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1. IL SISTEMA REPRESSIVO STALINIANO 1.1. Le origini

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1. IL SISTEMA REPRESSIVO STALINIANO 1.1. Le origini

Il sistema repressivo staliniano si consolidò tra il 1929 e il 1949. La parola Gulag è l’acronimo di Glavnoe Upravlenie Lagerej, Amministrazione generale dei campi, organizzazione istituita nel 1930. Originariamente era solo una delle tante articolazioni di un sistema penitenziario in continua espansione, ma col tempo divenne il simbolo di tale sistema e la sigla GULag ha assunto il valore di un concetto politico e morale. Il termine infatti è passato a indicare non soltanto l’amministrazione dei campi di concentramento, ma anche l’intero sistema sovietico di lavoro forzato, in tutte le sue forme e varianti: campi di lavoro, campi di punizione, campi per criminali comuni e politici, campi femminili, campi per bambini, campi di transito. In un’accezione ancora più ampia, Gulag denota ormai lo stesso sistema repressivo sovietico.

Nel regime staliniano l’esistenza del GULag veniva negata o fatta passare per qualcos’altro. Il lavoro correttivo esisteva, dicevano i leader sovietici, ma nel contesto di un atteggiamento umanitario nei confronti dei detenuti:

rieducarli per restituirli alla società. I cittadini sovietici erano convinti che il

lavoro nel GULag fosse svolto in maniera più blanda e di certo più costruttiva

rispetto ai sistemi carcerari occidentali.

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Il GULag non rappresenta una realtà a sé stante all’interno dell’orizzonte sovietico, ma cresce e si sviluppa con l’evoluzione della società sovietica. Le varie fasi che caratterizzano lo sviluppo del GULag vanno di pari passo con l’attenuarsi o l’acuirsi del terrore staliniano, lasciando la memoria di epoche migliori e peggiori.

Il sistema delle colonie e dei campi di lavoro e la sua amministrazione centrale, il GULag, vennero creati ed estesi nel corso degli anni per contenere i flussi continui di persone di ogni categoria sociale, nazionalità, sesso ed età, che venivano condannate per crimini reali e presunti, per reati politici o comuni, all’esilio o ai lavoro forzati. La formazione di questo sistema fu graduale e strettamente legata alle contingenze politiche e ai problemi di sicurezza e di organizzazione che le scelte repressive imponevano.

All’inizio, quando le repressioni di massa non avevano ancora avuto luogo, l’idea di sfruttare manodopera forzata venne formulata come sistema per aprire nuove miniere e bacini industriali. Successivamente la crescita dell’utilizzazione di manodopera forzata fu la diretta conseguenza della situazione di emergenza venutasi a creare con le repressioni di massa.

Il problema di creare un sistema penitenziario in grado di contenere enormi

flussi di detenuti e di non pesare troppo sulle finanze dello stato ricevette di

volta in volta risposte diverse. Fu proprio per rispondere a questa esigenza che

si stabilì la pratica di utilizzare manodopera forzata per realizzare dei lavori

utili alla società. È in questo quadro che si inserisce la costruzione del Canale

Mar Bianco-Mar Baltico, snodo fondamentale nell’evoluzione del sistema

penitenziario sovietico, non solo perché impresse al sistema carcerario una

direzione ben precisa, ma anche perché, grazie alla straordinaria dose di

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propaganda che circondò l’opera, sancì la legittimazione dell’uso della manodopera forzata.

1.2. Prima del canale Mar Bianco-Mar Baltico

Il sistema penitenziario sovietico e i suoi organi di controllo non nascono con Stalin. Già alla fine del 1919 i luoghi di reclusione erano amministrati da tre diversi enti: l’amministrazione centrale del lavoro forzato (GUPR), il Commissariato del popolo agli interni (NKVD), la sezione centrale penale (CKO) del Commissariato del popolo alla giustizia (NKju) e la čeka, la polizia politica (Cfr. Craveri 2003: p. 39).

Il lavoro forzato in questo periodo era solo marginale e aveva come scopo solo quello di coprire i costi di un sistema penitenziario in costante mutamento ed espansione.

Nel febbraio del 1922 la čeka venne sostituita dall’Amministrazione politica di stato, GPU (Gosudarstvennoe Političeskoe Upravlenie) e subordinata all’NKVD della Federazione russa. Dopo la nascita dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e la promulgazione della nuova costituzione nel ’23, la GPU diventa OGPU, cioè Amministrazione politica di stato unificata, sotto il controllo diretto del Sovnarkom, il Consiglio dei commissari del popolo (Ivi, p 40). Nel ’22 il governo aveva messo a disposizione dell’OGPU l’arcipelago delle Solovkí nel Mar Bianco. Qui, fin dal Quattrocento, si trovava un monastero, che divenne la sede della nuova amministrazione dello SLON, i campi del nord a destinazione speciale.

L’amministrazione era composta dai funzionari dell’OGPU, mentre per gli altri

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incarichi si ricorreva ai detenuti. L’arcipelago delle Solovkí è comunemente ricordato come il primo vero campo sovietico (Ivi, p. 42).

Tra il ’23 e il ’28 l’NKVD e la OGPU si spartiscono i ruoli: l’NKVD amministra le carceri in cui scontano la pena i condannati per reati comuni, mentre l’OGPU è incaricata della reclusione dei prigionieri politici, i controrivoluzionari e i criminali considerati irrecuperabili. Così l’OGPU manteneva le prigioni di Mosca, Pietrogrado e Suzdal e i campi del nord a destinazione speciale. I prigionieri dell’NKVD erano impiegati nell’industria tessile e del legname, nell’edilizia e nell’agricoltura, ma il loro apporto economico all’economia dello stato era trascurabile e non era incluso nei piani della produzione nazionale.

Alla metà degli anni ’20, infatti, i dirigenti sovietici non avevano ancora

stabilito con chiarezza se le prigioni e i campi dovessero avere come obiettivo

prioritario la rieducazione dei prigionieri, la loro punizione o la realizzazione

di profitti per il regime. Ora le svariate istituzioni interessate al destino dei

campi di concentramento a poco a poco stavano raggiungendo un accordo: i

luoghi di detenzione dovevano essere autosufficienti, in modo da non pesare

sull’economia nazionale. Dunque, inizialmente i detenuti non erano considerati

come manodopera utile all’economia dello stato. Era evidente fin dall’inizio,

però, che i campi non solo non rendevano, ma che non erano neanche in grado

di essere del tutto autosufficienti. Per questo motivo i ministeri e le istituzioni

in lizza per aggiudicarsi il controllo dei campi di prigionia continuavano a

contendersi finanziamenti e potere. Ogni tanto venivano decretate delle

amnistie per alleggerire il sistema carcerario, un fenomeno che raggiunse il

culmine nell’autunno del 1927 quando ne venne concessa una molto estesa in

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occasione del decimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre. Furono rilasciati oltre 50.000 detenuti delle prigioni ordinarie, soprattutto allo scopo di ridurre il sovraffollamento e risparmiare denaro. Nel novembre del 1925 ormai ai massimi livelli del partito si ammetteva che era necessario utilizzare meglio i prigionieri (Applebaum 2003: p. 59).

L’idea di sfruttarne la forza lavoro fu avanzata nel 1925 dal vice presidente del Consiglio Superiore dell’Economia Nazionale (VSNCh) Pjatakov in un rapporto indirizzato al presidente del VSNCh, Dzeržinskij. Pjatakov sosteneva la necessità di creare delle colonie di lavoro in alcune zone economicamente promettenti, ma situate in località in cui era difficile reperire manodopera. La nota di Pjatakov era foriera di cambiamenti (Ivi, p. 59).

Il 27 giugno del 1929 il Politbjuro decise di creare al posto del sistema dei

luoghi di reclusione esistente, soprattutto carceri, una rete di campi in cui i

detenuti dovessero lavorare e mantenersi con il proprio guadagno. L’intero

gruppo dirigente riteneva che ormai i costi eccessivi del sistema penitenziario

gravassero troppo sull’economia dello stato. Per ovviare a questo problema si

decise di passare a un sistema di campi di concentramento sul modello di quelli

dell’OGPU, utilizzando i prigionieri per colonizzare le regioni del nord ed

estrarre le ricchezze naturali sfruttando la manodopera forzata. In aggiunta

all’unico campo allora esistente, il campo a destinazione speciale delle isole

Solovki, vennero creati nuovi lager. I detenuti condannati a pene maggiori di

tre anni furono trasferiti nei campi di concentramento amministrati dall’OGPU,

ribattezzati campi di lavoro e di rieducazione, Ispravitel’noe trudovje lagerja,

ITL. I condannati a pene inferiori ai tre anni restavano di competenza dei

commissariati del popolo degli Affari interni delle repubbliche e dovevano

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lavorare in colonie agricole o industriali appositamente create (Oleg 2006: p.

13). Le carceri dovevano invece essere utilizzate per la custodia durante la fase istruttoria e i trasferimenti.

Questo permise alla OGPU di estendere progressivamente la sua rete di campi di lavoro durante i primi anni ’30, ed i successi ottenuti spinsero il governo a prendere in considerazione progetti sempre più ambiziosi da realizzare con manodopera forzata. Questa decisione sarebbe rimasta forse uno dei tanti tentativi di riorganizzare un sistema penitenziario piuttosto caotico, se non avesse coinciso con degli avvenimenti che segnarono non solo il destino dei campi, ma anche la storia dell’Unione Sovietica.

Avendo adottato nel 1929 la politica dell’introduzione forzata del kolchoz nelle campagne e del balzo industriale, la leadership staliniana procedette a un’epurazione di massa allo scopo di isolare o annientare quella parte della popolazione che ostacolava i piani del governo. In seguito alla crisi degli ammassi di grano del 1927-28, infatti, la direzione del paese prese la decisione di prelevare il grano dalle campagne con la forza, consapevole del fatto che ciò sarebbe stato possibile solo adottando misure repressive contro quei contadini che opponevano resistenza. La collettivizzazione delle campagne fu accompagnata da arresti di massa, fucilazioni e deportazioni di operai, di contadini agiati (kulaki), dell’intelligencija rurale e del clero. I lager crebbero molto più velocemente del previsto e sotto la giurisdizione dell’OGPU finirono anche gli insediamenti speciali in cui vivevano i contadini deportati (Ivi, pp.

13-14).

L’avvio dell’industrializzazione di massa dal canto suo creò categorie del

tutto nuove di delinquenti. Nel 1926 il Codice penale sovietico era stato

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riformato, tra l’altro con l’ampliamento dell’articolo 58, relativo ai «reati controrivoluzionari». L’articolo, prima costituito da un paio di paragrafi appena, ora conteneva diciotto commi, e la OGPU li utilizzava tutti, soprattutto per arrestare i tecnici specializzati. Com’era prevedibile, non si poteva reggere un ritmo di cambiamento così rapido. La tecnologia rudimentale e i tempi ridottissimi entro i quali dovevano essere realizzati i piani producevano errori.

La colpa andava imputata a qualcuno. Da qui l’arresto di «disorganizzatori» e

«sabotatori», le cui trame impedivano all’economia sovietica di tener fede alla propaganda. Alcuni dei primi processi farsa, il processo di Šachty del 1928 o il processo del Partito industriale del 1930, in realtà riguardarono intellettuali specializzati in ingegneria o in altre branche tecniche (Applebaum 2003: p.

75).

Nei primi anni di consolidamento del sistema penitenziario, l’OGPU cercava caoticamente di trovare un impiego per il costante flusso di detenuti.

Se i campi situati nel nord del paese risolvevano il problema impiegando i

detenuti nei lavori di ammasso del legname, per i campi situati in altre zone

della Russia la situazione non era altrettanto semplice. I campi per la

produzione del legname, infatti, erano quelli più semplici da organizzare: non

avevano bisogno di investimenti, di documentazione scientifica, di un progetto

tecnico, di strumenti particolari e gli edifici del campo stesso potevano essere

realizzati con materiali del posto. Nonostante le difficoltà, i complessi

concentrazionari continuarono ad espandersi: all’inizio degli anni ’30 i detenuti

venivano impiegati oltre che nei lavori di ammasso del legname, nei bacini

industriali, nella costruzione di strade e ferrovie e nell’estrazione dell’oro.

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1.3. Il canale Mar Bianco-Mar Baltico

Per il destino dei campi fu cruciale la decisione di utilizzare la manodopera forzata per costruire un canale artificiale che collegasse il mar Bianco al mar Baltico, prima grande opera affidata interamente all’OGPU. Per la costruzione del canale erano necessari 120.000 uomini, cosicché i detenuti che non si sapeva bene ancora come impiegare, divennero oggetto di contesa tra l’OGPU e l’NKVD che entrarono in competizione per accaparrarseli (Oleg 2006: p. 29).

I commissariati del popolo agli affari interni cercavano di volta in volta vari pretesti per ritardare il trasferimento dei detenuti ai campi diretti dall’OGPU.

Nella faida intervenne Stalin in persona che si schierò dalla parte dell’OGPU e sancì la soppressione definitiva degli NKVD delle repubbliche nel 1930. In questo modo l’OGPU divenne padrone della parte più consistente dei detenuti.

Nel clima dell’epoca, il canale del mar Bianco non era un caso isolato.

Quando ebbe inizio la sua costruzione, l’Unione Sovietica aveva già avviato

l’attuazione di progetti altrettanto grandiosi, che richiedevano un massiccio

impiego di manodopera, tra cui le acciaierie di Magnitogorsk, le più grandi del

mondo, enormi fabbriche di trattori e automobili, e grandi nuove città

socialiste. Tuttavia, il canale Mar Bianco-Mar Baltico rappresentava la

realizzazione di un sogno molto antico. I primi progetti per l’edificazione di

una via d’acqua di questo tipo erano stati messi a punto nel Settecento, quando

i mercanti zaristi cercavano un sistema per trasferire le navi cariche di legname

e minerali dalle fredde acque del mar Bianco ai porti commerciali del Baltico

senza dover compiere un viaggio di migliaia e migliaia di chilometri nel mar

Glaciale artico, circumnavigando la penisola scandinava (Ivi, p. 91).

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Pietro I aveva fantasticato sulla progettazione di questa via d’acqua. Il 6 agosto del 1702 scriveva al suo ammiraglio dal porto di Arkangel’sk:

Noi e i nostri reggimenti aspettiamo soltanto il vento. Non appena si sarà alzato prenderemo il mare fino a Niuchta, e da lì, via terra, raggiungeremo il lago Onega (Kizny 2004: p. 155).

Ma non esisteva nessuna via terrestre che attraversasse il fango e le foreste della Carelia per collegare il Mar Bianco e il lago Onega. Pietro ordinò di costruirla. Migliaia di servi vennero reclutati per trasformare in realtà l’idea di Pietro. Dieci giorni dopo l’inizio dei lavori, lo zar, insieme al figlio Aleksej e a quattromila soldati, arrivò a Povenec, sul lago Onega, che venne attraversato in nave per arrivare fino al lago Ladoga. Approfittando dell’effetto sorpresa, Pietro conquistò la fortezza svedese di Noteburg, che difendeva l’accesso alla Neva. L’anno dopo raggiunse il Baltico e fondò San Pietroburgo. La spedizione di Pietro dal mar Bianco al mar Baltico è nota come la Strada dello Zar (Ivi, p. 155-156).

In seguito furono numerosi i progetti per la costruzione del canale, ma rimasero tutti sulla carta soprattutto per ragioni economiche. Nel Novecento poi i governi erano già impegnati nella costruzione della ferrovia e nell’industrializzazione, per cui investire in un’opera talmente vasta e che non assicurava il successo era un rischio troppo grosso.

Il governo sovietico aveva rivolto l’attenzione alla costruzione del

Belomorkanal già nel 1918. Ma il progetto divenne realtà solo nel 1929,

quando venne incluso nel Primo Piano Quinquennale. Nella primavera del

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1930 presso il Consiglio del Lavoro e della Difesa fu creato un Comitato speciale per la costruzione del Canale Mar Bianco-Mar Baltico, sotto la presidenza del Commissario del Popolo al trasporto fluviale Janson. La decisione di costruire il Canale fu ratificata dalla delibera del Consiglio del Lavoro e della Difesa del 3 giugno 1930. I lavori iniziarono nel novembre dello stesso anno e si conclusero nel giugno del 1933 (Ruder 1998: p. 20). In agosto il canale venne ufficialmente aperto. Era stato Stalin a stabilire i ritmi da record per la costruzione del canale: solo venti mesi. Ciò era perfettamente in linea con i ritmi forsennati di un piano quinquennale che, a detta dei suoi promotori, doveva essere realizzato in quattro anni.

Per glorificare il successo, il Politbjuro incaricò l’OGPU di pubblicare una monografia sulla costruzione del canale. In seguito a questa decisione un gruppo di 120 scrittori intraprese un viaggio lungo il canale da cui nacque il volume collettivo Il Canale Mar Bianco–Mar Baltico intitolato a Stalin. Storia di un’edificazione.

L’edificazione del canale ebbe inizio senza un progetto ben preciso e senza uno studio geologico e topografico del territorio.

Solo dopo che i detenuti provenienti da vari campi in terraferma e dalle

isole Solovki erano stati trasferiti sul posto, venne iniziata la costruzione del

campo, mentre un gruppo di ingegneri detenuti scelti iniziava l’elaborazione

dei progetti tecnici. Non appena era stato pubblicato il decreto che sanciva

l’inizio dei lavori, l’OGPU aveva cominciato ad incarcerare quegli ingegneri

che si sarebbero occupati di tracciare il progetto con l’accusa di essere

sabotatori o controrivoluzionari. Gli ingegneri furono portati a Mosca e

rinchiusi nella Lubjanka, il quartier generale dell’OGPU. Qui lavorarono,

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mangiarono e dormirono durante la primavera e l’estate del 1931, finché a novembre, quando i progetti erano stati completati, insieme al contingente di lavoratori che avrebbe costruito il canale, furono condotti a Medvežegorsk, sulla riva nord del lago Onega. Medvežegorsk, un tempo punto di accesso al canale, oggi è un villaggio dimenticato della Carelia, che si distingue solo per il suo albergo enorme e deserto, costruito allora (sempre con la manodopera forzata) per ospitare Stalin, Kyrov e Vorošilov in visita al canale ultimato. Da qui i detenuti coprirono a piedi una distanza di trenta chilometri fino a Povenec (Ivi, p. 22). Considerando che l’inverno era già iniziato in Carelia quando cominciarono i lavori di costruzione, si capisce che le condizioni in cui si trovarono a lavorare i detenuti non fossero facili.

Tra il 1931 e il 1933 più di 126.000 prigionieri vissero nel Belbaltlag, cioè

nel campo di lavoro correzionale sorto intorno al cantiere (Ivi, p. 25). Di questi

una piccola parte ricevette il rilascio immediato per il lavoro svolto nel campo,

una parte più considerevole ebbe una riduzione della pena, mentre la maggior

parte venne spedita a lavorare in altri cantieri, come il canale Mosca-Volga e la

ferrovia Bajkal-Amur. Altri scapparono o morirono. È impossibile stabilire con

precisione quanti. Secondo certe stime, morirono oltre 25.000 prigionieri, una

cifra da cui sono esclusi tutti coloro che, rilasciati perché ammalati o vittime di

incidenti, morirono poco dopo (Applebaum 2004: p. 94). L’OGPU, dal canto

suo, si guardò bene dal rivelare l’esatto numero di prigionieri che lavorarono

nel canale, poiché ciò avrebbe permesso di conoscere l’esatto numero di quanti

erano morti. Leggenda vuole che per un numero così alto di prigionieri ci

fossero solo 37 čekisti. È improbabile che il numero rimanesse così basso fino

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alla conclusione del progetto, anche perché era pratica comune dell’OGPU quella di reclutare guardie tra i prigionieri.

Il Belomorkanal fu un’opera straordinaria dal punto di vista ingegneristico:

comportò la costruzione di 19 chiuse, 15 dighe e argini, 12 scaricatoi delle acque e 33 canali artificiali (Ruder 1998: p.30). Se si pensa che tutto ciò venne realizzato nella quasi totale assenza di tecnologia e in tempi brevissimi, il risultato ottenuto lascia sbalorditi. Tutti i lavori, anche i più duri, impegnativi e faticosi furono condotti senza macchine e con attrezzature primitive: pale, picconi, mazze, vanghe e carriole di legno o addirittura a mani nude. Gli stessi strumenti di lavoro venivano realizzati a mano dai detenuti. I materiali per la costruzione vennero tutti ottenuti da aree circostanti il sito per evitare costi di trasporto. L’ottica era quella di far progredire i lavori nel minor tempo possibile, contenendo i costi: utilizzare il lavoro forzato e sfruttare le ricchezze naturali della Carelia era il modo migliore per farlo. Tutte le mansioni all’interno del campo di lavoro erano svolte da detenuti, a partire dai lavori comuni fino ai compiti di sorveglianza.

La necessità di risparmiare denaro si traduceva nel fatto che i prigionieri usavano legname, sabbia e pietre invece di metallo e cemento; le scadenze impossibili da rispettare facevano sì che ogni volta che era possibile si prendessero delle scorciatoie. Dopo molte discussioni si decise che il canale avrebbe avuto solo tre metri e mezzo di profondità, appena sufficienti per le navi.

Le condizioni di vita erano precarie, nonostante gli sforzi di Genrich Jagoda, il capo della OGPU, che aveva la responsabilità politica del progetto.

Jagoda esortava spesso i comandanti dei campi a trattare meglio i detenuti, a

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provvedere in modo scrupoloso a fornire loro l’alimentazione, l’abbigliamento e la protezione adeguati (Applebaum 2005: p. 94). Tuttavia, l’estrema fretta e la mancanza di pianificazione provocarono inevitabilmente grandi disagi e gravi errori.

Con il procedere dei lavori, bisognava costruire nuovi campi lungo il percorso del canale. Ogni volta i detenuti e i confinati arrivavano e non vi trovavano niente. Prima di cominciare a lavorare, dovevano costruirsi dei capannoni di legno e organizzarsi per l’approvvigionamento alimentare. Nel frattempo, talvolta succedeva che prima di riuscire a completare questi lavori preliminari morissero per il freddo durante i rigidissimi inverni della Carelia.

Per accelerare il lavoro, i comandanti dei campi cominciarono a adottare tecniche come le «competizioni socialiste» tra le squadre di lavoro, corse contro il tempo per raggiungere la norma o trasportare le pietre o scavare una fossa per primi, oppure le «notti d’assalto» in cui i prigionieri lavoravano

“volontariamente” ventiquattro o quarantotto ore di fila. Venivano concessi premi e incentivi di vario tipo ai lavoratori d’assalto (udarniki) che, malgrado le difficoltà, riuscivano comunque a far procedere il lavoro. Ai più laboriosi, venivano concesse razioni alimentari pienamente soddisfacenti e persino promessa un’abbreviazione della pena. Il famigerato sistema dei premi e delle punizioni, elaborato alle Solovkí dall’ex detenuto Naftalij Frenkel’, divenuto direttore dei lavori al Belomorkanal, diventò qui legge.

Nonostante i premi e gli incentivi, la pratica della tuftá era all’ordine del

giorno tra i detenuti. La tuftá consisteva nel riportare presso l’amministrazione

del campo una quantità di lavoro superiore a quello che si era effettivamente

svolto. Divenne un problema talmente pervasivo che i čekisti furono costretti a

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intraprendere delle campagne anti-tuftá. Secondo Semën Firin, direttore del Belomor-Baltijskij lager, coloro che praticavano la tufta erano nemici dello stato e dovevano essere trattati di conseguenza, quindi come controrivoluzionari (Cfr. Ruder 1998, pp. 28-29). I detenuti erano divisi in detenuti comuni e politici e i trattamenti non erano esattamente gli stessi per le due categorie. Durante il discorso inaugurale rivolto all’intero campo, il capo del GULag, Matvej Berman aveva chiesto ai detenuti comuni di aiutare i čekisti a rieducare i controrivoluzionari e a prendersi cura di loro.

Nella retorica del regime, i detenuti erano stati ribattezzati soldati del canale (kanaloarmejstij) da Lazar Kogan, capo del progetto di costruzione del Belomorkanal. Il termine era stato coniato durante la visita al canale del Commissario del popolo al commercio Anastas Mikojan. Dopo avergli mostrato i detenuti intenti a lavorare, quasi tra sé e sé, Kogan si era chiesto come avrebbe dovuto chiamarli. I detenuti non potevano essere chiamati compagni, poiché questo era un appellativo che dovevano riconquistarsi, ma prigionieri sarebbe stato offensivo nei loro confronti. Soldati del canale sembrò a Kogan la soluzione più appropriata [Gor’kij (pod red.) 1934: pp. 208-209]. In effetti quel termine introduceva una metafora bellica nel lavoro che vedeva i detenuti impegnati nella battaglia contro la natura e le ideologie sbagliate. Si trattava della battaglia di tutti i cittadini sovietici contro i nemici esterni e interni dello stato.

Ma tuftá e retorica a parte, i detenuti furono effettivamente capaci di realizzare in soli venti mesi un’opera mastodontica, paragonabile solo al canale di Panama o a quello di Suez, la cui costruzione però richiese molto più tempo.

Con la foce nei pressi della città di Belomorsk, dopo aver attraversato la Neva

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e lo Svir’, dal lago Onega il canale si alza fino a 108 chilometri sul lago Ladoga, per poi cominciare a discendere fino al livello del Mar Bianco. Il canale permetteva, così, di collegare Mar Bianco e Mar Baltico con un itinerario di quattromila chilometri inferiore rispetto alla rotta marittima che contornava la repubblica scandinava (Ruder 1998: p. 30).

Il Belomorkanal fu una straordinaria fonte di lustro e orgoglio per la tecnologia sovietica, nonché una fonte di propaganda per il regime: solo Stalin, e quindi l’ideologia comunista che lui incarnava, erano stati in grado di realizzare ciò che gli zar e quindi il capitalismo non erano stati in grado di portare a compimento, pur ripromettendoselo.

Il canale, inoltre, doveva avere una grande importanza anche di carattere economico-strategico agli occhi dei leader sovietici che ne vollero la costruzione: avrebbe consentito di difendere una notevole parte della costa del paese e di progettare le attività di pesca e le vie commerciali interne. Avrebbe rafforzato le comunicazioni con il mondo esterno e avrebbe avuto il ruolo di fattore frenante per i nemici sul mare, prima fra tutti la Finlandia. Le aspettative di vantaggi economici erano grandiose: la creazione di una ramificata rete di trasporti dal Mar Glaciale Artico fino al Mar Nero, lo sfruttamento di fonti di energia idrica e delle risorse dei territori del nord. Ma è probabile, comunque, che la decisione di costruire il canale non sarebbe stata presa se l’OGPU non avesse avuto a disposizione un gran numero di detenuti da impiegare, risultato delle operazioni di massa contro i kulaki (Oleg 2006: p.

363).

Data l’abbondante dose di retorica dei giornali sovietici e dato l’entusiasmo

che progetti del genere suscitavano nei primi anni ’30, non deve stupire il fatto

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che il Belomorkanal divenne uno dei simboli della politica economica sovietica e dell’ideologia staliniana. L’uso del lavoro forzato, legittimato dal programma della perekovka, cioè la rieducazione dei detenuti tramite il lavoro, venne accolto positivamente. L’opinione pubblica vide nel Belomorkanal uno degli strumenti attraverso cui l’Unione Sovietica dimostrava la sua forza e si metteva al passo con le altre potenze straniere.

1.4. Gloria e declino

Il Belomorkanal rappresenta un unicum nella storia sovietica. Fu il primo progetto interamente affidato all’OGPU, cosa che permise di reclutare i quadri dirigenti per i progetti futuri e sperimentare i metodi dei čekisti; assicurò la legittimazione dell’uso della manodopera forzata; fu circondato da una propaganda che non ha avuto eguali nella storia dell’Unione Sovietica. La retorica impiegata per descrivere il progetto fu davvero unica: il canale del mar Bianco fu il primo, l’ultimo e l’unico progetto del Gulag mai messo in piena luce dalla propaganda sovietica in patria e all’estero.

Tutti i giornali più importanti dedicarono la prima pagina alla notizia della sua inaugurazione e ampio spazio alle storie dei čekisti e dei detenuti che si erano distinti per il loro lavoro. Il Belomorkanal venne presentato come la vetrina dei successi del regime e dell’efficienza del Primo Piano Quinquennale.

Autori di poesie, canzoni, testi teatrali trovarono ispirazione in quest’opera. I

cittadini russi possono ricordarsi ancora oggi del grande progetto, acquistando

le sigarette Belomor. Sul pacchetto è rappresentata una cartina dell’URSS in

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cui figurano il canale del mar Bianco, il canale di Mosca e quello che collega il Volga al Don.

Per il completamento del canale ricevettero onorificenze i massimi dirigenti dell’OGPU e del cantiere: il vicepresidente Jagoda, il responsabile della costruzione Kogan, il direttore del GULag Berman, il direttore del Belomorkanal Firin e il suo vice Rapoport, nonché il direttore dei lavori Frenkel’. Molti operai comuni furono premiati con la libertà o una riduzione della pena e l’estinzione dei precedenti penali (Oleg 2006: p. 41).

A capo della mastodontica operazione di propaganda che circondò la costruzione del canale si pose Maksim Gor’kij, ormai leader indiscusso e guida della letteratura sovietica. Fu Gor’kij a organizzare la famosa e controversa spedizione di 120 scrittori al canale appena ultimato. Di questi 120 scrittori, 36 si dedicarono alla stesura del volume collettivo, Il Canale Mar Bianco–Mar Baltico intitolato a Stalin. Storia di un’edificazione. (Belomorsko-Baltijskij kanal imeni Stalina. Istorija stroietl’stva), pubblicato nel 1934 e subito tradotto anche in occidente. Primo esempio di scrittura collettiva, questo libro nasce dalla collaborazione dei 36 scrittori sotto la supervisione di Gor’kij, di Semën Firin e di Leopol’d Averbach, ex dirigente della Rapp, l’associazione russa degli scrittori proletari. Il libro è un’esaltazione propagandistica del lavoro forzato, della perekovka, della polizia politica e della redenzione dei detenuti, che grazie all’alleanza con i čekisti e all’entusiasmo che li pervade, riescono a vincere l’inospitale natura della Carelia e a dare vita, praticamente a mani nude, a una mastodontica opera d’ingegneria.

Ma Kanal imeni Stalina non fu affatto l’unica opera letteraria dell’epoca a

elogiare il potere rigenerante dei campi. Un altro esempio significativo si può

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ritrovare nel dramma di Nikolaj Pogodin Aristokraty, una pièce sul canale del mar Bianco, che riprende un tema bolscevico già esistente, quello della simpatia per i ladri. Rappresentato per la prima volta nel dicembre 1934, il dramma di Pogodin ignora i kulaki e i prigionieri politici che costituivano la maggior parte dei costruttori del canale, e si dedica alla descrizione dei tiri mancini dei banditi, gli aristocraty del titolo (Applebaum 2004: p. 98).

Questa azione propagandistica così vasta, che potrebbe apparire paradossale e controproducente, aveva invece uno scopo ben definito. Nel 1930 l’URSS aveva dovuto fare i conti con delle campagne contro le esportazioni sovietiche. Notizie sul coinvolgimento dei detenuti nelle operazioni connesse all’esportazione del legname erano filtrate in occidente.

Negli Stati Uniti e in Francia erano state introdotte delle limitazioni

all’importazione delle merci sovietiche. Nel marzo del 1931 la Pravda aveva

pubblicato un articolo di Gor’kij dal titolo A proposito di una leggenda, in cui

le affermazioni sull’impiego del lavoro forzato in URSS venivano definite

come una disgustosa calunnia il cui scopo era isolare economicamente

l’Unione sovietica. Nell’articolo si negava che l’URSS facesse ricorso in alcun

modo all’uso di manodopera forzata (Oleg 2006: p. 35). Ma anche se nel 1931

ormai il movimento per il boicottaggio non esisteva più, la campagna

promossa in Occidente contro il lavoro coatto in Unione Sovietica non era stata

del tutto improduttiva: il paese era molto sensibile riguardo alla propria

immagine pubblica all’estero. Alcuni storici, tra cui Michael Jakobson,

ipotizzano che la minaccia del boicottaggio forse fu addirittura un importante

fattore da cui dipese un cambiamento di strategia politica più vasto. L’industria

del taglio degli alberi, che richiedeva un gran numero di operai non

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specializzati, aveva rappresentato un modo ideale per sfruttare i prigionieri. Ma l’esportazione di legname era una delle più importanti fonti di valuta per l’Unione Sovietica, e non si poteva correre il rischio di un altro boicottaggio.

Pare infatti che lo sfruttamento dei detenuti nell’industria del legname cessasse davvero. I prigionieri dovevano essere mandati altrove, preferibilmente in un posto in cui la loro presenza potesse essere esaltata, non nascosta (Cfr.

Applebaum 2004: p. 91).

Anche da questo, dunque, dipese la massiccia dose di propaganda che

accompagnò la costruzione del canale e che era rivolta soprattutto

all’esaltazione dei čekisti e del programma della perekovka. In base ad esso, i

criminali, costretti a lavorare e a studiare nei campi, avrebbero sviluppato una

coscienza del tutto nuova, avrebbero rinnegato i loro errori passati, e si

sarebbero messi al servizio dell’Unione, incarnandone lo spirito e assicurando

la riuscita dei suoi traguardi futuri. Della loro educazione se ne occupavano le

sezioni educativo-culturali dei campi. Qui i detenuti leggevano versioni

semplificate dei testi di Marx, di Lenin e Stalin. Il lavoro forzato veniva così

presentato come una politica penale innovativa e umanitaria. La perekovka

serviva soprattutto ai leader sovietici per giustificare lo sfruttamento della

manodopera forzata. Tuttavia, negli anni successivi, il termine scomparve

quasi del tutto. Il regime sfruttò la perekovka solo nel periodo iniziale

dell’industrializzazione, in cui era necessario lavoro intenso, rapido e a basso

costo. In questa fase aveva bisogno di convincere la popolazione della

necessità di riformare e di riformarsi per diventare perfetti cittadini sovietici

votati alla causa della costruzione di un nuovo stato. Una volta che i semi

dell’ideologia e del lavoro collettivo erano stati innestati, non era più

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necessario continuare a propagandare la perekovka. Man mano che lo sfruttamento del lavoro forzato diventava sempre più istituzionalizzato, si faceva anche meno pubblico. Inoltre, la perekovka era un sistema livellatore:

chiunque poteva essere riformato, qualunque fossero stati le sue occupazioni, il suo status, il suo bagaglio di esperienze precedenti. Dai ladri e dalle prostitute fino ai čekisti. Uno schema del genere non poteva essere più adatto negli anni successivi, in cui la tecnica adottata da Stalin fu quella di rendere i nemici disumani e quindi non in grado di essere riformati.

Anche lo stesso canale mar Bianco-mar Baltico divenne un tabù. Si diffuse il mito che vedeva il Belomorkanal come una violazione morale senza senso e senza scuse e come una fonte di imbarazzo. Quello che un tempo era stato motivo di vanto e di gloria per l’Unione Sovietica divenne quasi una vergogna, un episodio da mettere nel dimenticatoio. Ciò accadde per svariati motivi.

Innanzitutto, fu presto evidente che il gioco non era valso la candela, sia per i costi in termini di vite umane che per l’enorme impatto ambientale dell’opera.

Forse quel canale non era così indispensabile come il regime aveva voluto far credere. Lo stesso Stalin, il deus ex machina del canale, dopo averlo visitato a bordo del piroscafo Anochin, non celò la sua delusione: gli parve troppo stretto e poco profondo, un’opera inutile, di nessun valore. E non aveva tutti i torti.

Ecco come la scrittrice Anne Applebaum ci descrive la sua visita al canale nel 1999:

Lungo una delle chiuse, in un piccolo capanno con le tendine rosa e,

all’esterno, i pilastri di stile staliniano originali, la donna addetta al controllo del

livello dell’acqua ci ha raccontato che al massimo passavano sette navi al giorno,

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spesso solo tre o quattro. Più di quante ne aveva viste Solženicyn nel 1966, quando trascorse sul canale una giornata intera e osservò solo due chiatte che trasportavano legna da ardere. La maggior parte delle merci viaggiava ormai per ferrovia, come del resto avviene anche oggi, e un operaio del canale gli spiegò che il livello dell’acqua è così basso che neanche i sottomarini ci passano da soli:

li caricano sui barconi e li rimorchiano (Applebaum 2004: p. 101).

Già nel 1934, a canale appena ultimato, fu realizzato il progetto di ricostruzione. L’obiettivo era quello di renderlo più profondo e costruire nuove chiuse. Rimasto chiuso per tutta la II Guerra Mondiale, quasi interamente distrutto dai tedeschi e dai finlandesi, fu riaperto nel 1946, e periodicamente chiuso per sostituire le vecchie strutture di legno con strutture in cemento più resistenti e durature. Nel 1937 il 69% della merce trasportata sul canale apparteneva allo stesso Belomorsko-kombinat, cioè alle imprese sorte intorno al canale. Dunque, si trattava di un’arteria di significato solo locale. Nel 1940 la sua portata era sfruttata al 44%, nel 1950 al 20%. Per di più il canale è ricoperto di ghiacci e quindi chiuso per circa sei mesi l’anno (Cfr.

Oleg 2006: p. 363). I ritmi forsennati e l’assenza di tecnologia avevano avuto delle conseguenze.

Il famigerato volume collettivo non ebbe sorte migliore: sparì dalla

circolazione già nel 1937. I privati che ne possedevano una copia, se ne

sbarazzarono per non correre rischi nel momento in cui l’opera divenne tabù. A

partire dal 1937 i temi dei campi di concentramento e della rieducazione

tramite il lavoro spariscono dalla letteratura sovietica. Era evidente che la

strategia di mistificazione della realtà dei campi adottata da Gor’kij e dai 36

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scrittori non era più adatta alla nuova situazione politica. Secondo la logica

presentata nel Belomorkanal, i campi di lavoro erano una misura solo

temporanea. Dovevano rieducare i detenuti, che una volta redenti, venivano

restituiti alla società. Se la perekovka era effettivamente così fruttuosa come ci

viene descritta nel libro, i campi di lavoro non avrebbero più avuto ragione di

esistere e si sarebbero dovuti trasformare in colonie di lavoro volontario. Ma la

realtà era ben diversa. La successiva escalation di terrore e la costante

ossessione per i nemici contraddice del tutto questa logica. Dal 1937 in poi,

infatti, il terrore bolscevico non si rivolge più alle sole categorie dei kulaki e

dei controrivoluzionari, ma colpisce anche molti attivisti bolscevichi, che

diventano improvvisamente nemici (Cfr. Tolczyc 1999: pp. 180-183) . Pare

infatti che uno dei motivi che decretò la condanna del volume collettivo sia

stato proprio l’arresto e poi la fucilazione di Genrich Jagoda nel 1938. L’uomo

che nel libro era esaltato come la principale guida quotidiana dei detenuti e dei

čekisti, nel 1937 era stato accusato da Stalin di essere un traditore e tutte le sue

azioni precedenti la condanna venivano ora viste come ostili nei confronti del

regime sovietico. Solženicyn racconta che la foto di Jagoda era stata addirittura

strappata dal volume che era in suo possesso (Soženicyn 1974: p. 88). Firin,

Berman, Kogan non ebbero sorte migliore: furono tutti condannati e giustiziati

nella campagna di terrore quasi isterica che spazzò via buona parte della

vecchia guardia del partito comunista. Quei čekisti, che nel Belomorkanal

erano presentati come figure straordinarie, depositari della verità bolscevica,

sono ora potenziali nemici. Il confine tra giusto e sbagliato si era fatto molto

labile e gli eroi di ieri potevano diventare i nemici di oggi. Il tema dei campi di

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concentramento, dunque, sparisce dal discorso pubblico proprio nel momento in cui la paura dei campi diventa più forte e pervasiva.

Il racconto ufficiale della storia del Belomorkanal divenne così uno dei testi più censurati della letteratura sovietica. E non solo perché la maggior parte degli eroi del canale era stata eliminata dalle purghe. La lettura e l’interpretazione di questo testo portava inevitabilmente il lettore a farsi delle domande di carattere etico e morale. Il libro esalta il lavoro forzato, descrive le dure condizioni in cui erano costretti a vivere e lavorare i detenuti, ignora del tutto le condanne spesso ingiuste dei prigionieri politici; era naturale che ciò sfidasse il senso critico e il codice morale di molti lettori. Anche da qui il silenzio che ha circondato l’opera per sessanta anni.

La maggioranza dei cittadini sovietici era cosciente della costante minaccia delle repressioni. La paura aveva un ruolo fondamentale nel socialismo staliniano. Le costanti repressioni erano necessarie per la vitalità del regime:

tenevano sottomessa la società, soffocavano ogni minima manifestazione di

dissenso e rafforzavano il potere di Stalin. Ma, a seconda delle diverse fasi, il

terrore fu utilizzato anche per risolvere problemi specifici: liberarsi dei kulaki,

annientare la vecchia élite politica, rispondere alle necessità economiche,

portare avanti l’industrializzazione forzata.

Riferimenti

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