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2) LA STORIA DEL PARCO

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Academic year: 2021

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2) LA STORIA DEL PARCO

2.1) LA STORIA DELLA TERRA E DEGLI UOMINI

“ Su le Lame di Fuore, nel salso strame, nelle brune giuncaie, nelle erbe gialle, oziano a branchi le saure e baie cavalle

di San Rossore” G. D’ANNUNZIO

Nel ‘400 i Medici, banchieri fiorentini, acquistarono dalla Mensa Arcivescovile di Pisa le prime proprietà in San Rossore; in seguito con requisizioni e soprusi, fonti di lunghe e complesse controversie, estesero i loro possedimenti. Le condizioni ambientali e la presenza del folto bosco della Maddalena favorirono fin dal ‘500 la sua organizzazione in tenuta, con lo sfruttamento delle selve e dei pascoli, tanto che all’inizio del ‘600 si contavano 1100 capi bovini e alcune decine di cavalli bradi. Nel 1622 Ferdinando II introdusse come animali da lavoro i dromedari, adatti al clima e al trasporto anche su terreno sabbioso.

Nel ‘700 la tenuta, raggiunse la massima estensione, circa 4.850 ettari con un perimetro di circa 22 chilometri ed era delimitata a nord dal fiume Serchio e dai fossi di Femminello e Doppio, a est da fossi scavati a metà dei prati di Lamapiena e di Campalto e dal fosso di

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Confine che divideva i terreni da Barbaricina; a sud dall’ Arno e a ovest dalla linea di costa. Pietro Leopoldo I riorganizzò l’assetto idraulico e il patrimonio boschivo e aprì una serie di percorsi come il viale fra Cascine Vecchie e Cascine Nuove, costruì nuovi edifici delineando quell’impianto sul quale organizzeranno la tenuta nell’800 Leopoldo II e i Savoia nella forma oggi visibile.

Nella seconda metà del ‘700 il territorio era caratterizzato da una folta pineta marittima, seminata nella zona di avanzamento della spiaggia e da boschi.

Nel 1759 nelle zone più basse e umide vennero piantumate querce, querciole, olmi; nei cotoni (parti dunose rilevate ) e nella zona compresa fra il bosco dei Fossacci e il Taglio dei Vaccai furono messi a dimora pini domestici.

Dal 1782 al 1797 si intervenne con gli stessi criteri nel bosco della Palazzina, di Carbonaia, di Arnaccio, degli Escoli e delle Mandriacce: la parte boscata ammontava così a 2500 ettari. Furono estese anche le praterie per le pasture di animali con conseguente mutamento della conduzione della proprietà sostenuta da un progetto di appoderamento di due fasce lungo il Serchio e lungo l’Arno e la costruzione di cascinali, progetto documentato nelle cartografie dell’epoca, ma ben presto decaduto, come testimoniano le mappe coeve.

Alla fine del ‘700, nonostante le colmate, erano ancora molto estesi i terreni paludosi e le depressioni umide che correvano parallele al mare caratterizzando il paesaggio e fornendo selvaggina.

Questo paesaggio sopravvive oggi nelle celebri Lame di Fuori.

L’accesso principale alla tenuta avveniva dal viale delle Cascine che portava alle Cascine Vecchie; l’accesso secondario, costituito dalla via di Barbaricina, conduceva alle Cascine Nuove. La viabilità all’interno della tenuta era rappresentata da due strade, distanti tre chilometri, parallele al mare collegate da un percorso traversale alla proprietà intersecato da viottoli che collegavano cascine e luoghi di lavoro con la viabilità principale. Dalle Cascine vecchie, centro direzionale della

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tenuta con gli alloggi dei ministri e dei cammellai, percorrendo lo stradone delle Cascine si giungeva agli alloggi e alle stalle per mucche e il caseificio alle Cascine Nuove presso l’Arno o in senso opposto alla casa di Femminello e alla zona del “marmo” presso il Serchio. Da qui partiva un antichissimo viottolo ( oggi importante biotopo ) nel bosco di Palazzotto che portava a case, stalle e alle pasture di Lamapiena. Da Cascine Vecchie si giungeva, attraverso i boschi, alla torre del Gombo vicino al mare, per la tortuosa via del Gombo dove c’era un casotto per la raccolta e la lavorazione dei pinoli. Per altri viottoli si giungeva alle Lame di Fuori, zona di caccia agli uccelli acquatici. All’inizio della pineta marittima la strada di Marina tagliava la tenuta e terminava presso l’Arno, alla casa del Boschetto con stalla e magazzino per pinoli e pigne; da lì erano raggiungibili la Palazzina e il suo bosco. Ancora da via di Marina si giungeva al Fortino ( oggi arretrato dalla linea di costa di 500 metri ) sulla spiaggia a Bocca di Serchio.

Nonostante i numerosi lavori di miglioria, i Medici non ebbero mai la piena proprietà della Tenuta, a causa dei rapporti conflittuali con gli ordini religiosi pisani.

Verso la fine del ‘700, con la dinastia dei Lorena furono eseguiti lavori di manutenzione dei boschi e si pose mano al riassetto idraulico e alla bonifica delle zone palustri per aumentare le aree di pascolo; inoltre si realizzarono nuovi edifici.

La Rivoluzione Francese costrinse i Lorena ad un temporaneo esilio e, sotto Napoleone, la tenuta appartenne al Principato di Lucca e Piombino retto da Elisa Bonaparte Baciocchi .

In San Rossore fu introdotto il cinghiale, ancora oggi eccessivamente presente, che ben si adattò al luogo per la gioia del palato delle mense nobiliari e popolane.

Durante la dominazione francese (1799-1814), però, ci fu un saccheggio e un depauperamento del territorio della Tenuta. Per rifornire l’esercito che si era stabilito sul territorio, vennero abbattute

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numerose piante, riducendo l’estensione dei boschi, e fu decimata a dismisura la fauna, fatti salvi in gran parte i dromedari.

Sconfitto Napoleone, relegato a S. Elena, il Congresso di Vienna restaurò i Lorena che, tornati, provvidero ad effettuare numerosi e necessari lavori di ripristino.

Si ristrutturarono le Cascine Vecchie (1830), si costruì la villa reale al Gombo (1829-1830) e sulla spiaggia del Gombo Gaetano Ceccherini aprì uno stabilimento balneare; ma la concessione fu ritirata nel 1864 da Vittorio Emanuele II in cambio di una donazione di altri terreni a Marina di Pisa. L’aspetto di rappresentanza della tenuta fu esaltato dall’apertura di grandi viali rettilinei che univano i centri per le attività economiche e le zone più rappresentative.

I nuovi tracciati ridisegnarono il viale del Gombo,

il viale dal ponte alla Sterpaia alla torre Riccardi,

il viale da Cascine Nuove alla Palazzina e a Bocca d’Arno, (precedentemente delineato dai francesi),

la via delle Cateratte e il viale delle Cascine.

Questa linea di riorganizzazione territoriale fu poi proseguita e sviluppata dai Savoia, ai quali passò la gestione della Tenuta con l’Unità d’Italia. Nel 1862 a potenziamento della immagine della monarchia sabauda artefice dell’unificazione, i Savoia fecero costruire le Scuderie Reali alla Sterpaia, rifecero completamente le Cascine Nuove, rimodernarono in stile sabaudo numerosi edifici.

La Tenuta raggiunse il suo massimo splendore con Vittorio Emanuele III, che fece eseguire numerosi lavori per la conservazione ed il restauro degli ambienti silvestri.

Con le bonifiche fu tagliato il viale del Gombo e creato il fiume Morto Nuovo che sostituì il tratto terminale del vecchio fiume Morto, inadeguato a accogliere la portata degli scarichi della piana retrostante.

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Durante la seconda Guerra Mondiale San Rossore subì danni gravissimi; con il passaggio del fronte oltre ai molteplici immobili distrutti, i boschi furono immiseriti da tagli intensivi, i terreni danneggiati dagli insediamenti militari ed il patrimonio zootecnico decimato.

Gli interventi e le modificazioni del ‘900 non hanno alterato in modo decisivo l’assetto ottocentesco.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale e la caduta della monarchia sabauda, con l’avvento della Repubblica la Tenuta divenne proprietà del demanio dello Stato.

Con il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, San Rossore venne acquisito tra i beni in dotazione al Quirinale, divenendo una delle residenze del Capo dello Stato.

Nel 1995 il Presidente della Repubblica Scalfaro firmò la “convenzione decennale per la concessione della gestione della Tenuta di San Rossore alla Regione Toscana”. Con tale atto la gestione della Tenuta veniva assegnata alla Regione Toscana per un periodo di dieci anni, tacitamente rinnovabile.

2.2) GEOGRAFI, STORICI E VIAGGIATORI:

IL TERRITORIO E LA RAPPRESENTAZIONE

VERBALE E VISIVA DEL TERRITORIO

“Se l’Italia è il giardino d’Europa la Toscana è il giardino d’Italia”

C. GOLDONI

Alla trasformazione del territorio della pianura pisana,di cui il Parco naturale di Migliarino, San Rossore e Massaciuccoli occupa la fascia occidentale, si sono interessati numerosi studiosi, da Paolo Savi a

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Carlo De Stefani. Ma già Strabone ( I sec. a.C ) ne traccia una descrizione di rara suggestione: “ Pisa giace alla confluenza dei due fiumi, l’Arno e l’Esare, di cui l’uno con grande massa d’acqua viene d’Arezzo, non tutto unito, ma diviso in tre; l’altro, l’Esare, dai monti Appennini; e fondendosi in un sol corso, con l’incrociarsi si enfiano l’un l’altro a tal punto che quelli che stanno fermi sulla riva opposta non si vedono l’un l’altro, cosicché è difficile la navigazione per entrarvi dal mare”

Alcuni studiosi tuttavia ritengono che i tre rami dell’Arno non siano mai esistiti; altri invece, come Toniolo, confermano gli scritti di Stradone. Plinio ( I sec .d.C ) e Rutilio Numanziano

( V sec. d.C ) parlano della posizione di Pisa alla confluenza di due fiumi, affermazione confermata da recenti studi che hanno individuato paleoalvei del Serchio. L’ Arno si gettava in mare a San Piero a Grado.

Il notevole avanzamento della linea di costa in epoca etrusco-romana fu influenzato dall’intensa colonizzazione agricola che sostituì parte del manto vegetale spontaneo con colture facilitando il dilavamento del territorio e aumentando i depositi di torba fluviale.

Verso il 1000 il territorio si presentava con vaste zone acquitrinose e dunali ricoperte di macchia mediterranea. Infine l’insenatura a sud della pianura permise a Pisa di sviluppare la marineria ed il porto. La carta geologica del Parco ed i reperti archeologici diventano un utile documento di lettura della storia della terra e degli uomini.

I tagli dell’Arno e del Serchio, i disboscamenti, le opere di bonifica e di canalizzazione delle acque, le modalità di coltivazione della terra e infine le escavazioni nei letti dei fiumi sono alcuni degli elementi antropici che hanno condizionato il processo di formazione della pianura.

Fino alla colonizzazione romana il territorio era caratterizzato dalla presenza di macchie e foreste (la Selva Palatina) e dalla vasta regione deltizia del Serchio-Auser e dall’Arno. La linea di costa era spostata verso est e l’azione delle correnti marine, unita all’instabilità del corso

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dei fiumi, formava lunghi cordoni sabbiosi che sbarravano lo sbocco delle acque, favorendo la creazione di impaludamenti e lagune. L’alternanza e la compenetrazione di elementi quali mare, dune, depressioni umide, boschi e paludi, indirizzeranno e accompagneranno nei secoli le vicende storiche e gli interventi umani, fino a costituire ancora oggi una spettacolarità del territorio di forte impatto visivo. Il nome della tenuta deriva da San Lussorio, martire cristiano ucciso in Sardegna sotto l’impero di Diocleziano i cui resti, giunti a Pisa nel 1080, vennero collocati nella chiesa ubicata sulla riva destra dell’Arno, nell’area ora denominata “Cascine Nuove”.

Da qui la zona prese il nome del Santo che, per corruzione linguistica, diventò “San Rossore”. La Chiesa di San Lussorio fu gestita da monaci benedettini ed altri ordini religiosi che la incorporarono nel monastero finché una parte della proprietà fu affittata ai Medici che dal 1549 operarono una serie di modifiche per lo sfruttamento economico della Tenuta. Già Ferdinando I intraprese un’attività venatoria per vendere la selvaggina e rifornire le mense della sua corte. L’ introduzione del daino, grazie all’elevata prolificità della specie, rappresentò una fonte inesauribile di cibo a basso costo. Cosimo III avviò una serie di interventi sulla natura del territorio e da buon figlio di banchieri vide nell’insediamento delle pinete da pinoli un buon affare.

Ancora oggi il paesaggio di San Rossore è fortemente caratterizzato dalla moltitudine di Pini domestici che, pur non autoctoni, coprono oltre un quarto dell’intera area.

Nel 1406, quando la Repubblica Pisana passò sotto l’influenza fiorentina, lo Stato mediceo guadagnò l’agognato accesso al mare. La “guerra di Pisa”, durata circa un secolo, e le frequenti epidemie di peste provocarono una forte depressione dell’economia pisana e la rovina di molte delle sue campagne, soprattutto nel Valdarno.

Le zone costiere, che erano le più inospitali, si spopolarono per prime e il forzato abbandono della rete idrica favorì l’incremento delle zone paludose e delle foreste. La sconfitta di Pisa inoltre decretò

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l’appropriazione di terre pisane da parte delle ricche famiglie fiorentine, e in particolare dei Medici. Risale proprio al ‘400 e ai primi del ‘500 l’inizio della formazione delle grandi tenute che caratterizzeranno da allora il territorio del parco:

-la tenuta Salviati a Migliarino,

-le tenute medicee di San Rossore, Coltano e Castagnolo

-le fattorie di Vecchiano, Casabianca e Collesalvetti, che si affiancano alla tenuta di Tombolo.

I Medici si sostituirono alla proprietà pisana, e si impossessarono progressivamente di zone boschive e paludose (Coltano, Vecchiano, Bientina), inserendosi in territori vuoti, dove l’organizzazione produttiva poteva avvenire solo a costo di impegni finanziari ingenti, soprattutto per le bonifiche, problema cruciale del territorio costiero fin dai tempi degli Etruschi.

Questo processo di valorizzazione favorì il ripopolamento delle campagne pisane, che si accentuò verso la metà del ‘500.

Lo sviluppo avvenne per lo più lungo l’asse viario Pisa – Firenze e sulle colline livornesi, mentre le zone più costiere caratterizzate dal bosco e dalla palude rimasero a lungo spopolate. Le proprietà granducali erano organizzate in diverse e autonome unità produttive, divise in tenute e fattorie: entrambe riscontrabili nell’area del Parco.

Venivano considerate tenute quelle vaste estensioni che potevano essere economicamente sfruttate senza eccessivi impieghi di capitale. La loro caratteristica principale era la totale assenza del podere e l’organizzazione in un’unica unità governata da un ministro, alle cui dipendenze lavoravano numero dei “provvisionati” fissi, e le attività principali erano costituite dalla produzione di legname, dallo sfruttamento delle praterie per il pascolo di animali, dalla pesca e dalla caccia.

Le fattorie invece basavano la loro economia sul podere a conduzione mezzadrile, a cui si giunge con un lento processo che inizia con l’investimento di abbondanti risorse per le opere di bonifica per colmata, e prosegue poi con il dissodamento e la messa a coltura, per

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lo più cerealicola. L’organizzazione è basata su un’amministrazione centralizzata e curata da un fattore e su una serie di divisioni del territorio, i poderi, sui quali vengono costruite le varie case coloniche. Il filo comune che legava tutte le proprietà si spezza nella seconda metà del 700, quando, sotto il governo di Pietro Leopoldo si comincia ad alienare parte del patrimonio. Le fattorie vengono infatti separate e vendute ( quella di Vecchiano sarà venduta ai Salviati). Le tenute rimangono, al contrario, saldamente in mano granducale, e subiranno una lenta trasformazione affiancando al ruolo produttivo quello di rappresentanza e di svago.

2.3)

PISA TAPPA DEL GRAND TOUR

“Oggi giorno i viaggi negli stati civili d’Europa … costituiscono, a giudizio delle persone illuminate, uno degli aspetti più importanti nell’educazione dei giovani e una parte dell’esperienza negli anziani”: così recita il Cavaliere De Jaucourt redigendo per l’Enciclopèdie la voce Voyage.

De Jaucourt mette in rilievo il carattere formativo dell’esperienza del viaggio, sottolineando come soltanto dall’osservazione diretta della realtà e dalla sua comprensione un ampliamento di orizzonti e un arricchimento di conoscenze che i soli libri non consentono di ottenere.

Nel ‘700 il Grand Tour vede nella Toscana,regione ricca e multiforme, una della mete di quella che è diventata una vera e propria istituzione codificata nella prassi educativa e celebrata in innumerevoli relazioni, lettere, consigli, memorie. Il viaggiatore scende in Italia per visitare questo “museo della memoria” di paesaggi e di cultura antica e “moderna”.

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Montesquieu che visita Pisa nel 1728, annota che nei mesi invernali la città, sia sotto i Medici che con i Lorena, ospita la Corte granducale che vi si trasferisce per godere della mitezza del clima.

Caspar Goethe, che giunge in Toscana nel 1740, circa mezzo secolo prima del figlio, scrive “La strada da Livorno a Pisa è molto comoda, pianissima e, per ragione deli alberi differenti e mirto selvatico, piantato alle bande, dolcissima”.

E così chiosa Johann Wolfgang Goethe nel suo Viaggio in Italia: “In genere si resta colpiti dall’aspetto bello e grandioso che hanno in Toscana le opere pubbliche, le strade, i ponti …. i mari antichi hanno fatto il loro dovere e hanno accumulato uno spesso sedimento argilloso, di colore giallo chiaro e facile a lavorarsi. Le arature sono profonde, ma avvengono ancora in modo primitivo: gli aratri non hanno ruote e i vomeri non sono mobili, sicché il contadino, curvo dietro i suoi buoi, trascina il vomere dissodando il terreno. Arano fino a cinque volte e spargono a mano poco concime, assai leggero. Infine seminano il grano, poi alzano delle sottili porche, in mezzo alle quali si formano profondi solchi in cui può scorrere l’acqua piovana, Il grano cresce alto sulle porche e i contadini vanno su e giù per i solchi a sarchiare. E’ comprensibile che si segua questo metodo dove c’è da temere l’umidità. ”

L’elogio di molti viaggiatori va a Pietro Leopoldo di Lorena, che con le sue riforme ha saputo imprimere al paese un’accelerazione sulla strada della modernizzazione.

Fra coloro che danno credito al successore dei Medici, dopo la reggenza di Francesco Stefano di Lorena, ci sono i philosophes De Sade, Duclos, Duparty.

Favorevole pure il giudizio di Gudmund Adlerbeth, segretario di Gustavo III di Svezia che nella sua relazione analizzò la politica agraria del Granduca.

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