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Intervista alla Prof.ssa Bentivoglio-Fales

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Academic year: 2022

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Intervista alla Prof.ssa Bentivoglio-Fales

Buongiorno Professoressa e grazie innanzitutto per la disponibilità. Prima domanda quasi

“biografica”: che cosa l’ha spinta a studiare il cervello?

Io sono nata a Rimini, il che è completamente irrilevante perché mia madre era in vacanza, ma sono cresciuta a Roma. Mi sono laureata in Medicina a Roma all'Università Cattolica nel 1974, avevo deciso di studiare il sistema nervoso, ma comunque quel sistema nervoso era il mio assoluto interesse. Intorno al terzo anno del mio corso di laurea, durante la Fisiologia e poi gli esami di Farmacologia, e quindi sono entrata come interna in clinica neurologica al Policlinico Gemelli all'Università Cattolica e ho fatto una tesi di neuroradiologia, non avrei difatti mai pensato di dedicarmi a ricerche sperimentali in laboratorio se non avessi fatto un soggiorno all'estero.

Quando mi sono laureata io non c'era il dottorato di ricerca, quindi sono entrata in specialità ma ho fatto un periodo all'estero, in particolare alla Erasmus Universität a Rotterdam, nel 1978/1979.

Dovevo stare pochi mesi e invece sono rimasta due anni, dove ho fatto un lavoro esclusivamente sperimentale che mi è piaciuto moltissimo, è stato un periodo molto stimolante, molto arricchente, alla fine del quale ho ricevuto delle proposte per andare negli Stati Uniti, e ho invece deciso di rientrare in Italia, ero già sposata (e mio marito, peraltro, di nazionalità americana, che insegnava all'Università di Venezia), il quale mi ha detto «Ma insomma, viviamo tra Roma e Venezia, due delle più belle città al mondo, perché dovremmo andare in America?». Quindi sono rientrata, ho ripreso la mia attività in Neurologia all'Istituto di Neurologia dell'Università Cattolica, ma non volevo più fare clinica, non volevo avere l'obbligo di ambulatorio, di guardie mediche, volevo assolutamente fare ricerca, quindi sono rimasta nel Laboratorio di Neuropatologia, ho iniziato a girare un po', in particolare sono andata ad Ancona per fare una sperimentazione che a Roma non era possibile, feci andirivieni per più di un anno, e poi abbiamo continuato così fino a quando di fatto ho cambiato disciplina, lasciando la clinica anche dal punto di vista accademico facendo un concorso in materie di base – in particolare sono diventata Professore Associato di Anatomia e Istologia, avevo un curriculum che si adattava alla neuroanatomia in particolare, allo studio delle connessioni nel cervello e in particolare del diencefalo e del talamo. Ho iniziato a studiare il talamo presso la Cattolica e quindi nel 1987 mi sono trasferita a Verona dove sono poi rimasta fino a oggi, che sono verso la fine della mia carriera, fra due o tre anni andrò in pensione (nel 2020). Qui a Verona, anche rimanendo in stretto contatto con i colleghi neurologi, non ho mai dimenticato la mia formazione medica, in particolare di neurologo, ho comunque continuato esclusivamente con la ricerca sperimentale di base.

Chi fu Professoressa il suo relatore di tesi di laurea?

Il relatore della mia tesi di laurea e di specialità fu Giorgio Macchi, un neurologo che si era appena trasferito all'Università Cattolica da Perugia, era molto appassionato di scienze di base, credeva fortemente in quello che poi in fondo si è realizzato solo dopo circa vent'anni, cioè il Dipartimento integrato di Neuroscienze. Macchi voleva che io avessi una formazione sperimentale nelle scienze di base, in particolare nella neuroanatomia, che allora – stiamo parlando della metà degli Anni Settanta – stava venendo completamente rivoluzionata da nuove tecniche. Lui era un neurologo, ma era molto interessato a riprendere degli studi che aveva già condotto con queste nuove tecniche. Non aveva di fatto mai provato– come fu lui a dirmi – a lavorare con donne, ma tutto sommato era davvero un gentiluomo di altri tempi, quindi di fatto la nostra collaborazione andò benissimo, "nonostante" il fatto che io fossi una donna. Siamo rimasti legati fino alla sua morte, e anche quando mi trasferii a Verona continuammo la nostra collaborazione. Il mentore straniero di

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quegli anni si chiamava invece Hans Kuypers, che era un neuroanatomico molto brillante, che lavorava in particolare sul sistema motorio, che arrivava da un lungo soggiorno negli Stati Uniti, e a quel tempo l'Erasmus Universität richiamava degli olandesi illustri dall'estero offrendo delle buone condizioni. Quindi io mi sono ritrovata a passare da una situazione clinica e accademica italiana (forse anche un po' paternalistica, sicuramente gerarchica) a un ambiente che di fatto era un ambiente americano, con questo signore che si faceva chiamare Hans invece che "Professore": e fu totalmente rivoluzionata anche la mia organizzazione delle giornate, ed è stato un periodo particolarmente formativo.

Quali furono, Professoressa, i motivi che la portarono in quegli anni a concentrare la sua attenzione come studiosa per esempio sul talamo?

Il talamo era l'argomento di ricerca del mio maestro, Macchi, quindi fu una scelta quasi obbligata.

Quando mi sono trasferita a Verona, una parte del talamo – che si chiamava allora "talamo non specifico", che aveva funzioni di regolazione un po' diverse da quelle dei nuclei uditivi o visivi, quelli implicati nell'elaborazione e nella codifica dell'informazione neurale di diversi tipi – questa era una parte del talamo di regolazione forse della coscienza, certamente degli stati di vigilanza, di funzioni come quella del dolore, ma che aveva anche altre funzioni tutto sommato misteriose, e che veniva trattato un po' come una "Cenerentola dei nuclei talamici", e questo l'avevo iniziato con Macchi e l'ho proseguito per molti anni, e agli inizi a Verona avevo cambiato quello che oggi si chiama Settore Scientifico disciplinare, gli edifici biologici della scuola di medicina erano in costruzione, avevo una figlia che avevo portato a Verona, insomma, sono stati anni molto impegnativi, e avere continuato da subito – peraltro con l'aiuto di un cinese che usciva dalla Rivoluzione Culturale, era stato chiuso da Mao per anni in casa sua, faceva esperimenti in cucina! – ci siamo ritrovati qui a Verona e il fatto che per lui la situazione fosse così in piena evoluzione non importava nulla: abbiamo immediatamente fatto degli esperimenti e questo ha di fatto poi salvato la mia carriera, perché era un momento molto critico, nel quale avrei potuto anche interrompere con moltissime difficoltà e invece è stato di grandissimo stimolo e questo dottor Su fu un grandissimo compagno di squadra.

Mi ricordo che mi chiese un bicchiere e un piatto: non riuscivamo a trovare un singolo piatto o un singolo bicchiere, ne compravamo sei ma lui diceva io ne voglio sono uno – perché evidentemente il consumismo era una cosa che gli era completamente estranea, quindi gli davo un bicchiere e dovevo tenerne altri cinque. Poi chiese una bicicletta, anche, e io dissi: «guarda che il governo non da le biciclette», bisogna assolutamente che vai a piedi; detto questo insomma iniziammo subito a fare esperimenti, anche allora sul talamo, su cui continuai a lavorare spostandomi un pochino dalle strutture che avevo studiato con Marchi. Ripeto, questo momento fu di grande stimolo, di grande aiuto e poi piano piano è stato messo in piedi il laboratorio.

Prima di concentrarci sul laboratorio a Verona. Ci sono stati oltre all’Erasmus Universität altre esperienze negli anni della sua formazione all’estero e di contatti con studiosi internazionali?

Molti. Negli anni della formazione forse è stata proprio l’Olanda. Contatti furono molti e ne ho tutt’ora in particolare con gli Stati Uniti, con un laboratorio in particolare che si chiamava Neuropsychology al NIH, dove sono andata varie volte. All’inizio negli anni Ottanta ero andata alla University del North Carolina a Chapel Hill, un periodo di visiting che durò vari mesi su due anni consecutivi, dove avevo fatto sperimentazione sui primati, che era stata anche quella molto impegnativa, è stata una rivelazione anche dal punto di vista conoscitivo. Poi il NIH e poi molte collaborazioni con il Karolinska Institute a Stoccolma. A metà degli anni Novanta ho avuto una

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borsa di studio per collaborare con il Karolinksa Institute e avevo deciso di non trasferirmi a Stoccolma, perché per vari motivi locali e familiari non era possibile, ma per due anni – forse anche di più – ho fatto andirivieni. Questo allora era consentito, mi dissero, purché tu faccia quello che devi fare dal punto di vista scientifico, per il resto organizzati come vuoi e quindi lo feci. Poi insomma moltissime collaborazioni anche nell’ambito di progetti europei, dagli anni Novanta ai Duemila e collaborazioni che hanno anche compreso fra l’altro Paesi africani con moltissimi impegni nel continente africano. Quasi tutto è successo per altro quasi un po’ per caso, non è che avessi pianificato quello che dovevo fare. Moltissime cose succedono per caso, un po’ dove ti porta la conoscenza, un po’ dove ti portano le persone. Gli incontri sono molto importanti: ci sono dei personaggi che sembrano essere fondamentali e poi si rivelano deludenti e dei personaggi che si rivelano straordinariamente stimolanti. È veramente basato un po’ sul caso, un po’ sugli incontri umani.

Professoressa veniamo a Verona. Lei si trasferì a Verona nell’87. La situazione qual era?

Dunque, quando io sono arrivata era Rettore questo neuropsichiatra che si chiamava Hrayr Terzian il quale era fortemente determinato, voleva fare un’operazione “all’americana”, organizzando delle chiamate per delle persone che si occupavano di neuroscienze. Io per altro non lo conoscevo, avevo una situazione familiare particolare, mio marito insegnava in Veneto quindi avevo una situazione compatibile con il trasferimento a Verona.

Terzian aveva una vision, cioè voleva un’integrazione tra le scienze di base e la clinica. Era molto impegnato politicamente – e tutto questo in una Verona estremamente cattolica. È stato un personaggio molto interessante col quale ho avuto moltissimi interazioni all’inizio. Lui mi diceva sempre «io ti difenderò sempre in pubblico ma in privato ti posso dire che sei la peggiore rompiscatole che abbia mai incontrato». Purtroppo è morto un anno dopo il mio trasferimento.

Avevo iniziato nel 1984 a fare degli andirivieni per l’insegnamento perché Verona era nel triennio clinico di Padova 2. Quindi, con Terzian Verona diventò sede di una Facoltà di Medicina e fu costruito il primo triennio preclinico, quindi con la costruzione anche degli istituti biologici. Io fui associata in anatomia appunto con un professore che vive ad Ancona, il professor (Francesco) Osculati, con cui sono rimasta poi durante tutto il periodo veronese fino alla sua pensione.

Mi sono poi spostata su istologia: allora c’erano gli istituti e Osculati era il direttore di istituto.

Anche in questo caso, credo che Osculati fosse misogino, nel senso di non credere nel lavoro femminile. Ho avuto però piena libertà di azione e non ho mai sofferto di alcun episodio di discirimazione. Ad un certo punto mi ha chiamato e mi ha detto «io le richiedo la cattedra» quindi non sono stata perseguitata, ma insomma certo con la morte di Terzian avevo bisogno di cercare di lavorare con le mie gambe, non avevo idea delle istituzioni locali allora nel consiglio di Facoltà c’erano quattro donne in totale, si parlava in dialetto, io ero una specie di UFO – non sapevano bene se chiamarmi signora, dottoressa, Marina – insomma i primi momenti li avevo vissuti come se fossero momenti di imbarazzo, sembra la preistoria ma tutto sommato si tratta di trent’anni fa.

Ad un certo punto la Facoltà è cresciuta, tutto questo è cambiato, e io ero molto concentrata sul mio lavoro. Verona ha consentito una grandissima apertura, soprattutto dal punto di vista organizzativo, che era più semplice, e così la sede, che rendeva più semplice soprattutto organizzare il lavoro e la città. Poi a me ha consentito una grande apertura verso l’estero perché tutti gli ospiti si possono installare, trovano casa facilmente. Io ho avuto moltissimi studenti stranieri negli anni, e questo a Roma sarebbe stato molto più difficile, perché ovviamente trovare un appartamento a Roma... Mentre qui, poi li ho avuti assolutamente di tutti colori – della pelle intendo- attualmente ho due studenti africani. E non ho avuto mai alcun segnale di discriminazione, devo dire tutt’altro, anche da parte del personale tecnico amministrativo, con i

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miei vari “colorati” di tutti i tipi, collaboratori di tutti i tipi e di entrambi i sessi, il personale è sempre stato di grandissimo aiuto e supporto: i ragazzi sono stati sempre aiutati e non hanno sofferto di alcuna discriminazione nell’ambito dell’ambiente locale, al contrario.

Professoressa, nei suoi primi anni qui come erano cambiati, se erano cambiati, i suoi temi di ricerca e come si integravano con gli altri ambiti di indagine che erano seguiti qui nella facoltà veronesi e gli istituti?

A livello di collaborazioni locali avevo collaborato soprattutto – anche se questa collaborazione è poi cresciuta negli anni – soprattutto con i neurologi, forse perché venivo dalla clinica, forse perché mi mancava quella dimensione, forse perché tutta la ricerca è diventata come si dice traslazionale, mi sono spostata più su modelli di malattia, dei modelli di condizioni infiammatorie, neurodegenerative, ultimamente anche l’Alzheimer, la malattia di Parkinson (e anche qui per caso, in maniera assolutamente casuale). Tutto è partito da un seminario di un collega svedese qui a Verona, mi sono interessata di una condizione di infiammazione cronica che è una malattia parassitaria del continente africano, una malattia tropicale negletta, quindi una cosa molto esotica, che però dal punto di vista della patogenesi, dal punto di vista della meccanismo di malattia implica proprio un interazione tra tessuto nervoso e segnali infiammatori ,che porta grandissime interazioni fatali proprio del sonno e della veglia, questa parte di talamo del quale mi ero occupata con Macchi è implicato anche nell’elaborazione del sonno e della veglia. Quindi mi sono spostata di più sui sistemi regolatori di vigilanza del sonno e della veglia, nel quale oltretutto nel frattempo sono state fatte delle scoperte come alla fine degli anni Novanta sui nuovi peptidi- attivi e cellule peptidergiche attive, questi meccanismi, quindi è stato anche questo casuale, ma molto interessante, un argomento di grande stimolo. Verona ha portato più studio sperimentale delle malattie.

A Roma mi ero occupata di neuropatologia umana, ma a livello di osservazione di cervello, la manipolazione di una condizione sperimentale e di modelli sperimentali è sicuramente venuta con Verona. Quindi diciamo che mi sono spostata di più su quelli che oggi sono i problemi traslazionali:

ma sono assolutamente convinta, convintissima che fino a quando non risolviamo molte conoscenze, alcune conoscenze sui meccanismi di base non possiamo affrontare come questi cambiano nella malattia. Per questo sono tutt’ora interessatissima ad alcuni meccanismi fondamentali, che riguardano i meccanismi sinaptici: se e come le sinapsi cambiano durante la nostra giornata, se e quali sono i sistemi oscillanti nel nostro cervello e anche – poiché molte malattie come tutti sappiamo, non tutte ma molte sono favorite dall'invecchiamento, e c’è un enorme investimento sulle malattie stesse ma investimenti molto minori sull'invecchiamento normale –io penso che una chiave conoscitiva di certe malattie legate all'invecchiamento sia proprio capire cosa succede nel corso della vita, cosa succede a cellule che non si rinnovano che ci accompagnano nel corso della vita come i neuroni. Quindi insomma tutt’ora diciamo quella che forse viene chiamata la neurobiologia di base è certamente un mio interesse primario e come tutti mi faccio domande su come questi meccanismi cambiano nel corso di malattie.

Invece professoressa quali sono state – se ci sono state – le interazioni con gli psicologi e gli scienziati cognitivi, l'altro versante rispetto alla neurobiologia e neurologia.

Io ho sempre interagito con… allora, sono molto ignorante per quanto riguarda i grandi meccanismi cognitivi, mi considero un ignorante e ammiro molto chi li studia. Nel corso degli anni non c'è alcun dubbio che io abbia avuto un rapporto direi molto affettuoso con Giovanni Berlucchi che era qui a Verona che è stato di grande aiuto, non solo nei primi momenti ma anche

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discretamente, da gentiluomo qual è, di supporto negli anni successivi. E poi appunto al NIH ero in un laboratorio – dove ho fatto andirivieni non ho mai fatto un periodo veramente molto lungo fuori – però nel laboratorio di neuropsicologia del NIH che era diretto da uno scienziato che si chiama Mort Mishkin, con cui sono stata molto amica e lo sono tutt’ora. Mishkin dirigeva un laboratorio della memoria, quindi anche lì ho fatto studi di neuroanatomia ma che erano tutti collegati a circuiti potenzialmente importanti in funzioni cognitive, quindi non c'è alcun dubbio che le funzioni cognitive le ho sempre tenute presenti, anche se i miei interessi di ricerca si sono concentrati di più sulle strutture sotto la corteccia che non sulla corteccia cerebrale. Poi per forza ho dovuto imparare qualcosa sulla corteccia cerebrale, ma il mio interesse è stato di più su come i meccanismi sottocorticali e le sinapsi.

Attualmente di cosa si sta occupando?

Di quello che le ho detto ora, ed è un argomento molto impegnativo. Devo dire che sono quasi tornata a delle domande proprio di base sui meccanismi del nostro cervello, se e come cambiano le sinapsi non solo tanto quando “imparano” – che è stato un grande argomento di ricerca e lo è in tanti laboratori del mondo – ma se cambiano fisiologicamente nella nostra giornata e quali sono i meccanismi in che modo l'alterazione del sonno risultano alterazioni dell'intero organismo. Trovo molto interessanti alcune delle strade percorse oggi delle neuroscienze, mi hanno molto interessata anche se non riesco a lavorarci direttamente perché, insomma, servirebbe impegno e un laboratorio molto più grande del mio... Certamente io ho vissuto tutto un periodo proprio di

“neuroscienze”, assolutamente centrate sul cervello, ma attualmente c'è molta più apertura verso la periferia del corpo e le interazioni tra corpo e periferie e questo lo trovo di grandissimo interesse, anche per i quesiti di base che io mi pongo su alcuni sistemi oscillanti del cervello.

Professoressa, dal punto di vista metodologico anche a livello di tecnologie utilizzate nel corso della sua carriera cosa ha visto cambiare e cosa è stato veramente importante nella sua ricerca e nel suo lavoro di laboratorio quotidiano nell'interazione tra le macchine e gli studiosi?

Allora io son pochissimo tecnologica: ne capisco proprio poco, ho dovuto “subire” la rivoluzione informatica della quale assolutamente riconosco i vantaggi e per tutto questo mi sono sempre affidata ai collaboratori più giovani. All'inizio ho messo in piedi io delle tecniche. poi ho collaborato interamente ad alcune tecniche per lo studio dei circuiti neuronali, proprio a partire dal lavoro fatto in Olanda. che allora era all'avanguardia. Poi le cose cambiano molto rapidamente e ho cercato sempre di capire che cosa stava succedendo, ma non sono riuscita a tenermi al passo come forse avrei dovuto perché sono sempre rimasta in Italia, e per le tecnologie servono veramente grandissimi fondi e io non ho avuto la disponibilità di questi, ma attraverso delle collaborazioni con delle piattaforme tecnologiche qui a Verona e anche in Italia altrove abbiamo sempre cercato e ho sempre cercato di tenermi al passo. Adesso ultimamente le cose mi stanno un pochino sfuggendo di mano, avevo subito con grande difficoltà quella che è stata agli inizi degli anni Novanta e alla fine degli anni Ottanta la rivoluzione molecolare: io ero addestrata sicuramente in problematiche di neurobiologia cellulare, poi ad un certo punto tutto è diventato molecolare, ma fino a lì delle tecniche di neurobiologia molecolare le abbiamo applicate, anche se adesso ultimamente forse la tecnologia mi sta sfuggendo un po’ di mano, e il modo in cui questo potenzialmente si risolve è mandando collaboratori all'estero che imparino e che poi trasferiscano le tecnologie. Questo è sempre stato così quindi da questo punto di vista, la tecnologia non mi spaventa e non mi ha mai spaventato: è uno strumento di grande conoscenza e ho moltissima fiducia nel progresso e anche nel progresso tecnologico. Ci vogliono però degli investimenti e

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l’Italia negli investimenti è rimasta fatalmente indietro, quindi rivolgo lo sguardo ad altri Paesi – proprio come con le collaborazioni – in meeting internazionali, dove vedo gli altri colleghi provenienti dalla Germania e la Francia che hanno avuto investimenti, anche l’Inghilterra, però direi forse oggi più la Germania e la Francia che hanno avuto degli investimenti che proprio noi ci sogniamo; quindi gli investimenti incidono sulle tecnologie e incidono più sulle tecnologie che sulle persone.

Cosa pensa della rivoluzione del neuroimaging di inizio anni Novanta?

Quella mi era più familiare: io ho guardato il cervello al microscopio, e il fatto che il cervello si potesse guardare in vivo per me è stato solo un piacere, che non mi ha messo in particolare difficoltà. Certamente mi mette più in difficoltà, non so, la modellistica computazionale, il suo impatto sulle conoscenze, cioè come i modelli possono influire sui dati biologici e viceversa. Ecco su questo io ho poca elasticità e vorrei riuscire a capirlo di più. L'imaging ha fatto parte della mia formazione per molti versi: naturalmente non sono un neuroradiologo però mi è più familiare, L'imaging e i progressi dell'imaging in microscopia sono stati straordinari – e qui parlo di lavori sperimentali –e adesso siamo arrivati anche lì alla necessità di grossi investimenti per fare veramente un balzo in avanti, e quindi non so: personalmente sono un po’ perplessa, non so ce la facciamo – sì, magari io ce la faccio però quello mi ha spaventato di meno, forse mi spaventano di più la connettomica, la modellistica, la robotica e grandi visioni di system neuroscience, con quelle ho un po’ più difficoltà. Però insomma non è che uno possa sapere tutto: A un certo punto mi rassegno: basta che qualcuno me le spieghi, ecco, se qualcuno me le spiega sono sempre contenta.

La ringrazio perché è la persona più precisa e più concisa con le domande…perché abbiamo fatto già mezz'ora.. avevo dimenticato di dirle che tra le altri intervistati ci sono tutti quelli del Gemelli come Rossini altri allievi di Macchi

Rossini lo conosco da quando avevamo undici anni, con lui sono stata alle scuole medie. Con Paolo, ciononostante non è che ci siamo sentiti molto: adesso mi sta ricontando – anzi gli devo un paper con il quale sono in ritardo, ma con Paolo Rossini si tratta di una persona con cui incredibilmente sono stata dalla prima media fino alla fine della specialità per quello che riguarda il periodo di formazione quindi diciamo che lo conosco bene.

Diciamo che una delle scoperte di cui io in realtà mi sono occupato - sono uno storico contemporaneo facendo neuroscienze, però io mi sono occupato essenzialmente di elettrofisiologia negli Stati uniti tra il ‘40 e il ‘76 - ho fatto proprio il voltage clamp e modelli che hanno portato al voltage clamp perchè poi il mio interesse era..

Conosco bene Neher, è simpaticissimo!

Io lo conosco sui libri

Sackman che è amico di Berlucchi credo sia un pochino più stiff ed è forse più scienziato ma Hermin è uno molto.. ero con lui in review ..non ho molto piacere di dirlo ma faccio moltissime review internazionali..

Come mai non ha piacere?

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Perché sono informazioni un po’ confidenziali però non vorrei che i colleghi.. questo lo posso dire..i comitati internazionali e lui l'ho conosciuto a Bruxelles e però ci siamo visti ad una serie di comitati in successione ed è persona molto modesta

Per dirle io vengo da quello come studi di Dottorato e di post-doc e dopo di che sono stato coinvolto in questo progetto dal professor Canali ed essendo italiano e facendo storia delle neuroscienze uno un minimo di infarinatura ce l'aveva su un quadro generale però ad esempio alcune cose come la scuola di fisiologia umana di Torino e gli allievi di Macchi…

Macchi era un gentiluomo! Era un socialista ed era uno che sembrava quasi ingenuo – e veramente se penso a tutti gli intrighi, le politiche, le storie di cui sono accusati i baroni, queste cose non le ho viste. Macchi stava con me al microscopio come un ragazzino, ma veramente rimaneva al mio fianco delle ore, come neanche io riesco a stare con gli allievi e mi aveva preso molto in simpatia, aveva visto in me una potenzialità importante. Per questo gli sono grata e ripeto era esterrefatto del fatto che io fossi donna, ma lo faceva in maniera talmente – come dire

… – scevra da condizionamenti politici, era proprio un problema culturale generale, no?

Continuava a dire «io non ho mai lavorato con una donna», e talvolta sembrava un ragazzino sorpreso, però veramente mi ha cercato tantissimo quando io ero a Verona.

È stato un gran maestro per molti di voi..

Era un maestro, una persona che appunto non ci ha insegnato la politica, però ha sicuramente insegnato l'entusiasmo per la scienza, veramente quello lo posso dire, ma ripeto sono incontri.

Mio padre diceva sempre «il padre non si sceglie ma il maestro sì», quindi alla fine sono finita a fare le neuroscienze per Macchi, mentre magari avrei fatto il neurologo clinico, chi lo sa! Ma queste ripeto son tutte cose casuali, come si fa nella vita a progettare qualcosa con certezza...

Vado direttamente sui suoi impegni istituzionali, al di là del laboratorio di ricerca quali sono stati i suoi incarichi istituzionali in ambito scientifico?

Dunque ne ho avuti diversi in Italia e all'estero. In Italia sono stata Presidente della Società Italiana di Neuroscienze, mi pare sia stato nel 2008-2009, ero fra l'altro la prima donna Presidente e adesso ce ne sarà una seconda con mia grandissima gioia, non mi ero resa conto di questo fatto simbolico, è stata una bella esperienza. Devo dire che lo avevo trovato un periodo molto breve, cioè mi sono resa conto che in due anni si riesce a concludere abbastanza poco, e la Società di Neuroscienze è proprio una società scientifica, quindi non ha per i membri l'interesse accademico che hanno delle società proprio di materia di settore scientifico disciplinare per cui serve un lavoro di coordinamento e di stimolo, serve anche un lavoro per i giovani, e due anni sono pochi.

Importantissimo è il turn over, ed è altrettanto importante il fatto che i presidenti non possano essere rieletti: sono assolutamente d'accordo, in due anni si riesce a far poco.

Dal punto di vista accademico ho diretto il Dipartimento di Neuroscienze che si chiamava Scienze Neurologiche ed è stato un triennio di lavoro istituzionale veramente molto “demanding”, la mia prima vera esperienza accademica, anche a livello di Senato accademico, di discussioni col Rettore:

mi ero sempre tenuta lontanissima da questo tipo di impegni istituzionali, poi ad un certo punto mi ci sono trovata, e non ne sono contentissima devo dire –forse avrei potuto dare in quei tre anni tutte quelle energie per qualcos'altro.

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Molto stimolanti sono stati gli impegni internazionali, tra questi forse il più importante è essere stata segretario generale dell'International Brain Organization, che è la federazione mondiale delle società e dei gruppi di ricerca di neuroscienze, con cui ho lavorato tre anni e anche questo mi pare che fosse dal 2007 al 2009, comunque preceduto da un anno di training da parte del comitato esecutivo. È stato un periodo intensissimo di contatti con il mondo scientifico, non solo istituzionale ma con il mondo scientifico internazionale. La sede è a Parigi, ma si tratta di una società mondiale, nella quale mi son trovata proiettata in questa realtà con connessioni in America Latina, seguite da un lunghissimo giro in Asia: ed è stata veramente un’apertura, mi ha aperto gli occhi sul mondo scientifico come non avevo fatto prima, molto arricchente. E poiché è una federazione di società, una unione di fatto che dagli anni 2000 fa soprattutto investimenti sulla formazione di giovani, mi sono trovata a lavorare molto su corsi di formazione, su contatti anche sul campo, che in particolare – anche qui in maniera assolutamente casuale – mi hanno vista coinvolta in attività in Africa.

Con l’Africa ho cominciato in maniera assolutamente casuale, un po’ perché mi occupavo di una malattia africana un po’ perché a meta degli anni Novanta è stata istituita la Society of Neuroscientists of Africa – la SONA – nel 2000. La prima scuola è stata proprio in quell’anno e da quel momento partecipo quasi regolarmente a corsi di formazione di neuroscienze in varie parti del contenente africano. È ed è stato un grandissimo impegno, che per altro dal punto di vista teorico avevo condiviso con Rita Levi Montalcini (che ho conosciuto molto bene), quando aveva deciso di costituire una fondazione che ha poi istituito per l'educazione delle donne africane, in realtà non è mai stata in Africa però avevamo avuto tantissimi discorsi su tutto questo, e da questo sono derivate molte attività sul campo, inclusi progetti scientifici internazionali ma soprattutto molte attività sul campo in tantissimi paesi dell'Africa, del Nord Africa e anche dell'Africa Sub-Sahariana. Queste sono state una parte importante della mia attività scientifica e certamente mi hanno preso molte energie, ma sono state molto arricchenti, e tutt’ora continuo.

Proprio ora torno da una scuola in Marocco, quindi quello è un impegno che sto assolutamente perseguendo, e sono anche assolutamente convinta –proprio sulla base delle esperienze sul campo – che tutto il problema che riconduciamo sotto l’etichetta dei “Paesi a risorse limitate” e del problema dell'immigrazione che stiamo vivendo adesso, non ammetta altra soluzione se non l'educazione dei giovani, e quella di formarli a costruire il loro Paese. Tutti gli accordi internazionali, tutti gli accordi tra governi, rischiano di nutrire la corruzione locale: la corruzione è il grande problema di questi Paesi, finché non riusciamo a combattere la corruzione di cui noi ci lamentiamo in patria ma che assume delle proporzioni gigantesche in Paesi del terzo mondo, dimensioni inimmaginabili; finché non riusciamo a combattere questa, non riusciremo mai a risolvere i problemi da essa derivanti. Capisco che quello che faccio io e che fanno altri miei colleghi è assolutamente una goccia nel mare, proprio non penso di incidere su questo fenomeno però è l'unica cosa che personalmente posso fare: e comunque non è un lavoro missionario, sono laica, non ho alcuna atteggiamento religioso, punto proprio a realizzare un lavoro alla pari, in una rete di colleghi universitari di università africane che sono persone eccellenti e con i quali negli anni ho anche stabilito amicizie personali molto solide. Tutto questo è arricchito da parti di esperienze di luoghi e di persone molto importanti e per la maggior parte piacevoli – alcune sgradevoli: ma per altro, ho ingoiato tonnellate di antimalarici e… siamo qua.

Queste collaborazioni hanno avuto come focus tutti gli aspetti della ricerca sul sistema nervoso, dalla clinica alla ricerca di base?

Sì, ho molto spesso avuto due progetti europei perché ad un certo punto, durante la direzione del Dipartimento purtroppo ho perso contatti con Bruxelles perché ero troppo presa da cose locali,

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fino a quando ho seguito tutti i programmi europei hanno fatto delle call proprio dedicate alla cooperazione – quindi in quell'ambito mi pare di aver partecipato, non ne ho coordinato nessuna personalmente, ma sono stata membro partner di due progetti in collaborazione col continente africano, metà europei e metà africani. Allora la ricerca di base era molto basata sugli scambi, quindi di fatto si trattava di andare noi sul campo per problemi e ricevere studenti nei laboratori;

naturalmente la ricerca di base che necessità di un'organizzazione di investimenti in Africa molto difficile, anche molto legata a momenti di fortuna: molte cose sono andate in malora in un successivo momento di sfortuna politica, il problema non sono tanto le risorse, è il mantenimento di queste e i regimi politici, la situazione politica, che ripeto per noi è difficile da immaginare. Però ho trovato e trovo che sia giusto portare avanti questa attività, che continuo e che anzi mi prende molto, incontro studenti motivati intelligenti e che proprio hanno una voglia di fare che non trovo negli studenti di Verona. In realtà se si riuscisse a fare un lavoro molto serio di formazione dei giovani credo che riusciremmo ad andare molto avanti, molto più di come siamo, e non penso che il problema si possa risolvere in altro modo.

Professoressa invece per quanto riguarda il collocamento più o meno strategico del nostro Paese all'interno della Comunità Europea, può fornirci un sua opinione a riguardo?

All'interno della Comunità Europea non so come gli italiani siano considerati come Paese, appunto non ho sufficiente esperienza politica – anzi non ne ho nessuna – per affrontare questa problematica, ma ho l'impressione che gli italiani potrebbero essere molto più incisivi a Bruxelles.

Ma è soltanto un'impressione. Dal punto di vista della scienza abbiamo un'eccellente reputazione, però ho visto moltissimi italiani nei comitati lavorare bene, tranne in alcuni periodi… un problema che hanno gli italiani che io contesto moltissimo è che sono i primi a parlare male dell’Italia: io da questo punto di vista sono assolutamente patriottica: non conosco francesi, inglesi o tedeschi che parlano male del oro paese come gli italiani, e questo dal punto di vista dei panel internazionali a cui ho partecipato è ferale, perché siamo sempre a parlar male dell’Italia, e delle statistiche, e di quanti cognomi sono uguali, l'ultima discussione che ho avuto a riguardo è tutta stata su questa statistica di quanti cognomi sono uguali nelle università italiane, dello scandalo connesso… ho risposto al mio vicino che «gli amanti in tutti i Paesi non portano lo stesso cognome, ma sono chiamati nelle sedi universitarie», quindi non mi rompesse le scatole. In altre parole, finché siamo noi a darci il fango addosso non possiamo sorprenderci del fatto che lo facciano gli altri, quindi individualmente i nostri ragazzi sono apprezzatissimi, il Paese ha bisogno di un sistema della ricerca che non ha mai curato, però questo sarebbe bene che ce lo dicessimo in casa e che facessimo qualcosa in casa, non all'estero, all'estero ci porta esclusivamente fango e non serve a niente, La verità è che il sistema della ricerca non ha mai interessato veramente nessuno dei politici, e che se l’Italia non decide di investire in ricerca e sviluppo in maniera seria, entrerà nel terzo mondo, questa è mia assoluta convinzione. C'è bisogno di fondi, ormai siamo ad un livello di fondi pubblici (ma anche privati) minimo, poi con la crisi delle fondazioni bancarie mi pare che stiamo toccando il fondo, e con questo non si va avanti, e non è soltanto un problema di giovani e di carriere, è tutto collegato.

Proprio per quanto riguarda le politiche della ricerca, e in particolare le politiche economiche, all'inizio di questa intervista è uscito fuor più volte il termine “traslazionale”, questo nuovo paradigma in cui la ricerca scientifica sembra trovarsi e sembra essersi trovata. Nel corso della sua carriera lei ha visto cambiare molto il tipo di finanziamento, le forme di finanziamento e le sorgenti? Pensa che oggi i privati rispetto al pubblico per quanto riguarda il suo ambito di ricerca abbiano stabilito un rapporto differente, rispetto al momento in cui ha iniziato?

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Questo non lo so, però posso dirle due cose: primo, il nostro pubblico è molto ignorante sulla ricerca scientifica e questo non è colpa del settore pubblico, ma di una cultura che non li ha mai educati. In altri Paesi, per esempio in Francia, anche se ha tanti altri problemi, la gente ha marciato per strada per i ricercatori, che è una cosa assolutamente impensabile in Italia. Qui, soprattutto anni fa ma anche adesso, se qualcuno mi chiede che lavoro faccio gli dico che insegno, non ho mai detto che faccio lo scienziato perché mi piglierebbero per pazza, per una stravagante: quindi, voglio, dire ci sono stereotipi che assolutamente bisognerebbe cambiare.

Per quanto riguarda la ricerca traslazionale, tutti dovrebbero comprendere il fatto che la scoperta del DNA che è del 1954 non si può certo definire traslazionale, la scoperta del DNA è una scoperta di base, e tutto il 100% dei progressi – dalla penicillina in giù – sono sempre usciti da scoperte di base. Questa grandissima spinta a doversi occupare direttamente delle malattie che c’è stata dagli anni Novanta in poi è, secondo me, polvere negli occhi della politica: la ricerca è ricerca, non ha bisogno di etichette e deve essere completamente libera perché quando è libera svetta, questo è quello che hanno insegnato i Paesi dove la ricerca si è molto sviluppata. Tra l'altro basterebbe guardarsi intorno, purtroppo i frutti della ricerca non sono mai immediati, e quindi non è interesse dei politici italiani, perché hanno la vision delle elezioni successive dopo tre mesi e non quella dello sviluppo di imprese: siamo un Paese politicamente giovane quindi se uno promettesse investimenti in ricerca al votante non importerebbe assolutamente nulla, e questo è un altro dei problemi che o correggiamo come cultura civile, come preparazione di fondo, oppure il Paese affonderà. La ricerca deve essere una delle priorità del Paese perché è quella che consente al Paese di migliorare le proprie condizioni di progresso, di economia, lavoro ai giovani: è tutto collegato, ed è follia il fatto che in Italia non se ne parli. La gente però è molto sensibile al problema delle malattie, quindi questo è stato anche parte della spinta traslazionale: “occupatevi di malattie così vi capiamo meglio” o “così è più semplice finanziarvi”, che è un atteggiamento sbagliato, ma io trovo che quando parlo con il pubblico di problemi anche che a me sembrano ovvi, in Italia trovo bisogno di molta più conoscenza del pubblico rispetto ai vari problemi. Quindi io ho visto cambiare i finanziamenti nel senso che è stato introdotto Telethon, che fa un lavoro eccellente: le marce, le donazioni, i fiori, le stelle di Natale, tutte quelle tematiche di malattie particolari e di salute pubblica di cui anni fa non si parlava…ma trovo un po’ carente la parte che forse è più impopolare, e cioè va bene vendere le piante dicendo stimoliamo la ricerca, ma poi nessuno sa veramente cosa vuol dire fare ricerca. Io penso che gli italiani sarebbero pronti a capire tutta una serie di cose se gli fossero spiegate meglio. Penso che agli italiani vadano spiegate meglio le cose e penso che nessuno di noi lo faccia.

Ha in parte risposto alla domanda che volevo farle ora, cioè la sua opinione sul rapporto che c'è comunità scientifica e società, anche a livello di comunicazione scientifica.

Dunque, ci sono alcune persone che sono molto in vista, che si dedicano molto al rapporto e alla comunicazione come al giornalismo, anche se il giornalismo è già una comunicazione di élite, e io sono molto grata a queste persone perché tutto questo prende tempo naturalmente. Questo lavoro è molto affidato all’impegno individuale, insomma a quelle che sono le tendenze di ciascuno di noi, la voglia di ciascuno di noi. Sono vite molto impegnative le nostre, io sono bersagliata da ogni genere di pressione, di scadenza, in parte imposte dagli eventi in parte autoimposte: la competitività internazionale è salita a un livello quasi insopportabile, questo mette molta pressione, per cui se ci sono persone interessatissime a scrivere un articolo a questi sono grata. Fondamentalmente trovo però che ci dovrebbe essere un'organizzazione capillare molto maggiore, ci dovrebbe essere proprio una politica della comunicazione della scienza e da

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parte delle società scientifiche che si dovrebbero per altro consorziare e fare dei discorsi molto seri. L'Italia è giovanissima da questo punto di vista, proprio giovanissima, non è solo come entità politica, ma anche dal punto di vista della comunicazione scientifica e funzionerebbe molto meglio se facessimo un lavoro di squadra.

Raccolgo una piccola provocazione di questo suo ultimo discorso. Lei pensa che, fatto salvo che l'ingresso all'interno di una comunità internazionale europea coesa, sia per ragioni geopolitiche, sia per ragioni culturali, e economiche porta inevitabilmente dei vantaggi, questa grande burocratizzazione della ricerca stia effettivamente portando i frutti che aveva promesso in termini, di razionalizzazione, di miglioramento, di efficienza?

Vuole sapere se sono europeista?

Vorrei sapere se secondo lei le attuali procedure di valutazione dei finanziamenti e dell’eccellenza stanno effettivamente portando i frutti che avevano promesso in termini di efficientismo.

Sono patriottica, ma sono profondamente europeista. I sistemi di finanziamento di Bruxelles sono super criticati, non soltanto da me ma anche da altri, tuttavia hanno portato soldi in Italia, molti meno di quello che avremmo dovuto attrarre, ma questo è dovuto sempre al problema del nostro governo, e dalla nostra organizzazione della scelta, non a Bruxelles. Il fatto che Bruxelles sia una grande macchina burocratica è assolutamente vero, e questo è un problema che si deve risolvere.

Personalmente dal punto di vista della valutazione… allora, la valutazione è un problema difficilissimo, in scienza, non solo a Bruxelles. Valutare è difficilissimo in Italia, una situazione di cui non voglio neanche discutere, perché veramente potrei fare commenti pesanti, ma è difficile anche in America e in tutti i Paesi possibili. Il valutatore è comunque una persona, ed è comunque uno scienziato: io ho fatto parte e faccio parte di panel di valutazione, inclusi quelli europei, e devo dire che viene fatto uno “sforzo magno” affinché queste valutazioni siano il più possibile oggettive.

Però devo anche riconoscere che avere una valutazione oggettiva è una delle imprese più difficili già a livello individuale, quando ci sono dei panel di 10 o 12 persone, di diversi Paesi, di diverse età e di diverse esperienze, si arriva forse ad una valutazione complessiva che è la migliore possibile ma non è certo ottimale. Inevitabilmente si formano delle psicologie di gruppo, per cui poi in certi casi è vero che una valutazione positiva equivale a un terno al lotto, però è diventato difficilissimo anche quello fatto dal lavoro editoriale – intendo trovare dei revisori degli articoli, ora che nessuno vuol fare più il lavoro di revisione, perché fa perdere un sacco di tempo e non si guadagna nulla. In genere il problema della valutazione in scienza si pone, e organizzare una valutazione per dei progetti importanti e internazionali secondo me è veramente molto difficile, detto questo penso che Bruxelles debba semplificare le procedure – questo lo penso da sempre. Ho avuto esperienze col Settimo Programma Quadro, però è vero che questo programma ha avuto anche addosso gli occhi di tutti i Paesi a cui il programma deve rendere conto, e questo è parte sostanziale delle complicazioni di questi procedimenti. Siamo anche tutti noi che dovremmo dire

«rilassati e fai le cose più semplici affinché possa funzionare per tutti», ma bisognerebbe allora anche vedere quali sono i vari lati della medaglia: ripeto, è un problema molto difficile, ma è talmente pessima l'Italia con le valutazioni che io trovo che francamente Bruxelles sia il minore dei problemi.

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Un’ultima domanda che riguarda la questione di genere, perché diciamo che anche all'interno di questo nostro progetto di ricognizione storica sulla storia degli ultimi cinquant’anni delle scienze del cervello in questo Paese, oggettivamente il numero delle studiose donne è abbastanza basso. Lei mi diceva che non ha mai ricevuto discriminazioni a parte lo stupore del Professor Macchi: qual è la sua opinione e come ha visto cambiare, se ha visto cambiare, questa situazione nel corso della sua carriera?

Io vengo da una famiglia di tre figlie femmine, quindi a me non è stato neanche troppo inculcato il fatto che i maschi potessero essere superiori, perché in casa non si poneva questo problema. Di conseguenza, io mi sono presentata sul palcoscenico delle esperienze professionali tranquilla da questo punto di vista, in Cattolica allora c'era una procedura di selezione a numero chiuso per esami, alla fine mi pare che nel mio corso fosse esattamente 50/50, e anche lì non mi è passato per l’anticamera del cervello, che ci potessero essere dei problemi. È difficile affrontare per me un discorso di questo genere perché posso essere tacciata di scarso supporto della condizione femminile, io personalmente adoro i lavori domestici, trovo che lavare i piatti sia rilassante perché tiene le mani occupate e la testa libera, probabilmente in certe situazioni senz'altro sono stata discriminata, ci sono persone che hanno problemi con la condizione femminile, però non posso dire di aver vissuto alcuna condizione persecutoria. Personalmente trovo che ponendo molto l'accento sulla discriminazione non si fa altro che ratificare la discriminazione stessa: il grande problema delle donne è la famiglia, le donne devono fare figli, devono potersi occupare dei figli insieme ai mariti, c'è un impegno che è preminente nella fascia di età diciamo 30-35, 40-45 e senza far tante chiacchiere è lì che bisogna intervenire: con stipendi adeguati, con assoluta elasticità nel rientro del mondo del lavoro a pari merito anche se non si è prodotto, non facendo mettere delle firme su lavori che non hanno fatto, a delle donne che sono state a casa per problemi di maternità; gli asili, che devono essere però funzionanti; gli orari di lavoro. Insomma le donne tra i 30 e i 45 anni vanno aiutate nel lavoro della ricerca, che è un lavoro tra l'altro senza orari, molto più difficile delle operaie perché le operaie hanno un orario di fabbrica, fare la ricercatrice è un lavoro che può proseguire lungo tutta la notte o nei giorni festivi: è un lavoro molto particolare, non un impiego generico, ed è in questo ambito che bisogna rendersi conto di quali sono le esigenze relative al genere e quella fascia d'età. Insomma, avere degli interventi immediati, precisi ed efficaci, invece di parlare bisognerebbe fare! Non c'è dubbio che le università sono piene di donne, le nostre università, e così i laboratori: poi però scompaiono, e quando scompaiono? Nel momento in cui si dedicano alla famiglia, e quando si vogliono reinserire il problema è che le nostre discipline non consentono un problema di scomparsa, di sparizione o un periodo improduttivo, questo è ciò che va cambiato! Per il resto, ripeto, io non conosco il problema, è inutile che mi si dica “la donna è inferiore o superiore”, lo trovo un falso problema: è normale che la testa di una donna non funzioni uguale a quella di un uomo, sono teste diverse, e per fortuna, evviva la diversità, però dal punto di vista pratico invece di lamentarsi che le donne non fanno figli in Italia forse sarebbe meglio occuparsi di aiutare le donne a fare i figli e crescerli in Italia. Questo va fatto invece di parlare di femminismo, o di calo delle nascite – o almeno è come la penso io.

Grazie mille per la sua preziosa collaborazione, Professoressa.

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