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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

"Oggi, 20 settembre 1997, a conclusione di un progetto portato avanti con costante determinazione, viene sancita dal comando del Ros la soppressione di Crimor, Unità militare combattente.

L'egemonismo burokratico celebra se stesso e il suo potere di sovrastruttura fine a se stessa. E' l'ora di ripiegare soggettivamente su posizioni alternative. Uscendo dai percorsi di lotta alla criminalità mafiosa sento il dovere di ringraziare quegli uomini valorosi con cui ho avuto il privilegio di vivere combattendo.

Solo a loro va il mio rispetto più profondo, solo da loro ho imparato molto di più di quanto abbia potuto insegnare, solo per loro i sacrifici di una vita hanno avuto un senso.

La nostra presenza costituirà per il futuro un'accusa permanente verso quella burokrazia egemone che non ha saputo combattere, ma ha saputo distruggere quelli che combattevano.

Insieme con voi finisce il sogno dei "soldati straccioni".

Era un bel sogno".

Capitano Ultimo

Il presente lavoro di tesi analizza il tema della “sicurezza” nel nostro paese al giorno d’oggi e sarà necessariamente e volutamente influenzato dal background professionale e accademico di chi scrive, esplorando i nessi fra l’esperienza professionale maturata in oltre venti anni di servizio prestati presso reparti speciali a carattere investigativo dell’Arma dei Carabinieri e gli studi universitari esperiti.

Il progetto, a partire dall’osservazione delle dinamiche criminali, intende suggerire un approccio in controtendenza rispetto all’opinione corrente, ossia la necessità di considerare la

“sicurezza” un mezzo per conseguire un fine – cioè uno strumento in grado di contribuire al benessere dei cittadini e alla pace sociale - e non un fine in sé – ovvero una risposta al crescente senso di insicurezza diffuso nell’opinione pubblica.

Di conseguenza, l’impianto del lavoro cercherà di individuare il “valore” autentico della

“sicurezza”, filtrandone l’analisi di utilità che potrebbe determinarsi e sperando possano evincersi stimoli per arricchire lo studio dei meccanismi decisionali che presiedono alle strategie politiche in proposito adottate.

In particolare, ispirandosi alla “intelligence del marciapiede” - una teoria in continua evoluzione, sintesi del confronto quotidiano tra investigatori operanti nelle strade delle periferie delle province italiane

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- e partendo dal diffuso sentimento di insicurezza dovuto alla crisi degli

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L’intelligence del marciapiede è una definizione da me stesso coniata.

Ritengo rappresenti l’espressione più compiuta dell’elaborazione che i professionisti del settore hanno raggiunto in merito alle attività delinquenziali. L’osservazione, cioè, delle stesse dalla loro prospettiva naturale: il marciapiede.

Intendendo con ciò, il confronto quotidiano ed autentico con la criminalità e tutte le implicazioni da essa derivanti.

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apparati dello Stato per effetto dei processi di Globalizzazione, lo studio avrà, quale architrave, la valutazione delle politiche di “sicurezza” in relazione alla loro applicazione concreta.

La trama che alimenterà il tessuto narrativo sarà quindi costituita dall’analisi del pensiero dominante nel nostro paese e delle relative politiche varate in materia, sostanzialmente catalogabili in due grandi filoni ideologici: uno securitario, quindi ispirato, anche se con sfumature ed espressioni diverse, a concetti conservatori quali law and order e zero tolerance, ed uno attendista, che in nome delle garanzie individuali reputa la sicurezza moralmente auspicabile - ma poiché non attuabile concretamente nella sua forma ideale - differibile nel tempo tramite provvedimenti ad hoc realizzati sulla scorta dell’emotività causata da eventi di particolare allarme sociale.

In altre parole, la sicurezza, nonostante le dichiarazioni d’intenti (quando non i proclami) non assurge al rango di priorità, ma rimane costantemente in una specie di limbo per essere richiamata ogni volta occorra utilizzarla come lubrificante per il funzionamento di un determinato meccanismo, oppure come grimaldello per bloccarne un altro.

La ricerca non consisterà nel tentativo di dare una spiegazione onnicomprensiva del perché esista il crimine, ma associandolo convintamente al pensiero durkhemiano di “normalità”, tratterà del come questo esista rispetto all’attuale concezione della “sicurezza” e sua conseguente strutturazione e attuazione.

Il nodo attorno al quale si costruiranno gli scenari, le ipotesi e le formule proposte sarà rappresentato da esercizi di anticriminologia

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, ovvero esperienze investigative maturate in operazioni in materia di criminalità organizzata che, sondando i canonici confini delle scienze sociali e riflettendo sui contenuti delle principali teorie sociologiche di devianza e criminologia, evidenzieranno come criminalità comune e criminalità organizzata, abbiano, sebbene costituite da peculiari complessità, una reciproca interpenetrazione funzionale.

Segnatamente, evidenziando come l’una, senza la presenza dell’altra, non avrebbe motivo di esistere, sarà tracciato un quadro relativo a come potrebbero essere ridiscusse alcune politiche in tema di “sicurezza” per renderla più adeguata al compito che storicamente ha svolto all’interno delle società democratiche occidentali, senza essere vista con sospetto e talvolta timore dai cittadini.

Ma per poterlo fare è indispensabile partire dall’inizio.

In particolare si differenzia dalla criminologia classica, poiché non basa il proprio statuto culturale sul tentativo di dare una spiegazione alle cause del delitto, ma considerandolo “semplicemente” come un fenomeno da contrastare, ne valuta le strategie più idonee.

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Trovando gli studi del Professore Vincenzo Ruggiero particolarmente pertinenti rispetto a quanto riscontrato nel corso della mia esperienza investigativa: “si eviterà la ricerca di una zona centrale di imputazione, di un peccato originale,

anche se abbigliato sociologicamente, insomma, di una causalità primaria cui attribuire il comportamento criminale.”

(V. Ruggiero, Delitti dei deboli e dei potenti, Bollati Boringhieri, 1999, Torino)

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Da quella lontana giornata dell’ottobre 1989, la “scatola nera” della mia vita, attraverso la quale sono collimati i contenuti dell’esperienza maturata come Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri con quelli di studente di sociologia, consentendomi, oggi, di redigere la presente tesi.

Il frutto di un percorso professionale ed umano che, dopo quasi ventiquattro anni, è ancora lì a ricordarmi un ragazzino di sedici anni cresciuto in un quartiere popolare di La Spezia con i miti della giustizia, della lealtà e di una vita avventurosa.

Un ragazzino con i capelli lunghi sino a metà schiena che nella lievità dei giorni più belli, girando la città in sella alla sua moto, sognava di diventare il protagonista della propria vita così come i suoi idoli Sonny Crockett e Rico Tubbs lo erano della serie televisiva Miami Vice.

Un sogno nato con la difficoltà ad accettare la parola concorso, termine che aveva sempre procurato una certa ostilità perché associato al ragionamento di molti coetanei che lo consideravano il crocevia da superare per omologarsi alla società, al comune sentire ed agire, alla sicurezza dell’impiego statale, all’orario di lavoro fisso con il traguardo della pensione sicura, all’appiattimento dell’esistenza con la sola emozione della partite alla domenica e nessun’altro sussulto.

Anni più tardi, la forza e la convinzione di affrontare la prova e superarla giunse proprio dalla consapevolezza che la vita, dopo, sarebbe stata di gran lunga diversa da quella che avrebbe potuto regalare una qualsiasi altra professione.

Una vita che effettivamente è poi stata caratterizzata da molti scossoni e qualche terremoto, con emozioni e grandi soddisfazioni miste a fortissime tensioni.

Ma che è stata, soprattutto, la possibilità di essere protagonista di se stesso grazie ad indagini avvincenti in cui i rapporti gerarchici si sono trasformati in amicizie fraterne sullo sfondo di storie di delinquenza che, in taluni casi, rimandano ad un dolore sordo che proprio quel giorno ebbero origine, quando, uscito dalla Scuola Allievi Marescialli da poco più di tre mesi e da poche settimane trasferito al Reparto Operativo, ero seduto nel sedile posteriore di un’auto guidata da un Appuntato con l’orecchino e l’abbigliamento da teppista del Bronx, e capeggiata da un Maresciallo che dall’alto dei suoi trentacinque anni di servizio ed il lessico da perfetto trafficante di droga, scherzava dicendo che, se quella mattina, non avessimo effettuato arresti, la mia punizione sarebbe consistita nel pagamento di una cena a tutto il Nucleo.

Mi era stata, infatti, delegata la pianificazione di un intervento inerente una segnalazione anonima ricevuta da alcuni cittadini della zona.

Se tutto fosse andato come previsto, esattamente dieci minuti dopo, sarebbe dovuto arrivare

nella piazza ove ci stavamo dirigendo uno spacciatore con una bustina contenente droga.

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Avevo curato lo screening preliminare, il controllo delle strade affluenti, la dislocazione del personale, i livelli operativi da attuare e tutto andò come previsto: arresto e sequestro della sostanza stupefacente, poco meno di quattro grammi di eroina.

All’epoca la legislazione in materia di droga era caratterizzata da un decreto conosciuto come Iervolino-Vassalli, dal nome dei due parlamentari che lo avevano promosso, ed era stato presentato all’opinione pubblica con lo slogan “drogarsi è reato”.

In pratica, ogni Autorità Giudiziaria stabiliva, per il proprio circondario di competenza, quale fosse la soglia massima di detenzione di droga (detta dose media giornaliera) oltre la quale il concetto di uso personale lasciava il campo a quello di detenzione a fini di spaccio. Facendo scattare l’arresto in flagranza.

Per il luogo ove operavo, quello dell’eroina era milleduecento milligrammi, poco più di un grammo quindi.

Una volta in caserma tentai, al fine di ampliare il mio spettro conoscitivo, di stabilire una linea di comunicazione con l’arrestato per capirne i canali di rifornimento e la relativa rete di appoggio.

Ma capii ben presto di trovarmi di fronte solo ad un giovane uomo, il cui fisico, da anni completamente assuefatto all’eroina, esigeva l’assunzione quotidiana di tre/quattro grammi di sostanza stupefacente.

E mentre i canali di rifornimento che speravo di individuare in realtà erano solo un altro piccolo spacciatore che non mi avrebbe mai “consegnato” perché necessario alla sua condizione di tossicodipendente; la relativa rete di appoggio che immaginavo esistere era semplicemente ciò che rimaneva delle sue vene arteriose, piagate e distrutte dalle migliaia di iniezioni subite.

L’euforia e la soddisfazione per l’operazione lasciarono presto spazio alla constatazione di un’amarezza: avevamo arrestato solo un disperato che deteneva droga per il suo uso personale.

Purtroppo per lui superiore alla dose media giornaliera stabilita per legge.

La sera discussi a lungo con il mio comandante, spiegando che su tali basi legislative la guerra contro il traffico di droga era persa in partenza.

La conversazione terminò con una frase che voleva e doveva essere risolutiva e di conforto, ma che invece, per anni, ha echeggiato nella mia mente dando alle mie giornate un sottile senso di inquietudine: “ragazzo, ricordati sempre che noi lavoriamo per la legge. Non per la giustizia. Siamo lo strumento di chi decide, pur sapendo che, molto spesso, chi decide, sbaglia.”

La forza di quell’esperienza fu importante non solo per come ha modificato il mio modo di

osservare la realtà, ma anche perché rappresenta quasi fotograficamente la concezione della

sicurezza in Italia e le conseguenti politiche in proposito adottate.

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In quel periodo, infatti, nell’orizzonte della vita pubblica italiana, si stava diradando l’angosciosa cappa addensata dal terrorismo interno, iniziando a delinearsene una nuova, causata dai delitti perpetrati dai tossicodipendenti per procurarsi il denaro necessario all’acquisto di droga (furti, scippi, ricettazione etc.).

Nuova e più penetrante in quanto – potenzialmente - invadeva il privato di chiunque.

Per contrastarla efficacemente occorreva assecondarne il sentimento, quindi drogarsi diventava reato nella convinzione che, in tal modo, nessuno lo avrebbe più fatto. In ossequio al principio che eliminando la causa si sarebbe dissolto anche l’effetto.

Ma quando il medico sbaglia diagnosi la cura è più pericolosa della malattia.

Aumentarono vorticosamente sia i delinquenti “certificati” - cioè coloro che lo diventano dopo un’esperienza di detenzione in carcere – l’università del crimine che rilascia titoli simbolici da spendere nel mercato della delinquenza - che i tossicodipendenti.

Questi, infatti, entrando in relazione, mediante la reclusione, con “delinquenti professionali”

inseriti in contesti più ampi, vennero rapidamente individuati come potenziali nodi periferici del fitto ed intricato network dello spaccio; tanto che, tornati alla realtà di provenienza al termine di periodi di detenzione e programmi di reinserimento velleitari, si trasformarono in attori di strutture criminose dinamiche ed estremamente complesse, costituendo – per paradossale che sia – uno dei più decisivi cardini organizzativi del traffico di droga: lo spaccio al minuto.

Un livello piuttosto efficiente proprio perché essendo l’ultimo e più debole anello della catena implica la sola conoscenza di quello immediatamente superiore, il quale, garantendo l’approvvigionamento indispensabile al proprio stato di assuefazione, è difficilmente “tradibile”.

La forza della catena è quindi quella del suo anello più debole, rendendo difficoltoso sia il tentativo di spezzarla che di risalirla. Ed il risultato più immediato, che soddisfa la “paura” del cittadino, è l’arresto del tossicodipendente.

Oggi non è cambiato molto.

Esaminando da vicino la questione italiana è, infatti, possibile osservare come quello della sicurezza sia uno dei problemi nevralgici della popolazione, la cui centralità, del resto, è chiaramente percepibile dal fatto che sovente si trova tra le priorità dell’agenda politica, determinando confronti accesi e spesso spigolosi tra i suoi protagonisti.

Peraltro, è sufficiente sfogliare qualche quotidiano o fare zapping con il telecomando della

televisione, per accorgersi come il senso di “sicurezza” percepito scenda così costantemente che il

timore per l’incolumità propria e dei propri cari, insieme alla paura di non trovare e/o perdere

un’attività lavorativa stabile, sia in testa alla preoccupazione degli italiani.

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Il senso di “sicurezza”, pertanto, nella quotidianità di un cittadino non è una componente aggiuntiva e/o eventuale, ma è un “bisogno” genetico e strutturante.

Come spiega Amerio:

« Il bisogno di sicurezza è fondamentalmente espressione della necessità, che tutti gli esseri viventi hanno, di condizioni adatte a nascere, vivere e svilupparsi al riparo da pericoli ambientali o provenienti da altri esseri viventi che vengono a interferire con questi compiti vitali. Così intesa, la sicurezza implica sempre un’ottica relazionale che la può fare assimilare a un bisogno.

I rischi che l’essere umano ha dovuto affrontare (e che deve affrontare tuttora) non sono stati solo quelli connessi con i fenomeni naturali e/o con le disposizioni naturali dell’ambiente o del suo stesso organismo fisico, ma anche, in ampia misura, quelli derivanti dalla sua azione sulla natura e dai rapporti con i suoi simili»

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.

Quindi, quello di Sicurezza, è un bisogno ontologico.

E questo, nella vita contemporanea, si traduce in un comportamento che perpetua la continuità della propria “normalità”, cioè la prevedibilità delle attività routinarie, strettamente connesse alla propria identità nell’ambiente di riferimento tramite la stabilità delle abitudini e delle relazioni esistenti.

Quando tale stabilità viene sottoposta a ripetute e vibranti sollecitazioni, la prevedibilità viene meno, così come l’ambiente di riferimento e le relazioni intessutevi. Quindi, la necessità di doversi misurare con situazioni in evoluzione, genera uno stato di insicurezza che le Istituzioni, tentando di “controllare”, spesso distorcono con tentativi di soluzione di tipo propagandistico ed inadeguato.

Oggi, infatti, la nuova paura, altrettanto penetrante e potenzialmente in grado di invadere il privato di chiunque, è un sentimento strettamente complementare ed interagente con le modificazioni prodotte dalla globalizzazione e dalla sua intrinseca capacità di accorciare tempi e spazi alterando le interazioni sociali.

Infatti, oltre ad interessare il mercato, la produzione e, più in generale, la geopolitica, il fenomeno contemporaneo per eccellenza ha investito anche la dimensione psicologica ed antropologica di ogni singolo cittadino; trasformando il concetto di comunità associato ad un collettivo umano storicamente delimitato in un luogo circoscritto e territorialmente localizzato, in un locale-globale che distorce la percezione di vivere insieme a persone che non solo provengono

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Piero Amerio, Problemi umani in comunità di massa. Una psicologia tra clinica e politica, Torino, 2004, Einaudi, pp.

324-325.

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da paesi lontani, con linguaggi, culture e tradizioni diverse; ma che offrono anche la propria prestazione d’opera a prezzi più bassi.

Tutto questo avviene mentre la politica, volutamente dimenticando come i fenomeni delinquenziali siano – nel senso più durkhemiano possibile – normali, cioè naturalmente incardinati nei contesti umani organizzati, continua a produrre soluzioni sostanzialmente effimere, facendo aumentare l’inquietudine sociale e la sfiducia nelle istituzioni.

La presente ricerca, pertanto, sarà divisa in quattro capitoli: nel primo saranno analizzati gli effetti della Globalizzazione in riferimento alla messa in discussione dell’autorevolezza dello Stato- Nazione a causa dell’alterazione e compressione delle coordinate spazio-temporali del mondo sociale.

Nel secondo, sarà analizzato il senso di insicurezza che permea la vita dei cittadini, osservandone sia le cause sia la richiesta di “violenza istituzionale” che da essi proviene per contrastarla.

Nel terzo, saranno richiamate le principali teorie esistenti nel campo della sociologia della devianza, ponendole a confronto con gli esiti di alcune significative esperienze investigative dello scrivente.

Nel quarto, verranno tracciate alcune linee utili a comprendere l’attuale situazione circa le politiche esistenti in materia di contrasto alla criminalità organizzata.

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