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Academic year: 2021

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una città

n. 259

mensile di interviste

(2)

L’estate di Hong Kong

Lettera da Hong Kong Di Ilaria Maria Sala (p. 3)

La forza del gruppo

Cosa significa perdere il lavoro Intervista a Ylenia Mazza (p. 6)

Vizi privati(stici) e pubbliche virtù

Essre precari nel pubblico impiego Di Massimo Tirelli (p. 10)

Il 118

Di pronto soccorso preospedaliero Intervista a G. R. (p. 13)

643.264 tonnellate

Sul terremoto del 2016

Intervista a David Piccinini (p. 18)

Il consenso totalitario

Su come agisce la gente sotto i regimi Intervento di Paul Corner (p. 26)

Una piccola agorà

Di comunità, confini e memoria

Intervista a Krzysztof Czyzewski (p. 32)

Un altro dittico. Giuseppe Conte e Giorgio Manacorda

Alfonso Berardinelli (p. 38)

La Moudawana del 2004

Emanuele Maspoli (p. 41)

I miei amici microbi e le pesti urbane

Bruno Giorgini (p. 43)

Dopo le elezioni europee

Maura Lucci-Mudersbach(p. 43) Silenzio Belona Greenwood (p. 44) 900fest 2019 il programma e la locandina (p. 46)

“Sarebbe ingiusto dire che i democratici vogliono essere governati dagli stupidi e dagli ignoranti. Nessun

difensore della democrazia ha mai affermato che la stupidità e l’ignoranza siano virtù di per sé. Ma è

senz’altro vero che la democrazia non discrimina sulla base della mancanza di conoscenza,

e che mette in secondo piano la capacità di riflettere con intelligenza su questioni difficili.

Ciò che conta è capire se un individuo verrà coinvolto dall’esito delle decisioni.

Alla democrazia interessa soltanto che gli elettori restino nei paraggi

abbastanza a lungo da convivere con i propri errori”.

“La democrazia non trova quasi mai le risposte giuste, ma è bravissima a scartare quelle sbagliate. Inoltre ha

la grande capacità di smentire le persone che pensano di sapere sempre cosa fare. La politica democratica

accetta che nessuna domanda abbia una risposta fissa e fa in modo che sia così assegnando un voto a

ciascuno, ignoranti compresi. La casualità della democrazia – che rimane la sua dote essenziale – ci

protegge dal rischio di restare impantanati in idee davvero pessime.

Significa che niente dura a lungo, perché arriva sempre

qualcos’altro a scombinare le carte”.

(David Runciman, Così finisce la democrazia)

La copertina è dedicata ai democratici di Hong Kong. Sul manifesto affisso su un muro la scritta: “La polizia ha portato il caos a Hong Kong, non è possibile avere pace”. Qui a fianco, Ilaria Maria Sala ci racconta “in diretta” delle giornate di Hong Kong. La lotta dei giovani e di tantissimi hongkonghesi contro una legge iniqua si è trasformata in una lotta per la democrazia: il colosso totalitario è lì e aspetta e fa paura. Anche a noi, che pur simpatizzando per i manifestanti, non ci azzardiamo più a denunciare un regime orribile: troppo grande, e troppi interessi, troppo commercio. Ma se Hong Kong finirà nel sangue l’Occidente cosa farà? Cosa faremo? Perdere il lavoro provoca uno stato emotivo simile, per sintomatologia, a una depressione maggiore: il senso di vergogna, oltre che di colpa, il ritiro, le tensioni in casa, la desolazione...; il ruolo, cruciale, dei gruppi di auto aiuto, per uscire dalla solitudine e da un circolo vizioso spesso autosabotante; l’insopportabile associazione disoccupato-divano e la sfida, anche per i servizi di reinserimento, di riattivare le risorse dei singoli. Intervista a Ylenia Mazza.

L’emergenza preospedaliera, un campo della medicina poco conosciuto e poco ambito dagli aspiranti medici, per l’ansia che comporta la necessità di decidere in fretta, il diretto contatto con i parenti, e pure la paura delle denunce, in realtà non giustificata dalle statistiche, perché i parenti capiscono le difficoltà di decisioni prese in condizioni spesso estreme; una di queste, la peggiore per un medico, quella di dover scegliere su chi intervenire per primo in un incidente con più feriti gravi; l’impagabile soddisfazione nel veder tornare alla vita un ferito il cui cuore s’è fermato. Intervista a G.R.

All’origine del sisma del 2016, continuazione della sequenza iniziata nel 1997 e proseguita nel 2009 con il terremoto de L’Aquila, lo stiramento della placca adriatica verso i Balcani. La sfida della protezione civile di combinare vicinanza ed empatia con una rigorosa tenuta documentale e il rispetto dei vincoli ambientali. L’intervento per gestire il milione di tonnellate di macerie; l’orizzonte del rientro, ancora molto lontano. Intervista a David Piccinini.

A Sejny, cittadina polacca di seimila abitanti, al confine con la Lituania, crocevia di popoli, culture e religioni, all’indomani della caduta del muro, un piccolo gruppo di artisti e pedagoghi ha avviato un lavoro di ricostruzione delle memorie dimenticate o negate e anche dei legami di vicinato tra comunità da tempo interrotti; le “Cronache di Sejny”, l’orchestra Klezmer, il teatro, i libri, il centro di documentazione... Intervista a Krzysztof Czyzewski.

agosto-settembre 2019

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Ylenia Mazza, psicologa, è specializzata in formazione e orientamento al lavoro.

Vorremmo parlare con te dei pro-blemi che incontrano le persone che vogliono rientrare nel mercato del la-voro dopo lunghi periodi di disoccu-pazione.

Parto dalla mia esperienza. Ormai tre anni fa, insieme a due colleghi, abbiamo proposto al Comune di Buccinasco, in pro-vincia di Milano, un progetto di accompa-gnamento delle persone rimaste fuori dal mercato del lavoro. In particolare ci vole-vamo focalizzare su un problema che soli-tamente non è così affrontato dai profes-sionisti che si occupano di quest’ambito e cioè la solitudine legata alla perdita del la-voro.

L’idea quindi era di affrontare, non solo la perdita del lavoro come situazione econo-mica da arginare in fretta, ma anche il vis-suto emotivo e relazionale dei disoccupati di lungo corso.

La prima cosa da dire è che chi perde il la-voro vive uno stato emotivo, psicologico si-mile, per sintomatologia, a una depres-sione maggiore. La persona che perde il la-voro perde infatti una parte di sé, perché il lavoro è un forte e potente organizzatore della vita sociale ed emotiva, quindi del-l’identità di ciascuno di noi. Noi tutti ci svegliamo la mattina, ci alziamo, ci prepa-riamo perché abbiamo dei compiti che ci aspettano, abbiamo delle persone da in-contrare, con cui collaborare; nel posto di lavoro trascorriamo la maggior parte della nostra giornata. Nel nostro lavoro met-tiamo in campo la nostra professionalità, le nostre competenze.

Quando perdi il lavoro, viene improvvisa-mente a mancare tutto il pezzo che ab-biamo descritto. La persona non si trova solo senza lavoro, ma anche quasi senza un’identità, che è strettamente collegata con la sua autostima.

Tipicamente sopravvengono anche sensi di colpa; alcuni attribuiscono l’intera

respon-sabilità a se stessi, altri all’azienda. Chiunque perda il lavoro passa attraverso questo vissuto che può aggravarsi se non si trova una nuova occupazione in un tempo breve e ragionevole. Tanto più è prolungato il periodo di disoccupazione tanto più la persona sprofonda in uno stato di desolazione, soprattutto se rimane sola. Parliamo di un disagio che, se non viene preso in carico da qualcuno, un gruppo di mutuo aiuto, un’equipe di pro-fessionisti, un esperto di reinserimento la-vorativo, può diventare anche autosabo-tante.

Dicevi che uno dei problemi più gravi di chi rimane fuori dal mercato del la-voro è la solitudine, l’isolamento...

Quello che succede in questi casi è che la persona comincia gradualmente a ritirarsi dalla vita sociale, per senso di vergogna, sfiducia, scarsa autostima, paura di essere giudicati. Ci si allontana dagli ex colleghi, dagli amici, persino dai familiari; un ritiro sociale che ovviamente non favorisce il reinserimento. Molte persone si vergo-gnano di chiedere aiuto alla rete delle per-sone che hanno attorno; esitano a proporre autocandidature a enti, associazioni, realtà lavorative, sottraendosi così alla più clas-sica ed efficace modalità di reinserimento lavorativo nel nostro paese, il cosiddetto passaparola.

Nei gruppi in cui abbiamo lavorato, ci siamo soffermati su questo aspetto: molti vivono il passaparola come una “racco-mandazione”, quindi come qualcosa di ne-gativo e non come un semplice riconoscere i meriti delle persone conosciute, come una segnalazione che poi andrà comunque va-gliata.

Questo ritiro dalla vita sociale finisce non solo per sabotare la ricerca di una nuova occupazione, ma anche per innescare una

spirale negativa, in cui si rafforza il senso di sfiducia verso di sé, perché poi i mesi, gli anni passano… e anche la speranza viene meno.

Puoi raccontare come funzionano i gruppi di mutuo aiuto?

A Buccinasco, accanto a un ciclo di incontri di gruppo, era previsto anche un sostegno individuale, in cui si è cercato di costruire il cosiddetto “bilancio di competenze”, sem-pre nell’ottica di una “riattivazione” perso-nale nella ricerca del lavoro.

Il gruppo era piuttosto eterogeneo, era composto all’incirca da metà uomini e metà donne, di età compresa tra i 30 e i 55 anni, di estrazione sociale diversa, con pre-gresse posizioni lavorative molto diffe-renti, da babysitter a manager. C’erano in-fatti un paio di manager di aziende del set-tore metalmeccanico, ma anche degli ope-rai, alcuni vicini alla pensione, altri più giovani.

Un gruppo quindi estremamente vario. Questa è stata una scommessa, ma anche una scelta. Noi l’abbiamo fatto con cogni-zione di causa. In quella prima fase il no-stro obiettivo non era infatti l’orienta-mento al lavoro, bensì la “normalizza-zione” del vissuto di disoccupazione. Fin dal primo giorno abbiamo chiara-mente definito la disoccupazione come un periodo che va dalla perdita del lavoro pre-cedente al ritrovamento di un nuovo la-voro. Un periodo certo drammatico, pieno di emotività e di vissuti faticosi, di senso di inutilità e di sconfitta, ma pur sempre un periodo da cui si può uscire. Sottolineo questo perché un altro vissuto della per-sona che perde il lavoro è il senso di infi-nito, cioè la percezione che questa situa-zione non finirà mai. Percesitua-zione che certa-mente non aiuta nella ricerca di un nuovo lavoro.

Quindi è importante contestualizzare il tema della disoccupazione, e il trauma connesso, anche in una di-mensione temporale.

Sì, perché il vissuto psicologico legato alla

LA FORZA

DEL GRUPPO

Perdere il lavoro provoca uno stato emotivo simile, per sintomatologia, a una depressione

maggiore: il senso di vergogna, oltre che di colpa, il ritiro, le tensioni in casa, la desolazione...;

il ruolo, cruciale, dei gruppi di auto aiuto, per uscire dalla solitudine e da un circolo vizioso

spesso autosabotante; l’insopportabile associazione disoccupato-divano e la sfida, anche

per i servizi di reinserimento, di riattivare le risorse dei singoli. Intervista a Ylenia Mazza.

problemi di lavoro

quel senso di infinito, cioè la percezione che la condizione

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perdita del lavoro è fortemente connesso con la durata della disoccupazione: più lungo è il periodo in cui si rimane fuori dal mercato del lavoro, più il vissuto di fru-strazione si incancrenisce.

Il tempo, insomma, è una variabile impor-tante anche rispetto al rischio di finire sul cosiddetto divano; cosa che comunque ra-ramente avviene in maniera cercata o vo-luta.

Qui il rischio enorme, gravissimo, è quello di non credere più nell’opportunità di tro-vare una nuova occupazione. Perché que-sto non accada è fondamentale, per i ser-vizi, farsi carico anche del vissuto della persona. Questo, a mio avviso, dovrebbe essere un passaggio propedeutico a qual-siasi intervento di aiuto. Purtroppo, in-vece, si tratta di un aspetto che viene poco considerato e comunque sottovalutato quando la persona si interfaccia con i ser-vizi. Le politiche attive e gli strumenti di aiuto alla persona sono tendenzialmente concentrati sullo specifico obiettivo del reinserimento.

Trascurare questo aspetto può vanifi-care anche un intervento di reinseri-mento ben fatto.

È così. Spesso, alcuni colleghi mi raccon-tano che, proprio nel momento in cui ave-vano trovato una posizione lavorativa per un disoccupato di lungo corso, in cui cioè si era realizzato il famoso matching tra la-voratore e azienda, quella stessa persona fallisce il colloquio di lavoro (nonostante magari l’avessero preparato insieme, aves-sero fatto delle simulazioni) oppure addi-rittura non si presenta. Questo è tanto più vero per i soggetti svantaggiati, per i disa-bili, per le persone con difficoltà emotive o personali, ma vale un po’ per tutte le cate-gorie.

Il fatto è che la persona rimasta fuori dal mondo del lavoro per tanto tempo, a volte arriva all’opportunità “non pronta” a rein-serirsi, perché banalmente magari ha tra-scorso gli ultimi anni della sua vita chiusa in casa e quindi non è più abituata a te-nere certi ritmi, a gestire situazioni di ten-sione, ecc. Non trattare prima il vissuto le-gato alla perdita del lavoro, anche sempli-cemente chiedendo alla persona se si sente pronta, se ha bisogno di aiuto, o provando a capire assieme come superare lo scoglio della sfiducia in sé, può portare al falli-mento anche l’azione di reinserifalli-mento più efficace. Ovviamente ora parliamo di casi specifici. Molte persone riescono comun-que a completare il percorso e a rientrare nel lavoro. Qui stiamo considerando quella

fetta di persone che vivono questa fase con particolare drammaticità.

Hai registrato delle differenze nei comportamenti di uomini e donne?

Gli uomini tendono a vivere con maggiore drammaticità la messa in crisi della loro identità sociale e professionale; provano anche una maggiore vergogna perché so-cialmente persiste questa idea dell’uomo

breadwinner, che deve comunque

provve-dere alla famiglia. Una donna che rimane a casa rientra in un modello socialmente accettato, mentre un uomo che perde il la-voro si sente più stigmatizzato.

Attenzione, qui si parla di vissuti perso-nali: non è detto che le persone intorno lo considerino realmente un fallito, ma que-sto è quello che lui sente.

Quindi, in base alla mia esperienza, direi che gli uomini vivono la perdita del lavoro con maggiore drammaticità. Però sempre più anche le donne, oggi che finalmente possono spendere le proprie competenze nell’ambito lavorativo e non solamente fa-miliare, vivono la disoccupazione con gran-dissima frustrazione. Qui bisognerebbe aprire anche tutto il tema della maternità, che spesso è motivo di interruzione del rapporto di lavoro per le donne, che poi fanno grande fatica a reinserirsi.

Sono vissuti del tutto simili a quelli che abbiamo descritto.

Partner, colleghi, amici, sono di aiuto o di ostacolo in questo percorso? In che modo possono diventare degli al-leati?

Non è facile rispondere a questa domanda. Le persone più vicine non sempre sono di aiuto. La perdita del lavoro è un dramma per una famiglia. A volte è la miccia che fa scoppiare un disagio pregresso. Non di rado la perdita del lavoro porta a separa-zioni, divorzi. Anche all’interno del gruppo, un paio di persone avevano portato proprio il problema della solitudine tra le mura do-mestiche. Qui però la questione è com-plessa perché a volte è la persona stessa che perde il lavoro a chiudersi in sé, a di-ventare scontrosa e poco disponibile a es-sere aiutata. Proprio per il famoso senso di vergogna e sfiducia che abbiamo descritto. Insomma è anche la persona a allontanare gli altri. Purtroppo si può innescare un cir-colo vizioso.

Dicevi che quando la persona disoc-cupata trova il coraggio di chiedere aiuto spesso riceve risposte inaspet-tate...

Questa è una cosa che ha molto stupito gli utenti, chiamiamoli così, che hanno parte-cipato al nostro percorso. Una volta che hanno ricostruito la loro rete, semplice-mente buttando giù con foglio e penna l’elenco delle persone a cui avrebbero po-tuto chiedere aiuto, o dei conoscenti con

cui fare due chiacchiere; ecco, quando hanno iniziato a contattare i primi nomi, hanno avuto risposte di forte solidarietà. Per loro è stata una grande sorpresa, non se lo aspettavano.

Questo a dimostrazione di come a volte sia lo stesso vissuto della persona a sabotare il percorso di uscita dalla disoccupazione. Una persona in uno stato depressivo tende a pensare che gli altri la giudichino così come lei giudica se stessa. Invece non è così. D’altra parte loro stessi non giudiche-rebbero male una persona che ha perso il lavoro.

Nel dibattito degli ultimi mesi, c’è stata molta enfasi sul rischio che il reddito di cittadinanza si trasfor-masse in un comodo “divano” per il disoccupato, spesso descritto come uno scansafatiche che vuole stare alla larga dalla fatica e dal travaglio, per farsi mantenere dalla collettività. Nella tua rappresentazione il divano risulta invece il potenziale esito di un tragitto di progressivo deteriora-mento delle relazioni e dell’auto-stima.

Nella mia esperienza, e relativamente al contesto in cui ho lavorato, non ho incon-trato alcun desiderio di stare sul divano. In realtà queste persone vorrebbero tor-nare a lavorare, ma per tante ragioni non ce la fanno.

Teniamo presente che una persona che magari rivestiva un ruolo anche di respon-sabilità nel mondo del lavoro e improvvi-samente si trova a casa, in qualche modo deve ricostruire anche l’immagine di sé. Ritrovarsi, dopo un lungo periodo di disoc-cupazione, senza alcun motivo per alzarsi, senza alcuna fiducia in sé, senza prospet-tive… certo, nei mesi, negli anni questo può portare al cosiddetto divano.

Dopodiché, se è un divano in cui si perce-pisce comunque una forma di reddito, sia il reddito di cittadinanza o altri ammortiz-zatori sociali, questo lo può rendere legger-mente più confortevole. Perlomeno si può provvedere ai propri bisogni di base. Ma siamo lontanissimi dal tema della pigrizia. C’è anche un’altra possibile immagine e funzione del divano. La persona che esce dal mondo del lavoro ha bisogno di un tempo per elaborare un’esperienza comun-que traumatica, per prender fiato, quindi non ci sarebbe nulla di male a prevedere un periodo di defaticamento, in cui questa recupera le energie, magari torna pure a studiare, per poi rimettersi in gioco. Io faccio anche coaching e a volte le aziende

la persona rimasta fuori dal mondo del lavoro per tanto

tempo, a volte arriva all’opportunità “non pronta”

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ci chiedono aiuto perché nel tempo i dipen-denti si demotivano, perdono il senso di quello che fanno. Ecco, la formazione, per esempio, è una potente fonte di freschezza, di rigenerazione. Detto questo, non voglio neanche negare il rischio che alcune per-sone possano adagiarsi, possano approfit-tarsene, però non mi sembra questo il vero tema.

L’essere umano è portato a reinventarsi, ridefinirsi, riprogettarsi. Non a caso, rima-nere fuori dal mondo del lavoro per tanti anni porta allo sfociare di patologie anche di tipo psicologico. Le persone che vengono seguite dai Cps o che si iscrivono poi alle liste delle categorie protette a volte hanno sviluppato sintomi di fobia, passività, forte disagio anche in seguito a lunghi periodi di disoccupazione. La stessa Organizza-zione mondiale della sanità riconosce che abbiamo bisogno di sentirci utili per stare bene.

Quindi, per concludere, il divano potrebbe forse anche essere comodo all’inizio, ma nel lungo periodo ho l’impressione che rap-presenti una condizione da cui le persone vorrebbero in realtà allontanarsi.

Hai parlato dell’importanza di occu-parsi del vissuto delle persone che hanno alle spalle lunghi periodi di di-soccupazione, ma gli operatori impe-gnati nelle politiche attive del lavoro sono preparati per rispondere a que-sti bisogni?

Gli operatori con cui mi sono trovata a col-laborare, proprio perché lavorano a stretto contatto con le persone, conoscono il pro-blema e sono molto motivati. Ad oggi, l’iter non prevede una rielaborazione del trauma da perdita di lavoro, però, se vo-gliamo, il bilancio delle competenze, il coa-ching, possono diventare forme di accom-pagnamento a tutto campo.

Certo, alcuni operatori non sono formati da un punto di vista psico-sociale o educa-tivo, adottano più un approccio aziendale, per cui sono molto efficaci nella fase del reinserimento, che è comunque una parte fondamentale delle politiche attive, meno sull’altro versante. Direi che qui vedo più un problema di risorse, forse anche di or-ganizzazione. C’è pure la questione dei tempi e degli spazi. Spesso gli incontri av-vengono in open space, quindi manca la ri-servatezza necessaria ad aprirsi su tema-tiche delicate. Anche i tempi sono contin-gentati...

Voi avete scelto di lavorare nella di-mensione del gruppo, perché?

Perché il gruppo è fondamentale. Io dico

sempre che il gruppo fa la metà del lavoro, perché permette di rispecchiarsi negli altri, e quindi in qualche modo di “norma-lizzare” il proprio vissuto. Questo è vero a maggior ragione nei gruppi eterogenei, dove per esempio un manager e un ope-raio, confrontandosi, possono scoprire che -guarda un po’- hanno un vissuto molto si-mile. Perché la perdita del lavoro, qualun-que fosse la posizione, l’estrazione sociale, la condizione socio-economica, provoca sempre un trauma, una ferita alla propria identità. Il potere del gruppo sta tutto qui.

Dal tuo osservatorio, quali sono gli elementi che aiutano a uscire dalla spirale negativa che descrivevi?

Come dicevo, sicuramente lo rispecchiarsi nelle altre persone senza essere giudicati. Dire ad alta voce quello che provi davanti a un gruppo di persone che provano un vis-suto simile aiuta a non sentirsi più degli alieni o delle persone “sbagliate”; attutisce anche il senso di colpa. Quello che si sco-pre nel gruppo è che si tratta di un vissuto normale che purtroppo provano tutte le persone che perdono il lavoro. Può sem-brare una banalità, ma questo aiuta tan-tissimo. Un altro elemento cruciale è il co-siddetto empowerment, cioè il riappro-priarsi della fiducia in sé e del controllo sulle proprie decisioni, e quindi la consa-pevolezza di poter trovare un nuovo lavoro con le proprie forze.

Purtroppo le persone sono tendenzial-mente molto sfiduciate verso i servizi che si occupano del reinserimento lavorativo. Questo mi rammarica perché a fronte della presenza di operatori motivati e pre-parati, resta la percezione da parte del sin-golo utente di un’inutilità di certi percorsi. Per carità, conosciamo bene i limiti dei ser-vizi, però, a volte, anche solo fornire alla persona dei dati, dei canali di ricerca, delle indicazioni, ma soprattutto aiutarla a re-cuperare un po’ di autostima, a mettere a fuoco le proprie competenze, può rappre-sentare l’impulso a invertire la tendenza. Ecco allora che dal divano depressivo si passa al: “Magari domani chiamo quel mio ex collega e gli dico che sono ancora a casa e chi lo sa...”.

Le persone rimaste a casa dal lavoro come trascorrono le loro giornate?

È molto toccante ascoltare le loro storie. Quello che ti dicono tipicamente è: “La mattina apro gli occhi e penso: adesso che cosa faccio nella mia giornata?”. Poi ci sono le persone più strutturate, che si alzano comunque, si lavano il viso, fanno cola-zione, si vestono e si inventano qualcosa da fare. Magari dedicano una parte della giornata alla ricerca del lavoro, ma poi escono, vanno un po’ al bar, insomma, cer-cano di mantenere un ritmo. Qui conta anche il carattere, il temperamento.

Chi invece perde il ritmo vive la situazione più drammatica. Ritmo poi vuol dire anche relazioni sociali. Il fatto è che farsi vedere alle undici di mattina al bar vuol dire ren-dere esplicita la propria condizione. Biso-gna essere pronti a farlo.

All’interno dei gruppi affrontiamo anche questo scoglio: è importante riprendere un ritmo, non importa che cosa facciamo... Un’altra cosa importantissima è invertire il vissuto di punizione: “Ho perso il lavoro e allora adesso devo mettermi a testa bassa a cercarne uno nuovo...”. Invece no. Nei gruppi spieghiamo che, per ricaricarsi e riprendere quella voglia di uscire, di aprirsi al mondo, occorre certamente dedi-care una parte del tempo al curriculum, a spargere la voce, però poi bisogna anche fare delle cose belle, che ci fanno stare bene. Capisco che può suonare quasi un paradosso. Infatti il gruppo reagisce sem-pre con uno sguardo perplesso a questa provocazione, però poi capisce. Non biso-gna punirsi. È importante prendersi cura di se stessi, specie in queste fasi. Il divano, se vogliamo tornare alla metafora, an-drebbe benissimo se fosse inteso come un periodo in cui riprendere in mano la pro-pria identità, dedicandosi anche a cose piacevoli.

C’è gente che ha sgobbato per vent’anni per la propria azienda: perché non do-vrebbe concedersi qualche ora per fare delle cose, una passeggiata, una gita, uno svago, che prima non poteva permettersi? Invece la reazione classica è: mi chiudo in casa. Così mi punisco doppiamente.

Dicevi che una volta conclusa l’espe-rienza, le persone hanno continuato a frequentarsi in qualche modo...

Alla fine dell’esperienza, sono stati gli stessi partecipanti al gruppo a proporci di continuare con un Job Club. Il Job Club è una formula molto interessante; si tratta di un percorso di auto mutuo aiuto fondato anch’esso sull’idea che “il lavoro si trova assieme”. In concreto, attraverso degli strumenti messi a disposizione da un por-tale, si possono cercare, nell’ambito del proprio territorio, altre persone che hanno perso il lavoro. Si formano così piccoli gruppi di mutuo sostegno, in cui le persone si accompagnano nella ricerca di un lavoro seguendo un programma abbastanza strut-turato e con l’aiuto di un facilitatore che deve appunto aiutare le persone ad aprirsi, a scommettere su di sé. Perché alla fine, come dicevo, è il gruppo che fa il grosso del lavoro.

In conclusione, devo dire che tutte le

per-la stessa Organizzazione mondiale della sanità riconosce che abbiamo bisogno di sentirci utili per stare bene

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sone che hanno partecipato al nostro per-corso hanno continuato con il Job Club, a conferma della forza del gruppo. Molte hanno infine trovato lavoro e chi non l’ha trovato si è iscritto a percorsi di forma-zione.

La vostra esperienza fa pensare come, al di là degli strumenti che permet-tono l’incontro domanda-offerta, alla fine la vera sfida sia riattivare le ri-sorse dei singoli, dar loro gli stru-menti per riprendere un percorso au-tonomo...

I servizi, in effetti, rischiano di operare in maniera quasi sostitutiva rispetto alle per-sone. Il nostro obiettivo è invece quello di favorire una modalità autonoma, in cui il

protagonista resta la persona e non il ser-vizio che si sostituisce all’interessato risol-vendogli il problema.

Certo, in alcuni casi specifici, di grave fra-gilità, è giusto che il servizio intervenga in modo più pesante. Penso al caso delle per-sone iscritte alle categorie protette, dove non può che essere il servizio a effettuare l’intermediazione.

Negli altri casi la cosiddetta “presa in ca-rico” dovrebbe invece avere come obiettivo l’autonomia. Se insegniamo alle persone come navigare in queste fasi, se dovesse ri-capitare, avranno fatto propri gli stru-menti necessari a reinserirsi, perché sa-pranno orientarsi non solo nel contesto del-l’inserimento lavorativo, ma anche nello

scompiglio emotivo che provoca la perdita del lavoro. Mi sembra che quando si parla di politiche attive, l’orizzonte dovrebbe es-sere quello di offrire alla persona gli stru-menti per poter cercare da sé una nuova occupazione. Intendiamoci, ovviamente l’informatica, le nuove tecnologie, le ban-che dati sono fondamentali, ma non ba-stano. Anzi, arriverei a dire che sarebbe anche poco coerente investire pressoché esclusivamente su questo versante, quan -do sappiamo che la stragrande maggio-ranza delle persone nel nostro paese an-cora trova lavoro attraverso il passaparola.

(a cura di Barbara Bertoncin e Sergio Bevilacqua)

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