Prefazione
«La mediazione di preparare e acquistare, per i bisogni particolarizzati, il mezzo adeguato altresì particolarizzato, è il lavoro, che specifica, coi procedimenti più svariati, per questi molteplici fini, la materia, fornita immediatamente dalla natura. Ora, quest’elaborazione dà al mezzo il valore e la sua conformità allo scopo, sì che l’uomo, nel suo consumo, sta in rapporto particolarmente con i prodotti umani e sono tali fatiche che egli utilizza». Così scrive Georg Wilhelm Friedric Hegel nella sua ultima grande opera, i Lineamenti di filosofia del diritto apparsa nel 1821. Con queste considerazioni hegeliane si può affermare che ha inizio la riflessione contemporanea più matura e consapevole sul concetto del lavoro, mettendo fine alla tradizionale e classica svalutazione del lavoro che aveva invece dominato la cultura antica e anche quella medievale. Il citato paragrafo 196 dei Lineamenti di Hegel contiene infatti un rilievo invero fondamentale, alla luce del quale il lavoro è posto in relazione diretta coi bisogni, mettendo in piena luce la differenza sostanziale che esiste tra l’uomo e l’animale. Mentre l’animale, in genere, con scarse e comunque limitate eccezioni, consuma direttamente i prodotti naturali per garantire la propria sopravvivenza, al contrario l’uomo pone il lavoro come mediazione essenziale tra i suoi bisogni e la sua capacità di saperli soddisfare.
Solo grazie alla mediazione del lavoro umano la natura acquista un valore umano e diviene conforme allo scopo che l’uomo si è prefisso. Ma, d’altra parte, solo attraverso la soddisfazione del suo bisogno mediante la mediazione del lavoro l’uomo si realizza pienamente come uomo. Proprio perché, come si è accennato, mentre l’animale in genere si adatta più o meno passivamente all’ambiente in cui vive, al contrario l’uomo, per vivere, deve sempre trasformare, attraverso il lavoro, l’ambiente in cui vive.
Non solo: Hegel è anche consapevole come l’uomo, mediante il lavoro, sia in grado di avviare una duplice sua autonoma educazione: si educa infatti teoreticamente, perché il lavoro per essere esplicato richiede sempre delle conoscenze, ma si educa anche praticamente, perché lavorando l’uomo si adegua alla materia, si dà una disciplina e, in tal modo, acquista attitudini peculiari (proprie e specifiche di ciascun singolo lavoro). Per questa ragione per Hegel (e, con lui, per l’intera modernità occidentale) il lavoro costituisce la differenza essenziale tra l’uomo incivilito e il barbaro o l’ottentotto: quest’ultimo predilige la pigrizia, mentre il primo è invece educato al bisogno del lavoro e alla sua consuetudine. Ancora con le parole di Hegel: «nella molteplicità delle destinazioni e degli oggetti che interessano, si sviluppa l’educazione teoretica, non soltanto una molteplicità di rappresentazioni e conoscenze, ma anche una mobilità e rapidità del rappresentare e del trapassare da una rappresentazione all’altra, il comprendere le relazioni intricate e universali etc. – la educazione dell’intelletto in generale e, quindi, anche del linguaggio. – L’educazione pratica, per mezzo del lavoro, consiste nel bisogno che si produce e nella consuetudine dell’occupazione in generale; di poi nella limitazione del proprio fare, in parte secondo la natura della materia, ma in parte, principalmente secondo l’arbitrio altrui e secondo una consuetudine che s’acquista, mediante questa disciplina di attività oggettiva e di attitudini valide universalmente» (Lineamenti di filosofia del diritto, § 197).
Né basta, perché se si leggono ancora altre pagine del capolavoro hegeliano si può parimenti scoprire come il filosofo di Stoccarda abbia anche ben compreso – certamente sulla scorta di una precisa riflessione e di uno studio analitico dell’economia politica elaborata da Adam Smith – come
«l’universalità e l’oggettività nel lavoro risiede, però, nell’astrazione, che effettua la specificazione dei mezzi e dei bisogni e, appunto perciò, specifica la produzione e produce la divisione dei lavori»
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(§ 198). Ma proprio la divisione del lavoro sta anche alla base della meccanicizzazione del lavoro e nell’incremento del rapporto di dipendenza dai rapporti di scambio, ovvero della sua stessa mercificazione. Senza tuttavia dimenticare, come ancora annota giustamente Hegel, che «in questa dipendenza e reciprocità del lavoro e dell’appagamento dei bisogni, l’egoismo soggettivo si converte nel contributo all’appagamento dei bisogni di tutti gli altri, - nella mediazione dell’individuo, per mezzo dell’universale, in quanto movimento dialettico; così che, poiché ciascuno acquista, produce e gode per sé, appunto perciò, produce e acquista per il godimento degli altri» (§ 199). In tal modo si genera una «complicazione universale della dipendenza di tutti» entro la quale Hegel non manca neppure di rilevare la genesi di una crescita indefinita ed infinita degli stessi bisogni, il profilarsi della distinzioni tra le classi sociali e perfino la prossima possibilità della sostituzione dell’uomo con la macchina, proprio perché la divisione del lavoro riduce quest’ultimo ad alcune semplici funzioni per svolgere le quali l’uomo può essere agevolmente sostituito dalla macchina. Il che ha consentito ad Hegel di scorgere anche l’emergere della sempre più ampia dipendenza dell’uomo dalla macchina.
Certamente in tutte queste acute e puntuali considerazioni hegeliane sul lavoro la mediazione che quest’ultimo instaura tra l’uomo e il mondo naturale trova ancora un suo punto di riferimento privilegiato nel carattere spiccatamente e decisamente spirituale che Hegel gli attribuisce. Ma anche da questo punto di vista è tuttavia agevole rendersi conto come la corretta insistenza con cui Marx mette in piena evidenza, fin dai suoi altrettanto celebri Manoscritti economico-filosofici del 1844, il carattere pienamente naturale e materiale del lavoro umano, non modifica sostanzialmente il quadro di riferimento complessivo e il nuovo orizzonte culturale con cui Hegel ha trattato del lavoro umano contrapponendosi ad una tradizione plurimillenaria che aveva invece costantemente contrapposto l’ozio e la contemplazione al lavoro, considerando quest’ultimo, sostanzialmente, come una colpa e una pena. Certamente per Hegel il lavoro umano costituisce sempre una manifestazione o un momento della coscienza, essendo quindi espressione di un processo eminentemente spirituale, mentre in Marx il lavoro acquista, come si è accennato, un carattere affatto materiale e naturale che in Hegel manca.
Per Marx infatti, come si legge nella Ideologia tedesca, scritta con Friedrich Engels, ma rimasta inedita per molti decenni perché volutamente abbandonata dai suoi autori alla «critica roditrice dei topi», gli uomini iniziano a distinguersi dagli animali solo nel momento in cui iniziano a produrre i loro stessi mezzi di sussistenza. Ma per Marx tale produzione è naturalmente sempre condizionata dall’organizzazione fisico-sociale entro la quale gli uomini vivono. In tal modo per Marx ed Engels
«producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale». Il che implica proprio quel ribaltamento di valutazione del lavoro che era già presente nella riflessione hegeliana: per Marx ed Engels il lavoro, più che una condanna o una pena costituisce infatti il modo specifico e affatto peculiare in cui l’uomo realizza se stesso. Insomma:
per Marx ed Engels l’uomo è tale proprio perché lavora.
Non solo: il lavoro per Marx ed Engels costituisce anche il primo gesto storico, mediante il quale l’uomo è uscito dallo stato di natura – dalla condizione di animalità che condivide con tutti gli altri animali – iniziando a costruire una seconda natura, quella artificiale, ovvero il suo mondo entro il quale si è poi dipanata la storia stessa dell’uomo. Per questa ragione per questa prospettiva la storia dell’uomo coincide allora con la storia del lavoro e il primo gesto, ad un tempo storico e pienamente umano, è stato allora un gesto squisitamente tecnologico, con il quale l’uomo ha appunto iniziato a fare capolino entro una nuova realtà: un mondo artificiale che è tale perché nato dalla mediazione continua del lavoro umano che modifica e plasma una natura sempre resistente.
Questa storia dell’uomo intesa quale storia del lavoro coincidente, quindi, con la storia della tecnologia costituisce, allora, la stessa sfida esistenziale dell’uomo in quanto essere naturale che, per vivere, lavora. Sempre per questa ragione per Marx ed Engels la natura si configura come «il corpo inorganico dell’uomo» e l’uomo stesso perviene infine alla coscienza di sé come «specie di natura universale». Inutile aggiungere come questa innovativa disamina critica e demistificante del lavoro umano venga poi declinata, marxianamente, tenendo presente tanto i temi specifici
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dell’alienazione del lavoro entro il processo di produzione capitalistico, quanto quelli della divisione sociale tra classi in conflitto tra di loro, sempre agenti in un mondo reificato, entro il quale la merce finisce per fagocitare e subordinare tutti i rapporti umani, rovesciando, sistematicamente, anche il loro stesso valore intrinseco. Né occorre aggiungere come questi temi della storia umana quale storia del lavoro che si intreccia costantemente con la storia della tecnologia ci permetterebbe di ricollegarci anche, motivatamente, al programma politecnico di un razionalista come Carlo Cattaneo per il quale il primo bisogno sociale è nuovamente la capacità di conservare la vita che implica pertanto una stretta interrelazione tra le ardue regioni della scienza e il mondo della prassi, secondo il programma che, non a caso, ha appunto animato le differenti annate de Il Politecnico.
Tuttavia non è ora il caso di approfondire analiticamente questi temi che qui si sono accennati solo come un momento di libera riflessione stimolata dai dipinti di un pittore come Guglielmo Siega. Scorrendo queste pitture e le varie immagini che le contraddistinguono pare infatti di poter scorgere, quasi come un filo rosso che lega e collega i vari personaggi “autobiografici”, gli ambienti e i differenti momenti presenti nei dipinti, proprio il tema del lavoro e il suo stesso rapporto con l’ambiente mediterraneo che sempre fa da sfondo ai vari scorci. Ma allora, come non ripensare alle vicende del mediterraneo, à la Braudel, quale luogo di scambio, di incontro, di scontro e, quindi, anche di civiltà e di lavoro che si è delineata entro la storia?
A ben considerare le cose proprio questo tema del lavoro dovrebbe oggi essere forse riconsiderato e approfondito, soprattutto da noi europei, in un momento in cui le nostre economie sono sotto un palese e feroce attacco, mentre alcune forze cercano anche di imporre dei governi espressione di forze economiche che, in qualche caso, hanno addirittura sospeso la democrazia. In questa drammatica situazione non sarebbe allora inutile tornare a riflettere seriamente sul tema del lavoro, non solo per meglio intendere le gravi e profonde antitesi della contemporaneità, ma anche per riuscire a delineare un diverso percorso di sviluppo e di crescita che sappia mettere al centro del lavoro l’Europa dei popoli e delle città municipali e non già quella delle banche e del profitto.
Fabio Minazzi
Ordinario di Filosofia teoretica Università degli Studi dell’Insubria
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