. Per convenzione, Wierzbicka nelle sue trattazioni utilizza la versione inglese del “NSM”, sebbene tutti i primitivi semantici siano per definizione traducibili facilmente in qualsiasi altra lingua del mondo, in modo che si possa facilmente ricavare la traduzione di “NSM” che più si confà alle nostre capacità e necessità. Questo metalinguaggio è tecnico e artificiale, quindi non paragonabile ad un comune linguaggio naturale, ma può plasmarsi e assumere agilmente le sue forme, raggiungendo così una duttilità estrema. Wierzbicka decide di chiamarlo Natural Semantic Metalanguage proprio per porre l’accento sul fatto che è interamente derivato e compreso attraverso il linguaggio naturale adottato, senza alcuna aggiunta di convenzioni, simboli o segni addizionali arbitrari. Tali espedienti, difatti, non potrebbero mai accettarsi in una situazione del genere, proprio perché il loro significato richiederebbe un’ulteriore spiegazione, la quale, a sua volta, non potrebbe mai essere compresa o intuita a meno che non risultasse immediatamente accessibile nel linguaggio d’uso

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dell’utente. Le uniche convenzioni cui Wierzbicka si appoggia nelle sue avventure analitiche attraverso le culture del mondo, sono di tipo iconico, come l’arrangiamento spaziale delle componenti o l’utilizzo di linee separatorie fra le righe, come più avanti avremo modo di constatare3.

Ricapitolando, la teoria semantica di Wierzbicka, che prende nome proprio dal suo strumento principale, il “NSM”, si basa su due semplici assunzioni: il fatto che ogni linguaggio è dotato di un irriducibile nocciolo di termini indefinibili e che tali apparati di concetti umani fondamentali, appartenenti ai linguaggi naturali, combacino perfettamente fra loro. Il potere esplicativo del metalinguaggio così ottenuto poggia proprio sulla semplicità dei primitivi semantici in questione, che già Leibniz aveva riconosciuto come assolutamente necessaria. L’intelligibilità di ogni significato, cultura o linguaggio è, a parere di Wierzbicka, garantita grazie all’intuibile chiarezza dei primitivi semantici appartenenti al nostro corredo genetico e mentale di esseri umani. Tali elementi si verbalizzano in ciascun linguaggio proprio per la loro estrema necessità e assumono anche combinazioni simili fra loro. Ovviamente non ci è permesso immaginare una perfetta coincidenza sintattica fra le lingue, ma possiamo assumere come stabile sia il significato, sia gli accostamenti possibili fra i primitivi individuati. Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che se tale metalinguaggio è plasmato sul linguaggio naturale, avrà una realtà psicologica estremamente forte e ben diversa dalle formule semantiche costituite da artificiosi formalismi. Le forme del “NSM” sono prontamente disposte a qualsiasi verifica e possono aprirci un potente sguardo su ogni modo di pensare, di parlare, di credere, di ragionare e di valutare diverso dal

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nostro4. A questo proposito Lyons scriveva: “any formalism is parasitic upon the

ordinary everyday use of language, in that it must be understood intuitively on the basis of ordinary language”5.

Wierzbicka non fa altro che considerare: tutte le ipotesi teoriche, le riflessioni sulla condivisione di concetti universali, le delucidazioni sulle necessità conoscitive umane, i bisogni della comunicazione interculturale, i problemi in seno alle definizioni… La novità sta proprio nell’elaborazione di uno strumento d’analisi utile alla risoluzione di tutti i dubbi e i quesiti passati. Il “NSM” non richiede nessun tipo di ulteriore chiarificazione: appare, quindi, come estremamente diverso da ogni altro linguaggio artificiale fino ad ora costruito6.

Il risultato è che qualsiasi concetto, radicato in qualsiasi cultura e capace di riflettere una determinata gerarchia di valori, rituali e credenze specifiche, possa, per la prima volta, aprirsi alla comprensione anche di chi non lo possiede. Significati complessi, incarnati in società lontane e diverse, possono così definirsi attraverso una semplice traduzione di questi nella giusta amalgama di universali che li compongono. Il “NSM” viene ad essere perciò una sorta di “DNA” universale, capace di snodarsi in difformi combinazioni, dando vita a qualsiasi lessico, grazie alla diversa posizione che le componenti genetiche, in questo caso i primitivi semantici, vengono ad assumere. Questa visione è indubbiamente intrigante, sebbene non sia immune da critiche e problemi che considereremo più avanti.

Il set di concetti base è assolutamente standardizzato e minimale, ma

4 Cfr. Wierzbicka (2006), parte I, cap. 1, par. 1.7, cit. 5 Lyons (1977), p. 12, cit.

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detiene, presumibilmente, la potenzialità di definire tutto, in quanto le infinite composizioni possibili di questi pochi pezzi paiono aprirci nuove visioni su culture assai distanti, dipanando l’intricata matassa di significati che vi sta dietro. Il vantaggio, dunque, sta proprio nell’abbattere definitivamente l’assunzione su cui la linguistica moderna si fondava: quella dell’assoluta intraducibilità, intesa come l’impossibilità di riportare alcun tipo di significato, di un concetto come di un enunciato, in una lingua diversa da quella da cui lo si è tratto, senza operare distorsioni, manipolazioni, aggiunte improprie o tagli indebiti. Il sostenere che i mondi di significati associati a ciascuna cultura non possono confrontarsi reciprocamente, secondo Wierzbicka, è un’affermazione inopportuna, giacché non si è mai cercata una misura comune di confronto7. Sicuramente, in questo senso le

conclusione della studiosa appaiono funzionali, e il “NSM” sembra offrirci una notevole linea guida alla comunicazione interculturale futura, che può fortificare di molto la ricerca in questa area: “The alphabet of human thoughts offers such a common measure and makes different semantic universes associated with different languages commensurable”8.

L’importanza di misurare e confrontare le culture diverse dalla nostra è inestimabile, e non si può in alcun modo trascurare o abbandonare con così tanta incoscienza9. Il successo e i vantaggi dell’uso del “NSM” non si fermano alla

possibilità di esprimere, tradurre e spiegare qualsiasi significato specifico di qualsiasi cultura, poiché ci offre anche innegabilmente più probabilità di comprendere le strutture morfologiche e sintattiche diverse dalle nostre. Gli scopi

7 Cfr. Wierzbicka (1992a), introduction, par. 5, cit. 8 Ivi, p. 21, cit.

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che possiamo arrivare a prefiggerci sono: la comprensione della diversità culturale e l’assunzione motivata di un relativismo10 che non si presenta più come barriera

insormontabile, ma, piuttosto, come uno stimolo notevole allo sviluppo di un interminabile dialogo fra mondi culturali che popolano il nostro pianeta.

La realizzazione di tutte queste prospettive è necessitata a passare attraverso il linguaggio, questo, infatti, è il solo e unico spiraglio che ci può permettere di raggiungere traguardi così lontani, perché è esattamente in esso che le differenze si condensano e si concentrano11. Leibniz fu il primo a descrivere il

linguaggio come lo specchio migliore della mente umana12: ecco perché la mappa

dell’alfabeto dei pensieri umani si trova in esso. Wierzbicka aggiunge che il linguaggio è anche il migliore specchio della cultura, ed è proprio attraverso il lessico che può rivelarsi a noi lo spirito che questa racchiude e le configurazioni concettuali della società che vi sta dietro. Anche la stessa storia di una nazione è racchiusa nello scrigno del linguaggio: in esso troviamo il passato e il presente. E’ sempre difficile, scrive Wierzbicka sull’onda di Hymes13, maneggiare una cultura.

Quello che ci occorre è solo uno spazio neutro in cui assumerla per analizzarla, un linguaggio preciso, intuitivo e capace di entrarvi dentro, e, infine, un pizzico di avventura: questo è tutto quello che il “NSM” fornisce14.

Sin dalla sua iniziazione, nella metà degli anni sessanta, le assunzioni base e gli scopi del “NSM” qui illustrati sono rimasti abbastanza invariati: “the search for universal semantic primitives, the avoidance of artificial “features” and

10 Non è chiaro quanto Wierzbicka sia d’accordo on questo obiettivo, da ritenere, nell’ottica di questo

progetto, come estremamente importante.

11 Cfr. Wierzbicka (1992a), introduction, par. 5, cit. 12 Cfr. Leibniz (1968), cit.

13 Cfr. Hymes, citato da Wierzbicka (1992a), parte IV, cap. 12,par. 6, cit. 14 Cfr. Ivi.

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“markers”, the rejection of logical systems of representation, the reliance on natural language as the only self-explanatory system for the representation of meaning”15. Al contempo, la teoria corrispondente non ha certo indugiato, ma si è

costantemente sviluppata in varie direzioni: la crescita del numero dei primitivi semantici iniziali; la ricerca di questi attraverso l’identificazione con gli universali lessicali; la parallela ricerca dei modelli sintattici universali e delle possibili combinazioni dei primitivi rinvenuti; l’assestamento del “NSM”, una migliore articolazione teorica dei presupposti evidenziati e l’allargamento dei domini d’investigazione e dei confini di studio su linguaggi sempre più lontani e diversi16.

L’incredibile crescita del numero dei primitivi sicuramente ha migliorato le potenzialità del “NSM”, permettendogli un più ampio raggio d’azione e snellendo molto le spiegazioni semantiche dei vari concetti analizzati, di modo che risultassero assai più facili da leggere e da intuire. Il prezzo da pagare, in questo caso, è l’abbandono del principio leibniziano della mutua indipendenza di ciascun universale rispetto agli altri; del resto, come si è visto in precedenza, il fatto che sussistano delle relazioni non composizionali chiaramente intuibili semplifica in un certo senso il compito d’individuazione di questi concetti fondamentali.

Per quanto riguarda la sintassi, inizialmente Wierzbicka si muoveva immaginandola come soggiacente ai primitivi stessi: questo ha determinato un certo ritardo nello sviluppo e nell’utilizzo del “NSM”, da ritenersi necessario se si pensa che prima tali concetti universali devono comunque essere scovati. La costruzione del metalinguaggio è, infatti, proceduta gradualmente ed è tuttora

15 Ivi, introduction, par. 9, p. 31, cit. 16 Cfr. Ivi.

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attiva. La direzione futura più importante è quella della progressiva semplificazione e standardizzazione della sintassi delle traduzioni operate con questo strumento. Nel corso del tempo, il raggio del dominio di tale metalinguaggio si è ampiamente sviluppato, andando ad includere non solo la semantica lessicale, ma anche la semantica della grammatica e la pragmatica. Non dobbiamo dimenticare, però, che il campo d’azione del Natural Semantic Metalanguage non è necessariamente ristretto alla linguistica; certo, il passaggio attraverso il linguaggio è necessario, ma questo non significa che esso non possa applicarsi anche all’antropologia, la sociologia e la psicologia. Ora ci si muove non solo con un apparato di primitivi semantici, ma anche con una serie di strutture lessicali standardizzate che ci permettono l’eventuale applicazione del “NSM” a ciò che più desta il nostro interesse, come lo studio delle emozioni o delle espressioni facciali o del nostro modo di classificare la realtà… Wierzbicka non scoraggia questi utilizzi, anzi, chiude l’introduzione in Wierzbicka (1996) proprio con l’invito a coltivarli17.

Non mancano tuttavia dei punti oscuri all’interno dell’elaborazione di questo linguaggio. In primo luogo, il fatto che non ci sia mai una certezza definitiva riguardo all’effettiva universalità di alcun concetto, proprio in relazione anche alla stesse importanza che Wierzbicka conferisce all’esperienza18. Inoltre,

appare vago il metodo di applicazione di questo potente strumento allo studio delle culture. Difatti, per poter estrapolare qualsiasi significato pare necessario sapere preventivamente che cosa aspettarsi. In questa ottica, il “NSM” sembra più

17 Cfr. ivi; e cfr. Wierzbicka (1994b).

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un modello per articolare traduzioni di qualsiasi tipo, piuttosto che un metalinguaggio capace di esplicitare ogni significato nascosto; dunque, è utilizzabile per spiegare e tradurre a livello globale ciò che già si conosce e non ci permette di comprendere ciò che è lontano e davvero sconosciuto. Indubbiamente, questi aspetti aprono la strada allo sviluppo del dialogo interculturale, illuminata dalla ricchezza che da esso deriva, sarebbe indebito, però, aspettarsi che questo metalinguaggio riesca a svelare di per sé ogni caratteristica della diversità, senza che sia essa stessa a rivelarsi attraverso il suo uso.

2. La lista degli universali: ipotesi, incrementi e modifiche nel

corso del tempo.

Il set di primitivi semantici progressivamente individuati e testati da Wierzbicka si è evoluto nel corso di quattro decadi ed è tuttora in continuo sviluppo. Quelli che vengono, dunque, proposti possono essere più o meno stabiliti. Della lista iniziale di quattordici elementi, presentata nel 1972 in Semantics Primitives, solo dieci sono sopravvissuti ai duri attacchi delle critiche e agli accorti sospetti della ricercatrice e del suo team. La posizione dei tali candidati può vedersi come ormai quasi del tutto stabilita.

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Lista primitivi presentata nel 1972 dopo lo sfoltimento19

Substantives: I, YOU, SOMEONE, SOMETHING Mental predicates: THINK, WANT, FEEL

Speech: SAY Dimostratives: THIS Partonomy: PART

Il progetto che conferisce, poi, un ampio slancio allo sviluppo della lista primordiale, allargando le basi empiriche su cui rilevare gli ipotetici universali a molti più linguaggi, è riportato in Goddard & Wierzbicka (eds.) (1994). Tutti gli elementi che non sono inclusi in questo programma, fanno ancora parte di un processo di sperimentazione, di conseguenza, la loro effettiva universalità è da ritenersi ancora non ben affermata. In Wierzbicka (1996), l’autrice ci introduce dettagliatamente alla serie di universali, presentandoci la metodologia specifica da lei utilizzata, i successivi ampliamenti a cui tale set è stato sottoposto e le caratteristiche dei primitivi elencati, sia di quelli già affermati che di quelli ancora in dubbio. Per convenzione, tale lista si suddivide in “primitivi nuovi” e “primitivi vecchi”, proprio a sottolineare il diverso grado di affidabilità che questi possono garantirci. Il numero è cresciuto in un a rapida impennata da 37 a 55 nel passaggio dagli anni ottanta agli anni novanta. Purtroppo la verifica estensiva e l’evidenza inter-linguistica del loro valore è vitale per decidere del loro destino, dunque vanno recepiti in maniera assai diversa rispetto alla precedente lista, tuttavia molti

19 Ho deciso di adottare la lista originale di Wierzbicka, senza operare nessun tipo di traduzione, benché,

come specificato più volte, ci siano versioni di NSM in tutte le lingue del mondo. Lo scopo è quello di mantenere un’assoluta fedeltà al lavoro della ricercatrice, evitando di delegare a me il compito di scegliere fra diverse traduzioni possibili degli universali. Considerata la mancanza, da parte mia, di competenze adeguate per operare su un lavoro tanto specifico e frutto di studi e ricerche estremamente affinate, desidero evitare qualsiasi tipo di manipolazione dei dati rilevati soprattutto in vista di un successivo utilizzo a scopo di dare definizioni di altri termini, che implicherebbe quantomeno un’impostazione sintattica. Tuttavia, saranno presenti alcuni suggerimenti di traduzione, a scopo di dimostrazione di duttilità del NSM e per rinnovare il mio personale interesse a fornire un qualche contributo, sebbene parziale e assolutamente modesto, a tale ricerca. Tale lista è riportata in Wierzbicka (1996), parte I, cap. 2, sezione A: OLD PRIMITIVES, par. 1, pp. 35-36, cit.

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di questi “nuovi primitivi” sono ormai da anni annoverati fra le conquiste sicure del “NSM”, grazie all’ingente lavoro di Wierzbicka e dei suoi collaboratori.

Lista “vecchi primitivi” divisa per categorie20

substantives: I, YOU, SOMEONE, SOMETHING, PEOPLE

determiners: THIS, THE SAME, OTHER

quantifiers: ONE, TWO, MANY (MUCH), ALL mental predicates: THINK, KNOW, WANT, FEEL

speech: SAY

actions and events: DO, HAPPEN

evaluators: GOOD, BAD

descriptors: BIG, SMALL

time: WHEN, BEFORE, AFTER

space: WHERE, UNDER, ABOVE

partonomy and

taxonomy: PART (OF), KIND (OF) metapredicates: NOT, CAN, VERY

interclausal linkers: IF, BECAUSE, LIKE

Da questa lista si è poi sviluppata la successiva, contenente le ulteriori proposte, alcune delle quali ancora non vagliate. Dunque, la lista attuale non può considerarsi del tutto definitiva, ma in attesa di eventuali modifiche e aggiunte, poiché, come più volte Wierzbicka ha sottolineato, l’allargamento delle basi empiriche d’indagine ha sempre comportato l’insorgenza di nuovi sospetti. Questo fatto può spiegarsi con la diffusione delle polisemie ricorrenti, specie in linguaggi dello stesso ceppo. Se si analizzano lingue simili, che riportano nella maggior parte dei casi le stesse polisemie, sarà infatti difficile cogliere gli universali che si celano dietro di queste; invece, con un raggio d’azione più ampio si individuano i casi dove l’assenza di polisemia ci fa scorgere l’esistenza di un ulteriore primitivo semantico, prima del tutto invisibile.

20 Lista universali presentata in Goddard & Wierzbicka (eds.) (1994a), cit. Gran parte di questo apparato è

stato elaborato con Cliff Goddard, che ha apportato numerose revisioni. Non possiamo, però, non citare il proficuo contributo di Jean Harkins.

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Lista delle ipotetiche aggiunte, ovvero i “nuovi primitivi”21

determiner: SOME

augmentor: MORE

mental predicates: SEE, HEAR

non-mental predicates: MOVE, THERE IS, (BE) ALIVE space: FAR, NEAR, SIDE, INSIDE, HERE

time: A LONG TIME, A SHORT TIME, NOW

imagination and

possibility: IF…WOULD, MAYBE

words: WORD

Questo apparato, di circa 60 elementi, accresciuto nel corso degli anni novanta, è stato definitivamente proposto in Meaning and Universal Grammar22, edito da

Goddard e Wierzbicka, anche se va nuovamente evidenziato che è il frutto di un programma di ricerca ancora in via di sviluppo e verifica. La lista di primitivi attuale, aggiornata al 2007 è cresciuta ancora e continuerà a farlo.

21 Lista presentata in Wierzbicka (1996), parte I, cap. 2, sezione B: NEW PRIMITIVES, par. 15, pp. 73-74. 22 Goddard & Wierzbicka (eds.), Meaning and Universal Grammar:Teory and Empirical Findings, J. Benjamins

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Modello corrente23

substantives: I, YOU, SOMEONE, PEOPLE,

SOMETHING/THING, BODY

relational substantives: KIND, PART

determiners: THIS, THE SAME, OTHER/ELSE quantifiers: ONE, TWO, ALL, MUCH/MANY,

SOME.

evaluators: GOOD, BAD

descriptors: BIG, SMALL

mental predicates: THINK, KNOW, WANT, FEEL,

SEE, HEAR

speech: SAY, WORDS, TRUE

actions, events, movement, contact:

DO, HAPPEN, MOVE, TOUCH

location, existence, possession, specification:

BE (SOMEWHERE),THERE IS,

HAVE, BE

(SOMEONE/SOMETHING)

life and death: LIVE, DIE

time:

WHEN/TIME, NOW, BEFORE,

AFTER, A LONG TIME, A

SHORT TIME, FOR SOME TIME, MOMENT

space:

WHERE/PLACE, HERE, ABOVE,

BELOW, FAR, NEAR, SIDE, INSIDE

"logical" concepts and interclausal linkers: NOT, MAYBE, CAN, BECAUSE,

IF, IF…WOULD

intensifier, augmentor: VERY, MORE

similarity: LIKE

E’ necessario specificare che una mera lista non è sufficiente, di per sé, a giustificare l’esistenza di questi primitivi, non dobbiamo dimenticare, difatti, che potrebbero anche esserci casi in cui un solo senso del vocabolo qui indicato è da considerarsi universale. Anche la lessicalizzazione di questi concetti fondamentali va intesa in modo particolare, dal momento che, spesso, tali primitivi sono resi

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mediante un particolare suffisso o un frasema. La maniera in cui compaiono nel linguaggio, quindi, non è indicativa: l’essenziale per poter affermare l’effettivo status di questi universali è che siano presenti in ogni idioma, sotto qualsiasi forma. Ecco spiegata, dunque, la necessità di un’estrema accortezza nello studio comparato delle varie lingue del mondo, ancora in progresso in questo momento.

Resta allora un unico quesito: tale apparato è destinato a restare perennemente ipotetico?

2.1

Substantives: I, YOU, SOMEONE, SOMETHING, PEOPLE,

THING, BODY.

2.1.1 I, YOU24

Wierzbicka apre la sua trattazione dettagliata della lista degli universali dai soggetti I e YOU e sottolinea che non esiste linguaggio al mondo che non contempli la presenza di termini per tali elementi. Di ipotesi incentrate sulla possibile assenza dei pronomi personali “io” e “tu” ce ne sono diverse, tuttavia non hanno mai trovato piena concretizzazione, e oggigiorno paiono ancora più fantasiose25. E’, invece, ormai appurato che molte lingue, soprattutto del sud-est

asiatico, hanno sviluppato un vasto numero di elaborati termini sostitutivi per questi pronomi. Spesso, il motivo di tali omissioni è il fatto che il loro uso diretto risulta assolutamente sconsigliato, in quanto suonerebbe offensivo e inappropriato. Le sostituzioni generalmente rispecchiano un modello di

24 Traduzione da me suggerita: IO, TU.

25 L’esempio che Wierzbicka cita più frequentemente è la critica di Harré, sostenitore dell’inesistenza assoluta

del termine lessicale per “I” in wintu (linguaggio dei nativi americani nel nord California), in kawi (linguaggio parlato nelle isole di Java, Bali e Lombok) e in giapponese, ma Goddard ha del tutto rifiutato questa asserzione.

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svalutazione del sé (dell’io) e valorizzazione dell’altro (il tu). Queste circostanze particolari, che riflettono sicuramente molti aspetti di alcune culture specifiche, non vanno minimamente ad offuscare la presenza certa dei concetti semantici I e YOU e delle loro lessicalizzazioni. Altri linguaggi invece, non fanno distinzione fra “lui” e “lei”, come il turco, che contempla un unico vocabolo, adattabile al maschile e al femminile. Tuttavia, è ancor più evidente che non può accadere altrettanto ai pronomi “io” e “tu”. Le restrizioni d’uso che possiamo incrociare nella prospettiva inter-culturale non sono affatto dovute a fattori semantici, ma ad elementi extralinguistici. Wierzbicka spiega come I e YOU sono pragmaticamente marcati in diverso modo attraverso le varie culture del mondo, ma che la complessità semantica qui non entra minimamente in gioco e, fattore da non sottovalutare, questa stima è fattibile proprio grazie ad un metodo universale e neutro di confronto.

L’universalità di I e YOU venne brillantemente già suggerita da Humboldt e riaffermata da Boas26 nel suo riflettere sull’indefinibilità di tali concetti,

nonostante ci si sarebbe aspettato di poterli semplicemente definire rispettivamente in termini di parlante e ascoltatore27. Wierzbicka protesta

abbondantemente contro lo status universale dei concetti volti ad identificare gli interlocutori, dal momento che nemmeno la loro semplicità semantica è evidente. Secondo la prospettiva della ricercatrice polacca, I non è necessariamente legato al discorso diretto né al ruolo del parlante. E’, invece, assai più plausibile immaginare I come la persona che sta esperendo qualcosa direttamente in se

26 Antropologo ebreo nato in Germania, pioniere dell’antropologia moderna, vissuto in America fra il 1858 e il

1942.

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stessa, e YOU come polo rappresentativo di tutto ciò che è altro. Anche questa ultima soluzione, però, non è del tutto convincente, nel senso che non va assunta come un tentativo di definizione di ciò che I e YOU sono, altrimenti perderebbero il loro rango di universali; del resto, poi, non sempre si può ricondurre “io” al soggetto esperiente.

I vari tentativi di traduzione e spiegazione del senso racchiuso in I e YOU non vanno mai intesi come perfettamente coincidenti nel significato28,

l’equivalenza non sempre può ritenersi valida e questa conclusione dovrebbe ormai apparire abbastanza ovvia, data la premessa di indefinibilità dei primitivi semantici.

2.1.2 SOMEONE, SOMETHING29

E’ stato appurato che la presenza di WHO e WHAT ricorre in tutti i linguaggi del mondo e che può considerarsi come una delle più fondamentali forme della categorizzazione umana. Quello che Wierzbicka aggiunge a questo assunto è che SOMEONE e SOMETHING sono i termini più semplici per indicare gli elementi di tale differenziazione. La presentazione di questi universali in inglese ci fa percepire un’apparente possibilità di ulteriore semplificazione dei suddetti, secondo la scomposizione in “some+one” e “some+thing”; tuttavia, è palese che con tale frazionamento dei due vocaboli non si conserva affatto il significato iniziale, ritenuto universale.

Dove sussiste, però, la connessione fra questi due universali e i concetti di what e who? Secondo Wierzbicka SOMEONE e SOMETHING raggiungono un

28 L’esempio che fa Wierzbicka è la trasformazione della prima persona singolare in terza persona, come nel

caso I = “the author of these lines”. Chiaramente il significato delle due espressioni non è per nulla coincidente. Cfr. Ivi.

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grado di semplicità maggiore rispetto a qualsiasi altra scelta. Considerando la grammatica inglese, ad esempio, si coglie benissimo la possibilità di tradurre ogni evenienza di who e what con someone e something e non viceversa. Certamente, questo è possibile se si valutano le modalità di parafrasi del “NSM” e non la scelta migliore vagliata dal parlante comune30. L’esempio che la studiosa presenta in

Wierzbicka (1996)31 chiarifica sicuramente ogni eventuale punto oscuro:

I know who did it I know this about someone: this someone (this person) did it. I know what you see  I know this about something: you see this something (this thing).

E’ adesso ovvia la maggiore semplicità dei concetti SOMEONE e SOMETHING rispetto a who e what. La distinzione fra i due gioca un ruolo importante nella grammatica di molte lingue, ed è spesso accompagnata da interessanti contrasti e caratteristiche, come lo scarto fra l’essere animato e non, l’essere umano e non, l’essere persona o l’essere altro… Esplorando più in profondità questi elementi, si è pensato di poter criticamente rivisitare questa opzione, per poterla ulteriormente semplificare con l’adozione sostitutiva di un unico elemento, talmente basilare, da non distinguere più fra i precedenti aspetti: quello di entity32. Wierzbicka, tuttavia, si è mostrata assai scettica a riguardo, in

quanto tale operazione significherebbe ignorare una categorizzazione fondamentale, presente in tutti i linguaggi del mondo: quella che distingue fra persona e non-persona, rimpiazzata, secondo questo procedere, da un concetto artefatto e fittizio. Trattare i primitivi semantici e sforzarsi di rintracciarli

30 E’ una critica forte quella che tenta di smantellare l’applicabilità del “NSM” al quotidiano, vedendolo come

oggetto complesso forse proprio per l’eccessiva semplificazione e, quindi, poco utilizzabile. Tuttavia, questa resta una questione in un dibattito ancora aperto e confuso.

31 Wierzbicka (1996), cap. 2, par. 2.2, pp. 38-39, cit.

32 Wierzbicka tratta questo aspetto anche venti anni prima della stesura attuale ella lista dei primitivi

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attraverso l’analisi delle lingue del mondo non significa votarsi alla ricerca di qualcosa di più astratto possibile, ma di più “umano”. La domanda che guida l’evoluzione di questo studio è racchiusa nel chiedersi, dunque, cos’è più umano e naturale e non sta nel ricercare l’astrazione concettuale assoluta. Nessun linguaggio, da questo punto di vista, trascura la distinzione fra ciò che è umano e ciò che non lo è, poiché tale iato è evidentemente elementare per la categorizzazione della realtà33.

2.1.3 PEOPLE34

Tutti i linguaggi distinguono da SOMEONE e SOMETHING anche il concetto di PEOPLE. Il motivo della necessità di questa ulteriore differenziazione sta, ancora una volta, nel bisogno di connotare un qualcosa come assolutamente umano35. Il problema è che SOMEONE, seppur adibito alla connotazione di un

qualcosa di animato e vivente, non ha dei netti confini di applicazione, di modo che non è chiaro fino a che punto si dilati la sua estensione. In Semantics. Primes and Universals, Wierzbicka ci mostra come tale termine può benissimo essere applicato ad un’entità divina, difficilmente rapportabile alla realtà umana36.

PEOPLE, invece, è un elemento importante per evidenziare l’essere umano in senso stretto, senza contare che spesso è utilizzato come nome tribale, anche se questo appare essere, secondo Wierzbicka, un caso ovvio di polisemia (esattamente come quella che sussiste fra “uomo”, inteso come essere umano di sesso maschile e “l’uomo”, inteso genericamente come essere vivente).

Colpisce anche il fatto che, frequentemente, questo universale lessicale

33 Cfr., Wierzbicka (1996), cap. 2, par. 2.2, cit. 34 Traduzione migliore suggerita da me: GENTE. 35 Cfr. Goddard & Wierzbicka (eds.) (1994a), cit. 36 Cfr. Wierzbicka (1996), cap. 2, par. 2.3, cit.

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appare come un caso particolare di plurale37. In ogni caso, al di là di queste

suggestive riflessioni, va notato che non è possibile dare definizione di PEOPLE attraverso SOMEONE o someone else; molti termini sono invece facilmente spiegabili attraverso la combinazione di questi due. L’uso più vasto che si può fare del concetto PEOPLE, affiancato quando necessario da SOMEONE, è soprattutto volto alle definizioni degli oggetti facenti parte della nostra civiltà, di tutti gli artefatti, di tutti i termini tecnici riferiti alla società, alle emozioni umane, alla psiche, alla comunità culturale in generale.

In conclusione, questa nozione occupa uno spazio assai importante nella nostra mente e all’interno del “NSM”. Il suo status di primitivo pare confermato dai risultati di molte ricerche sull’acquisizione del linguaggio. Wierzbicka sottolinea come McShane, Carey e lo stesso Jackendoff38 ritengono il bambino

vigorosamente spinto ad organizzare la propria conoscenza biologica attorno agli adulti (indicati appunto con PEOPLE), considerati dei veri e propri prototipi. La precoce comparsa di questa nozione nell’apparato cognitivo dei bambini è sintomo sia della sua semplicità, sia della sua necessità. Non possiamo dimenticare, inoltre, che ci fornisce l’unica possibilità che abbiamo di definire il termine “essere umano”: una grande conquista, dal momento che, Wierzbicka ci ricorda, l’uomo non è né un banale “animale razionale”, né un assurdo “bipede implume”, né un “essere vivente dotato di un senso religioso”39. Il fatto che la

37 Il caso inglese è esemplare, in italiano, invece, la situazione è più particolare (genti è ammesso, sebbene non

comunemente). In generale si tratta dei cosiddetti pluralia tantum. La stessa situazione dell’inglese si ripresenta anche nel tedesco, nel francese e nel russo, e in moltissime altre lingue.

38 Susan Carey è una psicologa inglese-americana nata negli anni cinquanta, mentre Jackendoff è un celebre

linguista americano nato nel 1942.

39 Definizione medievale, definizione degli antichi cinici greci e dello scrittore francese Vercors, citate da

(21)

categoria di “umanità” sia in qualche modo innata ci appare sicuramente come inaspettato e insolito. Non sembrerà così inconsueta, tuttavia, se ricordiamo l’importanza che Aristotele dava all’aspetto sociale dell’uomo. PEOPLE può benissimo considerarsi come la categoria che ci crea l’ambiente circostante in cui viviamo a contatto con i nostri simili e ce lo rende intelligibile. Dunque, non siamo animali, ma “gente”, dove ciascuno è “qualcuno” e un “io” irriducibile40.

2.1.4 THING, BODY

Questi due primitivi rappresentano un caso particolare. BODY è una recente aggiunta alla lista, di conseguenza non ha ancora ricevuto una trattazione specifica, proprio perché la sua universalità è un presupposto da testare, tuttora aperto ad esame critico. THING invece non è altro che un caso di allolexy. Esso infatti è allacciato a SOMETHING e ritrae una diversa lessicalizzazione, presente in molte altre lingue, dello stesso concetto primitivo.

2.2

Determiners: THIS, THE SAME, OTHER/ELSE.

2.2.1 THIS41

Il termine THIS e le sue controparti in altri linguaggi forniscono un mezzo basilare per identificare l’oggetto delle nostre conversazioni e per puntare verso di questo, sia esso una persona, un accadimento o una qualsiasi altra entità. Appare impossibile definirlo mediante concetti ancora più semplici, sebbene vi ruotino intorno molti termini tecnici come “deittico” o “dimostrativo”.42.

40 Bruner definisce PEOPLE come modello universale popolare, Cfr. Bruner (1990), cit. 41 Traduzione da me suggerita: QUESTO.

42 Wierzbicka fa l’esempio di this dog, che non verrebbe mai tradotto come deictic dog o demonstrative dog. Cfr.

(22)

Alcuni linguisti hanno spesso affermato che THIS significa “near the speaker”. Secondo Wierzbicka, questa è una pura illusione, poiché “vicino” fa necessariamente riferimento ad una relazione spaziale, a meno che non si tratti di un uso metaforico del suddetto, e questa non ha nulla a che fare con la relazione che il parlante intesse con l’oggetto della sua conversazione. Il caso esemplare che la studiosa ci propone è legato all’enunciato pronunciato da un parlante qualsiasi: “this tooth hurts”, che, dove un'interpretazione come “the tooth near the speaker hurts” è ovviamente da escludersi.

Escludendo alcune occasionali eccezioni, tutti i linguaggi del mondo hanno un chiaro e visibile esponente per THIS. Nel caso di altri tipi di pronomi, come THAT in inglese, la corrispondenza semantica è assai meno certa. E’ interessante notare che in molte culture si distingue fra l’utilizzo di THIS per indicare un oggetto visibile a quello rivolto verso uno invisibile. Un esempio di una situazione di questo tipo è osservabile nel dialetto australiano della lingua Bandjalang, il Gidabal, il quale non contempla un esatto equivalente di THIS, perché il candidato più plausibile implica necessariamente la visibilità dell’oggetto in questione43.

Questo esempio è stato confutato dalla constatazione che la visibilità non è semanticamente marcata in esso. Ciò che appare controverso in questa questione non è tanto il fatto che il termine corrispondente a THIS in Gidabal, ovvero gaya, sia diverso per qualche aspetto dal primo, ma il fatto che tale differenza possa ricondursi ad una diversità semantica di fondo, cosa che appunto è stata smentita. Il parere di Wierzbicka, infatti, è che le differenze d’uso siano sempre spiegabili

43 Cfr. Cecil Brown, Polysemy, Overt Marking and Function Words, Language Sciences, vol. 7, n. 2, 1982, citata da

(23)

attraverso fattori non semantici. Se sussistesse una vera differenza semantica, si smantellerebbe la possibilità di affermare che THIS e gaya hanno lo stesso significato; ciò nonostante, l’esperienza mostra, in questa circostanza, che tale differenza non invalida assolutamente le ipotesi di universalità del concetto primitivo THIS44.

2.2.2 THE SAME, OTHER/ELSE45

La trattazione di questi universali è opportuno farla in parallelo, data la loro mutua relazione. THE SAME e OTHER sono due determinanti universalmente presenti in ogni lingua. Il primo punto da far risaltare è che OTHER presenta anche degli usi non universali, evidenti soprattutto in inglese (come il caso di another): l’attenzione, dunque, deve essere estrema, allo scopo di evitare fraintendimenti e indebite conclusioni. ELSE non è altro che un caso di allolexy, ovvero di lessicalizzazione dello stesso primitivo universale in più termini.

THE SAME riflette la legge logica d’identità, che occupa una posizione prominente nella filosofia e nello studio delle relazioni logiche generali. OTHER, invece, pare essere qualcosa di più rispetto alla semplice negazione dell’identità46.

Entrambi si presentano come universali lessicali e svolgono un ruolo indubbiamente importante all’interno della grammatica; infatti, sono in primo luogo utili alla definizione di molte congiunzioni e altre particelle. Questi elementi sono frequentemente coinvolti in vari modelli polisemici che spesso si riconducono all’allacciamento fra ONE e THE SAME e OTHER e SOMEONE. La

44 Cfr. ivi, parte I, cap. 2, sez. A, par. 3.1, cit. 45 Traduzione suggerita: STESSO, ALTRO.

(24)

polisemia è però facilmente rilevabile in ciascun caso e la distinzione fra gli elementi di ciascuna coppia si mantiene47.

2.3

Quantifiers: ONE, TWO, MANY (MUCH), ALL, SOME

2.3.1 ONE, TWO, MANY (MUCH)48

Wierzbicka apre la trattazione di questi concetti primitivi in Semantics. Primes and Universals facendo riferimento a Donald Brown e alla sua idea dell’UP (universal people)49. L’antropologo sostiene che il linguaggio corrispondente all’UP

contenga sia nomi che pronomi con tre categorie di persona e due di numero. I numerali fanno capo a pochissimi concetti, quello di ONE, quello di TWO e, infine, quello di MANY. La connessione con i quantificatori ALL e SOME comincia già a profilarsi50.

ONE gioca un ruolo essenziale nella grammatica ed è esteso a tutti i linguaggi del mondo, dal momento che esprime la categoria del singolare. La stessa idea di plurale si costruisce su di esso.

TWO si presenta, invece, come assai più complesso da rintracciare sotto forma di universale, ma un buon inizio è partire dalla considerazione dell’idea di coppia o paio, soprattutto relativa alle parti del corpo. Molte lingue hanno sviluppato la categoria duale proprio a sottolineare la diversità del rapporto che intercorre fra due elementi insieme e la massa.

Considerando, poi, il terzo quantificatore, ovvero MANY, Wierzbicka tende

47 Cfr. Wierzbicka (1996), parte I, cap. 2, sez. A, par. 3.2, cit. 48 Traduzione possibile: UNO, DUE, MOLTO/I.

49 Donald Brown è un professore americano di antropologia che ha ampiamente lavorato sugli universali

concettuali. Brown critica l’idea che il comportamento umano sia plasmato dalla cultura specifica e propone l’etnografia dell’Universal People.

(25)

a dare importanza alla sua presenza in tutte le lingue come traduzione stabile e confermata, non necessariamente distinta da MUCH, come accade in inglese51.

Spesso, si rinviene una diversificazione del numero, come accade in italiano, ma questa differenziazione è di tipo diverso. In inglese MUCH e MANY paiono avere dei significati distinti, aspetto difficilmente comprensibile, secondo Wierzbicka, da un parlante che non si cimenta con tale differenziazione.

Vi sono stati diversi tentativi volti a proporre MORE come sostituto di MUCH e MANY. Tale idea affonda le radici in Sapir, che riteneva che l’uomo realizzasse psicologicamente le comparazioni come primarie rispetto agli assoluti corrispondenti: more man precede many men o some men, così come better precede good e bad (good = better than…; bad = worst than…)52. Inizialmente Wierzbicka

aveva accolto questa ipotesi di Sapir, pur ritenendo che i comparativi potessero considerarsi basilari solo rispetto alla considerazione del numero, della quantità, delle dimensioni, e non rispetto a certi aggettivi come good e bad. In un secondo momento, tale assunzione non è più apparsa come plausibile nemmeno in parte. Difatti, MANY e MUCH non possono in nessun modo appoggiarsi al concetto di MORE, perché nell’ottica di Wierzbicka si presentano come più basilari. Questa intuizione è supportata dalle ricerche, volte a scoprire l’universalità lessicale di MUCH/MANY53. Quella di numero non è altro che un’astrazione costruita proprio

su queste nozioni primitive e anche nel progressivo apprendimento del linguaggio da parte del bambino, infatti, si presenta solo in un secondo momento.

51 In polacco, in francese, in giapponese, in italiano e in russo non sussiste, ad esempio, tale distinzione. 52 Cfr. Sapir (1973), parte I, cap. 2, sez. A, par. 4.1, p. 45, cit.

(26)

Infine, è interessante comprendere la relazione che intercorre fra MUCH/MANY e little/few. Quest’ultima combinazione pare assai più debole nonostante sia chiaramente associata alla precedente. Le ricerche hanno suggerito una facile ricostruzione di questi due elementi a partire dagli altri due e tale idea potrebbe essere ulteriormente supportata dal fatto che nel linguaggio bambini questi termini compaiono successivamente rispetto a MUCH e MANY.54.

2.3.2 ALL55

ALL fu proposto come universale semantico da Goddard nel 1989. Wierzbicka considerava la sua universalità una fallacia, dal momento che non lo riteneva indefinibile.

L’esempio di definizione di ALL che la ricercatrice proponeva in Wierzbicka (1980) è questo:

All dogs are faithful

One can say thinking of a dog: this (dog) is not faithful56

Goddard ha poi mostrato, però, come questo tipo d’analisi pare convincente solo da un punto di vista puramente logico e non psicologico. Alcuni interessanti esempi in proposito, che mostrano l’impossibilità di analizzare ALL in tali termini, sono i casi in cui è applicato ad espressioni volitive o particolari, come Regards to all! o That’s all!57. Inoltre, ALL compare molto presto nei bambini e questo va

assolutamente a supporto dell’idea che le spiegazioni di Wierzbicka non siano accettabili in termini psicologici. Il ruolo che ALL assume nella grammatica è notevole: molte particelle, congiunzioni, espressioni avverbiali o pronominali

54 Cfr. Wierzbicka (1996), parte I, cap. 2, sez. A, par. 4.1, cit. 55 Traduzione suggerita da me: TUTTO/TUTTI/OGNI. 56 Cfr. Wierzbicka (1980), cap. 6, cit.

(27)

inglesi rivelano manifestamente la sua presenza come componente semantica essenziale (all the same, already, alright, almost, although, altogether, not at all, also, always, overall, everywhere, everyone, everybody, whatever, whenever…). Quello che stupisce è che ogni linguaggio riporta casi di questo genere58. Esattamente come

nel caso della negazione, ALL è ampiamente accettato come elemento fondamentale, facente parte della logica della nostra mente. Da questo punto di vista, difatti, la sua presenza come quantificatore universale è indubbiamente impossibile da trascurare. La semantica, però, adotta la sua prospettiva particolare e non è detto che rifletta la necessità logica. E’ opportuno, quindi, rinvenire prima di tutto una sua lessicalizzazione stabile in ogni lingua del mondo, di modo che ALL risulti confermato empiricamente a livello lessicale e che si possa ancorare direttamente al linguaggio, tralasciando ogni speculazione teorica. Per farci capire meglio questo iato fra logica e semantica, Wierzbicka ci mostra che and e or, due operatori logici fondamentali, non sono stati assolutamente proposti come universali nonostante il ragguardevole ruolo che ricoprono in logica59. Il caso di

ALL è fortunato e rappresenta un punto d’incontro fra logica e semantica, come quello di NOT (presentato più avanti).

2.3.3 SOME60

Il termine inglese è fortemente polisemico, questo può essere uno dei principali motivi della lunga gestazione di questo concetto prima del suo

58 Cercando esempi in italiano possiamo citare alcuni casi: soprattutto, ognuno, dappertutto, ogni cosa, tutto

quanto, nonostante tutto, dopo tutto, al di là di tutto, tutto il resto, tutto bene, tutto il tempo, tutto uguale, qualsiasi, qualunque…

59 Cfr. Wierzbicka (1996), parte I, cap. 2, sez. A, par. 4.2, cit.

60 Traduzione da me suggerita: QUALCHE/ALCUNO/PARTE. L’ultima proposta potrebbe sembrare in

contrasto con l’altro universale PART. In realtà, però, non dobbiamo dimenticare che si può trattare di un caso di polisemia in italiano, che sarebbe ancor più confermato se si considera che la stessa cosa avviene con il polacco, dove Wierzbicka propone fra le traduzioni di SOME, CZĘSĆ, ovvero PARTE.

(28)

annoverarsi fra i possibili candidati al ruolo di primitivo semantico. Tale ruolo, infatti, non risulta ancora pienamente confermato e SOME, diversamente dai precedenti quantificatori, fa parte della lista parzialmente provvisoria, che Wierzbicka ama indicare come “set of new primes”. Il senso di fondo che caratterizza questo universale è quello dell’indeterminatezza del numero: esso è dunque situato fra ONE e ALL.

SOME fu proposto come universale da Bogusławski, proprio insieme ai due quantificatori citati sopra, proposti anche da Goddard in un secondo momento. Wierzbicka ha impiegato ben venti anni per valutare l’universalità di tutti e tre. La certezza a cui è giunta, soprattutto grazie allo studio di vari linguaggi aborigeni, è che ALL e ONE non sarebbero pienamente spiegabili in un apparato di primitivi che non contempli anche SOME, quindi il suo contributo non può assolutamente sottovalutarsi.

Lavorando in parallelo con logica e linguaggio McCawley fa notare che il quantificatore esistenziale è traducibile in inglese in svariati modi, fra cui possiamo comprendere alcuni usi di SOME e A/AN61. Il differenziare fra plurale e

singolare non è sempre evidente: la logica traduce (x) con “esiste almeno uno”, senza dovere sempre vagliare se è il caso di “esattamente uno” o di “almeno uno”. Analogamente, può esserci un caso di vaghezza nel linguaggio, ma tramite l’esempio citato da Wierzbicka: “some men admire Hitler” e “some man admires Hitler”, si comprende che solo il primo caso di SOME è attualmente considerato universale.

Altra confusione si può generare dal momento che spesso molti linguaggi

(29)

propongono PART come quantificatore esistenziale (può accadere anche in italiano). Chiaramente questo capita solo se PART, in tal caso, si configura come sostituto di SOME, quindi si tratta di un banale overlapping lessicale fra i due primitivi, difatti in inglese è possibile tradurre SOME con PART, ma non in ogni sua occorrenza62.

E’ importante completare la trattazione di questo presunto universale con la distinzione che va necessariamente tracciata fra esso e THERE IS. Ragionando logicamente in termini di esistenza, appare facile confondere exist e SOME, soprattutto in alcune lingue, come l’inglese, che contemplano la possibilità di tradurre il quantificatore  con there is o there are. Tali parafrasi, però, si basano su una struttura che non può sicuramente annoverarsi come universale, dunque è solo un caso di coincidenza e non certo una prova di equivalenza fra SOME e THERE IS63. Inoltre, vi sono esempi che danno esplicita dimostrazione del

contrario, anche utilizzando lo stesso inglese come lingua base64.

In conclusione, è necessario, secondo Wierzbicka, escludere anche la traduzione di SOME con NOT ALL. Questo modo di operare si spiega con il fatto che NOT ALL, diversamente dal primitivo in questione, implica qualcosa del tipo di most, vale a dire: la maggior parte65.

62 Esempio di Wierzbicka: sometimes non sta per part of time. Cfr. Wierzbicka (1996), parte I, cap. 2, sez. B, par.

16.1, cit.

63 THERE IS, tuttavia, è stato recentemente aggiunto alla lista di potenziali primitivi semantici. Sicuramente

possiamo dire che non sussiste alcuna equivalenza con SOME, si tratta, piuttosto di banali relazioni non composizionali.

64 L’esempio usato sopra: some men admires Hitler non è parafrasabile in there are people/these people admire Hitler

senza mutare il significato della prima.

(30)

2.4

Mental predicates: THINK, KNOW, WANT, FEEL, SEE, HEAR

2.4.1 THINK, KNOW, WANT, FEEL66

Come sosteneva Bruner, ogni cultura pare avere una folk psychology inestricabilmente legata al linguaggio di riferimento67. Una buona illustrazione di

questa assunzione del celebre psicologo si può rinvenire nella sfera emotiva: non solo il termine stesso emotion in inglese, o emozione in italiano, è culturalmente specifico, ma la tassonomia stessa di questa area è nettamente determinata dal mondo circostante in cui viene a crearsi. A fianco di queste folk psychologies, plasmate dalle specifiche circostanze culturali di fondo, Bruner individua un cuore psicologico innato comune a tutta l’umanità, che è la base di partenza per ogni tipo di sviluppo cognitivo successivo: “We come into the world already equipped with a primitive form of folk psychology”68.

L’evidenza risultante dall’indagine inter-linguistica riportata in Wierzbicka (1996) dà supporto e sostanza alle elaborazioni teoriche di Bruner69 e giunge a dare

un volto a tale apparato di elementi fondamentali: i predicati mentali (THINK, KNOW, WANT, FEEL). L’aspetto esaltante è che questi primitivi semantici hanno ricevuto diverse conferme da parte di vari studiosi, nonché un notevole supporto empirico, proveniente dai dati acquisiti attraverso ricerche sull’apprendimento del

66 Traduzione suggerita: PENSO, SO/CONOSCO, VOGLIO, SENTO. In italiano ritengo che la prima persona

singolare del presente indicativo sia la forma più semplice per esprimere la lessicalizzazione di questi concetti universali, anche rispetto all’infinito. Quello che qui si ricerca, difatti, non è la massima astrazione, proprio perché Wierzbicka ha capito che l’universalità sta nella semplicità non nell’assoluta generalità. Questo resta comunque il mio parere e uno dei motivi essenziali d’incertezza che mi ha spinto a scegliere l’utilizzo in versione inglese del “NSM”, ovvero quello originale usato da Wierzbicka. FEEL appare assolutamente complesso da tradurre, perché in italiano è polisemico a HEAR, un altro presupposto primitivo semantico. . Tuttavia, si tratta di un caso di polisemia comunissimo a molti linguaggi: l’inglese, infatti, è una delle poche lingue a non registrare un tale situazione relativa al verbo indicante il percepire, il sentire interiore. Un’ulteriore differenza, che sussiste in italiano, è l’inevitabilità dell’inserimento di caratterizzazioni temporali e personali, che fungono, a loro volta, da tracce di ulteriori primitivi

67 Cfr. Wierzbicka (1996), parte I, cap. 2, sez. A, par. 2. Wierzbicka fa riferimento a J.Bruner (1990), cit. 68 Cfr. Wierzbicka (1996), parte I, cap. 2, sez. A, par. 2, p. 73.

(31)

linguaggio70.

L’indefinibilità di THINK è stata già proclamata secoli fa da Descartes71 e

nessuno è mai stato capace di smantellare la sua argomentazione; del resto, non può non essere ovvio che non percepiamo niente di più distinto del nostro pensiero, dunque del fatto stesso che stiamo concependo qualcosa. E’essenziale che non esista un concetto più “chiaro” di THINK, eppure pare impossibile riuscire a spiegarlo senza tramutarlo in una concatenazione di termini che decreta la definitiva condanna alla perdita di semplicità. A questo proposito, Wierzbicka coglie l’occasione di mostrarci come le definizioni forniteci dai dizionari sono assolutamente confuse e circolari:

 to think – to have a though

 thought – the act or process of thinking; cogitation

 cogitation- 1. thoughtful consideration; 2. a serious thought72

Qualsiasi definizione che verte su THINK pare complessa e, in molti casi, implica una circolarità di rapida estensione nei confronti di molti altri vocaboli comuni alla nostra quotidianità, per non parlare degli aspetti quasi caricaturali dei termini forniti come suoi possibili equivalenti.

Ciò che accade a THINK accade anche a KNOW , WANT e FEEL. Gli esempi in proposito sono riportati nel paragrafo adibito alla trattazione dei predicati mentali in Wierzbicka (1996). I tentativi di definizione illustrati dalla ricercatrice riflettono con chiarezza il processo di progressiva complicazione che tali concetti

70 Wierzbicka cita Wellman (noto professore americano attualmente specializzato in psicologia dello sviluppo)

e le sue ricerche.

71 Cfr. R. Descartes (2001), cit.

72 Tratte da The American Heritage Dictionary of The English Language, ed. 1973, riportate in Wierzbicka (1996),

(32)

tanto semplici di per sé subiscono73.

L’universalità di questi primitivi, nonostante le precedenti considerazioni, è stata spesso messa in discussione, soprattutto da studiosi come Hallpike, menzionato in precedenza74. Molti linguaggi presentano vari casi di polisemia in

seno a questa stretta cerchia di predicati fondamentali. Sicuramente, secondo Wierzbicka, esiste una sintonia di fondo che li accomuna, non a caso, infatti, si trovano a riempire la medesima categoria; ma, a suo parere, non possiamo minimamente pensare che non intercorra distinzione fra questi e che ci siano menti umane incapaci di discernere fra le loro proprie attività base o anche solo che ne facciano uso senza accorgersi delle prerogative dell’una o dell’altra.

A questo scopo, sono state condotte molte indagini empiriche, conclusesi, poi, con la scoperta di un’intricata rete di casi di polisemia, presenti anche in lingue appartenenti a culture da definirsi, per così dire, “non primitive”, come lo stesso italiano di fronte al primitivo semantico FEEL (apparentemente, non esiste un termine corrispondente, in realtà c’è ma è nascosto dal fatto che assomiglia in tutto e per tutto al termine che si riferisce all’atto fisico di udire)75. Il fatto che

anche nei bambini spesso tali predicati non si presentino subito non significa che essi non hanno già cognizione di queste attività basilari e innate nell’essere umano.

L’universalità e l’importanza di questi concetti si visualizza se si considera il loro ruolo grammaticale. KNOW ha uno stretto rapporto con le dichiarative e le interrogative, assieme a THINK, poi, realizza le costruzioni di evidenza legate ad

73 Cfr. Ivi.

74 Capitolo I, par. 3.1. Cfr. Hallpike (1979), pp. 385-386, cit.

75 Cfr. Ivi, cap. 6, cit.; e, C.R. Hallpike (1979), cit. Quella di FEEL è una polisemia molto diffusa, di cui

(33)

altri organi fisici76. FEEL ci permette la costruzione delle esperienze e WANT ,

infine, è alla base delle imperative. Questi concetti, quindi, “realizzano” gran parte degli atti linguistici più comuni nelle nostre comunicazioni.

2.4.2 SEE, HEAR77

Questi due concetti giocano un ruolo fondamentale nella comunicazione umana. Sono estremamente comuni fra i bambini, nella loro esplorazione del mondo e nell’interazione con gli adulti, e, come ha sottolineato Bowerman, sono uno strumento chiave per lo sviluppo cognitivo-linguistico nell’infanzia. Tuttavia, la loro universalità non è ancora del tutto appurata, nonostante ci siano buoni presupposti perché venga confermata questa ipotesi. La cosa che forse più stupisce è che ci sono tante diverse espressioni in ogni lingua per indicare queste due attività basilari, come ad esempio: osservare, guardare, udire, ascoltare (in inglese: look, listen, watch…). Perché non elevare al rango di universali lessicali le altre? La scelta si orienta facilmente verso SEE e HEAR poiché paiono avere una certa semplicità intrinseca. Ognuno di questi termini accentua diversi aspetti delle vitali attività corripondenti al vedere e al sentire. Sebbene tutti i vocaboli disponibili implichino volontà, solo SEE e HEAR figurano come non ulteriormente scomponibili perché non mettono in luce nessuna caratteristica o circostanza specifica dell’atto in corso.

Inizialmente, Wierzbicka riteneva che tali concetti fossero definibili

76 Cfr. Wierzbicka (1996), parte III, cap. 15, par. 8, cit. Qui si trova un’interessante tabella delle traduzioni di

tali concetti in alcune lingue molto particolari.

77 Traduzione che suggerisco: VEDO, SENTO. Chiaramente si ripropone la polisemia cui avevo accennato in

precedenza. Ci sarebbero altre possibilità di traduzione del verbo SENTO, ma ritengo che la più comunesia questa, poiché fa riferimento all’attività fisica del sentire.

(34)

attraverso i corrispondenti organi di senso78. Dunque, una possibile definizione

sarebbe stata: “to know something about something because of one’s eyes or one’s ears”79.

In realtà, però, ci sono diversi problemi riguardo a questo tipo di proposta: prima di tutto le nozioni di SEE e HEAR appaiono come enormemente complesse, circostanza dura da accettare visto il ruolo che questi elementi rivestono nella grammatica e nel lessico; inoltre, se si definisce l’attività di vedere e di sentire attraverso l’organo di riferimento, saremo costretti a definire questi ultimi in modo puramente anatomico, eludendo ogni tipo di associazione alla funzione che svolgono proprio per evitare una scomoda circolarità. Una definizione costruita in questo modo, però, risulta essere completamente insoddisfacente perché la vista e l’udito vengono ritenuti degli aspetti essenziali degli organi corrispettivi, dunque anche parte integrante del loro significato80. Non possiamo dimenticare, poi, che

SEE e HEAR sembrano derivare direttamente dall’esperienza sensoriale, quindi hanno un certo requisito di universalità e innatezza, poiché ci permettono di fare esperienze variabili ad ogni istante. Questo ultimo punto è sostenuto da varie considerazioni che Wierzbicka fa a proposito del vedere e del sentire come due attività di cui si avrebbe cognizione anche se ne fossimo stati privati sin dalla nascita. Per avvalorare questa sua ipotesi, la ricercatrice fa menzione di diversi casi, come racconti autobiografici di persone affette da cecità o sordità da sempre,

78 Cfr. Wierzbicka (1980), cap. 4, cit.

79 Cfr. Wierzbicka (1996), parte I, cap. 2, sez. B, par. 17, p. 79, cit.

80 Le definizioni puramente anatomiche che Wierzbicka stessa ha cercato di giustificare sono queste (ivi, pp.

79-80, cit.):

eyes – two parts of the face these parts are alike

because of these two part,s a person can see

Ears –two parts of a person’s head These parts are alike

(35)

che però richiamano numerose volte il “vedere” riferito magari ad immagini mentali o il “sentire”.

Il problema della polisemia che affligge THINK e KNOW si ripropone anche nel caso di SEE e HEAR. In moltissimi linguaggi, infatti, questi ultimi due presunti universali condividono i loro esponenti lessicali con gli altri due concetti. Questo fatto ha nettamente alimentato l’idea che SEE e HEAR potessero ridursi a KNOW, senza quindi doverli per forza annoverare fra i primitivi semantici. Quello che non funziona nella definizione associata a KNOW è che non appare plausibile in ogni circostanza. Non sempre l’atto di vedere o udire ci conduce alla conoscenza, ad esempio i sogni o i miraggi non rivelano nulla sulla realtà, al massimo possono aprirci uno spiraglio sulla nostra psiche, ma questo non ha niente a che fare con il significato di tali esperienze. Anche nei bambini ci rendiamo conto che si verifica la stessa cosa, ovvero non ci si preoccupa di quello che si conosce vedendo, ma di vedere.

Quanto detto a proposito di SEE e HEAR pare allora dirigerci verso un’unica conclusione: non sono riducibili a nient’altro, sia che abbia a che fare con gli organi adibiti a tali attività, sia che tratti del processo conoscitivo.

Va aggiunto a questa riflessione che non ci si deve necessariamente aspettare lo stesso anche nel caso degli altri sensi, ovvero il tatto, il gusto e l’olfatto. La simmetria che si è sempre presupposta fra gli organi sensoriali è assolutamente priva di fondamento, quindi non esiste nessun universale che abbia a che fare con la disposizione di queste cinque facoltà fisiche dell’uomo. Spesso si pensa che la nostra percezione sia un fattore comune e uguale in tutto il mondo,

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