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1.1 UN IMPORTANTE ELEMENTO DEL TRATTAMENTO

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CAPITOLO I

LA DISCIPLINA DEI RAPPORTI TRA DETENUTO E FAMIGLIA: PROFILI GENERALI

1.1 UN IMPORTANTE ELEMENTO DEL TRATTAMENTO

Ai sensi dell’articolo 1 comma 1 della Legge 354/1975 (c.d. Legge sull’ordinamento penitenziario) «Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona». Tale norma rappresenta l’attuazione del precetto costituzionale di cui all’art. 27 comma 3 della Costituzione, secondo il quale «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Alla pena, dunque, con tale disposizione il Legislatore ha inteso assegnare dei limiti, mirando ad impedire che l’afflittività superi il punto oltre il quale si pone in contrasto con il senso di umanità

1

. Ne consegue come il precetto dell’art. 27 comma 3 Cost. definisca l’area di incidenza del vincolo costituzionale sulle scelte della legislazione penale e penitenziaria. La componente che qui interessa è quella propositiva, diretta ad individuare nella rieducazione la finalità ultima della pena:

essa pone l’accento sull’esigenza che la pena sia disciplinata in modo tale da favorire il recupero del condannato evitando, in primo luogo, gli effetti desocializzanti tipici di una realtà come quella penitenziaria.

                                                                                                               

1 D’amico, sub Art. 27, in Bifulco - Celotto - Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Milano, 2006, p. 573

 

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A tal proposito, tuttavia, è necessario aprire una piccola parentesi:

la differenza fra trattamento penitenziario e trattamento rieducativo. In particolare, deve rilevarsi come la formula “trattamento rieducativo”

venga impiegata con esclusivo riguardo ai detenuti condannati, in quanto destinatari di interventi diretti alla loro rieducazione. Al contrario la più ampia formula “trattamento penitenziario”, risulta riferita a qualunque tipo di detenuto, essendo volta a definire in termini generali il quadro delle regole e dei modi al cui interno si svolge la vita dei detenuti. Fra il trattamento penitenziario e quello rieducativo esiste, dunque, un rapporto da genere a specie

2

.

Alla luce di queste indispensabili premesse andiamo a individuare gli elementi del trattamento stesso. A questi ultimi è dedicato l’art 15 L. 354/1975, che così dispone: «Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia». La norma è da leggersi in coordinato con il contenuto dell’art. 1 della L. ord. penit.: essa infatti contribuisce ad integrare e completare la concezione di trattamento rieducativo. Innanzitutto, l’art.

15 possiede un valore enunciativo, in quanto gli elementi elencati nel 1° comma trovano una propria e specifica disciplina in altre norme dell’ordinamento penitenziario (v. artt. 17, 18, 19, 20-25 bis, 26, 27 e 28). Inoltre, la legge 354/1975 non fa coincidere totalmente il contenuto del trattamento con gli elementi del medesimo; il fatto che i

“vecchi” strumenti, cioè il lavoro, l’istruzione e la religione secondo l’impostazione del regolamento carcerario del 1931, vengano mantenuti in posizione di grande rilievo, non toglie valore alla scelta del legislatore del 1975 di sussumerli in una visione più estesa del concetto di trattamento: essi ne diventano gli elementi, insieme alle                                                                                                                

2Grevi, sub Art. 1, in Della Casa (a cura di), Ordinamento penitenziario, Ed.

III, Padova, 2006, p. 7

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attività culturali, ricreative, sportive e ai contatti col mondo esterno e famigliare

3

. La giurisprudenza ha comunque evidenziato che il trattamento «si sostanzia in una offerta di interventi, i quali, però, non sono dalla legge considerati atomisticamente, ma sono finalizzati, tramite l’osservazione scientifica della personalità del soggetto, alla predisposizione di un programma individualizzato di trattamento, i cui risultati devono essere periodicamente valutati per le varie esigenze previste dall’ordinamento penitenziario»

4

.

Ma l’aspetto che qui maggiormente interessa è la volontà della Legge di agevolare «gli opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia»: la previsione della partecipazione della comunità esterna all’opera di rieducazione e il superamento del principio di tassatività (riservato, prima del 1975, a istruzione, religione e lavoro) degli elementi del trattamento portano a valutare la disciplina contenuta nell’art. 15 come decisamente innovativa.

Tuttavia, i rapporti con la famiglia sembrano orientati più a preservare il detenuto dagli effetti desocializzanti della detenzione che non a favorire un percorso rieducativo. Basti pensare come, ad esempio, nella prospettiva del mantenimento dei rapporti con la famiglia, i colloqui visivi e telefonici si configurino come elementi connotati da peculiare valenza trattamentale. Infatti, a scopo “premiale”, essi possono essere concessi in numero ulteriore a quello previsto dall’art.

18 L. 354/1975

5

.

Concludendo, si pone in evidenza come la disciplina dedicata al rapporto detenuto-famiglia comporti una maggiore apertura del carcere verso la società libera, cosicché i rapporti con l’ambiente esterno, ed in particolare con i familiari, possono rappresentare un contributo ad una reintegrazione del criminale. In un’ottica critica, si rimarca come, in realtà, tale disciplina consenta semplicemente di attenuare gli aspetti                                                                                                                

3

 

Bernasconi, sub Art. 15, Op. Cit., pp. 192 e 193

 

4 Cass. Pen., Sez. I, 29-3-85, La Rosa, Giust. Pen. 1985, III, p. 675

5

 

Bernasconi, sub Art. 15, Op. Cit., pp. 194 e 195

 

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traumatici della pena detentiva e come lo “sbarramento” costituito da autorizzazioni, controlli, limiti, vigilanze e cautele renda assai difficoltosa la rieducazione del detenuto.

1.2 CONSERVAZIONE, RAFFORZAMENTO, RECUPERO DEI RAPPORTI FAMILIARI

«Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie». Così dispone l’art 28 della L. ord. penit., il cui significato è di immediata percezione: la separazione personale determinata dalla restrizione della libertà di un suo componente non deve pregiudicare quella delicata trama di rapporti, di interessi, di sentimenti costituita dalla famiglia.

Da mettere in evidenza è la nozione lata di famiglia, riconducibile alla sfera affettiva del detenuto con conseguente superamento della distinzione tra le situazioni di fatto e quelle di diritto. La dimensione familiare comprende qui non solo la famiglia legittima, ma anche quella naturale

6

, quella “allargata”, estesa agli affini, fino a quella “di fatto”, basata sulla convivenza more uxorio.

7

Pertanto, nella prospettiva della individualizzazione dell’esecuzione penale, è sempre più chiara la necessità di distinguere gli spazi esistenziali la cui restrizione o il cui ampliamento dipendono da una valutazione del comportamento del condannato, dagli spazi in relazione ai quali tale valutazione non è consentita, perché sono in gioco diritti dei

                                                                                                               

6

 

Cass. Pen. 27-1-95, Lafleur, Giust. Pen. 1995, II, p. 457

 

7

 

Bonetti, Tutela della riservatezza ed ambito penitenziario, in R. it. d. proc.

pen. 2004, p. 856

 

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condannati, da rispettare indipendentemente dal comportamento tenuto o dalla pericolosità dimostrata.

8

Inoltre, un saldo rapporto familiare ed affettivo costituisce un elemento centrale sia del trattamento sia del reinserimento sociale, di cui la famiglia può costituire il primo e più sicuro elemento dal quale

“ripartire” (art. 1 comma 6 L. ord. penit. e art. 1 reg. esec.). Tale valenza delle relazioni familiari viene rimarcata nel vigente regolamento penitenziario (D.P.R. 230/2000), che all’art. 1 tra gli obiettivi del trattamento include il «mutamento delle … relazioni familiari … che sono d’ostacolo ad una partecipazione sociale costruttiva». Le prime indicazioni da questo punto di vista potranno essere raccolte, e successivamente integrate, nella cartella personale di cui all’art. 13 L. 354/1975 sia con riferimento agli elementi biografici, sia in relazione a quelli psicologici; a questa potranno accedere, per le attività istituzionali in relazione all’azione di sostegno ed a quella finalizzata a preservare, perfezionare, recuperare la trama dei rapporti domestici, i soggetti cui questi compiti sono affidati dall’ordinamento.

Il primo elemento da analizzare in tale ampia trama di previsioni e situazioni è quello relativo al mantenimento dei contatti diretti tra i ristretti ed i loro familiari. Il riferimento alla famiglia opera su due piani, consentendo in primo luogo l’ingresso in carcere delle persone legate ai detenuti ed agli internati da vincolo affettivo. Sotto questo profilo, un elemento decisivo è costituito dai colloqui «con i congiunti e con altre persone» (art. 18 L. 354/1975 e art. 37 reg. esec.), nel cui contesto un «particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari» (art. 18 comma 3 L. 354/1975).

9

Questi ultimi infatti (se riguardanti il coniuge, il convivente, i figli, i genitori, i fratelli) non sono pregiudicati neppure dal regime di sorveglianza particolare di cui                                                                                                                

8

 

Spangher, sub Art. 28, in Della Casa (a cura di), Ordinamento penitenziario, Ed. III, Padova, 2006, p. 334

9

 

De pascalis, Colloqui visivi e telefonici: non solo diritto del detenuto ma anche componente del trattamento, in Dir. pen. proc. 1996, p. 384

 

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all’art. 14-bis comma 4 L. ord. penit. Del resto, significativa è la previsione dell’art. 37 comma 11 reg. esec., il quale dispone che, qualora i familiari non mantengano i rapporti con il detenuto, la direzione segnali il fatto per gli opportuni interventi all’ufficio locale di esecuzione penale esterna e laddove ne ravvisi la necessità anche al consiglio di aiuto sociale (art 75 comma 1 n. 5 L. ord. penit.).

10

In secondo luogo, la forma di contatto più diretta con i familiari si realizza consentendo l’uscita dei detenuti dalle strutture carcerarie

11

. In questa prospettiva si collocano anzitutto i permessi-premio volti a coltivare interessi affettivi (art. 30-ter comma 1 L. ord. penit.), nonché i permessi concedibili nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente (art. 30 comma 1 L. ord. penit.) o per eventi familiari di particolare gravità (art. 30 comma 2 L. ord. penit.).

Alla medesima area tematica, inoltre, possono essere ricondotte anche alcune delle misure alternative alla detenzione: la detenzione domiciliare nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora (art. 47-ter L. ord. penit.), con specifico riferimento alla persona minore degli anni ventuno, per comprovate esigenze di famiglia (art.

47-ter comma 1 lett. e L. ord. penit.); la semilibertà (art. 48 L. ord.

penit.) con riferimento alla volontà ed alle condizioni di reinserimento nella vita sociale (art. 50 commi 4 e 6 L. ord. penit.), emergente dalle prescrizioni in ordine ai rapporti con la famiglia (art. 101 comma 2 reg.

esec.). Infine, anche le licenze ai condannati ammessi al regime di semilibertà (art. 52 L. ord. penit.) e la riduzione di pena in quanto tesa ad un più efficace reinserimento nella società (art. 54 comma 1 L. ord.

penit.) sono condizionate, tra l’altro, dalla qualità dei rapporti intrattenuti con i familiari (art. 103 comma 2 reg. esec.)

12

.

Oltre alla disponibilità dei singoli componenti di questo rapporto (il detenuto ed i suoi familiari), è necessario un impegno dell’intera                                                                                                                

10

 

Spangher, sub Art. 28, Op. Cit., p. 335

 

11

 

Spangher, sub Art. 28, Op. Cit., p. 337

 

12

 

Cass. Pen. 31-10-95, De Simone, CED 203569

 

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macchina penitenziaria, anche con l’ausilio degli enti pubblici e privati qualificati nell’assistenza sociale, a norma degli artt. 45 comma 2 L.

ord. penit. e 95 reg. esec. Infatti, ai sensi dell’art. 61 comma 1 reg.

esec., si dispone che i programmi di intervento per la cura dei rapporti dei detenuti con le loro famiglie siano predisposti dai rappresentanti delle direzioni degli istituti, dei consigli di aiuto sociale e degli uffici locali di esecuzione penale esterna. In particolare, le citate attività devono perseguire l’obiettivo di raccogliere tutte le notizie utili per accertare i bisogni reali dei liberandi e studiare il modo di provvedervi secondo le loro attitudini e le condizioni familiari (art. 75 n. 2 L.

354/1975); curare il mantenimento delle relazioni dei detenuti con le loro famiglie (art. 75 n. 5); segnalare alle autorità e agli enti competenti i bisogni delle famiglie dei detenuti che rendono necessari speciali interventi (art. 75 n. 6); collaborare con i competenti organi per il coordinamento dell’attività assistenziale degli enti ed associazioni privati e pubblici, nonché delle persone che svolgono opera di assistenza e beneficenza per assicurare il più efficace intervento a favore dei detenuti, dei liberati e dei loro familiari (art. 75 n. 8); prendere contatto con il nucleo familiare presso cui il condannato o l’internato andrà a stabilirsi, ai fini degli opportuni interventi (art. 89 comma 5 reg. esec.)

13

.

Quanto ai profili più direttamente operativi, va ricordato che i detenuti e gli internati, ricevono un particolare aiuto nel periodo immediatamente antecedente la dimissione e per un congruo periodo a questa successivo (art. 46 comma 1 L. ord. penit., cui devono ricollegarsi l’art. 88 reg. esec., con riferimento al particolare programma di trattamento orientato alla soluzione dei problemi connessi alle condizioni di vita familiare che il dimettendo dovrà affrontare; nonché gli artt. 89 e 94 reg. esec., in relazione all’assistenza alle famiglie nel periodo che precede il ritorno del detenuto). Nella                                                                                                                

13

 

Spangher, sub Art. 28, Op. Cit., p. 338

 

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prospettiva qui considerata un ruolo decisivo è svolto dai servizi sociali. Si prevede infatti che il reinserimento definitivo nella vita libera è agevolato da interventi del servizio sociale svolti anche in collaborazione con enti pubblici e privati qualificati nell’assistenza sociale (art. 46 comma 1 L. ord. penit. e art. 95 reg. esec. con specifico riferimento agli interventi a favore delle famiglie). Si prevede inoltre che durante il periodo di affidamento in prova il servizio sociale aiuti l’affidato a superare le difficoltà di adattamento anche mettendosi in relazione con la sua famiglia (artt. 47 comma 9 L. ord. penit. e 97 comma 9 reg. esec.).

14

1.3 L’ISTITUTO DEL CONSIGLIO DI AIUTO SOCIALE

I consigli di aiuto sociale sono istituti disciplinati negli artt. 74 L.

ord. penit e 119 reg. esec., forniti di personalità giuridica, che svolgono attività di assistenza penitenziaria e post-penitenziaria. L’art. 75 L. ord.

penit. puntualizza le competenze del consiglio di aiuto sociale, i cui interventi si qualificano in due direzioni:

• Assistenza psicologica e morale

• Sostegno economico

Quello che qui interessa è ovviamente il primo tipo di intervento, che è diretto ai liberandi (attività di cura ex art 75 n. 1 L. ord. penit.), ai detenuti e agli internati (attività per il mantenimento delle relazioni con le famiglie ex art. 75 n. 5) e alle famiglie dei detenuti e degli internati (attività di individuazione dei loro bisogni e di segnalazione alle autorità e agli enti competenti ex art. 75 n. 6).

                                                                                                               

14

 

Spangher, sub Art. 28, Op. Cit., p. 339

 

(9)

Tra le competenze contemplate nell’art. 75, quelle in materia di assistenza post-penitenziaria e di assistenza economica alle famiglie dei detenuti sono state assunte dai comuni e dalle regioni, in virtù del trasferimento e della delega delle funzioni amministrative dello Stato operato con il D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616. Ai sensi dell’art. 23 di tale norma, nelle funzioni amministrative in materia di beneficenza pubblica risultano compresi gli interventi di assistenza economica nei confronti delle famiglie bisognose dei detenuti e delle vittime del delitto, gli interventi di assistenza post-penitenziaria, gli interventi a favore dei minorenni soggetti a provvedimento dell’autorità giudiziaria minorile nell’ambito della competenza amministrativa e civile, gli interventi di protezione sociale di cui agli artt. 8 e ss. della Legge 75/1958. Quindi residuano ai consigli le competenze in materia di assistenza penitenziaria previste dall’art. 75, nn. 1, 2, 5, 6. Si tratta di attività di assistenza psicologica e morale nei confronti dei liberandi, dei detenuti e delle loro famiglie, attribuite anche ai centri di servizio sociale, ora denominati «uffici locali di esecuzione penale esterna».

Inoltre, il d. lgs. 112/1998 ha attuato un ampio trasferimento di compiti dallo Stato alle regioni e agli enti locali: la riserva statale in materia di servizi assicurati nel corso dell’esecuzione penale ribadisce il concetto già espresso a seguito del decentramento di compiti attuato nel 1977, circa la permanenza della competenza agli organi dell’amministrazione dell’assistenza collegata al corso dell’esecuzione della pena detentiva, rimanendo fuori da tale ambito, e quindi trasferita alle regioni e agli enti locali, quella in materia post-penitenziaria. Dunque, l’assistenza penitenziaria, non trasferita alle regioni e agli enti locali, è ormai di fatto svolta dagli uffici locali di esecuzione penale esterna, che hanno in pratica svuotato di contenuto ogni residua competenza dei consigli di aiuto sociale, pur ancora formalmente titolari di quelle attività collegate allo stato detentivo della persona

15

.

                                                                                                               

15

 

Vitello, sub Art. 75, in Della Casa (a cura di), Ordinamento penitenziario,

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CAPITOLO II

COLLOQUI, CORRISPONDENZA, PERMESSI

2.1 PREMESSA

La spersonalizzazione dell’individuo che caratterizzava i regolamenti penitenziari del 1891 e del 1931 si manifestava anche in ordine ai rapporti affettivi del detenuto.

Il divieto per il detenuto di coltivare i suoi affetti più cari si manifestava disconoscendo il diritto a qualsiasi rapporto con i familiari anche attraverso i colloqui e la corrispondenza epistolare. Come se ciò non bastasse, gli si impediva anche di esporre nella cella le fotografie dei congiunti, perché la loro visione avrebbe potuto creare una sia pur minima soddisfazione dei sentimenti affettivi: il tutto in armonia con la funzione afflittiva della pena.

16

Il detenuto poteva soddisfare, entro limiti rigorosi, il suo bisogno affettivo solo a titolo di ricompensa per la buona condotta serbata nel corso dell’esecuzione della pena.

La situazione è ovviamente cambiata dopo l’entrata in vigore della legge di riforma dell’ordinamento penitenziario, la quale, in ossequio al rispetto della dignità della persona umana, non poteva disconoscere la tutela della sfera affettiva del detenuto, consentendo ogni forma di rapporto con i familiari o i conviventi, non come concessione benevola, ma come e vero e proprio diritto soggettivo.

                                                                                                                                                                                                                                                                     

Ed. III, Padova, 2006, pp. 1062 e 1063

16

 

Pennisi, Tutela del detenuto e tutela giurisdizionale, Torino, 2002, p. 169

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In particolare, l’attuale ordinamento penitenziario manifesta, con numerose sue disposizioni, la costante attenzione verso il mantenimento dei rapporti tra persone costrette in stato di detenzione e mondo esterno. Si percepisce chiaramente il favor di cui gode il c.d

“modello partecipativo” che mira a superare l’idea tradizionale del carcere come istituzione volta a segregare ed emarginare i detenuti dalla società per tutto il tempo della detenzione.

D’altra parte, il fine ultimo del trattamento rieducativo è quello di favorire il reinserimento sociale e il modo migliore per farlo è proprio quello di non troncare nettamente i rapporti con l’esterno per il periodo della reclusione. Risultano noti, infatti, gli effetti criminogeni che la detenzione, vissuta quasi in isolamento dal mondo libero, può provocare e lo stato di sconforto e di prostrazione che il detenuto può avvertire, con il rischio di ostacolare la sua partecipazione al trattamento

17

.

Atteso quindi il ruolo di fondamentale importanza attribuito dall’attuale ordinamento penitenziario ai contatti del detenuto con la comunità libera, appare di intuitiva evidenza il primario rilievo assunto dai contatti con la famiglia, che costituiscono un altro e peculiare elemento essenziale del trattamento penitenziario: là dove esistano, occorre “mantenerli” per evitare che l’esperienza carceraria li distrugga; se, invece, detti rapporti siano già precari, l’amministrazione dovrà indirizzare i suoi sforzi verso un loro miglioramento; quando, infine, essi siano completamente assenti, compito precipuo dell’amministrazione sarò quello di ristabilirli.

È evidente la cura che va indirizzata per rendere meno traumatica possibile non solo la fase del distacco dal proprio nucleo parentale, ma anche quella del rientro, specie dopo un lungo periodo di detenzione.

                                                                                                               

17

 

Bellantoni, Il trattamento dei condannati, in Corso (a cura di), Manuale della esecuzione penitenziaria, Ed. V, Milano, 2013, pp. 121 e ss.

(12)

Si tratta, in definitiva, di assistenza che non assolve a finalità pietistiche, ma è preordinata al riadattamento in società dei detenuti

18

.

Gli strumenti adeguati al mantenimento delle relazioni parentali offerte dal legislatore sono: i colloqui, la corrispondenza epistolare e telefonica, i permessi

19

.

2.2 I COLLOQUI: DISCIPLINA E ASPETTI PROBLEMATICI

Tra i diritti inviolabili e quelli che comunque dovrebbero essere garantiti vanno compresi tutti quelli che attengono alla sfera dei rapporti affettivi e delle relazioni sociali dei detenuti all’interno della famiglia e nell’ambito dei legami interpersonali. Accade però che, quando si parla di diritti dei detenuti e si afferma che ad essi competono quelli normalmente spettanti ad ogni cittadino, se ne trascuri poi la verifica del loro concreto ed effettivo esercizio.

Certamente è innegabile che l’affettività rappresenti una funzione psichica di grande importanza per l’equilibrio psicologico di un individuo che debba recuperare i valori delle relazioni interiori e di quelli interpersonali. Ed è per questo motivo che l’ideologia del trattamento carcerario con finalità ed obiettivi rivolti alla riabilitazione ed al reinserimento sociale del soggetto non può non favorire anche gli aspetti relativi agli affetti che altrimenti rischiano di essere inibiti dall’istituzione. Il colloquio, in particolare, rappresenta il mezzo che

                                                                                                               

18

 

Bellantoni, Il trattamento dei condannati, Op. Cit., p. 127

19

 

Bellantoni, Il trattamento dei condannati, Op. Cit., p. 128

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più di ogni altro favorisce le relazioni del detenuto con la famiglia e con le altre persone a lui legate.

20

«I detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui e corrispondenza con i congiunti ed altre persone, anche al fine di compiere atti giuridici». Così dispone l’art. 18 comma 1 della L. ord.

penit.: esprime un principio generale amplissimo sia sotto il profilo dei soggetti ammessi a fruire degli strumenti di rapporto con l’esterno, sia sotto il profilo dei possibili interlocutori. Ma ciò che in questa sede interessa maggiormente è il terzo comma dell’art. 18 che prevede espressamente che «particolare favore» debba essere accordato «ai colloqui con i familiari», affinché anche attraverso questo strumento sia possibile contribuire al mantenimento, al miglioramento ed alla reintegrazione delle «relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie», come previsto in linea generale dall’art. 28 della L. ord.

penit.

21

In tal modo, il legislatore ordinario ha dato concretezza al favor familiae cui sono ispirati gli artt. 29-31 della Costituzione (tutela della famiglia e dei minori)

22

e con l’approvazione del nuovo regolamento esecutivo ha attribuito all’amministrazione penitenziaria la responsabilità di rendere effettivo il trattamento, introducendo l’obbligo di concedere colloqui, telefonate e quant’altro nel numero previsto dal regolamento indipendentemente da una valutazione relativa alla condotta.

La legge ed il regolamento utilizzano promiscuamente i termini

«congiunti» e «familiari», attribuendovi significati sostanzialmente equivalenti, nonostante il primo richiami i rapporti di parentela e di affinità ed il secondo invece il gruppo dei congiunti conviventi. Tale promiscuità finisce per essere espressione di una precisa scelta del                                                                                                                

20

 

Castaldo, La rieducazione tra realtà penitenziaria e misure alternative, Napoli, 2001, pp. 122 e 123

21

 

Bertolotto, sub Art. 18, in Della casa (a cura di), Ordinamento penitenziario, Ed. III, Padova, 2006, p. 215

22

 

Canepa - Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Ed. IX, Milano, 2010, p.

150

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legislatore che, non solo non circoscrive l’ammissione al colloquio ai

«prossimi congiunti» come faceva il regolamento di prevenzione e pena del 1931, ma intende agevolare i rapporti con tutte le persone che abbiano particolari vincoli con il soggetto. Questa lettura è stata accolta sia dalla Corte Suprema di Cassazione

23

, la quale dal combinato disposto del 1° e 3° comma dell’art. 18 L. ord. penit. ha tratto spunto per un’interpretazione non restrittiva dei termini

«congiunti» e «familiari», tale da far assumere rilievo non solo al rapporto di parentela legale, ma anche a quello di parentela naturale, sia dalla circ. Dap 8-7-98, n. 3478/5928, recante le linee guida in materia di colloqui. La citata circolare fornisce una nozione ampia di famiglia, comprensiva di tutti quelli che sono legati da vincoli di coniugio, parentela o affinità entro il quarto grado, specificando che per i detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis L. ord. penit. e per quelli inseriti nel circuito ad “alta sicurezza” sono legittimati al colloquio solo parenti o affini entro il terzo grado. Il favor familiae inoltre esclude che vi possano essere ostacoli alle visite dei figli anche se bambini, secondo l’esplicita previsione dell’art. 37 comma 9 reg.

esec., che statuisce l’ammissibilità di colloqui con i figli di età inferiore ai dieci anni anche oltre il limite generale dei sei mensili.

Il favor familiae nella disciplina dei colloqui si apprezza anche nell’estensione delle previsioni di favore ai «conviventi» con il detenuto attuata dall’art. 37 del reg. esec. Si completa così la definizione di famiglia tenuta presente dall’ordinamento penitenziario che comprende, accanto a quella legittima e nucleare (fondata sul matrimonio), quella allargata (includente gli affini) e quella di fatto (basata sulla convivenza)

24

.

Il particolare favore per i colloqui con i congiunti si evidenzia al più alto livello, non tanto nel dettato legislativo, quanto piuttosto nella                                                                                                                

23

 

Cass. 27-1-95, Lafleur, CED 200669

24

 

Bertolotto, sub Art. 18, Op. Cit., p. 216

(15)

disciplina regolamentare, che guarda con il massimo favore ai contatti con i familiari e considera invece quelli con i terzi un caso eccezionale.

La differenza emerge palese dalla definizione dei presupposti per l’ammissione ai suddetti contatti: il primo comma dell’art. 37 reg.

esec., mentre non prevede particolari condizioni per richieste di congiunti e conviventi, subordina quelle provenienti dagli estranei al riscontro di «ragionevoli motivi».

Un ulteriore elemento di differenziazione si rinviene nella previsione dell’art. 37 comma 10 reg. esec. che solo per i colloqui con congiunti e conviventi consente di prolungare la durata (prevista in un’ora) fino a due ore quando ricorrono «eccezionali circostanze»; il prolungamento è sempre ammesso quando i congiunti o conviventi

«risiedono in un comune diverso da quello in cui ha sede l’istituto», purché l’interessato non abbia fruito di alcun colloquio nella settimana precedente e non vi ostino le esigenze e l’organizzazione dello stabilimento. A tal proposito, bisogna ricordare una sentenza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, emanata l’11 aprile 2006, secondo la quale l’art. 37 comma 10 reg. esec. è applicabile anche ai detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis L. ord. penit. Come ha giustamente osservato E. N. La Rocca nel commento a questa stessa sentenza

25

, è evidente che il Tribunale di Sorveglianza di Bologna abbia considerato prevalenti, rispetto alle esigenze di sicurezza e prevenzione che caratterizzano il c.d. “carcere duro”, i rapporti del detenuto con la sua famiglia ed in particolare con la prole. La Rocca afferma inoltre che tra i molteplici collegamenti tra le norme di ordinamento penitenziario e quelle costituzionali, quello più diretto intercorre con l’art. 27 comma 3 Cost., in cui è stabilito che «la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato». E come può definirsi                                                                                                                

25

 

La Rocca, La concretizzazione del favor familiae anche per il detenuto sottoposto al regime di carcere duro, in La Giustizia Penale, Parte IIa, 2006, pp. 605 e ss.

(16)

“umano” un regime che vieta al detenuto di avere rapporti con la propria famiglia ed in particolare con i propri figli? E come può ritenersi finalizzata alla «rieducazione» l’esecuzione di una pena che prescinda dalla valorizzazione del nucleo familiare, considerato di certo tra le formazioni sociali garantite dall’art. 2 Cost., quale sede di svolgimento della personalità di ogni individuo? Alla luce di queste considerazioni, La Rocca ritiene quindi condivisibile la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, che è tra l’altro conforme all’impronta generale che l’art. 1 comma 1 L. ord. penit. ha inteso dare all’intera disciplina dell’ordinamento penitenziario («Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona»).

Un’altra deroga è contenuta nello stesso 10° comma dell’art. 37 reg.

esec., ai sensi del quale nei colloqui con i congiunti e i conviventi non vale il limite massimo di tre interlocutori, previsto in linea generale

26

.

Nonostante il ruolo centrale riconosciuto ai colloqui nell’ambito del trattamento penitenziario, il loro godimento risulta subordinato all’emissione di specifici provvedimenti autorizzatori. Ciò ha dato luogo ad una serie di interrogativi circa la conformità della disciplina al dettato costituzionale ed in particolare all’art. 15 Cost., che colloca la libertà di comunicazione tra i diritti fondamentali riconosciuti e garantiti alla persona umana in quanto tale e quindi, in linea di principio, pure al detenuto: si tratta di diritti del detenuto «uti cives», vale a dire che gli appartengono in quanto non oggettivamente incompatibili con lo stato detentivo

27

, sebbene la privazione della libertà personale connessa allo stato detentivo ne comporti inevitabilmente una certa compressione. Ogni ulteriore restrizione

                                                                                                               

26

 

Bertolotto, sub Art. 18, Op. Cit., p. 217

27

 

Bernardi, G. it. 1983, IV, p. 338

(17)

dovrebbe pertanto fondarsi su di una specifica previsione legislativa ed essere disposta con provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria

28

.

La disciplina penitenziaria non risulta sotto questo profilo del tutto appagante. Se infatti la legge lascia “carta bianca” al regolamento sui criteri da seguire nel rilascio dell’autorizzazione, il regolamento dal canto suo si limita a richiedere la presenza di ragionevoli motivi in relazione ai colloqui con persone estranee. Il provvedimento autorizzatorio è dunque connotato da una discrezionalità praticamente assoluta

29

, nonostante lo sforzo definitorio compiuto con la circolare Dap 8-7-98, n. 3478/5928, la quale dispone che l’individuazione dei ragionevoli motivi avvenga con la maggiore ampiezza possibile, avendo riguardo ai legittimi interessi del detenuto in ordine alle relazioni affettive, di studio e di lavoro, ed invita l’amministrazione penitenziaria a far uso della discrezionalità concessale secondo criteri di maggior favore nei confronti dei detenuti. A conclusioni diametralmente opposte si giungerebbe invece quando gli interlocutori siano congiunti o conviventi, relativamente ai quali l’unico presupposto per la concessione del permesso di colloquio sarebbe costituito dal rapporto di parentela, requisito il cui accertamento non lascia alcuno spazio alla discrezionalità

30

.

L’autorità competente a concedere le autorizzazioni ai colloqui è indicata dall’art. 18 comma 8 L. ord. penit., in relazione al soggetto interessato: per gli imputati prima della pronunzia della sentenza di primo grado, l’autorizzazione è concessa dalla competente autorità giudiziaria, quindi dal giudice che procede e, prima dell’esercizio dell’azione penale, dal giudice per le indagini preliminari (come si ricava dall’art. 240 comma 1 disp. att. c.p.p., in relazione ai

                                                                                                               

28

 

Sulla duplice riserva di legge e di giurisdizione contemplata nell’art. 15 Cost., Guariniello, G. it. 1968, IV, p. 121

29

 

Bernardi, Op. Cit., p. 340

 

30

 

Bertolotto, sub Art. 18, Op. Cit., p. 218

 

(18)

provvedimenti di cui all’art. 11 comma 2 L. ord. penit.

31

); per gli imputati dopo la sentenza di primo grado, nonché per i condannati e per gli internati, l’autorizzazione è concessa dal direttore dell’istituto.

Quest’ultima scelta di affidare ad un’autorità amministrativa la competenza a rilasciare l’autorizzazione è stata dettata dall’esigenza di provvedere celermente e di non appesantire i compiti della magistratura di sorveglianza

32

.

Per quanto riguarda le modalità esecutive, l’art. 18 comma 2 della L. ord. penit. prevede che i colloqui si svolgano «in appositi locali sotto il controllo a vista e non uditivo del personale di custodia». Tale norma ha costituito un importante passo avanti rispetto al regolamento Rocco (che solo per i difensori prevedeva il controllo a vista e non uditivo) nel senso di una maggiore coerenza con i principi sanciti dall’art. 15 Cost. ed in particolare con la garanzia della segretezza. In questo modo, si è inteso anche realizzare condizioni che agevolino la spontaneità del rapporto tra gli interlocutori.

L’esclusione del controllo auditivo non implica, di per sé, che rappresentanti del personale di custodia non siano fisicamente presenti nei locali; anzi, la loro presenza è necessaria per assicurare che tutti esercitino il loro diritto senza interferenze e disturbi, e per consentire la sospensione del colloquio e l’eventuale esclusione dallo stesso delle

«persone che tengono un comportamento scorretto e molesto» (art. 37 comma 4 reg. esec.). I colloqui si svolgono in locali interni senza mezzi divisori o in spazi all’aperto a ciò destinati, salvo che ragioni sanitarie o di sicurezza rendano opportuno lo svolgimento «in locali interni comuni muniti di mezzi divisori» (art. 37 comma 5 reg. esec.).

Qualora ricorrano «speciali motivi», la direzione può tuttavia disporre che l’incontro si svolga in «locali distinti»: si tratta dei c.d. “colloqui speciali”, normalmente ammessi per i dialoghi con i congiunti al fine                                                                                                                

31

 

Canepa - Merlo, Op. Cit., p. 152

 

32

 

Bellantoni, Il trattamento dei condannati, Op. Cit., p. 129

 

(19)

di assicurare che nessun altro abbia cognizione, sia pur occasionale, del relativo contenuto

33

.

Proprio nella descritta disciplina è stato visto uno degli argomenti testuali su cui fondare l’ammissibilità dei rapporti sessuali in carcere

34

, con l’unico vero problema del precetto che impone sempre il controllo visivo del personale di custodia. La lettura proposta però non è stata accolta dalla Corte di Cassazione, la quale ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 comma 2 e dell’art. 30-ter L. ord. penit., nella parte in cui non prevedono la concessione di permessi premio da trascorrere in carcere

35

.

Fatta questa breve considerazione, torniamo adesso alla disciplina italiana dei colloqui, e in particolare all’ottica di agevolare i rapporti con la famiglia quali insostituibili strumenti trattamentali. A tal riguardo, bisogna ricordare che il nuovo regolamento esecutivo ha modificato completamente l’assetto relativo al numero ed alla fruibilità dei colloqui: l’art. 37 reg. esec. ha eliminato la distinzione tra colloqui

“ordinari” e colloqui “premiali”, svincolando la decisione sulla concedibilità degli stessi dalla positiva valutazione della condotta del ristretto ed ha innalzato a sei il numero dei colloqui mensili fruibili da parte della generalità dei detenuti, assorbendo i due colloqui supplementari, che nella disciplina previgente erano condizionati ad una valutazione premiale rimessa al direttore. Il 9° comma dell’art. 37 reg. esec. prevede inoltre la fruizione di colloqui ulteriori in caso di gravi infermità, di «particolari circostanze personali e familiari del detenuto o dell’internato» e quando il colloquio debba tenersi con figli di età inferiore ai dieci anni. Il ruolo centrale riconosciuto nel percorso rieducativo ai colloqui trova conferma nelle previsioni dell’art. 61 comma 1 lett. a) reg. esec., che consente al direttore di concedere ulteriori colloqui in linea con i pareri forniti dal gruppo di                                                                                                                

33

 

Bertolotto, sub Art. 18, Op. Cit., p. 222

 

34

 

Per un maggiore approfondimento v. infra par. 2.3

35

 

Cass. Pen. 9-4-92, Guagliardo, C. pen. 1993, p. 1549

(20)

osservazione, e dall’art. 73 comma 3 reg. esec., che svincola la sanzione disciplinare dell’isolamento dal divieto di fruire colloqui con familiari conviventi.

Limiti differenziati sono previsti per i soggetti detenuti per i delitti di cui al primo periodo del primo comma dell’art. 4-bis L. ord. penit.

per i quali operi il divieto di ammissione ai benefici penitenziari, in ragione della maggiore pericolosità che li connota. L’individuazione di questa categoria di soggetti, ammessi a fruire di soli quattro colloqui mensili, avviene unicamente sulla base del titolo di reato causa della restrizione. La circ. Dap 3-11-00, n. 3533/5983 ha tra l’altro chiarito che il limite dei quattro colloqui opera per tutta la durata della pena, anche se il reato ostativo è ritenuto in continuazione con altre fattispecie criminose, mentre qualora la condanna per un reato ostativo sia inserita in un provvedimento di cumulo ex art. 663 c.p.p. il regime restrittivo si applica solo per la parte di pena inflitta per il reato di cui all’art. 4-bis L. ord. penit

36

.

La disciplina differenziata introdotta dal nuovo regolamento ha dato luogo ad una serie di ricorsi alla magistratura di sorveglianza, chiamata a valutare la legittimità dei provvedimenti che, in applicazione degli artt. 37 comma 8 e 39 comma 2 reg. esec., hanno ammesso i detenuti per i reati di cui all’art. 4-bis L. ord. penit a fruire di un numero ridotto di colloqui e telefonate. La maggior parte dei giudici di merito ha accolto i ricorsi, disapplicando le norme regolamentari per contrasto con le disposizioni di legge, in applicazione dell’art. 5 L. 2248/1865 all. E); le decisioni muovono dalla considerazione che l’art. 18 conferisce un diritto soggettivo a tutti i detenuti senza distinzioni, rimettendo alla fonte normativa secondaria la definizione delle sole modalità esecutive, e pertanto le norme regolamentari sopra ricordate

                                                                                                               

36

 

Bertolotto, sub Art. 18, Op. Cit., p. 224

(21)

introducono una differenziazione di regime giuridico tra detenuti priva di base legislativa ed in contrasto con gli artt. 1 e 3 L. ord. penit.

37

Di contrario avviso è la giurisprudenza di legittimità che, pur ammettendo astrattamente la disapplicabilità dei regolamenti contrari alla legge, ha ritenuto le limitazioni applicabili ai detenuti per reati ostativi «ancorate ad un criterio ragionevole ed obiettivamente verificabile, pienamente congruente con i principi dell’ordinamento penitenziario», che ammette una differenziazione di trattamento in ragione della maggiore pericolosità dei condannati

38

. Di qui la conclusione che la disciplina differenziata risponde ad evidenti esigenze di ragionevolezza, essendo correlata alla valutazione di particolare pericolosità già operata dal legislatore con l’introduzione dell’art. 4-bis L. ord. penit. e quindi perfettamente coerente con il principio di individualizzazione del trattamento di cui all’art. 1 L. ord.

penit.

39

Per ciò che concerne le limitazioni derivanti dall’applicazione dell’art. 41-bis L. ord. penit., per effetto delle prescrizioni introdotte dalla L. 15 luglio 2009, n. 94, le restrizioni alla fruizione dei colloqui sono state ulteriormente inasprite: è previsto che possa essere effettuato un solo colloquio al mese (a fronte dei due consentiti nella previgente disciplina) da svolgere ad intervalli di tempo regolari ed in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti; diventano obbligatori il controllo auditivo, la registrazione e la videoregistrazione; solo in sostituzione del colloquio visivo è possibile fruire di un colloquio telefonico mensile

40

.

Con riferimento infine al regime di sorveglianza particolare, il penultimo comma dell’art. 14-quater L. ord. penit. si limita a                                                                                                                

37

 

Cfr. Mag. Sorv. Firenze 2-11-00, Piccirillo, Rass. penit. crim. 2000, p.

233; Trib. Sorv. Cagliari 3-4-01, Arra, Dir. pen. proc. 2002, p. 629

38

 

Cass. 15-5-02, Valenti, CED 221604

39

 

Cass. 29-5-02, Floridia, Dir. pen. proc. 2002, p. 961

40

 

Bellantoni, Il trattamento dei condannati, Op. Cit., pp. 130 e 131

(22)

selezionare ai fini del colloquio la cerchia delle persone affettivamente legate al detenuto, menzionando in un elenco che non può non essere considerato tassativo «il coniuge, il convivente, i figli, i genitori, i fratelli». E, secondo autorevole dottrina

41

, tale selezione appare tutto sommato ragionevole. Inoltre, l’art. 14-quater ultimo comma L. ord.

penit. valorizza il criterio della vicinanza del detenuto al proprio nucleo familiare, nell’ipotesi in cui la sorveglianza particolare debba essere attuata in un istituto diverso da quello di appartenenza.

2.3 LA QUESTIONE DELL’AFFETTIVITÀ-SESSUALITÀ INTRAMURARIA

Nel paragrafo 2.1 si è messo in luce come scopo precipuo dell’intervento riformatore del 1975 fosse la creazione di un apparato normativo in cui le relazioni familiari potessero continuare a incidere sulle condizioni psicofisiche del detenuto e sulle sue prospettive di vita futura. Tuttavia, esaminando una ad una le eterogenee disposizioni poste a tutela dei legami affettivi è difficile non accorgersi di un preoccupante silenzio legislativo: l’assenza di norme a tutela dell’espressione anche fisica dell’affettività, che di fatto conduce ad un’astinenza sessuale coatta per quei detenuti che non possano accedere ai permessi ex art. 30-ter L. ord. penit.

42

Il paradosso normativo è evidente: se, per un verso, il mantenimento della sfera affettiva è elemento funzionalmente volto

                                                                                                               

41

 

Della Casa, I rapporti del detenuto con la sua famiglia, in Diritto penale e processo, n. 1, 1999, p. 126

42

 

V. infra par. 2.6

 

(23)

alla realizzazione dei principi costituzionali, per l’altro, il silenzio della legge impedisce l’emersione del diritto alla sessualità intramuraria.

La negazione assoluta del diritto appare frutto di una precisa scelta del legislatore tesa a privilegiare, nel processo del bilanciamento di valori, le esigenze di sicurezza che assumono una posizione di preminenza tale da negare il riconoscimento del diritto

43

.

La problematica non è sfuggita all’attenzione del Dap che nella Circolare 6 maggio 1997 n. 139795, dopo aver richiamato il contenuto di una proposta di legge tesa a garantire l’affettività in carcere mediante la destinazione di appositi locali idonei privi di controllo visivo per gli incontri col coniuge o convivente per quattro ore consecutive e mediante l’utilizzo di aree verdi per una volta al mese, si è chiaramente espresso nel senso di condividere la finalità di tale proposta di legge e, perciò, ha chiesto notizie ai direttori degli istituti di pena, al fine di monitorare la situazione esistente e così verificare la fattibilità concreta dell’innovativa proposta di legge.

Inoltre, è doveroso ricordare che il testo originario del progetto di regolamento esecutivo, approvato poi col D.P.R. 230/2000, conteneva una norma specifica (l’art. 58) che, considerando l’affettività nei rapporti familiari come un elemento qualificante del trattamento penitenziario, prevedeva la concessione di permessi interni e visite da fruire in apposito ambiente (c.d. «unità abitativa») privo di barriere divisorie ed idoneo a garantire la riservatezza delle persone presenti.

Questa innovativa disposizione, però, non è mai entrata in vigore, in quanto fu stralciata dal corpo del regolamento approvato definitivamente col D.P.R. 230/2000: il Consiglio di Stato nel parere n.

61/2000 aveva osservato l’inconciliabilità del suo disposto con la previsione dell’obbligatorietà del controllo a vista sui colloqui del                                                                                                                

43

 

Talini, Famiglia e carcere, in La famiglia davanti ai suoi giudici, Atti del Convegno annuale dell’associazione “Gruppo di Pisa”, Catania, 7-8 giugno 2013, p. 3

 

(24)

sovraordinato art. 18 L. ord. penit. e che, quindi, non con norma regolamentare di natura esecutiva, ma solamente con disposizione di legge si sarebbe potuto riconoscere e disciplinare il peculiare diritto all’affettività.

In altri termini, il parere negativo del Consiglio di Stato fu fondato non su motivi di merito, bensì sulla legittimità dello strumento regolamentare, sicché si può ragionevolmente prevedere che in un futuro più o meno prossimo il diritto all’affettività in carcere venga riconosciuto con apposita legge.

44

Questa problematica è stata riaffrontata più di recente con la sentenza 301/2012 della Corte Costituzionale. In particolare, in data 27 aprile 2012, il Magistrato di sorveglianza di Firenze ha sollevato in via incidentale questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 L. ord.

penit. nella parte in cui non sono consentite visite senza la sorveglianza del personale penitenziario, impedendo così ai detenuti di avere rapporti affettivi intimi, anche sessuali, con il coniuge o con la persona ad essi legata da uno stabile rapporto di convivenza. La norma censurata violerebbe, in primo luogo, l’art. 2 della Cost., in forza del quale «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo»: diritti che (secondo una precedente sentenza della Corte Cost., la 26/1999), «trovano nella posizione di coloro che sono sottoposti a una restrizione della libertà personale, i limiti ad essa inerenti, ma non sono affatto annullati da tale condizione». Il precetto costituzionale, dunque, non consentirebbe di disconoscere totalmente il diritto del detenuto al rapporto sessuale con il coniuge o con il convivente stabile, nel più ampio ambito dell’espressione dell’affettività. Risulterebbe violato, in secondo luogo, l’art. 3 della Costituzione, con riguardo sia alla previsione del primo comma, che enuncia il principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, sia a                                                                                                                

44

 

Mastropasqua, Esecuzione della pena detentiva e tutela dei rapporti familiari e di convivenza. I legami affettivi alla prova del carcere, Bari, 2007, pp. 70 e 71

(25)

quella del secondo comma, dove si stabilisce che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli […] che […] impediscono il pieno sviluppo della persona umana». In terzo luogo, sarebbe violato l’art.

27, terzo comma, prima parte, Cost., in forza del quale «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità».

L’astinenza sessuale coatta, infatti, colpendo il corpo in una delle sue funzioni fondamentali, determinerebbe il ricorso a pratiche

“innaturali”, quali la masturbazione e l’omosessualità ricercata o imposta, che non solo ostacolerebbero il pieno sviluppo della persona del detenuto, ma la avvilirebbero profondamente, risolvendosi così in un trattamento contrario al senso di umanità. La norma censurata contrasterebbe, inoltre, con l’art. 29 Cost., secondo il quale «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» e l’art. 31 comma 2 Cost., che impone la protezione della maternità, «favorendo gli istituti necessari a tale scopo». In contrasto con il carattere naturale del vincolo nascente dal matrimonio, l’inibizione censurata determinerebbe, infatti, il fenomeno

“innaturale” dei matrimoni “bianchi” in carcere, celebrati ma non

consumati: situazione che, lungi dal proteggere la maternità, la

impedirebbe. La norma censurata si porrebbe in contrasto anche con

l’art. 32 Cost., tanto in rapporto alla previsione del primo comma, in

base al quale «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto

dell’individuo e interesse della collettività», quanto in relazione al

disposto del secondo comma, per cui «la legge non può in alcun caso

violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Il ricorso alla

masturbazione o a pratiche omosessuali, conseguente alla forzata

astinenza sessuale con il partner, comporterebbe infatti una

intensificazione dei rapporti a rischio e la contestuale riduzione delle

difese sul piano della salute. Sempre secondo il Magistrato di

sorveglianza di Firenze, inoltre, la stessa astinenza in sé considerata

non aiuterebbe, in persone che hanno ormai superato l’età puberale,

(26)

uno sviluppo normale della sessualità con nocive ricadute stressanti sia di ordine fisico che psicologico. Infine, il riconoscimento dell’espressione anche fisica dell’affettività quale specifica declinazione di un diritto fondamentale della persona detenuta, sarebbe costituzionalmente auspicabile anche in relazione alla «tendenza normativa del regime europeo» e alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In particolare, la Raccomandazione n.

1340, adottata dall’Assemblea Generale il 22 settembre 1997, invita gli Stati membri a «migliorare le condizioni previste per le visite da parte delle famiglie, in particolare mettendo a disposizione luoghi in cui i detenuti possano incontrare le famiglie da soli». In modo più puntuale, la Raccomandazione n. 2 sulle regole penitenziarie europee, adottata dal Comitato dei Ministri l’11 gennaio 2006, prevede che «le modalità delle visite devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali». Tale concetto di

“normalità” evoca anche i profili affettivi e sessuali, come emerge dal commento a detta regola, nel quale si precisa che «ove possibile, devono essere autorizzate visite familiari prolungate», le quali

«consentono ai detenuti di avere rapporti intimi con il proprio partner», posto che «le “visite coniugali” più brevi autorizzate a questo fine possono avere un effetto umiliante per entrambi i partner». Anche la Raccomandazione del Parlamento europeo del 9 marzo 2004, n.

2003/2188, sui diritti dei detenuti nell’Unione europea, nell’invitare il

Consiglio a promuovere l’elaborazione di una Carta penitenziaria

europea comune ai Paesi membri del Consiglio d’Europa, menziona

specificamente, all’art 1 lettera c), tra i diritti da riconoscere ai

detenuti, «il diritto ad una vita affettiva e sessuale prevedendo misure e

luoghi appositi». Anche se non immediatamente vincolanti per lo Stato

italiano e tali comunque da lasciare una certa flessibilità nella loro

attuazione, le regole ora ricordate indicano chiaramente quale sia la

tendenza del “regime penitenziario europeo”. Infatti, i giudici di

(27)

Strasburgo, pur escludendo che esista un obbligo positivo in capo agli Stati membri di riconoscere un diritto alla sessualità intramuraria discendente dagli artt. 8 e 12 CEDU («Diritto al rispetto della vita privata e familiare» e «Diritto al matrimonio»), hanno più volte manifestato il proprio favore per gli interventi nazionali rivolti in tal senso

45

equiparando, sotto il profilo soggettivo, il convivente stabile al coniuge nel godimento del diritto alla sessualità intramuraria

46

.

Ad ogni modo, la Corte Cost. con la sentenza n. 301 del 2012 ha dichiarato inammissibile la questione, innanzitutto perché ritiene che la soluzione migliore per esigenze di questo tipo sia il permesso premio previsto dall’art. 30-ter L. ord. penit., il quale consente ai detenuti di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il partner al di fuori dell’ambiente carcerario. La praticabilità di tale permesso, infatti, potrebbe eventualmente escludere la necessità di concedere all’interessato “colloqui intimi” intramurali. In secondo luogo, la Corte Costituzionale sostiene che l’esigenza di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime costituisca un problema che deve essere affrontato dal Legislatore e che pertanto l’intervento ablativo della previsione del controllo visivo sui colloqui, richiesto dal Magistrato di sorveglianza di Firenze, si rivelerebbe per un verso eccedente lo scopo perseguito e per altro verso insufficiente a realizzarlo. Infatti, secondo la Corte, il controllo a vista del personale di custodia non mira ad impedire in modo specifico i rapporti affettivi tra il recluso e il suo partner, ma persegue finalità generali di tutela dell’ordine e della sicurezza all’interno degli istituti penitenziari. L’ostacolo all’esplicazione del “diritto alla sessualità” ne costituisce solo una delle conseguenze indirette. L’asserita necessità costituzionale di                                                                                                                

45

 

A questo proposito, v. Corte EDU, 4 dicembre 2007, Dickson contro Regno Unito, ricorso n. 44362/04; Commissione EDU, 22 ottobre 1997, E.L.H. e altro contro Regno Unito, ricorsi nn. 32094/96 e 32568/96.

46

 

V. Corte EDU, 22 maggio 2008, Petrov contro Bulgaria, ricorso n.

15197/02

(28)

rimuovere tale conseguenza non giustificherebbe, dunque, la caduta di ogni forma di sorveglianza sulla generalità dei colloqui. Quindi, in pratica, la Corte afferma che deve essere il Legislatore ad occuparsi del problema, prevedendo eventualmente un apposito istituto che consenta

«visite intime» intra moenia.

Secondo F. Fiorentin, nel commento alla decisione della Corte Costituzionale

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, il percorso motivazionale della Corte non sembra del tutto persuasivo. Se è vero, infatti, che la scelta di introdurre ex novo nell’ordinamento penitenziario un istituto deputato all’effettuazione dei “colloqui intimi” tra i detenuti ed i propri partner spetterebbe indubbiamente alla discrezionalità del legislatore, non altrettanto può dirsi in relazione alla possibilità di estendere gli istituti già esistenti alle finalità affettive dei soggetti reclusi. Si deve, infatti, convenire che, non sussistendo un espresso divieto di legge in ordine alla possibilità di esercizio dell’affettività nell’ambito detentivo, il problema è concentrato sulle condizioni oggettive determinate dal quadro normativo, che ostano di fatto all’esercizio di una tale facoltà.

In definitiva, la scelta della Corte di limitare la propria decisione ai profili introdotti dal rimettente, con esclusiva attenzione al tema della rimozione della disposizione dubitata d’incostituzionalità, ha lasciato sullo sfondo l’opportunità di esercitare uno sforzo interpretativo, nell’ottica di un’applicazione “in senso costituzionale” dell’impianto normativo vigente, che avrebbe così potuto includere, con l’utilizzo di istituti già esistenti, le necessità affettive dei detenuti.

Inoltre, i giudici costituzionali, nel rimandare la disciplina della sessualità in ambito penitenziario al Legislatore, finiscono per accettare il rischio di una dilatazione sine die dei tempi di approntamento dell’auspicata disciplina normativa. Del resto, sarebbe ingenuo non rilevare come la “prudenza” dispiegata dalla Corte                                                                                                                

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Fiorentin, Affettività e sessualità in carcere: luci ed ombre di una pronuncia che rimanda al difficile dialogo con il legislatore, in Giurisprudenza Costituzionale, fasc. 6, 2012, pp. 4726 e ss.

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