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il filo rosso La voce di un io normale vivere nella tenda dei suoi In memoria* Si chiamava Moammed Sceab del Corano gustando un caffè

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M d L

La voce

di un “io” normale

L’Allegria

In memoria*

Si chiamava Moammed Sceab

Discendente di emiri di nomadi

5 suicida

perché non aveva più Patria

Amò la Francia e mutò nome

10 Fu Marcel

ma non era Francese e non sapeva più

vivere

nella tenda dei suoi

15 dove si ascolta la cantilena del Corano

gustando un caffè

E non sapeva sciogliere

20 il canto

del suo abbandono

L’ho accompagnato

insieme alla padrona dell’albergo dove abitavamo

25 a Parigi

dal numero 5 della rue des Carmes appassito vicolo in discesa

* In memoria: il titolo anticipa che si tratta d’una poesia in ri- cordo dell’amico nominato al v. 2.

1-2. Si chiamava Moammed Sceab: si tratta dell’amico d’infan- zia ad Alessandria d’Egitto e compagno di studi a Parigi. L’im- perfetto Si chiamava ne annuncia la morte, ribadendo l’antici- pazione del titolo.

4. emiri: voce usata dal Corano per designare chi è rivestito di autorità come governatore di una tribù o di una provincia, o è insignito del comando militare. – nomadi: popolazioni senza una residenza fissa. Si tratta di un termine importante nel pen- siero e nella poesia di Ungaretti, che attribuisce un’anima di no- made non solo all’amico, ma anche a sé stesso.

10. Fu Marcel: trasferitosi a Parigi, Moammed aveva cambiato il suo nome rinunciando alle sue radici e alla sua identità.

14. tenda: la tenda è l’abitazione dei popoli nomadi del deserto.

15-16. la cantilena del Corano: le preghiere del Corano sono re- citate con voce monotona e cantilenante. Il Corano è il libro sa- cro dei musulmani.

18-21. E non sapeva... abbandono: ‘E non sapeva esprimere il sentimento della sua estraneità e della sua solitudine attraverso la poesia (il canto)’.

22. L’ho accompagnato: ‘Ho accompagnato il feretro nel fune- rale’.

26. rue des Carmes: strada di Parigi nel Quartiere Latino.

27. appassito... discesa: ‘una via stretta triste e senza vita, che digrada verso il basso’. Appassito è metafora* per indicare l’i- naridirsi della vita.

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387 Riposa

nel camposanto d’Ivry

30 sobborgo che pare sempre

in una giornata di una

decomposta fiera

35 E forse io solo so ancora che visse

Locvizza il 30 settembre 1916

M d L

La voce di un “io” normale il f ilo rosso

29. Ivry: quartiere a sud di Parigi presso la Senna.

30-34. sobborgo... fiera: ‘sobborgo che sembra sempre essere in una giornata di una festa di paese disordinata’; o meglio ‘che è finita lasciando tutto in disordine’. – sobborgo: ‘piccolo paese

periferico’. Ivry è oggi un quartiere della città di Parigi. – de- composta: richiama anche il significato della putrefazione e quindi si collega al tema del funerale e della sepoltura.

N

el dicembre del 1916, nel pieno della guerra, esce a Udine, in soli 80 esemplari, Il porto se- polto, la prima raccolta poetica di Giuseppe Un- garetti. Sui pochi lettori di allora l’impressione do- vette essere grande. Quelle poesie, infatti, conte- nevano una carica eversiva quale non si era anco- ra manifestata nella lirica del nuovo secolo. Non era la prima volta che la poesia italiana batteva la strada di una radicale sperimentazione sulle forme e sul linguaggio (già dal 1909 i futuristi avevano pubblicato i loro Manifesti e i loro esperimenti

“paroliberistici”, improntati a un totale sovverti- mento del linguaggio e della sintassi poetica tradi- zionale), ma era la prima volta che lo sperimenta- lismo non si appagava in sé stesso ed era invece funzionale a un compiuto disegno espressivo. Non era nemmeno la prima volta che la parola assume- va un risalto inusitato e che le componenti della lingua venivano tese sin quasi ai limiti della com- prensibilità (sono del 1914 i Canti orfici di Dino Campana, che richiamano nel titolo la figura del mitico cantore Orfeo, depositario degli arcani se- greti della parola e del canto), ma era la prima vol- ta che quella tensione espressionista, invece di in- canalarsi in un furore moralistico ormai datato, collaborava a creare un concreto discorso sull’uo- mo moderno. Infine, non era la prima volta che la poesia si presentava senza tutele pascoliane o dan- nunziane (i libri di Guido Gozzano, La via del ri- fugio e I colloqui, pervasi da un sentimento “cre-

puscolare” di inutilità della poesia, sono rispetti- vamente del 1907 e del 1911), era la prima volta, però, che la poesia non sentiva il bisogno di nega- re, e con ciò presupporre, il magistero di quei mae- stri, ma anzi si presentava naturalmente come a- pascoliana e a-dannunziana – e per di più non de- nunciando, come facevano i crepuscolari, la ver- gogna di essere poeta, ma, al contrario, ripropo- nendo il discorso poetico come discorso privile- giato di verità e di conoscenza, insomma, ripropo- nendo un’idea del ruolo della poesia non troppo dissimile da quella di quei due padri. Era come se le liriche di Ungaretti provenissero da un altro mondo. E in effetti provenivano da un altro mon- do. Ungaretti aveva alle spalle non solo una for- mazione giovanile in Egitto (vi era nato, ad Ales- sandria, nel 1888), ma anche un più recente ap- prendistato francese (non si dimentichi che fino al 1919 sarà un poeta bilingue: italiano e, per l’ap- punto, francese): insomma, un italiano all’estero o uno straniero in patria, con almeno due tradizioni di riferimento e, soprattutto, con una visione più unitaria della tradizione nazionale, meno scissa tra poeti classici (come Leopardi) e contemporanei.

Non è casuale che le prime, positive reazioni della critica mettessero l’accento in particolare sulla “sincerità” di questo poeta. È indubbio che dallo sfondo di una koinè poetica popolata di fron- de, albe e temporali, fremiti e simboli, eroi classi- ci e risorgimentali, scetticismi borghesi e furori

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che classicistiche, brividi decadenti, ritrosie cre- puscolari, il diario di guerra del soldato semplice Giuseppe Ungaretti si stagliava per un genuino ef- fetto di verità. L’importante era non cadere nell’e- quivoco di scambiare il semplice e il “primitivo”

per semplicità e primitività.

All’effetto di verità cooperano lo sguardo antie- roico con il quale è osservata la guerra (anche in presenza di un anonimo eroismo collettivo), il rap- porto diretto e spontaneo con la natura (pur intri- so di forti venature spiritualeggianti e di ansia di assoluto), la definizione di una propria, individua- le umanità (pur nel sentimento della “fratellanza”

e di una più vasta appartenenza), la rappresenta- zione per scorci, metonimica*, della guerra come strazio e dolore (pur nell’affermazione che strazio e dolore esaltano l’umanità del singolo e della col- lettività), il pudore di una poesia intesa come te- stimonianza (pur nella sotterranea indicazione di una poetica e di un ruolo salvifico della poesia co- me patria e conquistata identità).

È sintomatico che Il porto sepolto si aprisse con un testo in memoria di un amico di infanzia e di giovinezza, Moammed Sceab, morto suicida a Pa- rigi nel 1913: non un soldato, non un martire per la patria, nemmeno un italiano. È sintomatico di un procedere per controcanto, che suggerisce per implicito contrasto significati a prima vista non percettibili: il compagno di avventure letterarie e di pellegrinaggi si uccide perché non ha più una patria («Fu Marcel / ma non era Francese / e non sapeva più / vivere / nella tenda dei suoi / dove si ascolta la cantilena / del Corano», vv. 10-16), men- tre il soldato Ungaretti, anche lui figlio del deser- to, rischia la vita per mettere fine al suo nomadi- smo, ritrovare la sua patria. Ritrovare una patria non è tanto e non è solo la ricerca anagrafica di una tradizione famigliare ed etnica; è soprattutto tro- vare le ragioni che consentono di esprimersi, di da- re voce attraverso la poesia perfino allo sradica- mento: Sceab si era ucciso anche perché alla «can- tilena / del Corano» (vv. 15-16), divenutagli estra- nea, non aveva saputo sostituire un suo proprio

retti è invece lì a commemorare il fallimento del- l’amico.

Ma del canto spiegato, della liricità ispirata questa poesia presenta ben pochi caratteri. Un to- no dimesso, contenuto, un dolore pacato e risol- to nelle cose permeano un dettato dall’andamen- to narrativo, quasi discorsivo. In parte avrà inciso la tradizione delle dediche a cui essa appartiene (così come l’epilogo della raccolta, un omaggio- ringraziamento all’editore, risente del genere epi- stolare: «Gentile / Ettore Serra / poesia / è...»), tuttavia è evidente l’intento di impostare in aper- tura, in forme un poco più sciolte e affabili di quelle che seguiranno, la tonalità della raccolta, di definirne preliminarmente la cifra letteraria. In essa ciò che subito colpisce sono, in negativo, la rinuncia alle più consolidate istituzioni della poe- sia (prosodiche, metriche, rimiche), allo “spesso- re” letterario (citazioni, rimandi, allusioni ad altri testi poetici), all’esibizione, orgogliosa o vergo- gnosa che fosse, del privilegio o della diversità del poeta in quanto tale; in positivo, l’imperativa im- posizione di una ritmica inusitata e il ruolo di una prima persona che non si ‘atteggia’, che non ma- schera la sua voce.

Il rifiuto della connotazione letteraria e la defi- nizione di un io “sincero” sono tra loro stretta- mente correlati. Se in Pascoli e in d’Annunzio non c’era quasi parola che non avesse alle spalle un vo- cabolario, letterario o specialistico, e una ricerca dell’uso meno diretto e comunicativo, se le loro immagini rimandavano a un accumulo di altri te- sti con una netta preponderanza della componen- te classica, in questa poesia di Ungaretti il lessico sembra iscriversi, con poche eccezioni, in un ita- liano basico, sicuramente di comunicazione, nel quale niente riecheggia la tradizione classica e non sono reperibili echi diretti o scoperti di altri poeti.

Solamente le immagini dell’«appassito vicolo in discesa» (v. 27) e del sobborgo di Ivry che appare come «in una giornata / di una / decomposta fie- ra» (vv. 32-34) sono avvolte da un’aura letteraria, e in effetti risentono di una atmosfera “crepusco-

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389 lare”. Non a caso, questi sono, insieme allo «scio-

gliere / il canto» (vv. 19-20), gli unici luoghi del te- sto rivestiti di una patina metaforica. La figuralità di questa poesia è sobria e giocata prevalentemen- te sulle distorsioni o le ambiguità prodotte sul les- sico dalla sintassi e dalla scansione versicolare. Al- cuni esempi: «il canto / del suo abbandono» (vv.

20-21) può ritenere il doppio significato ‘dell’esse- re abbandonato’ e ‘dell’abbandonarsi’; accompa- gnato ha il complemento di moto da luogo («dal numero 5...», v. 26), ma non quello di moto a luo- go; in «e non sapeva più / vivere / nella tenda dei suoi» (vv. 12-14) la scansione versicolare, isolan- dolo, conferisce al verbo “vivere” una doppia va- lenza: come verbo assoluto (nel senso di ‘affronta- re o godere o sopportare la vita’) al suo primo ap- parire; come intransitivo (‘non sapeva più dimora- re, risiedere’) una volta messo in relazione con il successivo complemento («nella tenda dei suoi»).

Il tono dominante della poesia è dato da una scrit- tura denotativa*, quasi priva di figure di significa- to, strettamente connessa agli avvenimenti di una vita descritti in successione: «Si chiamava /... sui- cida / perché non aveva... / Amò... / e mutò... / Fu Marcel / ma non era... / non sapeva... / L’ho ac- compagnato... / dal... / Riposa / nel camposanto...

/ ... io solo / so ancora»; l’impressione generale è quella del racconto, o meglio, del resoconto. Di- staccato, aderente ai fatti e preciso: «L’ho accom- pagnato / insieme alla padrona dell’albergo / do- ve abitavamo / a Parigi / dal numero 5 della rue des Carmes»; «Riposa / nel camposanto d’Ivry»

(effettivamente, Ungaretti e Sceab vivevano insie- me, a Parigi, in rue des Carmes n. 5). La biografia del defunto è anche autobiografia del poeta: sul piano fattuale, in primo luogo, e su un piano più nascosto, quello sul quale, implicitamente, si con- frontano i diversi destini dei due compagni di esi- lio. Si tenga presente che l’importanza della di- mensione autobiografica travalica il testo proe- miale: essa è fondamentale in una raccolta poetica che si presenta come diario e che giunge perfino a dare il nome dell’autore all’io parlante: «Ungaret- ti / uomo di pena / ti basta un’illusione / per farti coraggio» (Pellegrinaggio).

Per misurare la portata innovativa dell’io auto- biografico ungarettiano è opportuno ricordare le configurazioni che la prima persona assumeva, per lo meno nei momenti più alti, nella poesia di Pa- scoli e d’Annunzio: presso il primo tendeva ad an- nullarsi come entità individuale e soggettiva per potere, in tal modo, farsi carico del punto di vista e della voce degli altri; presso il secondo, a dila- tarsi, espandersi, ancora fino all’annullamento, ma per segnare una distanza incolmabile tra sé e gli al- tri. Quello di Ungaretti, qui e nelle poesie del Por- to sepolto (ma potremmo dire in gran parte di quelle dell’Allegria), è semplicemente un io che ha un discorso da comunicare agli altri e che pertan- to si trova allo stesso livello dei suoi ascoltatori. Un poeta che, sebbene ritenga che la poesia sia un

«inesauribile segreto» (Il porto sepolto) e affiori da un «delirante fermento» (Commiato), è tuttavia convinto che «poesia / è il mondo l’umanità / la propria vita» (Commiato), non può non essere ani- mato da una forte volontà di comunicazione.

Fulcro della comunicazione poetica per Unga- retti è la parola, trovata nel silenzio e dissepolta sca- vando nella propria vita: «Quando trovo / in que- sto mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vi- ta / come un abisso» (Commiato). “Parola” e “si- lenzio” sono i due termini chiave non solo della poetica di Ungaretti, ma della sua poesia realizzata.

Guardiamo allora più da vicino la veste ritmico- sintattica e l’impianto figurale di In memoria. Man- ca la punteggiatura, le maiuscole, a parte i nomi propri e quelli enfatizzati (Patria, Francese), cado- no solamente a inizio di raggruppamento metrico.

Manca, dunque, uno degli elementi più forti per orientare la lettura. Questa assenza, da un lato, ma- schera la semplicità lineare, paratattica* e giustap- positiva, dell’andamento sintattico, dall’altro, fa- vorisce la malleabilità della scansione sintattica, pronta ad adeguarsi a un diverso principio ordina- tore. Nella poesia tradizionale le istituzioni della lingua, sintassi e accentuazione, entrano in frizione con le istituzioni metrico-prosodiche (ritmica dei versi, segmentazione strofica, rime e assonanze fi- nali) e con le figure retoriche, specialmente di su- perficie (ripetizioni, replicazioni, anafore, ecc.): il

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mai rispecchia l’andamento sintattico del discorso comune. Ma in questo testo non compaiono né me- tri regolari o comunque simili a quelli della tradi- zione, né figurano versi che si richiamino tra loro, cioè con una struttura accentuativa che crei effetti di ripetizione ritmica. Non ci sono nemmeno rime o riprese di suono significative tra le parole collo- cate a fine verso (vedremo più avanti in che cosa consta il particolare verso di Ungaretti). Ridotte ai minimi termini sono anche le figure di superficie (come del resto, già si è detto, quelle del significa- to): a parte la ripresa poliptotica* Francia, France- se, e quella, più logica che figurale, tra «Si chiama- va» ed «e mutò nome», l’unica catena iterativa di ri- lievo è quella che coinvolge le parole tematiche “sa- pere” e “vivere”: «e non sapeva più / vivere»; «E non sapeva / sciogliere»; «E forse io solo / so anco- ra / che visse». Dunque, in questa poesia assistiamo a una doppia, drastica semplificazione: delle strut- ture linguistico-sintattiche e di quelle metrico-re- toriche. E tuttavia, anche questa poesia, più ancora di quelle tradizionali, vive sulla frizione, anzi, sulla vera e propria contraddizione, tra organizzazione sintattica e organizzazione metrica del discorso. Al posto dei versi canonici compaiono delle unità di varia misura, che si susseguono senza regola appa- rente. Non versi, ma più propriamente versicoli, stringhe linguistiche che possono andare dal mo- nosillabo (nella prima redazione l’inizio recitava:

«In memoria / di / Moammed Sceab», con la pre- posizione di isolata) fino a un casuale endecasillabo regolare («insieme alla padrona dell’albergo»). Si osservi, di passaggio, che può essere significativo per contrasto che la marca di letterarietà dell’ende- casillabo venga a cadere proprio nella zona testua- le più discorsiva, quasi prosaica. A determinare la lunghezza dei versicoli non è l’interna articolazio- ne ritmica, ma solamente la pausa imposta dall’a ca- po. Parallelamente, a determinare la lunghezza del- le partizioni del discorso (lunghezza sempre varia- bile tranne nel caso della doppia coppia: «Si chia- mava / Moammed Sceab»; «Amò la Francia / e mutò nome»), non è uno schema di tipo metrico,

lettura. A capo e spazi bianchi, in una parola, le pause, sono i veri princìpi strutturali di questa e più in generale della poesia del primo Ungaretti. Il mi- racolo di tanta semplicità consiste nel fatto che un espediente tipografico ha il potere di riverberarsi all’interno dei versicoli imponendo una nuova rit- mica, basata sulla sillabazione, sulla lettura scandi- ta che disarticola ulteriormente lingua e sintassi. I versicoli possono essere costituiti da una sola paro- la, che così isolata accresce il suo spessore semanti- co (suicida, Patria, vivere, sempre), da un costrutto elementare: articolo più sostantivo («il canto») o preposizione più sostantivo («del Corano», «a Pa- rigi») o, addirittura, da elementi linguistici privi di spessore semantico, cioè da “parole vuote”, il di vi- sto sopra; il «di una» dei versicoli «in una giornata / di una / decomposta fiera». Ora, queste particel- le così isolate non assumono per un misterioso do- no della poesia una loro valenza semantica, segui- tano a essere “parole vuote”; il loro isolamento pro- duce un altro effetto: fornisce la misura ritmica, che è quella della sillaba, e impone questa misura ai ver- sicoli più lunghi. Tutto viene ricondotto, attraverso le pause, alla cellula primaria: a una sillabazione primitiva che conferisce un alone di senso, un ispes- simento di significato a parole della quotidianità o a nessi sintattici propri del parlato. Varrebbe la pe- na di fare un esperimento: trascrivere il testo intro- ducendovi la punteggiatura ed eliminando gli a ca- po e gli stacchi tipografici. Ne risulterebbe una pro- sa di grado quasi vicino allo zero, cioè del tutto tra- sparente e comunicativa: «Si chiamava Moammed Sceab; discendente di emiri, di nomadi; suicida perché non aveva più Patria. Amò la Francia e mutò nome. Fu Marcel, ma non era Francese e non sape- va più vivere nella tenda dei suoi, dove si ascolta la cantilena del Corano gustando un caffè. E non sa- peva sciogliere...». Sia chiaro, questo è solo un eser- cizio virtuale. Ungaretti non componeva imponen- do a una base discorsiva una segmentazione per pause: articolazione sintattica e articolazione me- trica nascono insieme. È però un esercizio che mo- stra come la poesia ungarettiana di questo periodo

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di valorizzare, riscoprendone quasi la verginità, pa- role di uso comune e parti del discorso che nor- malmente passano inosservate, di introdurre nel dettato slittamenti di senso e di creare effetti di am- biguità semantica facendo interagire due modalità discorsive ispirate all’essenzialità.

Potrà sembrare strano che più volte sia ritornato il concetto di comunicabilità a proposito di un poe- ta che è uno dei maestri riconosciuti dell’Ermeti- smo, vale a dire di una corrente poetica che delibe- ratamente puntava sull’opacità linguistica e sull’o- scurità del significato. È bene precisare, allora, che le osservazioni svolte valgono per Il porto sepolto e per gran parte dell’Allegria, ma che esiste una evo- luzione di Ungaretti – che si manifesta già in anni non troppo lontani da quelli di formazione di que- ste due raccolte e che si concretizza nel Sentimento del tempo (per tacere di quelle posteriori, nelle qua- li affiora una marcata tendenza al recupero di clas- sicità e di forme tradizionali) – verso un dettato me-

no concentrato e nello stesso tempo più complesso e sfuggente. Alla ricerca sulla parola e sulla ritmica interna si viene affiancando una disarticolazione (e quindi una complicazione) della sintassi, e ciò spo- sta gradualmente il fuoco dal lessico alle immagini, con effetti di indeterminatezza e allusività semanti- ca. Quando non prevale la maniera, gli esiti sono an- cora alti; e però la visione quasi magica e sicura- mente irrazionale della poesia di questo secondo Ungaretti apre la strada che dalla volontà di comu- nicare porta alla negazione della comunicazione.

Infine, non si può sottacere che l’Ungaretti ver- sicolare è stato, indipendentemente dalla sua re- sponsabilità, anche un “cattivo maestro”. Schiere di poeti dilettanti e mediocri per tutto il secolo si so- no ispirati alla sua metrica libera, purtroppo bana- lizzandola e fraintendendola. L’autorità del mae- stro è stata invocata a legittimare una produzione che aveva smarrito ogni nozione di metrica e di pro- sodia e riteneva che scrivere versi consistesse nel- l’andare a capo a piacimento.

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