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Capitolo 3 – L’ EVOLUZIONE DELLA PROFESSIONE INSEGNANTE IN ITALIA

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Capitolo 3 – L’ EVOLUZIONE DELLA PROFESSIONE INSEGNANTE IN ITALIA

In questo capitolo analizziamo il mondo degli insegnanti della scuola media superiore, nella sua evoluzione dal 1977 ad oggi, per capire se e come siano cambiati i loro atteggiamenti, i loro valori, le tensioni del loro ruolo professionale ecc.. A questo fine abbiamo utilizzato soprattutto due ricerche empiriche sociologiche (tra le poche italiane): la prima ad opera di A.Cobalti e M.Dei (1979) e la seconda diretta da A.Cavalli (2000), in modo da poter fare, dove possibile, i confronti necessari.

3.1- Gli insegnanti degli anni ’60 – ’70

Il testo Insegnanti : innovazione ed adattamento: una ricerca sociologica sugli insegnanti della secondaria superiore, riporta i risultati di una ricerca svolta da Antonio Cobalti e Marcello Dei nell’autunno/inverno 1976-77, attraverso un questionario somministrato a 576 insegnanti della secondaria superiore. Il campione e’ stato selezionato cercando di rappresentare la composizione generale

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dell’intero corpo docente per sesso, età, materia insegnata, tipo di istituto e zona di residenza, ed escludendo dalle interviste insegnanti di religione, educazione fisica e tutti coloro ai quali era richiesto solo il diploma per poter insegnare.

Circa dieci anni prima, ancora Dei e Marzio Barbagli avevano effettuato una ricerca sugli insegnanti della scuola media unica per cercare di rispondere alla domanda “dove vanno” gli insegnanti, proprio all’indomani della violenta opposizione alla scuola media unica istituita nel 1962.(Le vestali della classe media,Il Mulino, Bologna, 1969)

Alla base di questa nuova ricerca del 1976 c’era la stessa domanda, ma si partiva da un punto di partenza diverso, ovvero, da quel malessere generale del corpo docente, da quel disamore per il proprio lavoro che ormai sembravano aver ammorbato gli insegnanti, in particolar modo quelli della secondaria superiore.

3.1.1 - Composizione, sesso, età.

La ricerca parte da una panoramica quantitativa del corpo docente di quegli anni: dai dati ISTAT

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riguardo all’anno scolastico 1974-75 emerge come la categoria degli insegnanti appartenenti ai diversi gradi dell’istruzione riveli la concentrazione più alta del pubblico impiego. Nell’interpretare l’aumento notevole della classe insegnante soprattutto nella secondaria superiore, che aveva visto sestuplicare il suo numero nel periodo che va dal 1947 al 1974, si deve guardare sicuramente all’incremento degli studenti ad ogni livello, ma anche a

“[…] quella tendenza alla terziarizzazione alla quale certo non sono estranee strategie di assorbimento della forza-lavoro intellettuale al fine di controllare le tensioni del mercato del lavoro.[…].”1

Effettivamente secondo un’indagine CENSIS emerge che ben il 50% dei laureati della seconda metà degli anni ’60 è confluita nell’insegnamento.

Andando a guardare nel particolare la secondaria superiore, oltre ad un cambiamento quantitativo generale, si può notare anche una diversa distribuzione a seconda delle materie:

“mentre nel 1947 i professori di liceo classico e scientifico erano circa il 40% del totale, la percentuale si è quasi dimezzata nel 1975, mentre gli insegnanti del ramo tecnico-professionale-artistico rappresentano quasi il 70% contro il 42% del 1947.”2

1 A.Cobalti, M.Dei, Insegnanti:innovazione e adattamento,La Nuova Italia, Firenze,

1979. p 7 2  ibidem p 10

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Il corpo docente risulta inoltre caratterizzato dal fenomeno della femminilizzazione: con questo concetto si intende sia che il ruolo dell’insegnante è rivestito in prevalenza da membri di sesso femminile, sia che nel corso degli anni la presenza delle donne nella scuola è andato sempre crescendo. Le cause sono sicuramente l’assetto stesso del lavoro, cioè la compatibilità di questo con lo svolgimento del ruolo domestico, ma anche la consistenza effettiva di ruoli alternativi occupazionali offerti alle donne. Non c’è alcun dubbio, infatti, che l’insegnamento si è femminilizzato, anche se via via che si salgono i gradini dell’istruzione la percentuale di donne insegnanti decresce. Questo avvalora la tesi per cui al carattere di femminilizzazione del ruolo insegnante viene ricondotto il basso prestigio e la marginalità di questo lavoro.

Dando uno sguardo all’ età del corpo docente, dalla ricerca emerge che rispetto al 1971, nel 1976 si è registrata una riduzione importante degli ultracinquantenni e sono cresciuti gli insegnanti più giovani.

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3.1.2 - L’appartenenza sociale degli insegnanti. Per quanto riguarda l’estrazione sociale, gli intervistati sono stati ripartiti in tre categorie in base al lavoro svolto dal padre o comunque dal capofamiglia: risulta più ampio il gruppo degli imprenditori, libero professionisti, funzionari e dirigenti. Al secondo posto troviamo il gruppo degli artigiani, impiegati e medi commercianti; il terzo ed ultimo gruppo è costituito da piccoli imprenditori, contadini e braccianti.

Una tendenza che emerge in questa ricerca come in tutte le ricerche effettuate sugli insegnanti, è la diversa estrazione sociale degli insegnanti rispetto alle loro colleghe donne: le donne risultano in percentuale appartenenti ad un’ estrazione sociale più elevata rispetto agli uomini. Questo in parte è spiegabile dal numero più alto di donne di estrazione sociale superiore tra le laureate in genere, ed essendo molto più naturale la destinazione delle donne verso facoltà considerate femminili, le stesse facoltà portano poi più facilmente sulla strada dell’insegnamento.

Volendo fare un paragone a seconda della regione di appartenenza, risulta che il 40% degli

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insegnanti del sud hanno un’ estrazione sociale appartenente al terzo gruppo, cioè di livello inferiore.

Riguardo allo stato civile, il dato saliente è che il 42% degli insegnanti risulta sposato con un altro docente, per cui possiamo parlare di una certa endogamia professionale.

3.1.3 - Scelta professionale, identificazione professionale e soddisfazione.

Dopo considerazioni di carattere generale e quantitativo sugli insegnanti intervistati, il questionario pone ai docenti una domanda che risulta fondamentale per entrare nel cuore della ricerca: “Per quali motivi è entrato nell’insegnamento?”. Le risposte vengono distinte in due grandi categorie:

“[…] da una parte la scelta motivata, di coloro, cioè che hanno riferito di essere entrati nell’insegnamento per l’attrazione esercitata su di loro dagli aspetti caratteristici di questo lavoro (stare con i giovani, piacere di insegnare, interesse per la materia insegnata ecc), dall’altra la scelta non motivata, cioè di coloro che, in vario grado, sono stati costretti dalle circostanze ad entrare nell’insegnamento”3

I dati mettono in luce che l’insegnamento è prevalentemente il risultato di una scelta di ripiego e che la percentuale delle scelte non motivate sale

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considerando gli insegnanti di età inferiore e quelli che sono entrati da poco tempo nell’insegnamento. Se nel 1971 la scelta non motivata, ovvero l’insegnamento come ripiego, transito ecc, era riferita dal 43,9% degli intervistati, nel 1976 tale gruppo diventa nettamente maggioritario, pari al 62,6%.(68,6% per i maschi, 56,3% per le donne).

Mettendo in relazione le risposte al tipo di scelta con la variabile che riguarda la soddisfazione per il proprio lavoro, emerge che la motivazione o la non

motivazione al momento dell’ingresso

nell’insegnamento, influenza nettamente la soddisfazione posteriore:

“[…] mentre quasi tre motivati su quattro risultano soddisfatti, lo stesso avviene solo per il 40% dei non motivati”4.

L’atteggiamento verso l’insegnamento dell’insieme degli insegnanti motivati risulta fondamentalmente omogeneo. Al contrario, il gruppo dei non motivati, che è poi quello che più caratterizza, come già visto, la categoria insegnante, presenta caratteristiche essenzialmente diverse. Per questo motivo la scelta non motivata è suddivisa dagli autori in

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quattro sottogruppi a seconda della ragione data dall’intervistato al motivo della secondarietà della scelta professionale :

1. CONDIZIONAMENTO ECONOMICO 2. CONDIZIONAMENTO DI ALTRO TIPO 3. SCELTA STRUMENTALE

4. SCELTA SCUOLA E FAMIGLIA

Ben il 55% delle risposte giustifica la scelta dell’insegnamento con fattori economici : non trovando spesso il lavoro che gli intervistati desideravano, ma pur dovendo in qualche modo mantenersi, la scelta di insegnare è risultata per così dire automatica. Il tema ricorrente di queste interviste è infatti la frustrazione delle primarie aspirazioni professionali mancate e dell’insegnamento come ripiego mal digerito. Questa ampia parte di insegnanti non motivati è la dimostrazione di come la scuola , soprattutto dopo gli anni ’60, abbia funzionato come canale di sfogo dei laureati, di quella che viene chiamata disoccupazione intellettuale.

La seconda categoria motivazionale comprende il 16,7 % e raccoglie tutte quelle risposte che vedono alla base della scelta di ripiego un condizionamento di altro genere, generalmente di tipo culturale,

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riconducibile vuoi ai voleri dei genitori, vuoi alla presunta congenialità all’essere donna del ruolo insegnante.

Anche in questo sottoinsieme emergono aspirazioni professionali soffocate. Infatti i due gruppi legati al condizionamento detengono la percentuale più bassa di individui soddisfatti rispetto agli altri tipi di scelta.

“[…] la relazione tra condizionamento e soddisfazione è più forte tra i maschi sia perché corrisponde ad un più alto livello di frustrazione delle aspirazioni, sia perché per i maschi non funzionano(o agiscono in senso contrario) quei meccanismi culturali che tendono ad imporre l’insegnamento come professione più adatta alle donne.”5

Andando a guardare la composizione degli appartenenti a questo gruppo, si nota come il fattore economico come condizionamento sia più frequente tra gli insegnanti più giovani, mentre i condizionamenti di altro tipo riguardino maggiormente quelli più anziani.

Il sottogruppo scelte strumentali, invece, raccoglie il 17,3% delle risposte e riguarda tutti quegli insegnanti che sono diventati tali perché questa professione permetteva loro di svolgere un’altra attività, remunerativa o solo di svago, dando loro allo stesso tempo tutti quei privilegi che dà un lavoro alle

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dipendenze della Pubblica Amministrazione. Dalle interviste risulta chiaro

“il carattere accessorio dell’insegnamento rispetto all’altra attività lavorativa”6.

Il sottogruppo scelta scuola e famiglia, che racchiude il 10,4% delle risposte, è la variante prettamente femminile della precedente categoria: ne fanno parte le donne che scelgono l’insegnamento proprio perché permette loro di svolgere decentemente anche il ruolo di moglie e madre, il lavoro domestico. In questo gruppo troviamo ben il 70% di soddisfatte, il che concorda con la concezione che il ruolo insegnante ben si concilia con l’essere donna.

Prendiamo ora in considerazione il gruppo per il quale si può parlare in modo proprio di scelta professionale, cioè il gruppo dei motivati: i fattori che hanno attratto questi individui nel mondo scolastico sono variegati, anche se la risposta più frequente è quella dell’interesse forte a “condividere un parte della propria esistenza con il mondo dei giovani”. Altre risposte ricorrenti sono le “influenze positive svolte a loro tempo dai propri insegnanti”, mentre molto più rare, ancorchè esistenti, sono le “spinte idealiste”, tipo

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cambiare il mondo, sentire l’insegnamento come una missione ecc.

Il momento cronologico della scelta dell’insegnamento è sicuramente legato al grado di motivazione della scelta :

“[…] del resto non ci vuole molto a predire che dietro la decisione di diventare insegnante presa dopo la laurea difficilmente c’è una spinta psicologica irresistibile”7.

Il dato più rilevante delle risposte rispetto al momento della scelta è che ben il 40% degli insegnanti intervistati non ha mai anelato realmente a insegnare. La differenza tra uomini e donne è forte: la precocità della scelta di insegnare nelle donne è molto più frequente rispetto a quella degli uomini.

Alla motivazione della scelta è strettamente collegato l’impegno effettivo al di fuori dell’orario scolastico degli insegnanti: preparazione delle lezioni, correzione compiti, ma anche partecipazione alle riunioni collegiali. Ben oltre la metà degli intervistati dichiara di dedicare più di dieci ore settimanali all’impegno extrascolastico, e mentre per quanto riguarda il tempo impiegato per le riunioni, non si notano pressochè differenze, per il resto dell’impegno

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domiciliare si riscontra una grande differenza tra donne e uomini:

“[…]i maschi che settimanalmente impiegano più di dieci ore sono circa un terzo contro il 52% delle loro colleghe”8.

Tra i non motivati, in special modo i maschi, che hanno dato una motivazione strumentale, ben il 50% dei casi dice di lavorare solo fino a cinque ore settimanali extra. I soggetti, invece, che avevano dichiarato di essere entrati nella scuola per scelta motivata, risultano effettivamente più impegnati di chi vi è entrato senza vera convinzione.

Dall’analisi di questi dati pare quindi confermata la tendenza dell’insegnamento a rivestire una soluzione di “seconda mano”, e ciò sottolinea che la professione di docente si qualifica in maniera sempre meno gratificante e che la soddisfazione degli insegnanti è sempre più difficile da verificarsi.

La soddisfazione per il proprio lavoro dipende in buona parte dalle gratificazioni e dalle ricompense che ne derivano. Andando a ricercare i motivi profondi di questa insoddisfazione, viene chiesto agli insegnanti quanto sono soddisfatti della loro remunerazione :

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“[…] solo un insegnante su quattro o poco più è soddisfatto per la remunerazione del proprio lavoro; la cifra scende a uno su cinque se consideriamo i maschi, sale a uno su tre per le femmine.”9

L’insoddisfazione per il livello retributivo non ha significato solo a sé stante ma porta con sé la percezione dello slittamento verso il basso del prestigio del ruolo di docente.

Per questo motivo sono state poste due domande ulteriori per raggiungere una valutazione complessiva della soddisfazione o meno dei docenti riguardo alla loro carriera. Alla domanda :”Suggerirebbe a un giovane di dedicarsi all’insegnamento?” la metà circa delle insegnanti risponde positivamente mentre i loro colleghi rispondono si nel 43% dei casi. Ciò che però è importante è il fatto che ben :

“un quarto delle intervistate disposte a consigliare la professione insegnante hanno specificato di riferirsi esclusivamente a una femmina.”10

All’altra domanda: “ Se potesse tornare indietro che lavoro sceglierebbe?”, i docenti che si dicono disposti a confermare la decisione dell’insegnamento sono solo il 45% contro i due terzi delle loro colleghe.

Mettendo in relazione la variabile del momento della scelta di insegnare ( e quindi l’ aspirazione ad essa

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 ivi, p 55 10 ivi p 57

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o meno) con la soddisfazione per il proprio lavoro, si evince che coloro che molto presto hanno deciso di insegnare, sono assai più soddisfatti di coloro che sono entrati nella scuola con un’ aspirazione meno precoce o addirittura nulla.

Estrapolando dati anagrafici, posizione giuridica, materia insegnata, emerge che il luogo di residenza (nord, sud, centro) non ha alcun peso sul grado di soddisfazione, mentre per quanto riguarda l’età :

“[…]la percentuale dei soddisfatti è del 54% fra i più anziani(51-66 anni), sale al 60% tra i 36-50 enni e poi cade al 46% dei più giovani ( 25-35 anni).”11

La soddisfazione risulta maggiore tra le donne sposate, minore tra i celibi. La variabile materia insegnata e il tipo di laurea sembra far intravedere una maggiore soddisfazione tra gli insegnanti di materie letterarie rispetto a quelli che insegnano materie tecniche.

Incrociando la variabile “motivazione all’ingresso nell’insegnamento” e “identificazione professionale” o meglio la soddisfazione attuale totale del docente, otteniamo quattro tipi di docente: Il motivato persistente(26,4%),ovvero colui che ha volutamente

11  ivi p 60

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scelto di insegnare e che continua a sentirsi identificato nel ruolo che occupa, il non motivato-adattato (24,3%) cioè colui che pur essendo diventato insegnante per i motivi più svariati, si è alla fine trovato bene a rivestire quei panni. Abbiamo poi il motivato-deluso (10,4%) e il non motivato-non adattato(34,9%). La concentrazione più elevata è quella del gruppo dei non motivati- non adattati, cioè l’insieme di quegli insegnanti che non hanno scelto come prima motivazione l’insegnamento e che al contempo non si sono mai identificati in quel ruolo. Sommando a questo gruppo, l’insieme di coloro che (10,4%), pur avendo scelto di buon grado di insegnare, attualmente si ritrovano insoddisfatti del loro status occupazionale, ne risulta che quasi la metà degli insegnanti intervistati è insoddisfatto del proprio lavoro. In questo caso, nonostante si ritrovi una maggiore motivazione tra le insegnanti donne, il disagio coinvolge fortemente entrambi i sessi. Questo, ci sembra, è un aspetto cruciale e lo è ancora di più quando si osservi il fenomeno in una prospettiva temporale. Infatti, secondo gli autori:

“ nel decennio 1967-1976 accade che la percentuale di insegnanti del tipo motivato-persistente si abbassa drasticamente (-20%)[…]; inversamente quella del tipo opposto non motivato-non adattato fa un balzo in avanti di

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16 punti[…] Il tipo motivato-deluso registra un forte incremento […] la percentuale di insegnanti del tipo non motivato-adattato non subisce invece variazioni[…]”.

E così concludono:

“[…] nel periodo considerato si è verificata una crescente disidentificazione nei confronti della professione quale risultante di due processi paralleli: a) la diminuzione della presenza nella scuola di individui che sono entrati nell’insegnamento sulla base di una vera e propria scelta, dovuta al fatto che la scuola si è presentata sempre più come l’unica opportunità di impiego, e che è diventato sempre più difficile abbandonarla per un’altra occupazione:b) l’aumento della percentuale di individui che, comunque siano entrati nell’insegnamento, non riescono a sviluppare delle forme di attaccamento nei suoi confronti”.12

In altre parole, le condizioni dell’occupazione intellettuale, dal 1960 circa al 1976, hanno determinato gradualmente nell’insegnamento una situazione di doppia chiusura: blocco dell’ingresso di chi desidera accedere, e chiusura dell’uscita per quanti trovavano nella scuola una occupazione solo transitoria. A cio’ si è giunti dopo una serie di “infornate selvagge” di laureati nell’insegnamento. Ma, oltre a questo fattore, sull’ immagine dell’insegnamento, e quindi sui meccanismi di identificazione professionale, hanno influito anche fattori quali la trasformazione organizzativa, il dibattito sulle funzioni dell’istruzione secondaria, la

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disoccupazione dei diplomati ecc. Questo disagio e questa insoddisfazione crescenti sono spesso la causa di una scelta di una seconda occupazione, in particolar modo per gli insegnanti di materie tecniche, professionali, scientifiche. La volontà di crearsi una attività secondaria nasce non solo da motivi economici e dalla motivazione o non motivazione all’insegnamento, ma anche

“[…] in parte dal prestigio relativamente basso di cui gode l’insegnamento e dal desiderio di realizzare in qualche modo le aspirazioni frustrate.”13

Per cui si ricerca nella seconda attività quella soddisfazione personale, e quella considerazione sociale che viene a mancare nella prima.

3.1.4 - Prestigio della professione e concezione della scuola.

L’insegnante, rappresentante di quel tipo di lavoro intellettuale che nella nostra società ha più alto prestigio rispetto al mero lavoro manuale, è portato, per questo motivo, a pretendere una gratificazione elevata, una posizione di prestigio all’interno della stratificazione sociale.

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Come sostengono gli autori,

“il prestigio di un’ occupazione presenta due aspetti: uno oggettivo, che è rappresentato dal livello gerarchico al quale essa viene socialmente assegnata e che è determinato dagli esistenti rapporti di classe, e uno soggettivo, che è costituito dalla valutazione dell’individuo.”14

A sua volta, nel livello soggettivo si possono distinguere due dimensioni: la percezione della gerarchia delle occupazioni esistente di fatto nella società, e la valutazione della gerarchia esistente delle occupazioni che esprime la concezione che ha l’individuo di un determinato ruolo occupazionale in relazione agli altri. Ebbene ben più dell’ 80% dei docenti intervistati dice di trovarsi, in un’ipotetica gerarchia sociale (quella ritenuta propria dell’opinione pubblica), oltre il quinto posto e , ben più importante, il 36% crede che l’insegnante occupi il decimo posto di questa scala . La maggior parte dei docenti, senza distinzione di sesso, età etc, crede quindi di trovarsi ad occupare un posto molto basso nella società. In altre parole sottovaluta il prestigio sociale della propria professione, pensando di avere un prestigio minore di quello effettivo.Si ha quindi un divario, uno squilibrio tra aspirazione e percezione,

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 A.Cobalti, M.Dei, Insegnanti:innovazione e adattamento,La Nuova Italia, Firenze, 1979. p 71

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tra percezione del prestigio e concezione personale del prestigio del proprio lavoro. E ciò riguarda, sia pure con diversa intensità, la grande maggioranza degli insegnanti, come vedremo subito. E’ inutile dire che proprio questo squilibrio è fonte di grandi tensioni e disagi.

Troviamo sintomi di delusione e frustrazione infatti, se si va ad analizzare la concezione che gli insegnanti hanno del proprio lavoro. Nonostante sottovalutino di gran lunga la loro posizione nella società, ne rivendicano una molto più alta: il 50% circa degli intervistati ritiene che l’insegnante dovrebbe occupare uno dei primi quattro gradini della scala sociale. Non solo: uno su tre rivendica il primo o il secondo posto. Questa convinzione è più marcata per gli insegnanti anziani, per coloro che sono diventati docenti per una loro precisa aspirazione, per i più soddisfatti del loro mestiere, per gli insegnanti del sud.

Quando è stato chiesto agli insegnanti la loro percezione riguardo all’aumentato o diminuito prestigio del loro lavoro negli ultimi anni, l’ 87% ha risposto che il prestigio è nettamente declinato negli ultimi periodi. Dato il livello molto basso della percezione del prestigio

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tra gli insegnanti, difficilmente questi credono che detto prestigio possa cadere ancora più in basso: infatti solo poco

“[…] più di un terzo degli intervistati si mostra ottimista sulle possibilità di ripresa del prestigio nei prossimi anni.”15

E’ molto interessante la lettura delle varie argomentazioni che gli insegnanti intervistati hanno dato riguardo ai perché di questa riduzione di prestigio. La ricerca ha cercato di raggruppare le varie argomentazioni risultanti dalle interviste attorno ad alcuni temi, cercando così di classificarle e quantificarle.

La prima di esse, a livello di frequenza, è risultata l’argomentazione che fa dipendere il declino del prestigio del docente da una crisi interna della scuola stessa che non sembra più in grado di svolgere quella funzione di trasmettitrice di valori, e che non riesce allo stesso tempo, a produrre una forza lavoro qualificata. Subito dopo vengono risposte che riguardano il basso livello di retribuzione ma anche lo stato di “facilismo” in cui è caduta la scuola, ovvero una sorta di permissivismo e di laisser fare che permea tutto il mondo della scuola, dovuto anche ( e questa è un'altra categoria di argomentazione) all’esplosione della scuola

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di massa, alla crescente scolarizzazione. Molti insegnanti reputano che i motivi fondamentali della perdita di prestigio vadano ricercati all’interno del mondo insegnante; sia perché molti sono entrati nella scuola senza “vocazione”, e quindi danno poco a livello qualitativo, sia perché hanno scarso senso del dovere o una mentalità chiusa, sia perché essendo cresciuto il livello medio di cultura, l’insegnante ha perso quella posizione di elìte che un tempo rivestiva. Alcuni danno la colpa alla società, perché, o non comprende più l’alto valore dell’insegnamento, o perché è troppo impregnata di fattori politici. Altri ritrovano motivi di declino nella crisi generale della famiglia e della scuola, nella perdita di valori fondanti, tradizionali.

In base all’analisi delle concezioni degli intervistati sul prestigio della loro professione, gli autori delineano tre modelli di risposte o tendenze: 1) una concezione idealistica dell’insegnamento,

“ caratterizzata dall’impiego di categorie di riferimento individuali e da un modello di legittimazione della scuola come promotrice di elevazione spirituale e propagatrice della cultura con la quale al tempo stesso si identifica, proponendosi perciò come fine e non come strumento”;16

2) una concezione funzionalista, che si caratterizza per l’impiego di categorie di riferimento

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sociali: forza-lavoro, dequalificazione professionale, mobilità sociale, esigenze sociali ecc e che legittima l’insegnamento e la scuola come strumento di formazione tecnica e di socializzazione al servizio del progresso e del benessere sociale; 3) una concezione progressista

“ che mette al centro del problema la stratificazione sociale, i rapporti di potere e cerca una legittimazione come servizio pubblico nell’ambito di una società in cui l’equilibrio fra le classi si sposti progressivamente a favore dei lavoratori”17.

E così concludono:

“mentre è certo che pochi sono gli insegnanti che in qualche modo si rifanno al terzo modello, non siamo in grado di stabilire se quello prevalente è il primo o il secondo. […] Rispetto al passato, anche recente, si ha comunque l’impressione che la concezione del tipo “funzionalista” abbia fatto strada”18

3.1.5 - Rapporti con i genitori e organi collegiali. La famiglia viene chiamata in causa anche per i problemi insorti dopo i Decreti Delegati, con la nascita degli Organi collegiali dei genitori che hanno comportato un’intromissione di essi nel lavoro degli insegnanti. La ricerca ha previsto infatti una parte specifica per indagare sulle reazioni e impressioni degli insegnanti riguardo alla presenza dei rappresentanti dei genitori. Questo aspetto è nella maggioranza dei casi una fonte

17 ivi, p 91 18 ivi p 91-92

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di disagio e una sorta di defraudazione di quelli che sono considerati compiti esclusivi del docente. Da un’indagine del CENSIS effettuata nel 1976 sugli eletti del Consiglio di Istituto, risulta che

“[…] ben il 68% degli insegnanti eletti in questo organo è d’accordo con l’affermazione: I genitori non hanno preparazione adeguata per poter dare giudizi in merito a quello che devono fare gli insegnanti.”19

C’è la tendenza tra gli insegnanti ad attribuire qualità negative ai genitori, che vanno dall’accusa di troppa intromissione, generalmente sotto la spinta di interessi specifici ed individuali del singolo alunno, all’aspetto opposto, ovvero, di disinteresse e indifferenza da parte dei genitori alla possibilità di interagire con gli insegnanti, per la volontà di delegare, quasi esclusivamente, anche quelle funzioni educative che apparterrebbero strettamente alla famiglia. Nonostante ciò, la maggioranza dei docenti ha fiducia nella possibilità dei genitori di rivestire un peso non indifferente, soprattutto per quanto riguarda l’apporto della conoscenza dell’alunno, per un aiuto educativo e un supporto emotivo, o non fosse altro che per una collaborazione a livello materiale nell’organizzazione e

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funzionamento della scuola. Una minoranza (10%) di insegnanti considera invece l’apporto dei genitori come una sorta di intrusione in un ambito che non appartiene loro, e viene vissuto come una minaccia alla loro posizione.

Per quanto riguarda la creazione degli organi collegiali, gli autori sostengono che non c’è stato un fenomeno di “rigetto” del cambiamento, semmai

“il fenomeno dominante fra i nostri insegnanti[…] sembra essere il disinteresse”20.

E questo vale sia per coloro che ci credevano e sono rimasti delusi sia per quelli che sono rimasti soddisfatti del mancato cambiamento sostanziale. In realtà le concezioni che stanno alla base delle attribuzioni agli organi collegiali tradiscono o una visione “vecchia” del ruolo del genitore nella scuola (l’ “ora di ricevimento”) o una concezione secondo la quale si contrappone in modo insanabile la propria competenza professionale (l’“esperto”), alla incompetenza, alla impreparazione, al particolarismo dei genitori (“profani”). Insomma,

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“nel momento in cui l’autorità professionale […] è anche solo sfiorata, l’insegnante sente il bisogno di tracciare una netta distinzione fra addetti e non addetti ai lavori”.21

E così gli autori concludono:

“pensiamo di poter concludere che l’esperienza degli organi collegiali sembra avviata verso una progressiva perdita di vitalità, verso una lenta morte per indifferenza”.22

3.1.6 - La disponibilità al cambiamento.

Di fronte al clima generale di disagio, la ricerca cerca di accertare la volontà di cambiamento all’interno della scuola: la maggioranza degli insegnanti risulta d’accordo con l’innalzamento a sedici anni dell’obbligo scolastico, contraria all’uso più “morbido” della bocciatura perché sostanzialmente necessaria sia nell’interesse dell’alunno che della scuola, favorevole all’abolizione degli esami di riparazione e all’immissione dei corsi di recupero. Di fronte alla proposta di scegliere una possibile “ristrutturazione della secondaria superiore”, ben il 44% si dichiara favorevole ad un biennio unitario che permetta di accedere a qualsiasi tipo di triennio, e subito dopo, con una percentuale del 31% viene la proposta di un biennio unitario ma con materie alternative che condizionino l’accesso ai vari tipi di triennio. Rimangono in minoranza,(con percentuali

21 ivi p 144 22 ivi p 145-146

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intorno al 10%), sia la proposta conservatrice di una scuola secondaria superiore con indirizzi diversificati fin da subito e per tutto il corso dei cinque anni, sia la proposta opposta di una scuola unitaria per tutto il quinquennio, con possibilità di passare da un indirizzo all’altro.

Altri dati interessanti sono il rifiuto del controllo dell’attività didattica da parte del preside vissuto come una figura “burocratica”, sia pure con una immagine distorta dal rapporto di strutturale subordinazione gerarchica fra le due autorità. Secondo gli autori,

“alcuni dati sembrerebbero indicare il prefigurarsi di un modello di insegnante contraddistinto da una dimensione professionale che nulla concede al tradizionale rapporto subalterno con l’autorità: gli intervistati più giovani che hanno realmente scelto l’insegnamento come professione appaiono i più ostili alle consuete forme del controllo burocratico”23

Un altro risultato interessante è che l’insoddisfazione per l’attuale(1976) assetto della scuola è cresciuto dal 1971. Coloro che sostengono la necessità di “grandi riforme” passano dal 46,8% al 58,4% nel 1977, con una forte minoranza, però, che preferisce “tranquillità e continuità”. In generale sono più disponibili al cambiamento quegli insegnanti che

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considerano vecchia e superata la normativa disciplinare, che sono meno propensi alla selezione e che sono meno “autoritari”.

Per quanto riguarda alcuni temi specifici, poi, vi è da sottolineare che i favorevoli all’innalzamento dell’ età dell’obbligo scolastico a 16 anni passano dal 77,9% al 71,9% nel 1977; che i favorevoli a una minore selezione all’inizio della scuola media superiore aumentano dal 45,3% al 58,5%, che i favorevoli al “valore educativo” del voto diminuiscono dal 64,9% al 46,6%.

Tuttavia, analizzando le risposte alle domande “aperte”, gli autori arrivano ad alcune conclusioni abbastanza sconfortanti. E’ vero che la disponibilità ad accettare innovazioni su temi specifici è aumentata. Tuttavia, nonostante il crescente malcontento, tale disponibilità non riesce a tradursi in una reale domanda di cambiamento di “grandi riforme” della scuola. Rispetto alla riforma, per es., in genere il livello di informazione era basso e il disinteresse alto. Per spiegare questa contraddizione tra l’insoddisfazione crescente(più del 56%), vuoi a livello retributivo vuoi a quello del prestigio, da un lato, e dall’altro la debolezza

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di una vera e propria domanda di cambiamento, gli autori ipotizzano i seguenti fattori esplicativi. Da un lato, fattori culturali come l’ethos piccolo-borghese impiegatizio degli insegnanti (rinchiusi in un estremo individualismo, in atteggiamenti che rimandano a idee di “rispettabilità”, “perbenismo”, “deferenza” verso l’autorità, ”propensione all’ordine” come migliore medicina nelle situazioni di disagio individuale e collettivo. Dall’altra parte, gli autori sottolineano l’ operare di potenti fattori strutturali che ostacolano una risposta collettiva, strutturale, coerente e lucida ai propri disagi. Per esempio fattori come la “segregazione” dell’attività insegnante(in classe), la consuetudine al rapporto di subordinazione e il fatto che per molti la professione è solo una “seconda occupazione”(ciò che favorisce le soluzioni individualistiche del disagio personale).

3.2 - Gli insegnanti del 2000

In questa parte analizziamo la ricerca: Gli insegnanti nella scuola che cambia. Seconda indagine IARD sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana, a cura di Alessandro Cavalli.

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IARD è un Istituto nato nel 1961,specializzato nel campo della ricerca sui processi culturali, educativi e formativi, e le sue attività riguardano principalmente tre tematiche: la condizione giovanile, le politiche socio-culturali, gli interventi didattico-pedagogici. Già nel 2000 l’Istituto aveva realizzato, per la prima volta in Italia, un’indagine sugli insegnanti della scuola italiana. A distanza di circa un decennio, agli inizi del 1990, abbiamo la seconda indagine sul corpo docente in Italia condotta, per conto del Ministero della Pubblica Istruzione, su di un campione di 7.400 insegnanti delle scuole statali e non statali di ogni grado.

3.2.1 - Femminilizzazione, invecchiamento e appartenenza sociale.

Nel primo capitolo del libro citato, si analizzano i vari aspetti della condizione sociale degli insegnanti appartenenti ad ogni gradino della scuola italiana, dalla materna alla secondaria superiore, perché considerati importanti

“[…] indicatori del grado di centralità o, all’opposto, di marginalità che il nostro paese assegna all’insegnamento come professione.”24

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Dalle interviste effettuate risulta che la presenza di donne tra il personale docente è in continua crescita in tutti gli ordini e gradi del sistema scolastico. Abbiamo già detto, analizzando la ricerca di Dei e Cobalti di come il fenomeno di femminilizzazione sia, nel nostro sistema sociale ancora segnato da disparità di genere, un indice di declino della desiderabilità sociale di questa professione. A riconferma di questo, inoltre, i dati segnalano una riduzione del numero delle insegnanti a partire dalla materna per arrivare alla secondaria superiore.

Per quanto riguarda l’età, gli anni di nascita degli intervistati vanno dal 1929 al 1978 e l’età media che ne risulta è di 47 anni. Questo vuol dire che la metà degli insegnanti della ricerca è nata prima del 1953. La bassa presenza di soggetti giovani nel corpo docente è motivata anche dalla forte diminuzione delle possibilità di entrare nell’insegnamento da un paio di decenni a questa parte, dalla crisi fiscale dello stato e dalle strategie poco riuscite di reclutamento degli insegnanti. In conclusione, nel corso del tempo il corpo docente non solo si più femminilizzato ma è anche più invecchiato.

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La ricerca, anche in questo caso, si occupa poi delle origini sociali degli insegnanti, prendendo come indicatore della posizione sociale della famiglia d’origine, l’occupazione del padre o della madre, quando essi avevano 14 anni. Le posizioni sociali sono così suddivise :

“[…] La borghesia, o classe di servizio, raggruppa gli imprenditori, i liberi professionisti e gli alti e medi dirigenti della pubblica amministrazione e delle imprese. La classe media impiegatizia riunisce tutti gli impiegati di concetto, insegnanti compresi, e gli impiegati esecutivi ad alto livello di qualificazione. Nella piccola borghesia urbana sono stati collocati i lavoratori autonomi (con 14 dipendenti o meno) dell’industria e del terziario. Della piccola borghesia agricola fanno, ovviamente, parte i coltivatori diretti con o senza dipendenti. La classe operaia, infine, è costituita dai lavoratori manuali di ogni settore ai quali sono stati aggiunti gli impiegati esecutivi e, più in generale, i lavoratori non manuali a basso livello di qualificazione.”25

Dai dati ottenuti emerge che in Italia si è verificata una riduzione netta dei docenti che provenienti da una classe media o superiore, mentre è in aumento il numero degli appartenenti alle classi inferiori: quindi pare corretto affermare che l’origine sociale media degli insegnanti si sta spostando verso il basso. E’ rilevante in questo ambito di indagine notare l’influenza del grado di scuola in cui si insegna: è da notare infatti una maggiore presenza di soggetti originari della classe media impiegatizia e della classe di

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servizio passando dalla scuola materna alla scuola secondaria superiore. Questo dipende in parte dalle maggiori possibilità di accesso a un titolo di studio superiore, necessario per insegnare nei gradi più alti per gli appartenenti alle classi più agiate.

Anche il genere è qui una variabile molto influente. La proporzione degli insegnanti appartenenti alle classi più elevate, infatti, è quasi la metà rispetto alla quantità delle colleghe appartenenti alla stessa classe sociale:

“si può dunque, asserire che sono soprattutto gli uomini di origine sociale elevata a non apprezzare l’insegnamento e che questo fatto si configura, giuste le nostre precedenti considerazioni, come un altro segno della ridotta appetibilità sociale della professione docente nell’Italia di oggi.”26

Dando uno sguardo alla composizione degli insegnanti a seconda della classe occupazionale dei coniugi, risulta innanzitutto, come precedentemente nella ricerca di Cobalti-Dei degli anni 70, che la propensione degli insegnanti a sposare un collega o comunque un appartenente alla classe impiegatizia è molto alta: si può parlare anche in questo caso di una tendenza all’ omogamia professionale. Inoltre le insegnanti si sposano più spesso con uomini che hanno

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un’occupazione più prestigiosa rispetto alla loro, mentre per i colleghi accade il contrario. Questa è effettivamente una situazione comune ad ogni professione in società anche evolute economicamente come la nostra a causa sia della permanenza di retaggi culturali, sia per l’ancora difficile ascesa delle donne nella gerarchia sociale. E’ vero comunque che dalla ricerca emerge che la differenza tra insegnanti donne e uomini che si sposano in alto è veramente ampia:

“parrebbe quindi che la professione di insegnante innalzi sensibilmente l’appetibilità matrimoniale, se così si può dire, delle donne, e deprima quella degli uomini.”27

Tenendo conto dell’ età degli insegnanti e quindi del periodo più o meno recente della contrazione del matrimonio, vediamo che l’omogamia educativa decresce con il passare del tempo. Più precisamente, mentre tra i docenti più anziani la percentuale di quelli che hanno sposato soggetti con lo stesso livello di istruzione è quasi dei tre quinti, tra le classi di età intermedia, detta percentuale passa bruscamente a circa la metà, per declinare ancora tra la fascia più giovane.

27  ivi, p 41

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3.2.2 - La carriera professionale.

La carriera di insegnante è di tipo esclusivamente burocratico, essendo regolata in via esclusiva da percorsi amministrativi che non dipendono dalle particolari capacità della singola persona. L’insegnante medio italiano si è avvicinato alla professione molto presto. Circa la metà degli intervistati è entrata nella scuola prima dei 25 anni e solo meno di un quinto ha svolto un altro lavoro stabile in precedenza, senza rilevanti differenze a seconda del grado di insegnamento e del genere. Solamente il gruppo costituito da insegnanti di materie tecniche e professionali delle scuole secondarie superiori vede un alta percentuale di docenti che ha svolto altri lavori prima di insegnare.

Per quanto riguarda il momento precoce o meno dell’abbandono del precariato, è da rilevare il fatto che l’ entrata in ruolo ha un carattere indiscriminato e burocratico, non influenzato dal livello di preparazione culturale degli insegnanti, dal loro titolo di studio o dalle loro esperienze professionali precedenti. Questo, però, non pare influenzare molto la scelta di un secondo lavoro, in un paese come l’Italia, in cui, per quanto

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riguarda il terziario pubblico, questa è un’abitudine molto diffusa. Le lezioni private sono state per un lungo periodo una fonte importante per incrementare i salari degli insegnanti, ma la soppressione degli esami di riparazione ha essiccato quasi totalmente tale fonte. L’attività delle lezioni private riguarda solo un ventesimo degli intervistati.

“In compenso, le attività professionali costituiscono, in media, il secondo lavoro di un settimo circa del corpo docente italiano e, del tutto comprensibilmente, di oltre un quarto(27,1) di quello che opera nelle secondarie superiori. Si noti che ad ogni livello del sistema scolastico, sono soprattutto gli insegnanti uomini a svolgere attività professionali.”28

Naturalmente, ciò è in linea con le disparità di genere nelle opportunità di partecipazione al mercato del lavoro. Ma dipende anche da altri due fattori:

“[…]si tratta del fatto che i docenti sono coniugati con persone prive di impiego più frequentemente delle loro colleghe. Si ricorderà,inoltre, che le insegnanti sono sposate con soggetti appartenenti alle classi superiori assai più spesso della loro controparte maschile. Le loro famiglie hanno, dunque, minore bisogno che esse integrino il loro reddito principale svolgendo altre attività professionali”.29

In conclusione, il fenomeno del “secondo lavoro” continua nel tempo e persiste, anche se è minoritario:

“[…] forse i vantaggi garantiti dal posto fisso, soprattutto in un periodo di espansione dei cosiddetti contratti atipici di lavoro dipendente, e la presenza, in molti insegnanti, di una

28 ivi p 58-59 29 ivi p 59

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genuina vocazione all’insegnamento hanno aggio sugli aspetti negativi della loro professione”.30

In conclusione, oltre che i processi di femminilizzazione e di invecchiamento(scarsa dinamicità della professione e bassa desiderabilità sociale), nonché l’abbassamento delle origini sociali del corpo docente (cioè una professione meno ambita da chi proviene dalle classi superiori e medie), uno dei fattori che determina la caduta di desiderabilità sociale della professione è appunto la forte burocratizzazione della carriera, in particolare della transizione dal precariato alla posizione di insegnante di ruolo, che è un sistema non equo e non efficiente. Secondo gli autori, i dati dimostrano che gli insegnanti

“siano stati fin qui trattati più come impiegati addetti a mansioni di routine e meno come specialisti incaricati di trasmettere il patrimonio culturale consolidato della nostra società”.31

Ed è ancora più preoccupante il fatto che tale mentalità di stampo impiegatizio sia diventata interiorizzata negli insegnanti: di fronte alle recenti proposte di distinguere ruoli lavorativi, trattamenti economici ed opportunità di carriera, in base alle effettive competenze professionali, c’è stata infatti una

30 ivi p 59-60 31 ivi p 62

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forte opposizione tra i docenti e nei sindacati. E’ anche in questo atteggiamento che

“[…] vanno rintracciate le cause dell’ormai trentennale declino degli insegnanti italiani verso le posizioni inferiori della stratificazione occupazionale.”32

3.2.3 - La formazione e l’aggiornamento.

Uno dei punti cruciali sui cui si sofferma la ricerca è la formazione degli insegnanti, che da sempre è un tema delicato e molto dibattuto tra gli studiosi sul quale si incentrano forti recriminazioni degli insegnanti stessi. Ciclicamente ci sono stati tentativi di tamponamento dell’inadeguatezza della formazione dei docenti, dovuta a cause sia interne che esterne alla scuola, che però non hanno sortito risultati rilevanti. Questa ricerca ha cercato di verificare il rapporto degli insegnanti con la formazione di base e con le attività di aggiornamento e ha rilevato che

“il livello culturale generale degli insegnanti delle secondarie superiori si conferma più alto di quello degli altri gradi scolastici.[…]”33.

La formazione iniziale è considerata insufficiente sotto tutti gli aspetti dalla grande maggioranza degli

32 ivi p 62 33 ivi p64

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insegnanti di ogni grado scolastico. Secondo gli autori, i dati mostrano

“la preoccupazione degli insegnanti per la carenza di competenze nelle tecniche di trasmissione della conoscenza( le abilità didattiche) cui si aggiunge una crescente attenzione per la necessità di una preparazione generale sui problemi educativi, specialmente avvertita dai maestri elementari, che rispecchia la sempre più diffusa consapevolezza della complessità dei rapporti con gli alunni di oggi.”34

Il giudizio sulle attività di aggiornamento è invece generalmente positivo con percentuali, però, che calano via via che si passa dalla scuola materna (73,0%)fino alla secondaria superiore (51,3%). Il corpo docente ha ormai una esperienza diffusa dei sistemi più tradizionali di aggiornamento(lezioni frontali e conferenze, lavori di gruppo ecc) mentre le forme più moderne hanno riguardato un numero trascurabile di docenti:15% per l’aggiornamento “a distanza”, 21,2% per le tecniche interattive ecc. Per quanto riguarda l’atteggiamento degli insegnanti nei confronti delle diverse tecniche di aggiornamento si ha un consenso molto alto nei confronti, ad esempio, dei “lavori di gruppo”e sulle “tecniche interattive” e un consenso basso su “conferenze” e “lezioni”.In conclusione tra gli insegnanti intervistati la maggioranza di essi ha

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sperimentato solo modalità di aggiornamento tradizionali che considera superate, ma al tempo stesso non ha ancora fruito di quelle che sono le tecniche più moderne, ritenute da loro stessi fondamentali, e di cui fanno domanda.

Il tema della formazione (iniziale di aggiornamento) e dell’insoddisfazione o meno dei docenti nei confronti di essa, unifica tutta la categoria insegnante, senza particolari distinzioni di genere, territorio, appartenenza o meno a sindacati. Tuttavia, va rilevato il maggior numero di soddisfatti in quei gradi della scuola, come quella elementare, nei quali si sono verificate effettivamente politiche di innovazione, e di converso, il numero più alto di insoddisfatti lo si ritrova

“[…]dove l’attesa di una risposta alle nuove esigenze si è prolungata per decenni.(secondaria superiore)”35.

Molto interessante è l’analisi del livello di soddisfazione a seconda dell’ immagine della professione diffusa tra gli insegnanti, ovvero, l’insegnante come professionista o come funzionario pubblico ( che svolge il proprio lavoro sulla base della sua competenza), oppure l’insegnante per “vocazione”( “sceglie la professione per svolgere una importante

35

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funzione sociale”). Secondo gli autori, l’insoddisfazione per la propria formazione è minore tra gli insegnanti “per vocazione” proprio perché essi sottolineano molto di più gli aspetti di vocazione che quelli di professionalità. Mentre l’insoddisfazione cresce tra i primi proprio perché essi sottolineano maggiormente la professionalità ( in particolare tra gli insegnanti delle materne e delle elementari che più di altri risentono di carenze formative specifiche di cui sono coscienti). Gli autori, quindi, così concludono:

“[…] gli insoddisfatti della formazione sono gli insegnanti che credono più alla professionalità e meno alle motivazioni espressivo-relazionali.[…] Sono anche coloro che manifestano la presenza ancora di una spinta al cambiamento e si possono definire come progressisti in termini non tradizionalmente legati a posizioni politiche ben definite, quanto piuttosto all’interpretazione della professione e del proprio ruolo nella scuola”.36

3.2.4 - Percezione del rapporto scuola/società, finalità e qualità dell’istruzione.

La ricerca si è occupata anche della percezione delle trasformazioni del rapporto scuola-società, delle finalità della scuola, della qualità dell’istruzione. Come percepiscono la società gli insegnanti? Come percepiscono la scuola ed il suo rapporto con la società stessa? Innanzitutto non bisogna dimenticare che l’età

36  ivi p 82

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del corpo docente italiano è relativamente anziana e questo comporta un divario generazionale abbastanza importante con gli allievi, con tutte le incomprensioni che ne derivano, in quanto le due generazioni si sono formate in periodi storici segnati anche da diversi orientamenti valoriali.

Tra una serie di sedici caratteristiche, gli insegnanti intervistati hanno scelto quelle che, secondo loro, sono in crescita, quelle stabili e quelle che invece sono in declino tra la gente. Dalle risposte sembra proprio che la percezione del contesto sociale sia, dal punto di vista valoriale, essenzialmente pessimista, dato che le caratteristiche negative (l’importanza del denaro, l’apparenza e l’immagine esteriore, il successo rapido, la furbizia, l’improvvisazione) sono considerate dalla maggioranza in crescita, mentre quelle positive (la coesione familiare, la serietà, l’onestà, l’impegno politico, l’assiduità, l’altruismo, l’attaccamento al lavoro, il merito, la capacità) vedono perlopiù risposte “in declino” o al meglio “stabili”. In sostanza gli insegnanti italiani ritengono di operare in un contesto valoriale piuttosto avvilente. Per ottenere:

”[…] il grado di ottimismo/pessimismo degli insegnati in relazione alle dinamiche valoriali della società è stato

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costruito un indice che assume valori compresi tra –15 e +15, dove –15 corrisponde al maggior grado di pessimismo e +15 al maggiore grado di ottimismo.[…] in ciascun grado scolastico circa il 90% degli insegnanti consegue un punteggio inferiore a 0 e il valore medio si trova abbondantemente nella parte negativa dell’estensione della scala.”37

I punteggi si abbassano andando dalla scuola materna alle scuole superiori e dai docenti più giovani a quelli più anziani. Inoltre più della metà dei docenti della secondaria sono “pessimisti estremi”, così come la metà dei maestri elementari con più di 50 anni. All’interno di ogni grado scolastico in generale, il pessimismo è maggiore al crescere dell’età di coloro che rispondono.

I valori percepiti dagli insegnanti della secondaria superiore come quelli più in declino rispetto alla considerazione degli stessi che hanno i colleghi delle elementari, sono l’impegno politico, la competenza professionale, il merito e la capacità, forse perché gli alunni in questa fase finale della scuola sono oramai plasmati e i loro valori sono più consolidati, mentre su quelli più giovani c’è la sensazione di poter ancora ”lavorarci sopra”. E’ inoltre interessante notare che il pessimismo aumenta tra coloro che ritengono che il

37

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prestigio della professione sia più diminuito negli ultimi dieci anni. In conclusione,

“ […] le percezioni dei docenti evidenziano dunque un forte grado di pessimismo, che peraltro presenta un profilo relativamente omogeneo in tutti i gradi dell’istruzione.[…] ”38,

anzi uno scoramento che rispetto a dieci anni fa è ancora più buio, una sorta di “sindrome di delusione e di pessimismo etico”.

Tale pessimismo si riflette anche nella percezione delle dinamiche interne al mondo della scuola, percezione che denota un certo clima di sconforto diffuso anche in questo ambito, sconforto che è anch’esso maggiore nei gradi scolastici più elevati. Gli insegnanti denunciano molti problemi quali il minore impegno nello studio dei ragazzi, la delega familiare, il deterioramento dei livelli di apprendimento, la presenza di droga, il fenomeno del bullismo e della violenza fisica(tra alunni e tra alunni e insegnanti), fenomeni che vengono tutti ritenuti in “ascesa”. Sono invece più ottimisti in relazione alla crescente presenza a scuola di ragazzi pervenuti da altre culture, anche se tre quarti degli intervistati ritengono di essere poco preparati di fronte al problema.

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Per quanto riguarda le funzioni della scuola, secondo gli intervistati, gli autori hanno individuato, per ogni grado scolastico, quattro-cinque finalità e hanno chiesto di “ordinarle”, dalle più importanti alle meno importanti. Per la media superiore tali finalità sono: a)la funzione professionalizzante(trasmissione di competenze specifiche utili per la futura attività lavorativa); b)la funzione conoscitiva(insegnamento di conoscenze basilari e di tecniche per l’apprendimento); c)la funzione socializzante(sviluppo di capacità relazionali);d)la funzione politico-culturale (trasmissione dei valori della collettività e delle forme organizzative della convivenza). Nelle medie superiori la funzione conoscitiva è quella ritenuta più importante, seguita da quella professionalizzante. Tuttavia, il fatto più significativo è che, nell’ insieme del corpo docente di ogni grado vi è

“ […] una grande varietà di orientamenti circa gli scopi generali e le priorità dell’istruzione; in nessun grado scolastico vige un forte consenso su quali siano le funzioni precipue della scuola”.39

Per quanto riguarda la percezione della “qualità” dell’istruzione emerge una “graduatoria” secondo la

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quale, secondo gli intervistati, la qualità peggiora man mano che si passa ai gradi scolastici superiori:

“[…] ben oltre un terzo dei docenti di scuola media superiore ammette che la “loro” istruzione non è tra le migliori”, mentre “ l’istruzione elementare gode di molto credito anche fra corpi docenti dei due gradi successivi, specie tra gli insegnanti di scuola media superiore”.40

Queste percezioni, come noto, sono almeno in una certa misura “realistiche”.

3.2.5 - Il prestigio sociale e l’immagine della professione.

Un altro aspetto cruciale è la questione del prestigio della professione. Che il prestigio degli insegnanti sia in declino è oramai quasi un luogo comune ed è anche paradossale:

“[…] sembra paradossale che più la scuola diventa un’ istituzione di cruciale importanza in quella che giustamente è stata chiamata la knowledge society, sempre più gli insegnanti si percepiscono come appartenenti ad un ceto il cui prestigio è in declino”.41

Per analizzare la percezione del prestigio sociale degli insegnanti intervistati, è stata costruita una “scala di pessimismo” in base alla domanda se il prestigio, ovvero, la considerazione sociale dell’insegnante, fosse

40 ivi p 113 41

(46)

aumentato, diminuito o rimasto inalterato negli ultimi dieci anni e la conclusione degli autori è inequivocabile:

“considerando l’insieme degli intervistati, dalla scuola elementare alla secondaria superiore, quasi i due terzi si dimostrano decisamente pessimisti relativamente alla considerazione sociale della categoria docente. Mentre l’età, l’estrazione sociale e culturale e il “genere” sono del tutto ininfluenti, l’area geografica di appartenenza risulta significativa, nel senso che il pessimismo decresce man mano che si scende dal Nord al Sud.”42

L’eccezione è costituita dal gruppo degli insegnanti della materna, la cui metà ritiene che il proprio prestigio sia cresciuto nel tempo: molto probabilmente essi si trovano oggi in un momento in cui, rispetto al passato, stanno diventando docenti a tutti gli effetti, al contrario del resto degli insegnanti, in special modo di quelli della secondaria superiore, che hanno via via assistito ad un calo del proprio prestigio sociale.

Per ottenere dati riguardo a come gli insegnanti percepiscono la loro professione, è stata creata

“[…] una tipologia che proponeva agli intervistati quattro diverse interpretazioni della figura dell’insegnante: un professionista che fornisce dei servizi sulla base di competenze specialistiche, un impiegato come tanti altri, un funzionario che svolge una funzione pubblica sulla base delle proprie competenze, una persona che ha scelto di svolgere un’importante funzione sociale.”43

42

 ivi p 120 43 ivi p 124

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Gli intervistati , poi, sceglievano tra queste “figure”: a)quella a cui si sentivano più vicini ( rappresentazione soggettiva); b)quella che oggi

esprime la condizione oggettiva degli

insegnanti(rappresentazione oggettiva) e c)quella che dovrebbe rappresentarne meglio l’immagine (rappresentazione ideale). Il dato più significativo che emerge è che:

“[…] mentre la consapevolezza soggettiva e il dover esser della figura docente coincidono largamente, la percezione attuale della condizione degli insegnanti diverge, invece, in modo profondo: quasi nessun intervistato si sente un impiegato e ancor meno pensa che questa possa essere la definizione ideale di tale ruolo, ma oltre la metà (in crescendo dalle elementari alle secondarie superiore) ritiene che questa sia effettivamente la situazione attuale”.44

Per quanto riguarda appunto l’identificazione propria dell’insegnante, le risposte professionista e persona con funzione sociale ottengono, sommate, in ogni grado, più dell’ 80% delle risposte con percentuali molto simili. Confrontando i risultati di questa ricerca con quella di una decina di anni prima, si ha un aumento delle risposte “professionista” rispetto a quelle di “funzionario” sociale ed una riduzione forte della risposta “impiegato”. Ciò è anche dovuto agli effetti dell’autonomia scolastica che in questo periodo sta

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iniziando ad avere i suoi effetti. Per quanto riguarda il “genere”,

“[…] l’appartenenza di genere sembra ancora influire sull’immagine ideale, nel senso che la figura del professionista è tuttora più maschile che femminile[…]”45,

ma mentre questa divergenza è molto forte nella secondaria superiore, nella materna è quasi capovolta, considerando i pochi maestri uomini, forse per un desiderio di professionalizzazione e abbandono della figura materna, propri delle maestre. Inoltre la considerazione dell’insegnante come persona che svolge una importante funzione sociale è maggioritaria solo al Sud.

3.2.6 - Motivazione, identificazione professionale e soddisfazione.

Nelle ricerche effettuate sui docenti dagli anni ’60 in poi, come abbiamo visto anche a proposito di quella di Barbagli-Dei e Dei-Cobalti, si è scelto di costruire un incrocio tra la motivazione all’insegnamento e l’identificazione nella professione, ovvero l’intensità da parte del docente di sentirsi attualmente bene nel suo ruolo. Ne escono quattro tipologie: il motivato persistente, il motivato deluso, il

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non motivato adattato e infine il non motivato non adattato. Dal confronto temporale risulta che

“rispetto alle ricerche degli anni settanta, anche se le modalità di rilevazione sono un poco diverse, si nota un cambiamento radicale: allora i non motivati non adattati erano diventati il gruppo prevalente (37,0%)” 46

mentre adesso sono appena l’11%, invece i motivati persistenti sono aumentati fino a costituire quasi la metà degli insegnanti. Comunque,

“il cambiamento più considerevole avvenuto nell’ultimo decennio è sicuramente quello relativo al forte incremento dei motivati delusi:essi, che negli anni settanta non superavano il 10%, rappresentano attualmente quasi un quarto degli insegnanti.”47

Per quanto riguarda il “genere”, le insegnanti, essendo di solito più motivate, sono più presenti nel gruppo dei motivati persistenti e delusi, mentre i loro colleghi sono in numero maggiore tra i non motivati adattati. I motivati persistenti, poi, trovano il loro gruppo più numeroso nelle elementari, e quello minore nella secondaria superiore.

Agli insegnanti è stata poi sottoposta una serie di domande che volevano cogliere gli aspetti del loro lavoro che causano maggiore insoddisfazione e quindi stress. In una società in rapida trasformazione, come la

46

 ivi, p 130 47 ivi p130

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nostra, infatti, l’insegnamento, come anche altri ruoli, è sottoposto a tensioni perché :

“[…] le aspettative nei confronti del docente da parte di quanti occupano posizioni ad esso connesse(dirigente scolastico, colleghi, studenti e famiglie) sono sempre meno chiare e definite e rischiano molto spesso di rivelarsi contraddittorie”.48

L’insoddisfazione maggiore (e in aumento) riguarda la retribuzione, ma è notevole anche per l’organizzazione didattica e la dirigenza scolastica, ad eccezione di materne ed elementari dove i docenti sono perlopiù soddisfatti delle attrezzature messe a loro disposizione e dell’organizzazione, e in numero ancora maggiore dei propri dirigenti.

Insegnare nella scuola media e nella secondaria superiore, soprattutto nei licei, aumenta la percentuale di insoddisfazione dovuta all’organizzazione scolastica, così come insegnare sempre nella scuola secondaria superiore e l’essersi pentiti della scelta lavorativa effettuata, influisce sulle maggiori risposte che vedono una maggiore insoddisfazione nei riguardi della dirigenza scolastica.

L’insoddisfazione risultante soprattutto dai cattivi rapporti con allievi e genitori è maggiore tra le

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