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CAPITOLO TERZO

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Academic year: 2021

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CAPITOLO TERZO

IL METODO EVA 3.1 Premessa

L'EVA (economic value added) è un indicatore studiato negli anni '90 dall'economista americano Bennet Stewart, per la valutazione dell'operato del management e, più in generale, anche della capacità dell'azienda di creare e distruggere valore.

L'EVA va comunque considerato non solo come semplice misura di performance, ma deve essere anche reputato come il fondamento di una nuova gestione finanziaria al livello corporate, che guida l'azienda per le decisioni di “capital baggeting” e alla predisposizione del badget operativo annuale. Questa metodologia consente anche di allineare gli interessi degli azionisti con quelli dei menagers, in ragione del fatto che la retribuzione dei primi è legata al valore assunto dall'EVA nel periodo considerato.

Sempre più aziende italiane lo utilizzano come strumento operativo per valutare ,sia l'allocazione delle risorse tra diverse alternative di investimento, sia i risultati conseguiti.

Per la misurazione della ricchezza creata o distrutta, l'EVA utilizza un approccio “asset side” fondato sulla capacità dell'azienda di offrire un extra profitto all'intero capitale investito.

Questa extra remunerazione residua dopo aver retribuito: i soci, la struttura tecnica e organizzativa, i terzi finanziatori e lo stato (in termini di imposte da pagare). Proprio per queste caratteristiche l'EVA viene considerata una misura moderna di performance, in quanto riesce a soddisfare gli interessi delle varie categorie di interlocutori sociali. Molto spesso la misura dell'EVA può essere confusa con quella del profitto economico (economic profit); esistono però differenze marcate quando si vanno ad analizzare più nel dettaglio i determinanti della formula, in quanto nel calcolo del profitto economico non vengono

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effettuate, come succede nel l'EVA, le correzioni al “NOPAT” e al capitale investito.23

Il profitto economico, infatti, proprio per queste limitazioni provoca una distorsione della rappresentazione della performance d'impresa. L'azienda può rappresentare, tramite il rapporto EVA t / EVA t – 1, la propensione dell'impresa a creare valore nel tempo.

L'EVA quindi è diventata la misura di performance più adatta in un contesto produttivo allargato, soprattutto dove i vari interessi degli Stakeholder si scontrano in modo più arduo.

Di conseguenza l'utilizzo dell'EVA:

• consente di individuare le leve per ogni tipo di azione manageriale e di

stabilire, allocandole in maniera precisa, le varie responsabilità per il conseguimento degli obiettivi aziendali;

• consente al management di individuare dei puntuali obiettivi, in modo da

poter permettere all'organizzazione di verificare ex post il loro grado di raggiungimento;

• permette di stabilire la remunerazione del management in base al livello di

successo individuale nel raggiungimento degli obiettivi;

• persegue una politica che metta continuamente in correlazione

l'allocazione delle risorse alla creazione di valore e la ricchezza per gli azionisti;

• obbliga il management a valutare ogni progetto di investimento non solo

in base alla sua redditività assoluta, ma al costo per finanziare sia i nuovi investimenti che lo stock di capitale esistente.

Al fine di rendere operativi in azienda i concetti, sia metodologici che pratici di creazione di valore per gli azionisti e per l'accrescimento del capitale economico, andrà analizzata nel dettaglio anche la struttura organizzativa di un EVA Company.

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3.2 La struttura organizzativa aziendale

La struttura principale di un'azienda EVA oriented dispone di una configurazione di attività, che è possibile scomporre in una serie di unità in grado di funzionare separatamente le une dalle altre, adottando una forma organizzativa decentrata dove l'alta direzione corporate si occupa di governare lo sviluppo delle attività aziendali e di orientare l'azione del management verso politiche premianti. Tutto questo, attraverso la diffusa adozione dello strumento della delega, consente di incentivare le singole attività aziendali al raggiungimento degli obiettivi prestabiliti; quindi l'attività strategica svolta dalla corporate si affianca a quella delle strategic business units, che gestiscono i prodotti negli ambiti operativi a loro assegnati.

La struttura corporate può essere scomposta in quattro organi.

Il vertice strategico costituito nelle società per azioni dall'amministratore delegato, il consiglio di amministrazione e il direttore generale; quest'ultimo decide la strategia aziendale e gestisce il portafoglio delle attività dell'impresa. Quando, in ambito societario si parla di strategia, si intende quell'insieme di attività che portano alla creazione di valore per gli azionisti. Esso è un concetto che rappresenta tecnicamente un' obiettivo assai più evoluto rispetto alla semplice massimizzazione del profitto.

Il corporate management ha il compito di collegare e di rapportare le decisioni del vertice strategico con gli altri organi aziendali, deputati a realizzare le varie tattiche gestionali.

La tecnostruttura ha un compito di estrema importanza poiché comprende tutti quegli organi aziendali che sono da ausilio al vertice strategico. Essa svolge attività di programmazione, controllo, coordinamento e regolazione di tutti i processi aziendali; inoltre garantisce l'autonomia delle singole divisioni locali, le quali hanno finalità della creazione del valore.

I servizi di supporto sono organi che facilitano e assistono il funzionamento delle attività che vengono svolte dai nuclei operativi.

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amministrative, svolge anche attività di assistenza legale, fiscale, del lavoro alle varie Business units. Per tutti questi servizi viene applicata una provvigione in percentuale al fatturato lordo conseguito alle singole BU.24

I costi comuni vengono imputati alle Business Units in base all'utilizzo che ne viene fatto. Quando una Business Unit intende non avvalersene, deve dare congruo preavviso in modo da poter consentire al corporate di allocare tali risorse in maniera più proficua.

Attraverso tale forma organizzativa, il middle management, svolge un ruolo fondamentale in quanto funzione di interscambio tra il governo dell'azienda a lui sovra-ordinato e le varie Business Units; può quindi adottare tutte quelle iniziative imprenditoriali necessarie per gestire con efficienza ed efficacia i processi aziendali in un contesto ambientale incerto.

Un ulteriore spunto di riflessione può derivare dall'analisi della creazione del valore (EVA), raggiunto dalle singole Business Units (ASA). Per far ciò è doveroso ricordare la matrice Boston Consulting Group, che viene costruita rapportando due importanti variabili:

 tasso di crescita del mercato;  quota di mercato relativa;

Sulla base di queste due importanti variabili viene costruita una matrice che può essere così rappresentata:

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Sulla base del valore del EVA, creato nelle singole ASA, si possono avere importanti informazioni su quelle Business Units che creano o distruggono valore.

Esse possono essere rappresentate nel seguente grafico

STAR: business che crea più valore del capitale investito QUESTION MARK: business che crea lo stesso valore del C.I.

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DOG: business che distrugge valore

Come si può evincere dal precedente grafico, le ASA Star creano più valore del capitale investito; le ASA Question Marks generano il medesimo valore del capitale impiegato; le ASA Cash cows creano minor valore del capitale impiegato; invece le ASA dog distruggono valore.

Secondo l'approccio del Boston Consoulting Group le Business Units mature denominate “cash cows” dovrebbero finanziare la crescita delle question marks al fine di farle diventare delle star. Molti economisti, invece, ritengono che ogni Business Units dovrebbe essere autonoma, con particolare riferimento al grado d'indebitamento e alle finalità di finanziamento.

Ogni BU deve avere un proprio rapporto di leverage e deve responsabilizzarsi sul WACC, in modo da evitare il rischio di un reinvestimento improduttivo del cash flow prodotto.

Il management deve essere in grado di concentrare la propria attenzione sui free cash flow anziché sul margine di contribuzione. In questo modo si cedono gli assets poco produttivi e si eliminano dannose sovvenzioni interne usate per finanziare le ASA dog che assorbono denaro senza produrre un investimento superiore al WACC.

Quando il Corporate ha accertato che sono stati accettati tutti i progetti, con un prudente grado d'indebitamento, che creano valore per gli azionisti, provvede a distribuire a questi ultimi i surplus di cassa prodotti dalle BU cash cows . Con questa metodologia di assegnazione dei surplus si vanno quindi ad eliminare le sovvenzioni interne verso ASA dog che distruggono valore.

Le sovvenzioni interne possono essere di tre tipologie:

• sovvenzione interna economica: si verifica quando all'interno dell'azienda

un ASA finanziaria concede in locazione degli immobili ad una BU operativa senza addebitare alcun canone per affitti figurativi a quest'ultima. In tal caso il risultato finanziario dell'ASA operativa sarà viziato da tale sovvenzione interna;

• sovvenzione interna operativa: si verifica quando un ASA è in perdita e il

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BU cash cows;

• sovvenzione interna strategica: si verifica quando si vanno a finanziare le

ASA dog con errate scelte di capital budgeting mentre non si concedono finanziamenti alle ASA stars.

Ai managers devono essere concessi dei premi in caso di creazione di valore per gli azionisti a livello decentrato di ogni singola ASA; in caso di fallimento invece dovrebbe essere prevista una penalizzazione.

Il risultato a cui aspira ogni manager di massimizzare l'EVA per gli azionisti, potrebbe essere seriamente compromesso nel momento in cui l'attenzione del Corporate si focalizza solo sui margini di contribuzione previsti da ogni singola BU. Infatti con tale atteggiamento si andrebbe a perdere quello spirito costruttivo di pianificazione delle future attività andando a adottare un atteggiamento conservativo orientato al breve periodo; la conseguenza sarebbe una perdita di competitività e di redditività nel lungo periodo.

3.3 EVA: principi.

L' EVA è un'indicatore di performance aziendale adottato dalle società per valutare la redditività del capitale investito attraverso i due fattori principali da cui dipende:

• ROIC = Return on invested capital;

• WACC = Weighted Average Cost Of Capital;

Per l'azienda non è conveniente basarsi sul Roic poiché non é un indicatore rappresentativo della capacità dell'impresa di creare o distruggere valore. Essa si deve basare sull'EVA, ossia quanto residua agli azionisti dopo aver sottratto dal reddito contabile gestionale la remunerazione di tutto il capitale che finanzia l'attivo patrimoniale netto.

A livello pratico, la formula utilizzata per il calcolo del'EVA è la seguente: EVA = (ROIC – WACC) · CI

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EVA = NOPAT – (WACC · CI) dove:

ROIC = si può anche indicare NOPAT/CI

NOPAT = Net Operating Profit After Taxes, si tratta del reddito operativo netto depurato dalla componente fiscale;

WACC = costo medio ponderato del capitale (rappresenta il rendimento minimo richiesto da azionisti e creditori);

CI = capitale investito.

Gli investitori devono prestare attenzione non solo in termini assoluti alla misura dell'EVA, ma devono porre l'attenzione sulle prospettive future dell'azienda. L'impresa, infatti, potrebbe aver avviato un processo di turnaround che le permette nel giro di pochi anni di riportare la misura dell'EVA verso obbiettivi importanti.

Per riuscire ad incrementare l'EVA, il management può agire su precise leve che possiamo ricondurre a tre tipi:

1) aumentare l'efficienza operativa per permettere al NOPAT di crescere senza la necessità di investire maggiori capitali;

2) investire nei progetti dove il ritorno sul capitale investito è superiore al costo medio ponderato;

3) dismettere quelle attività non economiche che non garantiscono un rendimento superiore al WACC; in tale ottica, le aziende dovranno riposizionarsi sul proprio core business garantendo un immediato

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incremento di valore per i propri azionisti.

Più alta è l'abilità del manager nella gestione del capitale investito e minore difficoltà incontrerà l'azienda nel reperire capitali addizionati utilizzati per espandere i processi produttivi e creare nuove opportunità di lavoro. Le aziende che invece presentano un rendimento insoddisfacente per gli interlocutori sociali, vedranno ridurre il valore di mercato delle loro azioni.

L'EVA può essere quindi definita come una “mano invisibile” che guida i manager verso l'incremento di valore per l'azienda. Essa rappresenta:25

 strumento interno di corporate governance e gestione dei sistemi

premianti;

 unica misura attendibile di performance che garantisce una massima

correlazione con il valore di mercato, cioè il verdetto che il mercato dà del valore dell'azienda;

 strumento di corporate financial management, per ogni decisione sia

operativa che strategica;

 semplice linguaggio finanziario per le relazioni interne con i dipendenti e

per le relazioni esterne.

3.4 La determinazione del NOPAT: un importante componente dell'EVA

Il NOPAT è un reddito operativo; esso precede il calcolo degli oneri finanziari. Per determinare il NOPAT occorre eseguire una riclassificazione del Conto Economico a valore aggiunto, in quanto questa rappresentazione distingue tra costi interni ed esterni ed evidenzia ciò che rimane dopo la copertura dei costi interni. Ciò ci permette di capire come si forma la ricchezza in azienda e la sua distribuzione ai soggetti che partecipano al processo produttivo. Poiché il NOPAT è quel valore che rimane dal pagamento degli oneri finanziari, esso viene determinato con l'ipotesi che la società non sia stata finanziata tramite il ricorso a mezzi di terzi. Questo indicatore è molto importante in quanto consente all'azienda di eliminare le distorsioni finanziarie, dovute alle varie modalità di 25 Tratto dalla rivista “Analisi Finanziaria”, Atti del conveno nazionale ASFM 2000.

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finanziamento che pregiudicano la significatività di altri indicatori di performance come il ROE.

Sia il NOPAT che il capitale investito sono valore di derivazione contabile, che per poter essere correttamente utilizzati per la determinazione dell'EVA, devono subire delle correzioni. Una società di consulenza “Stern Stewart” propose ben 164 aggiustamenti definiti “ equity equivalents”. Tali aggiustamenti furono successivamente semplificati, considerando solo quelli che presentavano determinate caratteristiche:26

 le correzioni devono essere eseguite in base a informazioni facilmente

reperibili;

 le rettifiche devono neutralizzare le scelte discrezionali adottate dal

management;

 le rettifiche devono essere facilmente comprensibili dai vari soggetti

all'interno dell'azienda;

 le correzioni devono avere un impatto significativo sulla misura dell'EVA.

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I principali aggiustamenti che riguardano sia il Nopat che il capitale investito sono:

1) Rettifica di costi ad utilità pluriennale: molto spesso i costi di pubblicità istituzionale e i costi di ricerca e sviluppo vengono contabilizzati in Conto Economico per motivi fiscali e di prudenza. In realtà essi rappresentano un investimento necessario per ottenere benefici futuri. Attraverso questo aggiustamento riusciamo a diminuire la tendenza dei manager a migliorare i margini di redditività nel breve periodo. E' infatti molto frequente da parte dei manager, al fine di rendere più rosea la situazione finanziaria, sottostimare tali voci di costo con conseguente offuscamento delle reali capacità dell'azienda di produrre valore. Le spese ad utilità pluriennale devono essere capitalizzate ed ammortizzate su un periodo di alcuni anni che esprime la vita utile dell'investimento, in quanto generano i loro effetti per più esercizi. Tale periodo si stima in genere di cinque anni. Alla fine della procedura occorre aggiungere al NOPAT il costo capitalizzato, imputando però la quota annua di ammortamento, mentre dall'altro lato avremo un incremento del capitale investito pari all'importo delle spese capitalizzate. Occorre quinti sempre tener conto della deducibilità fiscale degli ammortamenti.

2) Rettifica nel risultato di periodo dell'ammortamento dell'avviamento e riespressione dello stesso come componente del capitale investito. L'avviamento deve essere considerato come investimento permanente in impresa, poiché parte integrante del prezzo di acquisto di una società.27

L'ammortamento provoca distorsioni economiche poiché riduce il capitale investito di una sua componente e appesantisce l'utile. Questa rettifica si rende molto importante nei casi in cui dopo l'acquisizione di un'azienda il valore dell'avviamento della società acquistata non è stato rilevato in alcun modo. Questa situazione accade quando l'impresa è stata acquistata basandosi solo sul suo valore contabile, ossia con un approccio “pooling 27 G.B. STEWART III, La ricerca del valore: una guida per i managers,e gli azionisti, Egea, Milano 1998

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of interest”. In tal caso

deve essere considerato il valore originario dell'ammortamento, aumentando quindi il valore del capitale Investito. Il manager che propone l'acquisizione deve considerare l'intero capitale investito e prenderà la decisione solo se la remunerazione dell'acquisizione eccede il costo del capitale investito. Il valore dell'avviamento viene stimato dalla differenza del valore contabile e il valore di mercato delle azioni offerte. Poniamo che l'azienda aveva comprato una società nel 2003, contabilizzando un avviamento per 150, ammortizzabile in 15 anni. Il valore della quota di ammortamento annua risulta quindi di 10. Nei conti economici degli anni precedenti sono stati imputati degli ammortamenti per 10 · 4 = 40. Occorre quindi eliminare dal NOPAT l'effetto dell'ammortamento dell'esercizio 2007.

Bisogna ripristinare tutti i valori già ammortizzati nel tempo, in modo tale che il capitale investito nell'azienda presente sempre un avviamento pari a 150, cioè della stessa misura del costo storico. Tutte le rettifiche devono ovviamente tener conto della deducibilità fiscale dell'ammortamento.

3) Rettifica per trattamento di fondi come riserve. Alcune fondi non è corretto considerarli come passività operative, ma devono essere considerati come vere e proprie riserve di capitale netto. Sono voci create per sfruttare le opportunità fiscali o per effettuare politiche di bilancio. Esse non sono passività operative (che riducono il capitale investito) ma rappresentano una fonte che deve essere adeguatamente remunerata. Per operare tale rettifica e cogliere il reale impatto economico del fenomeno, occorre depurare il NOPAT dell'effetto della loro movimentazione (valore finale – valore iniziale del fondo). Per determinare il capitale investito, occorre aggiungere l'intero stock di fondo (il valore cumulato nel tempo di una serie di eccessi di accantonamento).

4) Rettifica per debiti TFR. I debiti per TFR sono una posta del passivo operativo che va a ridurre l'entità del capitale circolante netto. Un'altra

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interpretazione li considera come una fonte di finanziamento per l'impresa, di natura assimilabile al capitale di debito. Per questo motivo, tali debiti devono essere sommati al capitale investito. Occorre isolare la componente di rivalutazione annua, che identifica il costo finanziario per l'azienda, ed escluderla dal calcolo del NOPAT.

5) Rettifica per riconoscimento del costo operativo delle stock option. La contabilità non evidenzia i costi legati alle stock option, ma per l'azienda hanno un costo che si va a riflettere nella dilazione del valore delle azioni dell'intera società.

Per renderne più evidente l'impatto economico è possibile interpretarle come un costo pluriennale (investimento) per la motivazione dei manager: occorre quindi ammortizzarlo. Per stimare il valore delle stock option si può fare riferimento al modello Black-Scholes. Il periodo di ammortamento può essere stimato come media fra tempo di esercizio minimo e massimo. Non esiste deducibilità in quanto i valori non sono presenti in bilancio. Ad esempio, poniamo che la società abbia lanciato quest'anno un piano di incentivazione del personale con le stock option, aventi un valore stimato dal modello Black-Scholes di 60. Il periodo di esercizio medio è stimato in cinque anni. Il NOPAT viene così rettificato della quota teorica di ammortamento (60/5 = 12). Il capitale investito viene incrementato di 32, cioè la quota ancora da ammortizzare.

6) Rettifica dei debiti diversi a breve termine. Queste voci dovranno essere aggiunte al Capitale Investito in quanto rappresentano una “fonte di finanziamento”.

7) Rettifica per operazioni di leasing operativo. Tali contratti e i relativi canoni, devono essere considerati al pari dei contratti di locazione. Questi costi vengono imputati interamente al conto economico, anche se il bene acquisito il leasing non viene capitalizzato. Tale procedimento contabile porta a sottovalutare il reddito operativo. I canoni di leasing comprendono infatti, anche una quota di interessi dovuta per tutte quelle operazioni di leasing, che mi portano a sottovalutare anche le attività nette e il capitale

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investito.

Il manager in questo caso deve sommare al capitale investito il valore attuale dei canoni di locazione futuri al netto del costo di assunzione del prestito per l'azienda e d'altro canto sommare al NOPAT il valore degli interessi passivi che risultano moltiplicando il valore capitalizzato delle operazioni di leasing per il tasso di interesse applicato.

8) Rettifica dei costi di acquisizione. Essi vanno capitalizzati in quanto devone essere considerati parimenti all'investimento effettuato.

9) Vanno effettuate delle rettifiche quando sussiste un'asincronia tra il momento in cui si sostiene un investimento e quando lo stesso produce effetti positivi. L'investimento non deve essere considerato come facente parte del capitale investito. Gli interessi che sono maturati sul capitale devono essere sottratti al NOPAT. L'imputazione degli interessi a conto economico (seppur calcolati), dovrà essere sospesa fino al momento in cui l'investimento comincerà a produrre i suoi effetti positivi.

10) Le cosiddette riserve LIFO, ad esempio, vanno sommate al valore del capitale investito e, contestualmente, si deve procedere a rettificare il Nopat, aumentandolo in misura pari all'importo all'incremento della riserva LIFO per recepire eventuali incrementi o decrementi periodali che sono intervenuti in questa riserva, calcolati valorizzando le rimanenze iniziali e finali al loro valore corrente. Più precisamente si deve rettificare il capitale investito della differenza tra la valutazione effettuata con il metodo FIFO, (First In First Out), cioè dove il magazzino viene valutato a prezzi correnti, e quella effettuata con il metodo LIFO (Last In First Out). Il criterio di valutazione FIFO riesce a dare una rappresentazione più corretta del valore delle scorte.

11) Rettifiche per proventi ed oneri straordinari (ristrutturazione). Tali voci sono generate da eventi non afferenti alla gestione caratteristica, ma connessi a cambiamenti di natura strategica e/o organizzativa dell'impresa (piani di ristrutturazione, cessioni di partecipazioni, abbandono di linee di prodotto, ecc..). Queste voci non dovrebbero

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influenzare il risultato di periodo; vanno quindi capitalizzate (se negative) o portate a decremento (se positive), al netto del beneficio

d'imposta, al capitale investito.

In questi casi è necessario che il manager ne sopporti l'intero costo (minusvalenza) nell'esercizio in corso e negli anni successivi si riscontrano solo i benefici: occorre tenerne conto nel capitale investito.

Gli oneri vano quindi capitalizzati, al netto del beneficio d'imposta, in quanto sono assimilabili, in ottica economica, ad un investimento. Per i proventi straordinari va invece fatta un'operazione in senso inverso. Il NOPAT deve essere depurato del saldo annuale dei proventi straordinari. Bisogna aggiungere al capitale investito i saldi positivi (o dedurre i saldi negativi) dei proventi straordinari di tutti gli anni.

Il Nopat rappresenta una variabile basilare per la corretta determinazione dell'EVA. Tramite periodici studi empirici si è visto che se il Nopat creato dall'impresa in proporzione al capitale investito cui dispone non è almeno uguale o superiore al costo del capitale, si distrugge ricchezza ( EVA negativo), quindi per non deteriorare il differenziale r-Wacc è necessario intraprendere un approccio operativo dove l'incremento del Nopat si ha in egual misura rispetto all'incremento del capitale investito. Un'analisi più dettagliata può essere intrapresa al fine sia di ottimizzare il Nopat autonomamente considerato (cioè a prescindere da variazioni del capitale investito), se per analizzare se le variazioni del capitale investito non hanno effettivamente alcun effetto sul Nopat. Ambedue questi obbiettivi possono essere realizzati esaminando i singoli elementi che compongono il Nopat. Oltre a verificare i singoli valori del Nopat e del Capitale Investito andranno analizzate nel dettaglio le singole componenti di entrambi i valori.

Si possono fare delle considerazioni molto importanti riguardo alla misura del Nopat:

 l'aumento del Nopat provoca una crescita del patrimonio netto contabile, a

meno che tale incremento non vada esclusivamente ad alimentare i dividendi, in tal caso crescerebbe l'indebitamento finanziario netto;

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 la crescita dei costi e ricavi operativi determinano di norma un incremento

del Capitale Circolante Netto (CCN) operativo e delle immobilizzazioni tecniche nette; i flussi di autofinanziamento rappresentati dal MOL vengono pertanto parzialmente o completamente assorbiti dall'incremento del CCN operativo e degli investimenti, generando un flusso di cassa operativo netto che è al lordo della remunerazione finanziaria dei terzi creditori e dei soci;

 l'incremento del Nopat provoca un incremento delle fonti di

finanziamento. Queste ultime sono rappresentate dal Capitale raccolto contabile (patrimonio netto + debiti finanziari netti). Dal punto di vista contabile, ciò può essere visualizzato dall'incremento degli impieghi rappresentati dal Capitale investito contabile (CCN operativo + attivo immobilizzato netto);

 l'incremento del Nopat, da un punto di visto logico, genera un incremento

del capitale investito, con flussi economici e finanziari sfasati nel tempo e che a regime tendono a sovrapporsi, rendendo molto complicata la discriminazione tra causa ed effetto;

 se si vuole massimizzare l'EVA, prima di aumentare il Nopat occorre

accertarsi che l'incremento indotto nel Capitale Investito non sia più che proporzionale, al fine di non diluire il rendimento del capitale (r = Nopat/ Ci)

 un incremento del Nopat non dovrebbe avere alcun effetto sul costo del

capitale aziendale.

L'attività aziendale, secondo un approccio operativo, genera ricavi per vendite e servizi prestati alla clientela che al netto dei costi operativi e delle tasse operative unite all'integrazione annuale delle rettifiche al capitale investito, mi garantiscono la formazione del Nopat.

La corretta determinazione del Nopat è di fondamentale importanza in quanto, dal punto di vista finanziario, essa mi rappresenta la liquidità disponibile per gli investitori dell'azienda, quindi dei finanziatori e degli azionisti.

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che presuppone la rettifica del Net Profit After Taxes daglio oneri finanziari al netto del Tax Shield e della quota dell'anno delle rettifiche apportate al capitale. Prima di intraprendere l'analisi del costo del capitale (Wacc) è doveroso fare un breve cenno alla Rate Return Analysis. Un'analisi del Rate Return serve per capire meglio quali sono state le cause che hanno portato l'azienda ad avere scadenti o particolari performance in relazione ad altri concorrenti presenti sul mercato, permettendo di fare un confronto anche sul loro livello di esercizi.

Il Rate of Return può essere scomposto in tre componenti principali in base alla seguente formula:28

r = OPM · TO · (1 – CTR)

r = NOPBT/sales · sales/capital · (1 – cash operating taxes/NOPBT)

1) OPM = Operating Profit Margin, questo valore deriva dal raporto tra il risultato operativo ante imposte e il fatturato generato dalle vendite e servizi prestati dall'azienda. Rappresenta il contributo di tutte le attività aziendali al risultato economico ante imposte.

2) TO = Turnover del capitale. Rappresenta il rapporto tra il fatturato aziendale ed il capitale medio investito. Questo rapporto ci dice quanti euro di capitale investito ritornano sotto forma di ricavi annui. Questo indice può suberi delle ulteriori scomposizioni per analizzare l'efficienza del capitale circolante netto e quella del capitale immobilizzato.

3) CTR = Effettivo Cash Tax Rate sull'utile operativo. Questo indice rappresenta il tasso il base al quale verrebbe eroso l'utile operativo per effetto del pagamento in contanti delle imposte in assenza di finanziamenti onerosi.

Malgrado queste scomposizioni, resta sempre il Rate of Return complessivo dell'azienda, più che le sue componenti individuali, l'unico indicatore che permette di esprimere un giudizio sulla capacità dell'azienda di creare valore. 28 Tratto dalla rivista “Budget”, La creazione del valore nella gestione d'impresa impiegando l'Economic Value Added, n.25 del 2001

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3.5 Le determinanti del WACC: Weighted Average Cost of Capital

Un altro fattore determinante per l'individuazione di una misura corretta di EVA è il WACC (Weighted Average Cost of Capital). Attraverso tale determinazione si viene a considerare anche il rischio, che non veniva preso in considerazione dai tradizionali indicatori di performance. Il costo del capitale rappresentato dal WACC è un elemento di vitale importanza per le aziende; esse tramite tale misura riescono a prendere consapevoli decisioni di investimento e disinvestimento, in ottica di incrementare l'EVA. L'azienda riesce infatti a misurare la propria performance operativa e definire così i vari fattori premianti per il suo personale. La sopravvivenza dell'azienda nel lungo termine è garantita da un rendimento degli investimenti maggiore del costo sostenuto per il loro finanziamento. La misura del WACC sta proprio ad indicare quale profitto dovrà ottenere l'impresa per giustificare i mezzi finanziari investiti.29

Il WACC rappresenta:

• il tasso minimo per selezionare progetti di investimento; • un modello di incentivazione per i manager;

• in un modello di creazione come l'EVA, il tasso di attualizzazione degli

EVA futuri per la determinazione del MVA;

• il tasso per valutare il rendimento del capitale investito.; infatti l'azienda

riesce a creare valore solo quando il ROIC è superiore al WACC, diversamente si ha distruzione di valore.

Secondo la teoria30 di Modigliani Miller, la struttura finanziaria dell'impresa non

conta, in quanto il valore del capitale investito complessivamente nell'impresa dipende dai flussi operativi da essa generati. In base a quanto affermato dai due studiosi, il costo del capitale è determinato esclusivamente dalla rischiosità delle attività reali dell'impresa e non dalla combinazione delle fonti di finanziamento. 29 A. BLACK, P. WRIGHT, J. BACHMAN, La ricerca del valore nell'impresa, analisi e gestione dei fattori di successo della performance, Franco Angeli, Milano, 1999

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Questa teoria si fonda sul principio che in un mercato di capitali perfettamente competitivo ed efficiente, due beni uguali devono avere il medesimo prezzo e quindi la riduzione del costo del capitale generato dall'effetto di leva finanziaria è esattamente bilanciata dal tasso di rendimento, che gli investitori si aspettano come copertura del rischio finanziario. In altri termini ricorrere al debito finanziario costa meno rispetto al patrimonio netto; tuttavia questo effetto benefico è controbilanciato dal maggior tasso di remunerazione richiesto dai finanziatori, per il rischio più elevato che devono farsi carico come conseguenza della maggior incidenza degli oneri finanziari sul reddito netto e quindi della maggior volatilità della linea di profitto (profit line).

L'impostazione dei due insigni studiosi non è tuttavia sempre applicabile, per la validità della loro tesi occorre che si presentino precise condizioni, cioè che si presenti un mercato di capitali perfettamente competitivo ed efficiente dove:

 le informazioni sono gratuite e perfettamente disponibili a tutti gli

operatori del mercato;

 gli operatori economici sono assolutamente razionali;

 i singoli individui, come le imprese, hanno la possibilità di ricorrere senza

limiti all'indebitamento e al medesimo tasso di interesse;

 non esistono costi del dissesto e del fallimento;

 i titoli, sia di debito che azionari, sono infinitivamente divisibili;  non esistono imposte societarie e personali

 non vi sono costi di negoziazione/transazione o tasse relative all'emissione

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 il management agisce in modo da massimizzare la ricchezza dei

soci/investitori;

 gli investitori hanno la possibilità/facoltà di dare o prendere a prestito

personalmente alle stesse condizioni applicate alle imprese.

Dalle informazione che abbiamo si tratta quindi di un mondo astratto. Tuttavia con tale modello si dimostra che se il mondo reale avesse le caratteristiche ipotizzate, la struttura finanziaria non sarebbe una variabile rilevante per la massimizzazione del valore dell'impresa.

Un'azienda non può aumentare il suo valore semplicemente riducendo il suo costo del capitale, in quanto il WACC resta costante con il variare della struttura del capitale, non essendo legate al modo in cui le attività vengono finanziate. Si applica quindi la seguente formula:

WACC = Ke · E/(D + E) + Kd · D/(D + E)

Questa formulazione iniziale si collocava in un contesto in assenza di imposte. Successivamente, gli economisti corressero la loro teoria introducendo il concetto di deducibilità fiscale degli interessi passivi. La deducibilità fiscale degli oneri finanziari produce un effetto positivo sul valore dell'impresa, pari al valore attuale del vantaggio previsto, quindi la formula del WACC viene modificata come segue:

WACC = Ke · E/(D + E) + Kd · D/(D + E)(1 – t) in cui:31

in cui:

Ke rappresenta il costo del capitale netto; Kd esprime il costo del capitale di debito; t è l'aliquota di imposta marginale;

E rappresenta il valore di mercato del capitale netto;

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Sono escluse dal calcolo del WACC le passività non onerose e le passività con onerosità implicita (come debiti verso fornitori).

Per la definizione del WACC si deve stimare la struttura finanziaria che l'azienda avrà in futuro la quale sarà il principale punto di riferimento per il management. Si dovrà raggiungere il giusto mix tra debito ed equity in relazione alla strategia adottata dall'impresa. I manager dovranno fare attenzione a ricorrere ad indebitamenti che siano compatibili in ordine temporale con gli impieghi, per far sì di raggiungere la sostenibilità nel medio-lungo periodo. L'allineamento temporale tra impieghi e finanziamenti, fa sì che l'azienda non si trovi in serie difficoltà finanziaria nel futuro.

Per ottenere un adeguato grado di leverage normalizzato, l'azienda dovrà depurare la sua struttura finanziaria ed in particolare il suo grado d'indebitamento attuale da tutti gli eventi eccezionali che lo hanno alterato.

La stima della struttura finanziaria ottimale deve essere eseguita attraverso valori di mercato , ma ciò risulta abbastanza complesso, quindi ci si basa su una approssimazione che riconduce la struttura finanziaria a quella del momento in cui si fa la stima.

Si può stabilire a priori il peso massimo che il capitale di debito dovrà avere sulla struttura finanziaria futura, altrimenti se il management ritiene che nel settore in cui opera l'azienda le risorse finanziarie si allocano in maniera efficiente, si potrà utilizzare il rapporto tra capitale di debito ed equity. Questo indice dovrà riferirsi ad un campione significativo di società appartenenti allo stesso settore.

Se le fonti di finanziamento sono oggetto di negoziazione all'interno del mercato, non sorgerà alcun problema in quanto si andrà a considerare una media mensile dei prezzi di mercato, così da ottenere un dato normalizzato. Sarà più complicato stimare il capitale di debito e di rischio (equity) quando non è quotato; in tal caso si dovrà stimare il valore di mercato delle fonti di finanziamento.

Diverso sarà il discorso tra i debiti a breve termine e quelli a medio-lungo termine. Per i primi il valore contabile del debito si rifà a quello del mercato in quanto essendo stati contratti con un tasso variabile non subiranno delle

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modifiche sostanziali. Per i debiti a medio e lungo termine bisogna considerare che possono essere stati contratti ad un tasso variabile o fisso . Se sono stati contratti ad un tasso fisso il loro valore di mercato varierebbe

in base all'aumento o alla diminuzione dei tassi; se invece sono stati contratti ad un tasso variabile ci possiamo rifare semplicemente al discorso fatto per i debiti a breve.

Facendo riferimento alla formula del WACC è doveroso andare ad analizzare sia il costo del

capitale di debito (Kd) che il costo del capitale di rischio (Ke).

3.5.1 Il costo del capitale di debito (Kd)

Il costo del capitale di debito rappresenta la remunerazione richiesta dai soggetti che finanziano l'impresa per la copertura del (credit risk) cioè del rischio di perdita del capitale e degli interessi.

Esso in sintesi rappresenta il costo medio atteso del debito dell'azienda, al netto dello scudo fiscale consentito dalla deducibilità degli interessi passivi:

costo del debito = Kd · (1-t) dove:

1-t = scudo fiscale marginale;

Kd = costo medio atteso del debito aziendale.

Per ciò che riguarda il costo del capitale bisogna distinguere tra debiti a breve e a medio-lungo termine. Per i debiti a breve termine bisogna applicare un tasso pari a quello del mercato mentre per i debiti a lungo bisogna considerare il tasso applicato a finanziamenti con uguali caratteristiche.

Il costo del debito è un “costo di mercato” che può essere determinato osservando il rendimento delle obbligazioni quotate di un'azienda.32

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Le modalità di determinazione di Kd si differenziano a seconda del tipo di analisi che vogliamo realizzare. Se rivolgiamo la nostra indagine alla performance aziendale corrente, allora Kd dovrà essere approssimato ragionevolmente al rapporto tra oneri finanziari espliciti e debiti finanziari al netto delle passività correnti che non comportano per l'azienda oneri finanziari.

Si fa riferimento alla seguente formula:

Kd = oneri finanziari/debiti finanziari ad onerosità esplicita

Se la nostra indagine è invece rivolta alla valutazione della performance prospettica, la determinazione di Kd dovrebbe essere relativa ad un orizzonte temporale pari a quello su cui si vuol valutare la performance attesa dall'azienda. Dobbiamo in questo caso riferire il costo medio alla dimensione prospettica del debito lungo tutto l'arco di proiezione in modo da esprimere una remunerazione prospettica atta a compensare i rischi dei finanziatori nel medio lungo periodo. E' necessario, al riguardo, una volta analizzati i fabbisogni futuri della gestione, “normalizzare” il costo medio atteso per finanziare tali fabbisogni.

Dovendo immaginare di variare il grado di indebitamento da un esercizio all'altro per consentire di seguire le necessità di finanziamento della gestione, e non potendo derivare un costo del debito prospettico differenziato di anno in anno, dobbiamo calcolare una serie di costi prospettici e poi mediarli per ottenere così un costo medio “normale” del capitale di debito da utilizzare per tutto l'intervallo di proiezione.

Analizzate le considerazioni suddette, il costo medio atteso del debito può essere determinato seguendo due strade:

 analisi del “rating” attuale e prospettico della società da valutare;

 analisi dello spread teorico del costo del debito aziendale sul prime rate di

riferimento.

In merito al primo punto è doveroso fare alcune considerazioni. Il costo del debito rappresenta per l'azienda la remunerazione richiesta dal finanziatore esterno in funzione del rischio finanziario da questi percepito. Più alta è la

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percezione del rischio maggiore sarà il tasso di remunerazione richiesto dai soggetti e maggiore diventerà il costo del debito per l'azienda. Negli ultimi anni sono sorte numerose società di rating con il preciso compito di offrire un supporto a tutti quei finanziatori offrendo parametri di riferimento sul grado di solidità finanziaria e sulla solvibilità dell'impresa. Tramite tali parametri i soggetti terzi che finanziano l'impresa stabiliscono i rendimenti che si aspettano dalla società.

Per giungere ad una misura del costo prospettico del debito in una determinata società occorre confrontare i valori assunti dagli indicatori relativi a questa azienda con l'insieme degli indici considerati dalle più importanti società di rating come determinanti per l'assegnazione di un certo giudizio di solvibilità. Una volta individuato il giudizio di rating espresso dalle varie società preposte, è possibile ricavare il costo del debito osservando i tassi che corrispondono a tale rating nella valuta di riferimento.

In Italia ci sono tuttavia molte remore sulla fattibilità di applicazione di tale metodologia. Le

difficoltà riscontrate riguardano soprattutto il ridotto numero di obbligazioni ordinarie quotate emesse da aziende private, in quanto per la maggior parte dei debiti, le nostre società ricorrono al canale bancario. L'assenza di un vero e proprio mercato del debito rende molto complicata la stima del valore di quest'ultimo. C'è comunque da sottolineare che negli ultimi anni, grazie alla nascita della prima società italiana di rating (Italrating), si sono fatti grandi passi in avanti. Essa è stata proposta da Mediocredito Centrale e i suoi giudizi sono riconosciuti dalla Banca d'Italia e dagli investitori italiani e stranieri.

Una modalità alternativa per giungere ad una determinazione del costo del debito aziendale consiste nell'analizzare lo spread sul prime rate di riferimento storicamente sostenuto dalla società:

E(i) = i = i(pr) + i (s) dove:

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i (pr) = prime rate storico

i (s) = spread medio storico sul prime rate

Questo spread rappresenta la misura del giudizio di solvibilità a breve termine sugli attivi societari da parte delle banche finanziatrici. Esso dipende in buona misura da un'analisi dei medesimi indicatori utilizzati per la derivazione del rating societario, ma è anche funzione di una serie di elementi intangibili come:

 la credibilità e la reputazione dell'imprenditore e/o management

dell'azienda da valutare;

 le particolari relazioni tra l'azienda e il sistema bancario;

 l'importanza relativa dell'impresa nel contesto geografico di appartenenza.

Ne risulta che tale metodo è meno astratto ma anche meno oggettivo del precedente, basato sulla stima dei rating prospettici. Inoltre il costo storico del denaro non sempre costituisce una buona stima del costo prospettico, a causa delle improvvise fluttuazioni cui è soggetto.

3.5.2 Il costo dell'equity o dei mezzi propri Ke

Il costo dei mezzi propri risulta essere la componente più complessa da calcolare. Le difficoltà di stima del costo dei mezzi propri risiedono nel fatto che non si tratta di un dato certo, come ad esempio gli interessi passivi corrisposti sul debito, ma di un costo-opportunità, (opportunità di investire diversamente). Il costo opportunità rappresenta una grandezza pari al rendimento minimo richiesto da un investitore per finanziare l'azienda, date le condizioni di rischiosità che ne caratterizzano l'attività. Le difficoltà che si riscontrano maggiormente nella stima del capitale proprio di un'azienda, si riferiscono alla possibilità di quantificare il rischio specifico che grava sull'attività dell'impresa e di capire la relazione che sussiste tra questo rischio e il rendimento atteso dai soggetti che finanziano tale attività. Il problema è stato per lungo tempo oggetto di studi, numerosi sono stati nel corso degli anni i modelli proposti nel tentativo di individuare efficaci modalità di determinazione del costo del capitale proprio. Tuttavia, ancora oggi

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la questione rimane uno dei passaggi più controversi e delicati sia del mondo accademico sia del mondo operativo in quanto la ricerca è tuttora rivolta alla determinazione di metodi in grado di fornire una misura attendibile e universalmente accettata.

Al momento, il modello più utilizzato nella pratica e il più giustificabile dal punto di vista teorico per stimare la relazione tra rischio e rendimento è il Capital Asset Pricing Model (più semplicemente CAPM), sviluppato nella prima metà degli anni '60 da Treynor, Sharpe, Lintner e Mossin.

Il CAPM è un modello che, in ipotesi di mercati efficienti e caratterizzati da aspettative omogenee da parte degli investitori, propone di determinare il rendimento atteso dal capitale di rischio attraverso la somma di due addendi:

1) il tasso privo di rischio, cioè quel tasso di interesse offerto da investimenti in attività prive di rischio come i titoli di Stato;

2) il premio per il rischio, determinabile attraverso il prodotto tra il premio per il rischio di mercato e il grado di rischiosità relativa dell'impresa espressa dal coefficiente beta.

L'equazione utilizzata per il calcolo del costo del capitale di rischi è la seguente: Ke = rf + β[E(rm) – rf]

dove:

rf = tasso privo di rischio;

E(rm) = rendimento atteso di mercato;

E(rm) – rf = premio per il rischio di mercato; β = coefficiente di rischio dell'attività dell'impresa.

Secondo il CAPM, quindi, il costo del capitale di rischio aumenta in maniera proporzionale al grado di rischiosità espresso dal coefficiente beta. Il vantaggio di questo modello sta nel fatto che tutti i valori che devono essere inclusi nel calcolo possono essere rintracciaci in modo attendibile dal mercato. Un problema

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potrebbe sussistere nel momento in cui in caso di fallimento dell'azienda, il costo per l'impresa sia zero. Nella pratica rimane infatti alquanto improbabile che le attività dell'azienda possano essere vendute a un prezzo che remuneri il loro reale valore economico. Quando è in corso una procedura fallimentare si riscontrano poi varie spese come oneri legali ed inefficienze tipiche della procedura fallimentare. Se si verificano rilevanti costi dal fallimento è opportuno correggere verso l'alto in costo opportunità determinato attraverso il CAPM.

La misura esatta dell'incremento da apportare è difficile in pratica, sebbene in linea teorica possa essere correttamente specificato.

Dati empirici ci dicono che i costi amministrativi nel fallimento possono raggiungere il 20% del valore della proprietà immobiliare, quindi se moltiplichiamo il valore del complesso aziendale per la probabilità che si verifichi un fallimento, per il 20% otteniamo una stima dei costi che l'azienda sostiene per il fallimento.

Il tasso di rendimento che esprime il costo opportunità del capitale dovrebbe essere quindi incrementato di un'entità corrispondente ai costi stessi.

Un'altra ipotesi che assume il modello CAPM è che gli investitori possono acquisire o vendere titoli allo stesso tasso di interesse e in assenza di costi di transazione e d'informazione. Nella realtà ciò non accade e contribuisce solo ad aumentare il rischio non diversificabile che percepiscono gli investitori.

Il modello CAPM nonostante le sue imperfezioni, rappresenta uno dei modelli più riusciti per rappresentare la complessa realtà dei mercati finanziari. Ciò che lo rende maggiormente applicabile è la semplicità e solidità dei suoi fondamenti teorici che lo hanno reso generalmente accettato. E' pertanto opportuno esaminare con maggior dettaglio le determinanti del costo del capitale di rischio secondo questo modello.

Secondo tale modello il costo del capitale netto Ke è dato dalla somma di due elementi che sono:

il tasso privo di rischio (free risk);

il premio per il rischio di mercato, legato ad un coefficiente β che esprime

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Il primo elemento che andiamo ad analizzare per la determinazione di Ke è il

tasso privo di rischio. In linea teorica, il tasso di interesse offerto da

investimenti in attività prive di rischio è il rendimento di un titolo o portafoglio di titoli esente da qualsiasi rischio d'insolvenza ed è totalmente correlato al rendimento di qualsiasi altra attività economica.

Quando il paese che emette titoli non è caratterizzato da un rischio di insolvenza pari a zero e non emette obbligazioni a lungo termine, per determinare il tasso free risk si potrebbe:

• considerare i rendimenti di titoli espressi in valuta estera, emessi da un

paese che rispetta tali condizioni;

• utilizzare il costo medio dell'indebitamento sostenuto dalle società

caratterizzate da una forte solvibilità in ambito nazionale e sottrarre a tale tasso una quota per il rischio d'insolvenza dello 0,2 – 0,3 %. Così facendo si arriverebbe a stimare in modo indiretto il tasso free risk a lungo termine;

Un ulteriore problema che possiamo avere nel determinare il tasso free risk riguarda la valuta dei titoli presi a riferimento per la sua determinazione. Se l'azienda opera in Italia deve prendere a riferimento i titoli emessi dallo Stato Italiano. Nel caso in cui il paese in cui opera l'azienda emetta titoli in valuta diversa da quella propria si deve comunque considerare il premio per il rischio d'insolvenza Paese. Il titolo potrebbe raggiungere un rendimento superiore a quello che lo stesso titolo ha nel paese d'origine.

Il tasso privo di rischio viene stimato nella pratica utilizzando il rendimento nominale offerto dai titoli emessi dallo Stato in cui l'azienda opera. Nei paesi dove vige l'imposizione fiscale sui titoli di Stato, dovrà essere utilizzato il tasso nominale al netto della ritenuta d'imposta.

Non esiste un solo tasso di interesse nominale che può essere considerato (free risk), ma ne esiste un'ampia gamma che varia in funzione della scadenza dei prestiti (annuale, decennale, trentennale, ecc..) e della dinamica dei flussi di rendimento.

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Tra le teorie che sono state proposte per spiegare la struttura per scadenza dei tassi, la teoria delle aspettative ritiene che i Rf nominali a lungo termine possono essere più o meno elevati rispetto a quelli a breve termine in relazione alle aspettative del livello dei futuri tassi nominali a breve termine attesi.

La scelta tra trassi nominali relativi a titoli a breve piuttosto che a medio-lungo termine, viene effettuata (considerando che il WACC essendo utilizzato in ambito di misura della creazione di valore per l'attualizzazione dei flussi futuri) scegliendo un titolo con elevato grado di diffusione tale da assicurarne la liquidità, negoziabilità e fungibilità, che consente di eguagliare la duration del tasso free risk con quella prospettica dei flussi oggetto di attualizzazione.

Nella valutazione di performance di aziende italiane, la prassi internazionale converge sull'utilizzo del BTP a scadenza decennale come miglior riferimento per il tasso privo di rischio, in ragione della loro elevata liquidità e dell'esistenza di un indice future sullo stesso titolo.

Un altro fattore determinante per trovare la componente Ke è il premio per il

rischio di mercato. Questo premio rappresenta il sovra-rendimento atteso

richiesto da un'investitore razionale per accettare d'investire in un'attività rischiosa.

La sua derivazione pratica nella prassi valutativa può avvenire secondo due metodologie:

 seguendo un approccio storico;  seguendo un approccio prospettico.

L'approccio storico parte dall'assunto che se il rendimento del mercato azionario viene osservato su periodi di tempo sufficientemente lunghi (tali da eliminare l'impatto di picchi positivi e negativi dovuti a eventi anomali quali boom econimici, recessioni, guerre, shock petroliferi, e così via), i risultati che se ne può trarre in termini di premi per il rischio dovrebbero avere validità anche per un futuro più lungo.

Tale premio, in termini pratici, dovrebbe essere pari alla media dei rendimenti azionari storici uniperiodali nell'intervallo di riferimento, al netto del tasso privo di rischio odierno (espresso come visto dal rendimento di medio/lungo periodo

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dei titoli di Stato). L'opinione prevalente ritiene che la media da applicare ai rendimenti azionari dovrebbe essere geometrica.

In Italia una stima calcolata attraverso la differenza tra ritorni annuali a media geometrica del Morgan Stanley Capital Index per l'Italia e titoli governativi di lungo periodo per gli anni che vanno dal 1960 al 1989 ha prodotto una stima del premio per il rischio di mercato pari al 3,8%.

Studi recenti compiuti a livello internazionale hanno dimostrato che tale modalità di calcolo produce significative differenze in relazione al paese di riferimento. Tali differenze limitano notevolmente la capacità previsionale dei rendimenti azionari passati, rendendo preferibile l'utilizzo di metodologie alternative di calcolo del premio per il rischio di mercato, basate sull'attualizzazione di un valore espressivo della crescita dell'indice azionario futuro. Una di queste è il dividend Discount Model, che si basa sull'assunto che se il premio per il rischio deve definire il tasso di rendimento addizionale richiesto dagli investitori per bilanciare i rischi sistematici presenti e futuri insiti nel mercato azionario, la migliore misura di tale premio deve essere costruita sulla base delle aspettative future di crescita del mercato e del rischio sistematico, piuttosto che sull'esperienza passata.

Un altro fattore molto importante per la stima della componente Ke è il

coefficiente beta (β).

Questo coefficiente misura la sensibilità del rendimento di un investimento ai movimenti del mercato azionario. Più in particolare, tale coefficiente rappresenta quella componente di rischio sistematico che non è diversificabile. Prima di addentrarci nel calcolo del beta è necessario fare alcune considerazioni sul rischio aziendale; tale rischio è reputato secondo una logica finanziaria come variabilità della distribuzione dei risultati incerti, conseguiti da un investimento finanziario. Esso può essere scomposto in due componenti, definite “rischio diversificabile” e “rischio sistematico”.

Il rischio diversificabile è implicito nell'attività dell'azienda. Questo “business risk” è indipendente dalla struttura finanziaria scelta dal management; esso viene definito anche “non sistematico”, poiché deriva dai risultati economici che

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verranno conseguiti. Quest'ultimi, a loro volta, sono dipendenti dai mercati di sbocco e dall'organizzazione aziendale.

Se un'azienda riesce a diversificare il mercato investendo in un ampio portafoglio di business, può ridurre tale rischio fino ad annullarlo. Questo spiega il motivo per cui il mercato finanziario non riconosce alcun premio per il “rischio non sistematico”, proprio perché aumentando la varietà del business cresce l'immunizzazione dalla componenti di rischio tipiche di ogni settore.

Il “rischio sistematico” o non diversificabile, è una componente di rischio che rimane in azienda al di là di ogni processo di differenziazione. Tale rischio dipende infatti dalle condizioni generali dell'economia ( macroeconomiche), che hanno un impatto sul business gestito dall'azienda. E' un rischio non eliminabile in quanto fisiologico ad ogni mercato azionario.

Il rischio non diversificabile di mercato è espresso dal coefficiente beta. Un coefficiente beta pari a 1 sta a significare che l'azienda evidenzia un rendimento conforme alle oscillazioni dei rendimenti garantiti, a parità di rischio, complessivamente dal mercato. Quando il coefficiente beta è superiore all'unità, sta a significare che l'azienda presenta degli andamenti più volatili rispetto a

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quelli del mercato. Gli investitori, in tal caso, giudicano l'azienda più rischiosa. Quando il coefficiente è minore ad 1, le imprese hanno una rischiosità inferiore a quella del mercato.

Le variabili che influenzano in modo più marcato il coefficiente beta sono:

1) dimensione dell'azienda: più grandi sono le aziende e maggiore sarà la loro stabilità; di conseguenza non ci saranno variazioni di mercato ed i coefficienti beta saranno statici;

2) Ciclicità del settore: le imprese riguardanti settori estremamente ciclici hanno beta più elevati;

3) prospettive di crescita: “le growth stocks”, ovvero le aziende in crescita operati in settori high tech, presentano valori di beta maggiori;

4) grado di leva operativo: più elevati sono i costi fissi e più aumenta il valore di beta;

5) grado di internalizzazione: la presenza di rilevanti cash flow fa crescere il beta;

6) grado di diversificazione: se l'azienda opera in vari settori, conseguentemente si ridurrà il beta;

7) grado di leva finanziaria: se aumenta il grado di leva finanziaria aumenta anche il beta levered del debito societario.

Il coefficiente beta riesce ad aiutare l'impresa in quanto quantifica se le variazioni sull'organizzazione aziendale amplifichino o attenuino i rendimenti attesi da parte degli stakeholder. Vi è il rischio che nelle Public Company, dove è presente in maniera massiccia l'azionariato diffuso e non è ravvisabile un singolo azionista, i manager tendano a subordinare gli interessi degli stakeholder ai propri obbiettivi personali, generando così un processo di distruzione di valore. Per evitare tale distruzione, gli stakeholder sono costretti a sopportare dei costi “accessori” per il monitoraggio delle azioni compiute dai manager..

In alternativa ai sistemi di controllo tradizionali, un modo per allineare il comportamento dei manager agli interessi degli stakeholder è quello di incrementare il livello di indebitamento per fare in modo che i manager prestino la loro attenzione sull'ottenimento di flussi di cassa positivi, necessari per la

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restituzione del debito. In tal modo i manager limitano i rischi di un investimento improduttivo ed eliminano quei processi che non creano valore aggiunto.

Sono state sviluppate più di recente ulteriori teorie volte a far coincidere gli interessi dei manager con quelli degli stakeholder evitando così una probabile distruzione di valore. Queste idee si rifanno in particolar modo all'introduzione di un sistema di incentivazione tale da indurre i manager a comportarsi come se fossero degli stakeholder, legando una parte sempre più importante della loro remunerazione ad un indicatore interno che esprima la performance aziendale che tiene conto del valore creato o distrutto dagli stessi portatori di interesse. In questo modo gli interessi delle due categorie di soggetti andrebbero a riallinearsi. La stima del coefficiente beta può risultare più problematica quando:

a) la società non è quotata o si vogliono valutare solo alcune SBU;

b) la società, pur essendo quotata è troppo piccola per poter essere seguita con la necessaria accuratezza dagli analisti, non disponendo così di beta esatti e puntuali;

c) la società presenta un notevole grado di diversificazione e il beta essendo la risultanza di una media tra settori eterogenei, ha scarsa significatività; d) la società essendo prevalentemente presente in mercati internazionali

dispone di un beta poco significativo.

Si può ricorrere a stimare tale coefficiente analizzando la correlazione tra variabilità assoluta dei risultati dell'azienda (funzione di fattori specifici dell'azienda e dei mercati di sbocco ai quali l'azienda si rivolge) e la variabilità del mercato nel suo insieme (funzione dei fondamentali economici). In termini matematici questo concetto è espresso dalla seguente funzione:

βi = σim/σ²m dove:

βi = β del titolo i;

σim = covarianza tra il titolo i-esimo ed il mercato m; σ²m = varianza del mercato.

(34)

Il beta del titolo viene così ad esprimere la percentuale di variazione del titolo sulla variazione del mercato. Il β del mercato è, per ipotesi uguale a 1.

Sono ormai numerosi gli operatori specializzati che forniscono, relativamente ai principali mercati finanziari nazionali, pubblicazioni periodiche contenenti le stime dei coefficienti beta delle singole imprese quotate e dei loro aggregati settoriali.

Tali operatori pervengono alla determinazione del coefficiente beta attraverso l'utilizzo di dati basati esclusivamente sul comportamento storico del titolo nei confronti del mercato di riferimento. Ai fini della valutazione delle performance attesa da un'azienda ciò potrebbe generare delle distorsioni nel calcolo del costo del capitale ed è dunque opportuno individuare metodi più corretti per determinare il coefficiente β a scopi valutativi.

Una soluzione a tale problema può essere rappresentata dall'utilizzo di beta prospettici,

che esprimono la variabilità di un titolo non in funzione di un trend storico rilevato dai dati di mercato, ma di quello prospettico, cioè atteso in funzione delle aspettative di mercato e sul titolo stesso. Del resto, proprio perché è sulla base del rendimento atteso che andrebbero valutate le performance aziendali, l'utilizzo di un β prospettico sembra rappresentare la soluzione migliore per una determinazione attendibile del costo del capitale.

Le modalità di determinazione di beta prospettici sono state oggetto di costanti studi empirici negli ultimi anni, tutti rivolti a migliorare la capacità pervasiva di tale coefficiente, ma le difficoltà sono numerose e legate soprattutto al fatto che, essendo il β una funzione di numerose variabili, sono scarse le possibilità di previsione dell'andamento futuro del beta di un titolo. Tuttavia sono sempre più numerosi gli operatori specializzati che accompagnano alle pubblicazioni relative ai β basati su trend storici, anche stime di beta prospettici che possono fornire un'utilità maggiore qualora si vogliano utilizzare per derivare una nozione di costo di capitale di rischio utilizzabile per valutare la performance futura dell'azienda.

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Questi problemi di stima si riflettono molto anche sul mercato italiano, il quale costituisce una base di riferimento alquanto precaria per la derivazione di coefficienti β significativi.

Tutto ciò dipende sia dalle sue limitate dimensioni, sia dalla scarsa significatività di paragoni settoriali dovuti al basso numero di aziende operanti in ogni settore. La mancanza strutturale di capitalizzazione ed il basso flottante medio dei titoli quotati rendono le serie storiche dei beta dei titoli italiani particolarmente inadatte a costituire la base per il calcolo del costo del capitale proprio delle aziende emittenti.

Spesso le variazioni dei prezzi dei titoli, in un mercato caratterizzato da bassa liquidità come quello italiano, derivano da fattori esogeni non strettamente correlati al valore economico del capitale dell'azienda che li ha emessi e alle sue prospettive di crescita; oppure, l'esiguo volume di contrattazioni amplifica anormalmente i movimenti al rialzo o al ribasso di un titolo, contribuendo ad alterare la significatività delle serie storiche relative ai suoi andamenti.

La determinazione attraverso il CAPM, del costo del capitale di rischio di società italiane non quotate sui mercati azionari, oppure di società quotate ma troppo piccole per poter essere coperte dagli analisti, crea alcune difficoltà in quanto l'utilizzo di beta books è impossibile oppure non significativo.

Per tali società, che rappresentano la maggioranza delle imprese operanti nel nostro Paese, la prassi aziendalistica ha derivato una serie di metodologie alternative per la stima dei beta (β).

Una prima metodologia consiste nell'ottenere il beta societario da una regressione dei β di settore. Questa metodologia parte dal concetto che il settore dell'attività condiziona in misura determinante il rischio societario sistematico non diversificabile.

Il β di qualsiasi società deve, nel medio-lungo periodo convergere con il beta di settore, pur potendo nel breve periodo presentare scostamenti anche sensibili dal valore medio.

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all'interno del proprio settore, perciò il beta medio del settore può consentire un utile termine di paragone nel calcolo del β effettivo di un'azienda.

Un altro metodo per la determinazione del β di gran lunga più utilizzato è quello dell'utilizzo dei beta unlevered, calcolati su campioni di società comparabili. L'ipotesi che fa capo a questa metodologia è che in condizioni normali e in ottica di lungo periodo, il livello di rischio operativo non diversificabile di una società non diverge significativamente da quello medio di società simili operanti nel medesimo settore anche se le stesse sono invece soggette ad una differenza strutturale nel livello di rischio finanziario (grado di leverage).

Le differenze tra i beta unlevered si società appartenenti nello stesso settore possono essere ricondotte, secondo uno studio effettuato dalla società Stern Stewart, a diciotto indicatori fondamentali di rischiosità, raggruppati in quattro categorie generali che coprono l'operatività dell'intera impresa. Essi sono:

a) rischio operativo: quanto maggiori saranno le variazioni dei rendimenti prima delle imposte, dopo le imposte, del flusso lordo complessivo, del tasso di crescita di capitale rispetto a quelle del settore (NOPBT, NOPAT, COPAT), tanto maggiore è il Business Risk;

b) le aziende di maggiore dimensione hanno un duplice vantaggio rispetto alle aziende di piccola dimensione in quanto, da un lato, operando in mercati più vasti, sono meno soggette al ciclo economico di un singolo paese riducendo il rischio, e dall'altro lato risentono meno di errate decisioni strategiche;

c) rischio strategico: maggiore è l'attesa di redditività futura, maggiore è il Business Risk. Ciò può portare a far si che le aspettative degli investitori siano disattese;

d) un livello più contenuto del beta unlevered può dipendere anche da una superiore capacità di pianificazione e controllo che si esercita :

• mantenendo il capitale circolante su bassi livelli e soprattutto stabili,

sia in termini di durata media dei crediti che di durata media di magazzino. Un'alta variabilità del rapporto tra capitale circolante e vendite è indice di un elevato livello di rischiosità dell'azienda e palesa

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