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Arbitrato internazionale. Problemi pratici. - Judicium

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VINCENZO VIGORITI

Arbitrato internazionale. Problemi pratici.

SOMMARIO: 1. L’arbitrato internazionale oggi. – 2. Il diritto applicabile al merito della controversia. La scelta delle parti; eventualmente degli arbitri. – 3. L’equità. – 4. Il procedimento. La concentrazione. – 5. La lingua dell’arbitrato. – 6. La cognizione sul merito del giudice statale.

1. L’arbitrato internazionale oggi.

In senso stretto si parla di arbitrato internazionale per indicare solo i procedimenti di definizione delle controversie fra Stati, mentre in senso lato la locuzione viene utilizzata per indicare tutte le situazioni in cui si rinviene un elemento di estraneità, qualunque esso sia: ad esempio quando si scelgono arbitri stranieri; quando il rapporto sostanziale è regolato dal diritto straniero; quando l’arbitrato è amministrato da un ente straniero; quando il lodo deve essere anche parzialmente eseguito all’estero. Qui è usata nel senso corrente, per riferirsi all’arbitrato del commercio internazionale, non compreso quello sugli investimenti stranieri in Italia che ha tratti peculiari (v.

infra). Un arbitrato dunque avente sede nel nostro Paese; soggetto alla lex arbitri italiana; rituale, ad hoc o amministrato; fra soggetti privati oppure di mano pubblica ma impegnati iure privatorum;

aventi elementi di estraneità dovuti alle condizioni delle parti persone fisiche (cittadinanza, domicilio-residenza) o delle parti enti collettivi (sede legale e/o di affari all’estero).

Trattasi di istituto in espansione, per molteplici ragioni. Fra le molte, il fatto che mancando Corti internazionali deputate a conoscere delle controversie del commercio internazionale, in caso di conflitto una delle parti dovrebbe agire o difendersi di fronte alle Corti nazionali dell’altro contendente, in situazione di svantaggio. Poi, l’arbitrato garantisce giudicanti di varia estrazione, almeno in apparenza più affidabili di giudici aventi la stessa nazionalità di una delle parti, e nell’ipotesi di composizione collegiale del tribunale, assicura che almeno uno degli arbitri venga scelto dalla parte stessa, legittimata ad intervenire anche nella scelta del terzo. Per finire, e soprattutto, l’arbitrato si giova della spinta propulsiva delle varie istituzioni internazionali che

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Prima del 1994, il nostro sistema non conosceva una disciplina autonoma e differenziata dell’arbitrato internazionale. Per la verità, c’era un arbitrato speciale destinato a risolvere le controversie derivanti da “operazioni di commercio internazionale”, ed era quello regolato dalla Convenzione europea adottata a Ginevra il 21 aprile 1961, ratificata e resa esecutiva con l.

10.5.1970, n. 418. La disciplina era destinata a prevalere sulla normativa nazionale, ma in effetti quella Convenzione più che «non essere stata applicata con attenzione in Italia e all’estero» è stata in passato, e tuttora resta negletta, a dispetto dell’impegno di alcuni, che ne segnalavano vigenza ed operatività. Le ragioni non sono di facile percezione.

La riforma del 1994 aveva introdotto una disciplina più o meno organica dell’arbitrato internazionale, omogenea a quella nazionale di riferimento da cui si discostava solo in qualche aspetto. L’intento era promozionale, volendo rendere agevole lo svolgimento di arbitrati internazionali in Italia, e di favore nel senso di limitare al massimo il contatto col giudice statale nazionale, di cui si è sempre temuta l’ostilità verso l’istituto.

La riforma del 2006 ha deciso per il ritorno all’antico, abrogando la disciplina differenziata, e disponendo per un unico tipo di arbitrato: quello appunto nazionale. La qual cosa non implica però perfetta assimilazione, perché l’estraneità trova comunque tutela, sempre allo scopo di rendere gradita l’Italia come sede di arbitrati internazionali. Scopo al momento non raggiunto.

La rinuncia ad una disciplina specifica per l’arbitrato internazionale non è tratto peculiare del nostro sistema, perché l’esperienza comparativa è la più varia e nessuna risulta completamente negativa.

Vi sono paesi come la Francia, che differenziano i tipi di arbitrato, altri come il Regno Unito che non lo fanno, salvo regolare poi l’estraneità con disposizioni in deroga al regime valido per gli arbitrati nazionali (per l’Inghilterra v. l’AA 96, sez. II), ed altri ancora che hanno adottato la Model Law on International Commercial Arbitration proposta dall’ Uncitral il 21 giugno 1985.

Nel complesso il nostro sistema è in linea con quelli più avanzati: anche il pericolo tanto paventato che l’impugnazione per nullità possa aprire la strada all’intervento del giudice statale può essere superato senza particolari difficoltà (v. infra).

2. Il diritto applicabile al merito della controversia. La scelta delle parti; eventualmente, degli arbitri.

Ne tratta l’art. 822, da integrare con l’art. 1, l. n. 218/1995. L’individuazione della disciplina regolatrice del merito è un (il) tipico problema dell’arbitrato con elementi di estraneità, problema che viene risolto in modo pressoché uniforme in tutti i sistemi. Nel nostro, a rigore, la legge

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regolatrice dei rapporti con elementi di estraneità può essere solo quella che risulta dall’applicazione dei criteri di conflitto del diritto internazionale privato (d.i.p.) e dalle convenzioni internazionali, per cui se le parti vogliono il diritto come regola di giudizio dovranno attenersi a quanto voluto dalle norme sui conflitti di legge.

Il rigore è temperato dall’applicazione di un principio, generalmente riconosciuto in ambito internazionale, secondo cui le parti hanno la facoltà di concordare la disciplina sostanziale di riferimento e in tal modo sottrarsi ai comandi di legge in materia. L’intesa, valida anche se perfezionata nel corso del procedimento, può imporre l’applicazione di una legge diversa da quella inizialmente preferita, sia per quanto riguarda il contratto nella sua interezza, sia anche per alcune clausole dello stesso. Il che di solito avviene per motivi fiscali.

Si deve rilevare che, a livello positivo, l’opzione era ammessa già dalla Convenzione europea del 1970 che consentiva alle parti di determinare liberamente la legge che gli arbitri sarebbero stati tenuti ad applicare al merito (art. 7, 1). Nella stessa ottica, la Convenzione di Roma sulle obbligazioni contrattuali (entrata in vigore nel 1991) assicura alle parti la facoltà non solo di scegliere la legge applicabile, ma anche «convenire in qualsiasi momento, di sottoporre il contratto ad una legge diversa da quella che lo regolava in precedenza» (art. 3, 2), intesa ovviamente destinata a vincolare giudici e arbitri. Come si diceva, la medesima facoltà viene accordata dai regolamenti processuali di tutti i maggiori enti che amministrano arbitrati internazionali (per tutti v.

l’art. 17, 1, reg. ICC).

L’electio iuris spetta alle parti, ma nulla vieta che possa essere demandata ad un terzo, dato che non si tratta di atto personalissimo, per cui se le parti, con un qualunque meccanismo privatistico, decidono di affidarsi ad altri (per esempio, all’ente che amministra l’arbitrato, oppure ad un’autorità di un certo settore merceologico, ecc.) non c’è motivo di ritenere che esse abbiano abdicato alla gestione della facoltà loro concessa. La scelta mediata è comunque direttamente riferibile alle parti, e chi per esse la compie ha la stessa ampiezza di opzioni che la legge offre ai compromittenti.

Non sono previsti limiti temporali all’autonomia dei privati, che dovranno valutare soltanto la concreta attuabilità dell’opzione voluta. Del resto, gli arbitrati più complessi si protraggono nel tempo, e la disciplina inizialmente scelta dai contraenti (magari quella di un Paese in via di sviluppo) può mutare (ad esempio, con l’introduzione di un particolare istituto, o l’abrogazione di un altro, a causa di interventi sul piano fiscale, ecc.), per cui non c’è motivo di dettare restrizioni.

Sul piano formale, le parti possono manifestare la loro comune volontà, in qualunque sede e modo che garantisca il raggiungimento del fine. E dunque per scritto, sin dal momento del conferimento dell’incarico agli arbitri, con comunicazioni congiunte o separate, oppure oralmente con

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dichiarazioni raccolte a verbale, o recepite con sicurezza dagli arbitri.

Sul piano sostanziale, le parti possono eleggere qualunque legge statale nell’accezione più ampia, comprensiva di comandi di matrice giurisprudenziale o a qualsiasi titolo vincolanti, indipendentemente dal collegamento di questa con la vicenda di cui è causa. Esclusa peraltro l’applicazione di disposizioni abrogate, o dichiarate costituzionalmente illegittime, sembrando evidente che la locuzione “legge” si riferisca a leggi statali vigenti.

Nell’ipotesi, francamente assai astratta, in cui gli arbitri dubitino della costituzionalità delle leggi o delle norme applicabili, se queste sono straniere, essi dovranno risolvere la quaestio nel modo previsto dall’ordinamento di riferimento, e quindi facendosi carico degli orientamenti giurisprudenziali, delle innovazioni legislative, e quant’altro, con impegno inusitato. Se sono invece italiane, gli arbitri potranno rinviare la questione alla Corte costituzionale, secondo l’insegnamento di cui alla sentenza n. 376/2001, oppure secondo altra soluzione attualmente minoritaria potrebbero direttamente disapplicare leggi e norme, senza necessità di rinvio alla Corte costituzionale.

Non pare concessa alle parti la facoltà di scegliere un sistema di norme, formalmente prive del crisma statale, come la lex mercatoria, i principi Unidroit, oppure ancora, in futuro, un qualche insieme di regole di matrice non statale (ad esempio, il Codice di diritto privato europeo). In generale, l’opzione a favore di una “legge” non statale è sempre stata ritenuta una non scelta, da cui deriva l’inevitabile ricorso alle regole internazional-privatistiche. In sintesi, la libertà di scelta risulta ampiamente assicurata con l’unico limite delle norme inderogabili di diritto italiano, che non potrebbero essere aggirate da scelte preordinate al fine di evitarne l’applicazione.

In concreto, tuttavia, non esistono riscontri sull’attuazione pratica delle regole esposte, e non è dato avere informazioni su quanto spesso le parti abbiano cambiato l’opzione iniziale (quella che si ricava dal contratto) come non è noto su quali leggi sia caduta la scelta.

Stranamente, nella vendita internazionale di beni mobili, è frequente la rinuncia all’applicazione della Convenzione di Vienna del 1980 (Cisg, di diritto uniforme) e la preferenza per le regole sulla vendita priva di elementi di estraneità, nello stesso o in un altro ordinamento.

Trattasi di un sacrificio importante perché la Convenzione è spesso più liberale delle discipline nazionali (ad esempio, per l’Italia, sui termini per la denuncia dei vizi della cosa venduta), e comunque promuove buona fede e uniformità nei Paesi che l’hanno adottata (art. 7). La rinuncia per qualunque motivo essa sia voluta (anche il più banale), è informale essendo sufficiente che essa risulti “chiara ed inequivoca”, secondo un orientamento ormai transnazionale, ed è vincolante per gli arbitri che ad essa dovranno attenersi.

Pare poi singolare il fatto che, mancando l’accordo fra le parti, non si torni alle regole del d.i.p., ma

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si demandi agli arbitri l’individuazione della disciplina applicabile col solo limite di volgersi alle norme sostanziali con cui il rapporto è più strettamente collegato. La concessione non è di poco conto. Sarebbe questa una regola di conflitto speciale, intesa a lasciare spazi diversamente (dal d.i.p.) non concessi. Si conviene, da un lato, che essa non attribuisce affatto poteri discrezionali, e dall’altro che la concretizzazione deve avvenire utilizzando i criteri della Convenzione di Roma. Ma sono temperamenti poco tranquillizzanti se si pensa che una scelta inopinata non è censurabile come errore in iudicando, e che lo stesso vale per la violazione o la falsa applicazione della legge scelta. Anche gli arbitri possono decidere che il rapporto sia regolato da discipline diverse, per aspetti diversi, ma neppure loro possono adottare, a parametro del giudizio, leggi non statali, e quindi non la lex mercatoria, non i principi Unidroit, ecc.

Gli arbitri non hanno requisiti formali da osservare, ma devono esprimersi nel corso della prima udienza, o comunque in tempo utile. Ovvio che gli interessati devono poter dedurre sulla congruità della determinazione, in riferimento alla regola di conflitto, fino al rifiuto e alla richiesta dell’applicazione di una legge diversa, questa volta di loro scelta. Non c’è decadenza, e visto altresì il regime dell’impugnazione per motivi di diritto (errore nell’applicazione dei criteri di conflitto), pare ragionevole consentire alle parti, finalmente d’accordo fra loro, una qualche possibilità di controllo.

Nell’insieme, l’intervento degli arbitri appare abbastanza improbabile nella grande maggioranza dei casi, quelli appunto delle controversie legate ad obbligazioni contrattuali, e sarà pertanto limitato a casi estremi, di palese insufficienza della legge applicabile, e contestuale contrasto fra le parti per la sua sostituzione. Comunque, non esistono riscontri giurisprudenziali in tema.

3. L’equità.

Anche a livello internazionale, le parti possono chiedere agli arbitri di giudicare secondo equità (ex aequo et bono), oppure con espressione equivalente in veste di amiable compositeur.

L’opzione va intesa nel senso, largamente prevalente, che gli arbitri debbano «radicare la decisione equitativa entro i cardini ed i principi generali di un certo ordinamento giuridico, quello indicato dalle parti» o da loro stessi. È la visione nettamente prevalente nel nostro sistema, all’interno del quale si valorizza la continuità delle scelte di equità con il diritto positivo, che resta il punto di partenza del giudizio, diritto che può essere corretto, ma non stravolto.

Si è detto che, nell’ipotesi in cui gli ordinamenti di riferimento siano diversi, la nozione di equità dovrebbe assumere «un significato tendenzialmente autonomo ed unitario», trascendendo – quasi

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sintetizzando – la portata precettiva delle diverse norme. Il che non sarà facile.

Se l’equità è la regola di giudizio, non ci sono ostacoli all’utilizzazione di regole non statuali, come la lex mercatoria, i principi Unidroit, e altro, rapportati naturalmente a qualche diritto nazionale.

4. Il procedimento. La concentrazione.

L’arbitrato è regolato dalla legge processuale del luogo in cui si svolge, e nel caso, frequente, di arbitrati amministrati, dalle norme regolamentari emanate dall’ente che gestisce il procedimento, integrate dalla lex fori.

Il modello di riferimento in Italia è il processo civile ordinario, la cui struttura si presume adatta anche agli arbitrati internazionali. Magari con scansioni meno diluite, e quindi un numero ridotto di udienze del Tribunale arbitrale, un’attività istruttoria non frammentata, ma sempre con comparse conclusionali, repliche, ed eventuale discussione orale. Tutto in una sequenza possibilmente ravvicinata, ma comunque senza continuità.

A livello internazionale, quel modello non è semplicemente proponibile, dovendosi al contrario soddisfare l’esigenza della massima concentrazione del procedimento, in difetto della quale l’arbitrato non può procedere.

La ragione è di assoluta evidenza. Gli arbitri che compongono il Tribunale sono sempre di estrazione diversa e non è facile ottenerne la disponibilità per più udienze, con tutto quello che ciò comporta in termini di tempi e costi. Lo stesso vale per le parti e per i legali che le rappresentano.

Assai spesso sono vere e proprie squadre di professionisti, aventi funzioni diverse, come, ad esempio, alcuni la presentazione del caso, altri la discussione finale, altri ancora l’esame dei testimoni, il contraddittorio sulle questioni di diritto, e via dicendo. Di fatto, non è raro vedere parti rappresentate da oltre dieci professionisti, di competenze differenziate, a cui si aggiungono i collaboratori di supporto, gli interpreti e i recorders.

Appare quindi assolutamente prevalente l’esigenza di concentrare le attività in un contesto temporale ristretto, organizzando un’udienza del Tribunale alla quale tutti gli interessati debbano partecipare, ed a cui segua la decisione in tempi ravvicinati. L’alternativa potrebbe essere quella di affollate riunioni in via telematica, ma è opzione difficile da realizzare, e in genere rifiutata, preferendosi ancora il contatto diretto.

In pratica, il Presidente del Tribunale arbitrale assegna alle parti con larghissimo anticipo i termini per la presentazione (in forma non succinta) della domanda d’arbitrato, quelli per la difesa ed eventuale riconvenzionale, e quelli per le risposte (fra gli uni e gli altri, spesso, centinaia di pagine).

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Esaurita la fase, Tribunali e parti (legali, esperti, traduttori) si riuniscono per una sola e decisiva udienza, di solito destinata a protrarsi per molti giorni, nel corso della quale gli avvocati illustrano le domande, sentono e interrogano i testi, e quindi deducono oralmente in via definitiva. Non sono previste comparse conclusionali e repliche, ma talvolta il Tribunale chiede alle parti di depositare note (indicando sempre un numero limitato di pagine) riassuntive delle deduzioni orali già svolte.

Qualche tempo dopo (non molto) gli arbitri si riuniscono per deliberare il lodo, e l’esperienza mostra come trovare una data conveniente per tutti non sia mai agevole.

5. La lingua dell’arbitrato.

È previsto che siano le parti ad indicare quale debba essere la lingua dell’arbitrato, e in ipotesi che gli arbitri possano scegliere quella che ritengono più opportuna, con disposizione importante per i procedimenti nazionali e ancor di più per quelli aventi elementi di estraneità. Trattasi di scelta non banale, anzi spesso addirittura decisiva per l’esito del procedimento.

Nella negoziazione del patto compromissorio, potrebbe essere utile optare per la stessa lingua del diritto sostanziale applicabile, oppure almeno convenire che la scelta cada sulla lingua di un Paese che appartiene alla stessa “famiglia giuridica” (nella classificazione di René David) del sistema sostanziale preferito, così tesaurizzando il patrimonio comune di conoscenza e tecnica applicativa:

ad esempio, l’italiano in conflitti da risolvere secondo il diritto tedesco, o quello francese, o brasiliano. Inevitabilmente sorgono complicazioni quando la lingua preferita è “sganciata” dal sistema di riferimento, come nel caso frequentissimo del ricorso all’inglese in controversie da definire secondo un diritto di civil law, o di matrice islamica, oppure asiatica. A cui spesso segue la considerazione che se si parla inglese, tanto vale avere arbitri o legali di lingua madre e quindi di formazione di common law, anche in quelle controversie. È ingenuo pensare che le nozioni trovino sempre e comunque una soddisfacente corrispondenza in sistemi diversi, e pericoloso (per le parti) non avvertire che gli istituti si nutrono di collegamenti interni che ne determinano i contenuti (si pensi ai rapporti fra buona fede e adempimento contrattuale). Non esistono trapianti automatici, ed è invece necessario impegnarsi in un’opera complicata di confronto, con metodo autenticamente comparativo. Più difficile quando la lingua eletta è l’inglese, egemone nell’arbitrato internazionale e, in quanto tale, veicolo per l’introduzione di categorie e istituti di common law anche in contesti diversi da quelli di appartenenza. È una vis atractiva difficilmente resistibile.

Com’è noto, nel processo ordinario l’uso della lingua italiana non è derogabile, nel senso che gli atti, i verbali, i provvedimenti del giudice, devono essere redatti a pena di nullità nella lingua

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nazionale (art. 122 c.p.c.; le eccezioni sono appunto tali), e nella stessa lingua devono essere tradotti i documenti. La regola è comprensibile, perché non si può pretendere che il giudice, non scelto dalle parti, ma a queste assegnato, conosca le più disparate lingue straniere, ma di fatto, tuttavia, l’ostacolo è arduo, perché l’obbligo di agire, difendersi, e soprattutto provare con riscontri in italiano può rendere difficile l’accesso alla tutela (ad esempio, quella cautelare e urgente).

Nell’arbitrato esistono, invece, margini di manovra concretamente utilizzabili. Come già detto, le parti hanno la facoltà di imporre la lingua da utilizzare negli atti, nelle produzioni documentali, nei rapporti con gli arbitri, e con gli altri soggetti (testi, consulenti), e infine nella redazione del lodo.

Non è preclusa la scelta di più lingue, da impiegare contemporaneamente, l’una in perfetta alternativa all’altra, oppure con prevalenza di una sulle altre, pure ammesse. Le scelte possono essere modificate anche nel corso del procedimento, di comune intesa.

Le ragioni a favore di una lingua diversa da quella italiana, in un arbitrato che si svolge in Italia, possono essere le più varie, e l’opzione addirittura può prescindere da qualunque circostanza in qualche modo legata al rapporto. Ad esempio, le parti potrebbero ritenere decisivo il fatto che siano in una certa lingua i documenti, specie se particolarmente complicati e voluminosi.

La preferenza condiziona la successiva scelta degli arbitri, degli avvocati, e dei tecnici. Se infatti le parti, determinata la lingua del procedimento, scelgono poi arbitri che non la conoscono, o che hanno difficoltà a comprenderla ed esprimersi nella stessa, non potranno dolersi della circostanza a nessun fine. I requisiti linguistici devono essere segnalati al terzo a cui venga eventualmente demandata la nomina, e se l’indicazione è trascurata, la nomina dovrebbe ritenersi invalida e censurabile, perché lesiva del diritto alla tutela dei compromittenti. Soluzione questa forse non praticabile se la nomina spetta al presidente del Tribunale a cui non si possono imporre oneri di ricerca e di verifica della sussistenza dei requisiti.

Analoghe considerazioni valgono per gli avvocati, che non possono chiedere che la carenza linguistica venga superata con la nomina di un interprete, essendo invece tenuti ad esprimersi nella lingua prescelta. Il vincolo linguistico dovrebbe valere anche in sede di consulenza tecnica, fra l’altro, avendo diritto le parti e i loro rappresentanti di assistere alle operazioni.

Per quanto concerne i documenti, le scelte delle parti possono essere le più varie, e nei casi più complessi sarebbe opportuno che fossero specificate in sede compromissoria. Se i documenti sono in una lingua diversa da quella dell’arbitrato, ma conosciuta dagli arbitri, dagli avvocati, e da quanti devono leggerli, può essere conveniente per tutti non pretenderne la traduzione. Altrimenti il requisito linguistico dovrà essere soddisfatto da chi effettua la produzione, a pena di inammissibilità della stessa, che sarà onere gravoso in molti casi, come ad esempio quelli in cui occorre dar conto di

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un certo indirizzo giurisprudenziale. Arbitri e parti possono accordarsi per una traduzione parziale di documenti particolarmente articolati (spesso centinaia di pagine irrilevanti).

La seconda ipotesi è che alla scelta della lingua provvedano gli arbitri, in base a considerazioni di opportunità. Si dovrà tener conto delle caratteristiche della controversia, della lingua del contratto, della legge sostanziale di riferimento, di quella processuale, della lingua in cui sono formati i documenti e di quella usata dalle parti nei loro rapporti. Non solo, perché occorre che gli arbitri attribuiscano rilevanza alle condizioni soggettive delle parti, al limite prevalenti su quelle oggettive, tanto che dovrebbe ritenersi illegittima, e lesiva del principio del contraddittorio, l’opzione per una lingua sostanzialmente sconosciuta ad una delle parti, o comunque tale da rendere particolarmente difficile l’attività difensiva.

Anche gli arbitri possono optare per l’uso contemporaneo di più lingue (ad esempio, l’italiano e l’inglese), possono prevedere la produzione nella lingua originale di documenti precostituiti, chiedere la traduzione, integrale o meno, di alcuni e non di altri in base alle esigenze concrete.

La lingua scelta (dalle parti o) dagli arbitri è quella in cui va redatto il lodo: il fatto che la sede dell’arbitrato sia in Italia, e che il provvedimento possa essere impugnato di fronte ai giudici statali, non comporta invece che il lodo debba essere redatto in italiano, se questa è la lingua diversa da quella convenuta. In caso di impugnazione, gli adempimenti burocratici saranno sostanzialmente gli stessi che si pretendono in situazioni simili: all’originale andrà unita una traduzione, e i documenti andranno tradotti.

Non è detto che la violazione dell’opzione linguistica giustifichi sempre un’impugnazione ex art.

829, n. 9, c.p.c., dovendosi valutare l’importanza dello scostamento caso per caso. Ad esempio, la produzione in arbitrato di documenti non tradotti può essere irrilevante; potrebbe valere altrettanto per l’uso di una lingua diversa da quella pattuita, nondimeno conosciuta dalle parti e dagli arbitri (accordo compromissorio dove si prevede l’uso della lingua inglese; atti redatti in italiano, con arbitri italiani, fra società straniere, ma domiciliate in Italia, difese da avvocati italiani); lo stesso per deposizioni testimoniali rese in una lingua ragionevolmente accessibile. In sintesi, occorrerà valutare l’effettiva incidenza della violazione sui diritti delle parti, e la sua rilevanza in sede di formazione del convincimento degli arbitri, prescindendo da prese di posizione aprioristiche.

6. La cognizione sul merito del giudice statale.

La norma dispone che se il lodo è annullato per alcuni dei motivi previsti dall’art. 829 c.p.c. (quelli elencati ai nn. 5, 6, 7, 8, 9, 11 o 12) la Corte d’Appello decide nel merito, salva diversa intesa fra le

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parti contenuta nella convenzione d’arbitrato o in accordi successivi.

La regola è opposta nell’ipotesi di arbitrato in cui almeno una delle parti avesse residenza o sede effettiva all’estero al momento della stipula del patto compromissorio. In tal caso, la Corte conosce del merito solo se le parti hanno così voluto nella convenzione d’arbitrato, o ne fanno concorde richiesta. Entrambe le cose sono rare, e la seconda più della prima risultando difficile che il soccombente sulla nullità accetti di far decidere il merito dalla stessa Corte che si è espressa in modo a lui avverso.

La disposizione dell’art. 830 c.p.c. è ispirata dall’intento di agevolare l’arbitrato internazionale in Italia, che è scopo al momento non raggiungibile. Non solo per il timore che in qualche modo, la cognizione della controversia finisca con l’essere devoluta al giudice statale, con tutte le complicazioni che la devoluzione ad arbitri voleva evitare, ma anche, e forse soprattutto perché in nessuna parte del mondo la durata del processo (specie d’appello) è di grandezza paragonabile a quella che conosciamo.

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