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L’utopia è un genere letterario tra i più antichi e proliferi. Nel corso dei

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V

I.

Introduzione

«Do you mean you won’t kill anyone?» I ask.

«No, when the time comes, I’m sure I’ll kill just like everybody else.

I can’t go down without a fight.

Only I keep wishing I could think of a way…

to show the Capitol they don’t own me.

Than I’m more than just a piece in their Games,» says Peeta.

(Suzanne Collins, The Hunger Games)

Viaggiare. Un viaggio verso un paese lontano, un viaggio nello spazio, un viaggio nella mente. Che si tratti dell’isola di Utopia, della nuova Atlantide o di Lilliput, che si tratti di Narnia, di Hogwarts o dell’isola che non c’è, il risultato non cambia: la ricerca di un luogo migliore e il desiderio di perfezione accompagna da sempre l’essere umano, dagli adulti ai più giovani. Da secoli la letteratura offre un’infinità di spunti e di modelli per l’immaginazione del lettore, che a sua volta è sempre alla ricerca di questi luoghi prediletti. Le componenti di sogno e desiderio presenti nella società sono costanti antropologiche che si rinnovano di secolo in secolo. Solo in determinati periodi o momenti storici, però, queste componenti si legano all’utopia e alla creazione, più o meno fiorente, di testi utopici.

L’utopia è un genere letterario tra i più antichi e proliferi. Nel corso dei

secoli, ha subito una decisa evoluzione, rimanendo fedele però a cercare una

risposta a due tendenze profondamente radicate nell’animo umano: la curiosità del

futuro e il bisogno di sperare. L’uomo è per essenza homo utopicus, rivoluzionario

anche, interessato allo studio dell’utopia, deciso a non rassegnarsi, a vivere in due

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mondi, a cercare di meglio. I limiti di ciò che viene considerato accettabile o possibile, o persino immaginabile, viene spostato un po’ più lontano, permettendo all’uomo di tendere a una realtà altra, utopica appunto.

Interrogandosi sulla possibilità dell’utopia nel XXI secolo, è inevitabile però scorgerne l’eredità soprattutto nelle distopie letterarie, in quanto sempre più spesso è in questo genere che sconfinano la fiction, i romanzi, i racconti, la narrativa scritta e non solo. Aspetto comune alle utopie e alle distopie è il rifiuto delle ingiustizie del presente e il traslare, in un luogo o in un tempo più o meno rintracciabili, o un modello sociale opposto o le analisi delle condizioni e dei metodi di controllo del potere che ne caratterizzano la sopravvivenza.

L’ambientazione distopica offre raffronti con la realtà, avendo con essa numerosi punti di congiunzione. A persistere sono soprattutto alcuni elementi, come la paura nei confronti del potere diffuso come controllo sociale e la sfiducia nella tecnologia e nel progresso.

Attorno al genere distopico ruotano, con sempre maggiore interesse, il cinema, le serie tv, la televisione, i fumetti, i manga, i siti internet. Il fascino della distopia ha influenzato ogni aspetto della realtà, spingendo alla creazione anche di numerose opere di analisi critica o di studio del genere.

E una tendenza sembra particolarmente viva negli ultimi anni: il genere distopico sembra diventato uno dei favoriti per gli scrittori di romanzi per ragazzi e, in minima parte, persino di romanzi per l’infanzia. Anche in questo caso, il ruolo di Hollywood è stato fondamentale e la potenza del cinema non ha fatto altro che incrementare l’interesse al riguardo. È ovvio che ci sia una correlazione tra la diffusione dei romanzi distopici tra un pubblico di young adults e il momento storico in cui viviamo. Del resto, anche le utopie abbondano in certi periodi e mancano del tutto in altri e questo è vero, a maggior ragione, per le distopie. Ma l’argomento si fa ancora più interessante nel caso di un pubblico giovane, perché entrano in gioco altri elementi che ne condizionano il successo:

per esempio, il ruolo apparentemente (o meno) educativo dell’autore; i tentativi di

rendere alcune delle tematiche trattate, come le questioni politiche, economiche o

ecologiche, interessanti e appetibili anche per un pubblico giovane; e ancora

l’attenzione a non condizionare in negativo il proprio pubblico, viste le ovvie

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VII

componenti di negatività e pessimismo dell’argomento in questione. Questo apre tutta una serie di domande e di possibili discussioni sul genere stesso e sulla sua evoluzione, discussioni che investono ancora una volta tutta la cultura contemporanea.

È su queste tematiche che verterà il mio lavoro. Ricostruendo per sommi capi l’evoluzione del genere distopico, cercherò di capirlo, di stabilire lo scopo di questi testi e il loro messaggio, cosa a mio parere essenziale per la loro stessa comprensione, differenziandolo anche da altri generi che sono spesso ad esso collegati, come la fantascienza, la fantapolitica, il fantasy, l’horror e il cyberpunk.

Un punto fondamentale della mia ricerca sarà definire i periodi storici, politici ed economici in cui questi testi sono stati scritti, scavandone le motivazioni più profonde. E visto che il periodo in cui viviamo è ricco di queste produzioni, cercherò di ricollegarmi il più possibile al nostro presente. Facendo ovvi riferimenti ai capisaldi del genere, arriverò a parlare dei testi più recenti, prestando maggiore attenzione a quelli destinati a un pubblico giovane.

Un’attenzione particolare sarà riservata agli scritti di lingua inglese, cercando però di menzionare i testi più interessanti del nostro tempo, siano essi scritti in italiano o in altre lingue. Il tutto senza dimenticare il ruolo del cinema e della televisione, ma anche dei videogiochi e della musica: di tutto ciò che, nella nostra cultura, è stato contagiato dalla distopia.

L’ultima parte del mio lavoro sarà dedicata a un testo in particolare, Article 5 di Kristen Simmons, che mi permetterà di continuare la discussione sulla dystopian fiction e sul momento storico in cui viviamo, anche attraverso la traduzione di alcuni passi del romanzo da me realizzata.

E allora teniamoci pronti a immergerci in un mondo di visioni post-

apocalittiche, in un mondo sconvolto dalle guerre e dalle rivoluzioni; una realtà

disseminata di carceri, distretti e centri di riabilitazione, infestata dagli arresti e

dalle mietiture; un mondo di ingiustizie e di morte. Questi luoghi infelici e

apparentemente lontanissimi, anche se forse non così lontani, ci terranno

saldamente ancorati al nostro presente, ricordandoci che nel timore della distopia

possiamo ritrovare almeno un po’ delle nostre paure più nascoste. Ma è proprio in

questo timore che dimora anche la parte più nobile e più profonda dell’animo

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VIII

umano. Saremo testimoni di atti di coraggio e di fede, di forza e di lealtà;

incontreremo chi resiste, chi combatte, chi non si arrende e saremo testimoni

dell’amore per la vita che da sempre ci accompagna, in un viaggio di speranza che

è appena cominciato.

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IX

II.

Romanzi e catastrofi: l’evoluzione della distopia

“Now that I've found the way to fly, which direction should I go into the night?”

(Ally Condie, Matched)

1. Isole lontane, utopie e città ideali

Nel corso dei secoli e attraverso le varie produzioni artistiche e letterarie, l’etichetta utopia è stata applicata a un enorme varietà di concetti e di idee.

Sull’utopia è stato scritto molto, forse troppo. Sia nella sua veste di genere

letterario, sia e soprattutto nella sua valenza ideologica di speranza di

conseguimento di un modello migliore. Da un punto di vista storico però il

termine ha un’origine relativamente recente. Com’è noto è stato coniato nel 1516

dal pensatore e scrittore inglese Thomas More nella sua opera più famosa Utopia

(in latino De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia). L’opera di

More è anche la prima in cui l’utopia, oltre ad avere una sua definizione formale e

strutturale dal punto di vista narrativo, si manifesti in una chiara prospettiva di

rottura con la realtà presente e in cui siano delineati i parametri per la formazione

dell’uomo moderno fondata sulla ragione, sul diritto e sulla morale, e per il

raggiungimento di una “felicità” terrena. Rappresenta cioè la speranza nella

capacità dell’uomo e nella possibilità di un rinnovamento etico. Come spiegano

Genovesi e Ventura nel testo L’educazione nel paese che non c’è l’utopista, di cui

More rappresenta il prototipo,

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X

ben lungi dal farsi trasportare da ingiustificati entusiasmi tipici del «riformatore» fanatico, è sorretto semmai da una irriducibile speranza che si possa e si debba lottare per l’avvento di quella società da lui progettata perché creduta più giusta e nella quale avrà maggiore possibilità di attuarsi «la completa armonia tra ciò che l’uomo è, ciò che sa, ciò che diventa e ciò che lo circonda».1

Ecco perché l’utopista deve credere che valga la pena di lottare.

Nell’Utopia More descrive un’immaginaria isola abitata da una società ideale. Il titolo dell’opera è un neologismo coniato da More stesso e presenta un’ambiguità di fondo: alcuni umanisti ritengono che l’u iniziale fosse la contrazione di ou, che cioè utopia equivalesse a “non-luogo”, a luogo inesistente o immaginario. Altri, invece, sottolineano che in greco le forme negative si costituiscono premettendo ou nel caso delle forme verbali, e a per i sostantivi.

Ecco che il termine sarebbe il frutto di un errore e che, più che un “luogo inesistente” indicherebbe un “luogo felice”. Al di là di questa disputa filologica, nell’opera di More si alternano elementi carichi di totalitarismo, che spostano la questione su un piano prevalentemente critico e politico, e riflessioni più positive e filosofiche. Nel primo libro, egli tratta, sotto forma di dialogo, i problemi maggiori che affliggono l’Inghilterra del suo tempo: la nobiltà parassitaria e i lati negativi della proprietà privata fra i quali, soprattutto, la divisione che esisteva tra ricchi e poveri, che di conseguenza erano costretti a mendicare o a fare lavori poco retribuiti. Viene inoltre trattata la questione della pena di morte, in quanto More ritiene assurda e illegittima la sanzione di pena capitale per il furto. Egli insomma critica in modo esplicito l’ordine sociale esistente, denuncia le manchevolezze e crea insoddisfazione, contribuendo a formare criticamente la coscienza dei suoi contemporanei. Nella seconda parte viene descritto il viaggio che Raffaele Itlodeo, viaggiatore-filosofo, compie per primo nell’isola di Utopia.

Per la descrizione di questa societas perfecta, More usa come modello principale la Repubblica di Platone, oltre ai dialoghi di Luciano e agli scritti di Sant’Agostino; come Platone anche More ci presenta come città ideale una società

1 G. Genovesi, T. Tomasi Ventura, L’educazione nel paese che non c’è: storia delle idee e delle istituzioni educative in utopia, Napoli: Liguori, 1995, p. 23.

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XI

dove il controllo sociale è particolarmente intenso. In Utopia non ci sono dissidenti e oppositori. Classi, professioni, istituzioni, tutto è regolato dallo Stato;

le città sono simmetriche e identiche tra loro, le case tutte a tre piani e perfettamente allineate; la proprietà privata è vietata per legge e la terra deve essere coltivata, a turni di due anni, da ciascun cittadino, nessuno escluso; tutti hanno un lavoro, di sei ore al giorno e tutti dedicano il proprio tempo libero ad attività quali lo studio e la meditazione; uscire dalla propria città è impossibile senza sottoporsi a una serie di norme e controlli restrittivi; infrangere le regole significa perdere il proprio status di cittadino e la schiavitù è la pena per chi commette reati; la famiglia rappresenta il nucleo fondante della società, l’adulterio è vietato per legge e vige un rigido controllo demografico, in modo tale che il numero di abitanti rimanga sempre lo stesso. Si tratta, insomma, di un modello di organizzazione politica che preconizza contenuti, valori e aspettative che potrebbero realizzarsi solo in un futuro descritto come più o meno lontano rispetto a chi scrive.

Sebbene Thomas More rappresenti l’apice di questa produzione, il modello utopico esisteva già prima della coniazione del termine. Come genere letterario, l’utopia nasce in Grecia ed è con Platone che giunge a elaborare molti dei caratteri tipici del genere. Nel IV secolo a.C. egli teorizza nella sua Repubblica, la costruzione di una comunità perfetta retta dai governanti-filosofi, caratterizzata dalla presenza di tre distinte classi sociali, cui il pensatore ateniese affida specifiche mansioni di utilità collettiva. Platone inaugura così un genere letterario, costruendo un modello di società che eserciterà una straordinaria influenza sui tentativi successivi di riflessione politica, che saranno inevitabilmente destinati a confrontarsi con il paradigma platonico. Tra le prime opere utopiche poi è bene ricordare la Politica di Aristotele, che tratta dell’amministrazione della polis, dell’organizzazione della famiglia e dei diversi tipi di costituzione

Durante il Medioevo l’interesse per l’esercizio utopico fu spinto ai margini

della vita intellettuale, a causa della “dottrina delle due città” descritta da

Sant’Agostino nell’opera De civitate Dei. Scritta tra il 413 e il 426, aveva come

finalità prima quella di difendere il cristianesimo dalle accuse dei pagani, di

analizzare le questioni sociali e politiche dell’epoca e di affrontare il problema

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XII

della salvezza dell’uomo. Con essa Sant’Agostino intese riprendere il binomio evangelico del “regno di Dio” e del “principato di Satana”. Nella parte che riguarda la “città Celeste”, egli descrive una massa dannata da cui Dio elegge una minoranza predestinata alla salvazione, mentre nella “città Terrena” narra di quella parte di umanità destinata ala perdizione. È sempre in questo periodo che iniziano a comparire le visioni fantastiche degli alberi della cuccagna, dei paesi dei balocchi e dei sogni dell’età d’oro. Esse sono molto diverse dall’idea di utopia, poiché non auspicano la rappresentazione del sogno di perfezione umana tanto anelata dall’utopista, ma devono essere interpretate come semplici figurazioni delle grazie concesse da Dio all’uomo. Quest’ultimo infatti sente di vivere in una specie di paradiso del quale capisce di non avere alcun merito.

Solo nell’età del Rinascimento ricompare, grazie a More, l’ideale di una società perfetta. Le scoperte geografiche e scientifiche di quell’epoca, insieme ai profondi conflitti sociali che la caratterizzano, determinano un contesto nel quale la fusione di idee riguardanti ciò che è “ideale” e la possibilità di istituire comunità nuove e perfezionate spingono l’uomo a cercare un mondo diverso.

Ecco che il termine “utopia” viene associato all’idea di una comunità ideale, allo stesso modo in cui nelle sacre scritture Dio parla a Mosè di una terra promessa o prepara un Eden per Adamo ed Eva. La letteratura utopistica rinascimentale insiste sulla metafora del viaggio e dell’isola, anche se l’ubicazione geografica varia a seconda delle preferenze degli autori, che spaziano dalle coste brasiliane all’oceano australe. L’isola, infatti, simboleggia l’approdo dell’uomo che si è cimentato in un lungo viaggio e che ha preso contatto con forme di organizzazione politica e sociale radicalmente diverse rispetto al modello europeo.

È l’alterità, l’esotico a determinare l’interesse per società dominate da

egualitarismo, tolleranza, profonda moralità e giustizia sociale. Che si tratti di una

reazione di fuga di fronte alla sconfortante realtà politico-sociale, o di un appello

alla riflessione critica, la disillusione del pensatore utopista conduce

all’elaborazione di questi mondi sconosciuti, di cui l’isola di Utopia rappresenterà

il modello fondamentale per tutto il Seicento. In questo secolo i contributi più

importanti sono quelli di Tommaso Campanella con la Città del Sole (1602), dove

attraverso un dialogo tra due personaggi si racconta la scoperta di una città con

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XIII

leggi e costumi perfetti nell’isola di Taprobana; quello di Francis Bacon con New Atlantis (1627), che, attraverso il racconto di un naufragio sull’isola di Bensalem, mette in primo piano i difetti degli inglesi anche nei loro tentativi scientifici; e quello di Henry Neville con The Isle of Pines (1668), che si occupa dei temi del colonialismo e della proprietà sessuale, raccontando ancora di un naufragio, stavolta sull’isola idillica di Pines.

Anche nel Settecento compaiono opere utopiche che tendono alla descrizione di viaggi immaginari. Spesso la città ideale non è più lontana e in un tempo indefinito, ma è inserita in un ben preciso anno del futuro. A seguito del veloce sviluppo industriale e in opposizione al capitalismo sfrenato prodotto dalla Rivoluzione Francese nascono poi, nel 1800, le cosiddette “utopie socialiste”, che non descrivono viaggi immaginari o sistemi di governo inventati, ma presentano società ideali come conseguenza delle teorie sociali. Il pensiero utopico del XIX secolo si intreccia con la nascita del movimento socialista, a sua volta nato come effetto dello sviluppo dell’industrializzazione e dei conflitti interclassisti. In quest’ottica si possono leggere le opere di Owen, Fourier, e Saint-Simon. In questo secolo, un ulteriore contributo alla definizione dell’utopia viene fornito da Karl Marx, che definì utopiche le proposte di modificazione sociale prive di basi scientifiche. Egli afferma che i teorici dell’utopia esisteranno fin tanto che il proletariato non otterrà un riconoscimento istituzionale attraverso la lotta di classe, spostando ancora una volta l’idea di utopia sulla contemporaneità e sulle problematiche sociali che la affliggono.

L’elenco degli autori e delle opere è decisamente lungo e si fa ancora più fitto tra il XIX e il XX secolo. Per quanto riguarda le opere critiche spiccano tre filosofi e scrittori tedeschi, Ernst Bloch, Karl Löwith e Herbert Marcuse, che rappresentano un nuovo atteggiamento nei confronti dell’utopismo. L’utopia diventa l’arma più poderosa della lotta marxista, verso una serie di progetti di trasformazione sociale: la loro spietata lucidità assomiglia e anticipa quella che accompagnerà gli scritti utopici del Novecento.

2

2 Per maggiori cenni storici sull’utopia si veda: L. Mumford, Storia dell’utopia, Bologna:

Calderini, 1969 e M. Baldini, Il pensiero utopico, Roma: Città nuova, 1974. Un altro testo interessante che, oltre ad alcuni cenni storici, offre anche una serie di formulazioni di proposte di riforma per il futuro che ci attende è: G. Prestipino, T. Serra, Accadde domani: fra utopia e distopia, Roma: Aracne, 2005.

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XIV

2. Tra utopia e distopia

A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, con sempre maggiore frequenza, si hanno “utopisti che detestano l’utopia”. Si hanno cioè opere che non è più possibile etichettare come utopiche, bensì come distopiche, come utopie negative.

Queste anti-utopie, infatti, denunciano in primis le utopie classiche, la loro impostazione e la loro stessa natura: l’utopia era una critica della realtà; la distopia è, anche o soprattutto, una critica dell’utopia. Secondo Beatrice Battaglia:

Si vuol far rientrare la distopia nella grande famiglia dell’utopia letteraria; in realtà a parte l’origine etimologica, ben poco accomuna questi due ‘generi’, tranne la convenzione critica e l’assoluta insofferenza della distopia verso tutte le utopie. Se il disegno o l’ideale utopico si definisce come il prodotto della ragione, la distopia non si fida della ragione, anzi ne teme il connaturato assolutismo e quindi l’amoralità.3

Ma c’è dell’altro. Come afferma Baldini:

Per l’anti-utopista l’utopia non è un sogno bellissimo, ma un incubo, non è un ideale impossibile, ma purtroppo un progetto prossimo ad attuarsi. L’utopista sopprime l’utopia o cerca di farlo. Per l’utopia alla rovescia il “nessun luogo” ideale dell’umanità, sognato per secoli, si configura spontaneamente con connotati negativi.4

La complessità del rapporto tra utopia e distopia non sembra comunque di facile comprensione e non sembra certo essere chiarito da questi pochi cenni. In realtà la linea di confine tra utopia e distopia non è poi tanto facile da stabilire.

Raffaella Baccolini, una delle massime esperte mondiali sui generi utopico e distopico, parla di “blurring borders between genres” e, nel volume Dark Horizons da lei curato, Jane Donawerth scrive:

3 B. Battaglia, “La letteratura distopica. Da Butler a Orwell”, in: Manuale di Letteratura e cultura inglese, a cura di Lilla Maria Crisafulli e Keir Elam, Bologna: Bononia University Press, 2009, p.537.

4 M. Baldini, Il pensiero utopico, Roma: Città nuova, 1974, p. 28.

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XV

The borders of utopia and dystopia as genres are not rigid, but permeable; these forms absorb the characteristics of other genres, such as comedy or tragedy. In this sense, dystopia as a genre is the ideal site for generic blends.5

Ma anche Paola Gatti parla di un rapporto parallelo tra i due generi:

Dall'osservazione che le distopie riproducono molti tratti delle utopie si è voluto spesso concludere che esse vanno considerate quasi uno smascheramento della loro implicita perversità. Ma il rapporto è più complesso: se l'utopia descrive una società senza nessuna connessione spazio-temporale con quella reale e totalmente fondata sulla razionalità, la distopia muove dalle tendenze esistenti e le esamina nelle loro ultime conseguenze. In entrambi i casi, tuttavia, si tratta di invitare alla progettazione di un mondo migliore.6

Occorre allora privilegiare una prospettiva di opposizione tra i due generi, oppure ricorrere all’idea di un parallelismo? Quali sono i confini? È davvero possibile parlare dell’uno senza l’altro?

La differenza fondamentale, in realtà, sembra riguardare le prospettive in cui gli autori di utopie e di distopie costruiscono le loro impalcature: queste infatti sono molto diverse, ma entrambe governate dalle stesse leggi. L’utopia classica si sviluppa costruendo una frattura insormontabile tra la storia reale e lo spazio riservato alle proiezioni utopiche; la scoperta di un paese lontano, fino a quel momento ignoto, diventa il simbolo di una frattura non solo geografica, ma soprattutto storica. La distopia, invece, cerca di porsi nella continuità del processo storico, ampliando e formalizzando le tendenze negative operanti nel momento presente, che dovrebbero essere frenate. In sintesi, la dimensione storica porta in sé la differenza tra l’utopia e la distopia: nel primo caso si tratta di un ruolo senza connotati storici, lontano nel tempo e nello spazio, nella storia; nel secondo caso, la realtà viene assunta così com’è, senza essere privata della sua dimensione storica e della sua contemporaneità.

5 R. Baccolini, T. Moylan, Dark Horizons. Science Fiction and the Dystopian Imagination, Routledge: New York and London, 2003, p. 29.

6 P. Gatti, Discorso utopico e distopico, 2000, <http://mondodomani.org/mneme/apg01.htm>, Ultimo accesso: (01/04/2014).

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XVI

Eppure non si può dimenticare che il messaggio che è fondamento tanto dei testi utopici che di quelli distopici è il medesimo. Citando ancora dal testo della Gatti:

In ambedue i casi il paragone con la realtà effettuale, seppur attraverso modalità diverse, rivela l'intento di spronare gli uomini a mutare e migliorare le condizioni storiche esistenti:

l'utopia con l'immagine della Città ideale a cui tendere e la distopia con il modello della società deviata da cui fuggire. Pertanto l'utopia si pone di fronte alla distopia carica della sua forza normativa ed è al contempo da essa richiamata prepotentemente, in quanto la distopia, con la vivacità della sue rappresentazioni, induce nel lettore la consapevolezza dell'urgenza di ispirare il proprio pensiero e la propria azione ad un paradigma ideale, risultato dell'esercizio razionale e della riflessione umana, in grado di deviare il corso della storia che, altrimenti immutato, avrebbe come esito la situazione delineata dagli antiutopisti.7

L’antiutopia sembra essere l’immagine speculare dell’utopia: attraverso lo specchio temporale essa si mostra a se stessa; per esistere, hanno bisogno l’una dell’altra e finiscono per fondersi; l’utopia diventa antiutopia e finisce per tornare utopia, e probabilmente per rinnegare se stessa. Figlia della crisi della ragione illuministica e della capacità creatrice dell’uomo, la distopia sembra soppiantare l’utopia, opponendosi ad essa nei termini del suo potenziale di realizzabilità; essa si propone, prima ancora di distruggere il mito utopico, di mostrare all’utopia la sua vera natura. La distopia rappresenta la “complementarietà” dell’utopia, la verità nascosta nel cuore dell’utopia stessa, l’indicibile che viene detto, il rimosso che riaffiora, poiché in ogni utopia è contenuto il “germe” distopico. Ed è proprio in questa sua pretesa di “rinsavire” che l’antiutopista si rivela in maniera paradossale più utopista dell’utopista stesso. Sembra esserci in realtà una discrepanza tra l'analisi dei mezzi impiegati dall'utopista per realizzare la sua

‘città nuova’, la sua ‘isola felice’, e la finalità ideale che li ha ispirati. Ancora una volta questo serve a rendersi conto che lo scopo di questi testi è identico. E ancora una volta è qui che si istituisce il legame più profondo fra utopia e distopia.

Ovviamente, questo non vuol significare che, automaticamente, le distopie siano

7 Ibid.

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XVII

da considerarsi progetti utopici mascherati. La distopia si è evoluta come un genere a se stante e ha sviluppato delle caratteristiche proprie a prescindere dalla sua origine.

Per concludere, sebbene non sia possibile delimitare con certezza il confine tra l’utopia e il suo contrario, sembra doveroso sottolineare che il convincimento che la distopia annunci la fine dell’utopia appare frutto di un errore. Come affermato dallo stesso Huxley, “le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente di fronte a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva?”

8

. Questa possibilità sembra distogliere l’uomo dalla ricerca di questi luoghi prediletti e sembra avere come conseguenza quella di doversi interrogare non più tanto sulla realizzazione delle utopie e sulla loro utilità, quanto sulle conseguenze delle loro realizzazioni. Ed ecco che le preoccupazioni dell’uomo, le sue incertezze e le sue domande sul futuro si riversano sulla pagina sotto forma di distopia. Mai come in questi ultimi anni sembra esserci una ripresa del sogno utopico, dagli studenti che tornano in piazza, alla scienza che ripropone miti antichi, come quelli dell’eterna giovinezza, delle manipolazioni genetiche e degli artifizi chirurgici ai limiti della moralità. Nell’età contemporanea, allora, l’utopia cede inesorabilmente il passo alla distopia? Genovesi e Tomasi forniscono una risposta più che esaustiva a questa domanda:

Non crediamo che si tratti di una fine dell’utopia, ma del suo saper assumere anche altre forme letterarie, come appunto quella distopica, che pure conserva molti caratteri dell’utopia. In definitiva, questa flessibilità narrativa del progetto utopico dimostra che esso è strettamente agganciato alla realtà storica nel tentativo di coglierne i possibili sviluppi,

“aggregando” le speranze e anche i timori dell’uomo. Se nel racconto utopico propriamente detto, tali sviluppi sono colti nei loro aspetti positivi (le speranze), in quello distopico- mascherato essi sono individuati e descritti nei loro aspetti negativi (i timori). Il distopico mette in guardia, l’utopico sospinge; ma il fine, in ultima analisi, è quello di attingere ad un mondo migliore, vuoi allontanando i pericoli incombenti della massificazione e della alienazione riaprendo gli interrogativi dell’ignoto e, di conseguenza, l’era delle scelte responsabili dell’individuo, vuoi indicando le linee principali da perseguire.9

8 Aldous Huxley, Il mondo nuovo, Milano 1989, p. 19, citato in Ibid.

9 Ibid, p.23.

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XVIII

3. Dal sogno all’incubo

L’utopia è dunque solo una delle possibili forme di manifestazione delle inquietudini umane. L’analisi della legittimità e della razionalità dell’ordine esistente, la diagnosi e la critica dei malesseri sociali, la ricerca dei rimedi ai mali indotti dall’uomo, la possibilità di qualcosa di nuovo: tutti questi temi riempiono, a gran voce, le pagine delle distopie. Al genere distopico in realtà si danno, e si sono dati, nomi diversi, che possono essere considerati sostanzialmente sinonimi:

oggi il termine più accreditato è proprio distopia, che forse meglio degli altri coglie il senso di queste operazioni, indicando la negatività di quei luoghi immaginari.

Secondo l’Oxford English Dictionary, il termine ‘distopia’ (oggi preferito ad antiutopia e a utopia negativa, ma anche ad altre accezioni del termine usate in passato come cacotopia e pseudo-utopia) sembra essere stato usato per la prima volta da Greg Webber e John Stuart Mill in un discorso in parlamento nel 1868. Il suffisso greco dis- è usato per esprimere “contrarietà, opposizione, male” e quindi per esprimere un significato negativo. Distopia quindi come contrazione di dis- utopia, sia nel significato di diseutopia (il contrario di luogo felice) sia in quello di disoutopia (il contrario di luogo che non esiste), può indicare un “luogo infelice che non esiste”. Come termine non contratto, dis-topia può significare “luogo del male”, una cacotopia appunto, ma anche qualcosa che non ha le caratteristiche per essere un luogo, che non è uno spazio, un non-spazio o uno spazio distrutto, annientato. Il termine quindi riesce perfettamente a distinguere il filone distopico all’interno della produzione utopica e poi anche in quella fantascientifica.

È importante notare che le utopie del Seicento e del Settecento sono già più sulla linea di Robinson Crusoe di Defoe che della Repubblica di Platone. Ma è un altro il romanzo che merita di essere ricordato come l’opera che segna il vero rinnovamento del pensiero utopico. Nel 1726 Jonathan Swift pubblica Gulliver’s Travel, che rappresenta la prima composizione anti-utopica e che propone in chiave satirica un’aspra critica nei confronti della società a lui contemporanea.

Swift, pur mantenendo il desiderio di una società perfetta, non credeva che tale

perfezione fosse associabile all’essere umano. È in questa direzione che si

evolveranno le maggiori distopie dal XIX secolo in poi.

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XIX

La distopia è unanimemente considerata trasgressiva e subversive: le distopie sono degli avvertimenti sul piano emotivo che, “facendo leva sulla nostalgia, sulla ‘memoria ancestrale’, sul senso di privazione e di perdita, su bisogni istintivi, propongono il viaggio all’indietro, di ritorno all’origine”

10

. Ecco che, dai primi romanzi alle produzioni più recenti, la distopia si scaglia prevalentemente contro due aspetti del mondo contemporaneo.

Essa si pone, in primo luogo, in rapporto critico con il totalitarismo che caratterizza le proposte utopiche tradizionali, cercando di dimostrare gli errori di un mondo fondato sul pieno controllo sociale, politico ed economico. L’autore delle cosiddette “distopie sociali” o “sociopolitiche” vuole mettere in guardia i suoi simili dalla possibile catastrofe sociale a cui sta andando incontro la società presente, assumendo un tono di profezia. Sin dalle origini del resto la distopia sembra svilupparsi da convinzioni politiche: i toni polemici e ironici mantenuti nei confronti del potere, un potere quasi sempre totalitario, e dell’organizzazione sociale, basata sulla suddivisione tra oppressori e oppressi, incapaci di ribellarsi, sembra costituire il punto di partenza delle opere distopiche già dall’epoca vittoriana.

In secondo luogo, le distopie cercano di attirare l’attenzione sui pericoli dei progressi scientifici e sul ruolo crescente della scienza, della tecnologia e del progresso: si tratta, anche in questo caso, di vere e proprie “profezie” scientifiche.

I distopici hanno perso la fede nell’idea di un progresso ineluttabile e non credono che sia più possibile tacere quanto di negativo c’è nella scienza. Queste opere sfociano di frequente nelle distopie post-apocalittiche, perché le nuove invenzioni dell’uomo hanno condotto all’inevitabile catastrofe (che di solito è una catastrofe ambientale), e nelle distopie fantascientifiche e horror, che immaginano viaggi in altri mondi, o visite dallo spazio, insieme alla presenza di esseri e forme di vita non umane.

11

10 Ibid., p. 538.

11 A questa prima e immediata classificazione delle distopie, ne possono seguire altre. Un esempio interessante è quello di Beatrice Battaglia che, in “La letteratura distopica. Da Butler a Orwell”, divide le distopie secondo due filoni diversi: al primo appartengono quegli autori che credono in una possibile redenzione, in un’alternativa migliore per l’uomo e per il pianeta; al secondo appartengono invece le utopie, sia positive che negative, che sono minate dall’intima convinzione dell’immutabilità della natura umana (vedi p. 540).

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Conseguenza inevitabile delle descrizioni distopiche è quella di auspicare una certa immobilità sociale e tecnologica, oltre che essere di frequente associate a una visione pessimistica del mondo e del futuro: ecco perché queste opere sono spesso definite conservatrici. Quasi nessuna delle distopie più apprezzate e lette (basti pensare a Huxley e a Orwell) hanno un esito positivo o propongono un’alternativa, o quantomeno una proposta per migliorare le cose. Nella maggior parte dei casi ci si limita a osservare e a denunciare, mettendo in guardia il lettore.

Solo nelle distopie più recenti le cose sembrano andare in una direzione più ottimistica, visto il numero crescente di ribelli e di eroi che affollano le pagine distopiche. C’è da dire che la serialità di molti di questi romanzi spinge sicuramente gli autori in questa direzione. Ma ne parleremo più avanti.

In sintesi, l’evoluzione del genere utopico ha condotto alla creazione di romanzi che, con una forza sempre maggiore, si sono impressi nell’animo umano, proprio perché è nel timore della distopia che possiamo ritrovare almeno un po’

delle paure più primitive dell’essere umano. La lettura di questi romanzi ci mette faccia a faccia con quanto di negativo l’uomo ha prodotto e produce, facendoci pensare e riflettere, ma soprattutto scongiurare, almeno sulla carta, i pericoli delle conseguenze. A questo proposito non sembra esagerato affermare che i più grandi romanzi utopici descrivono in realtà distopie. Vediamo le tappe fondamentali di questa evoluzione letteraria.

3.1. Il XIX secolo e la nascita della distopia moderna

È nella seconda metà dell’Ottocento che, viste le grandi trasformazioni sociali in atto, gli intellettuali traducono le loro speranze e le loro paure del domani in una grande produzione di letteratura utopica e distopica. Sono questi gli anni della Rivoluzione industriale, ma anche della Grande depressione, della nascita del proletariato urbano e della conseguente divisione sociale tra ricchi e poveri. In questo periodo, si assiste anche alla nascita di ideologie come il

‘darwinismo sociale’, a sostegno della naturalità delle ‘due nazioni’ (i ricchi e i poveri, i maschi e le femmine, i padroni e i servi, ecc.) e del concetto filosofico di

“struggle for life and death”. Sono molti gli scrittori e gli intellettuali che in

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questo periodo hanno saputo descrivere la loro epoca; si tratta di autori come Samuel Butler (Erewhon, 1872), Richard Jefferies (After London, 1885), W. H.

Hudson (A Crystal Age, 1887, 1906), E. Bulwer-Lytton (The Coming Race, 1871), Anthony Trollope (The Fixed Period, 1882), E. A. Abbott (Flatland, 1884), Margaret Oliphant (The Land of Darkness, 1887), William Morris (A Dream of John Ball, 1888; News from Nowhere, 1890) e ovviamente H. G. Wells.

Con Erewhon, che è sicuramente una delle prime distopie, se non la prima nel senso ampio e moderno del termine, Samuel Butler ha costruito una parodia ironica del suo tempo, un’opera bizzarra e contraddittoria, ma allo stesso tempo logica e razionale. Riallacciandosi alla tradizione utopica precedente, in particolare a Swift e a Defoe, egli rielabora il pattern del viaggio secondo i principi del pittoresco tardo romantico e crea così quella che Beatrice Battaglia definisce una protodistopia

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, poiché contiene in sé già gli elementi della distopia classica novecentesca: la narrazione autobiografica si unisce a un’atmosfera fantastica e alla visione critica del viaggiatore. ‘Erewhon’ altro non è che

‘Nowhere’ letto al contrario (ad eccezione della h e della w), il mondo di Mr.

Higgs, un Robinson al contrario, e anche di Butler, un mondo che giustifica qualunque cosa riesca a promuovere l’interesse personale. L’individuo è al centro di una realtà che può e deve essere sacrificata per il proprio profitto. Il romanzo prende di mira anche vari aspetti della società vittoriana, dall’ipocrisia religiosa all’antropocentrismo, dalle leggi alle punizioni previste dallo stato. Notevoli sono le pagine del “Book of Machines”, che anticipano e riassumono il dibattito filosofico e sociologico sull’uomo del suo tempo e sul suo rapporto con la tecnologia e il mercato. In questo “book”, Butler sembra portare avanti la folle idea di applicare le teorie di Darwin all’evoluzione delle macchine, riuscendo ad anticipare sia la science fiction che lo spirito dell’economia globale odierna.

Butler conclude affermando che lo spirito della macchina è antiumano, e che servirla significa avviarsi inesorabilmente alla catastrofe e all’autodistruzione.

L’atteggiamento di Butler è quindi, per tanti aspetti, indubbiamente postmoderno.

A Crystal Age di W. H. Hudson, pubblicato nel 1887, è stato definito un romanzo post-catastrofe. Il protagonista Smith si trova a vivere in un sogno, una

12 B. Battaglia, La critica alla cultura occidentale nella letteratura distopica inglese, Ravenna:

Longo Editore, 2006, p. 18.

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sorta di vaga rappresentazione della fede e della speranza in un futuro migliore.

La ‘rivoluzione’ però è già avvenuta sotto forma di catastrofe naturale, quel futuro è già stato rovinato. E a rovinarlo sono stati gli uomini che, accecati dalla follia del potere e dalla smania del progresso, non hanno rispettato Madre Natura, costringendola a distruggerli. Il ‘nuovo mondo’ in cui Smith viene catapultato è il mondo dei Cristalliti, un mondo che capisce e che rispetta la natura, un mondo estetico disseminato da paesaggi incontaminati, da architetture precise e meravigliose, scandito dall’arte e da attività quali la danza: la funzione sociale dell’arte si manifesta in tutto il suo potere di redenzione e di emancipazione.

Elemento fondamentale di questa nuova società è la scomparsa del sesso e dell’amore romantico e la presenza di una misteriosa ‘Mother of the House’, che sostituisce la riproduzione con un atto di creazione indipendente. Ecco che l’originalità del romanzo sta proprio nell’aver portato la sua critica all’ordine culturale e sociale contemporaneo nel suo punto più intimo: A Crystal Age drammatizza il problema del sesso nella cultura vittoriana, rappresentandolo come desiderio imperioso di potere e dominio, identificando in Smith il fallimento dell’uomo che, non potendo possedere la donna che ama, muore insoddisfatto.

Di notevole interesse è anche The Land of Darkness (1887) di Margaret Oliphant, ritenuto uno dei più bei racconti fantastici in lingua inglese e soggetto a una continua rivalutazione da parte dei critici e dei lettori del nostro tempo.

Scrittrice e poetessa scozzese, è autrice di un centinaio di romanzi e di alcuni tra i

più bei racconti fantastici di sempre. Tra le varie raccolte spicca Stories of the

Seen and the Unseen, da cui è tratto il racconto The Land of Darkness. Qui la

Oliphant mette in scena un viaggio all’insegna dell’ansia e del sadismo, della

paura e dell’odio, che popolano la terra della tenebre e che sono il risultato della

negazione e della frustrazione di quelli che sono invece i veri istinti comunitari e

d’amore che governano l’animo umano. Di quest’ultimo la Oliphant ci mostra due

impulsi opposti ma complementari nell’uomo fine ottocentesco, dimostrandoci di

aver ben compreso la natura umana: da una parte la voglia spasmodica di

continuare, di produrre sempre più progresso, a rischio anche di distruggere la

specie umana; dall’altra la possibilità di tornare indietro, di rinnegare e rifiutare lo

sviluppo e la sua pericolosità. Nascosta nelle pagine della Oliphant, dietro a

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questo viaggio nelle ‘strade senza legge’ di un mondo dominato dal grande meccanismo del consumismo e dalle regole di mercato, c’è un’aspra critica alla borghesia del suo tempo, alla sua crudeltà e al suo egoismo.

Con il suo viaggio attraverso i principali luoghi della land of darkness, la Oliphant anticipa le principali distopie del Novecento: le “lawless streets”, le “mines of gold”, la “city of tytants” con la sua “lazar-house”, la “city of the evening light”, “the huge workshops”, la

“vast and desolate plain” sono emblematiche e incisive rappresentazioni del sadismo e della violenza, della solitudine e del terrore, dell’edonismo, della follia dell’onnipotenza, del disorientamento che si ritrovano nei mondi di Aldous Huxley, di Orwell, di Kafka, di Burgess.13

E non è difficile apprezzare lo spessore allegorico della sua scrittura e vedere nelle sue descrizioni qualcosa delle megalopoli mondiali, delle favelas brasiliane, delle periferie delle grandi città europee, qualcosa dei campi profughi sparsi per il mondo: qualcosa del nostro tempo.

Per finire, William Morris, i cui scritti esercitarono una grandissima influenza sull’arte e sulla letteratura inglese della prima metà del Novecento, rappresenta una delle voci più interessanti e innovative del panorama distopico.

Egli si distingue da molti suoi contemporanei e successori poiché crede nella possibilità di un’alternativa, crede che l’uomo possa ancora salvarsi da quella distruzione così spesso profetizzata dai suoi contemporanei e successori. L’essere umano non deve arrendersi: egli potrà tornare a vivere in pace, perché c’è “ancora un’era di pace in serbo per il mondo”. E non potrebbe essere altrimenti, come risulta chiaramente dalla lettura dei suoi romanzi, tra cui spiccano A Dream of John Ball (1888) e News from Nowhere (1890).

3.1.1. Le opere fantascientifiche di H. G. Wells

Una discussione a parte merita H. G. Wells, che può essere considerato uno dei padri fondatori del genere distopico, soprattutto del filone fantascientifico. A differenza di Morris, le sue utopie, sia positive che negative, “sono minate

13 Ibid., p. 541.

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dall’intima convinzione dell’immutabilità della natura umana che per lui non è quella dell’edenico ‘animale umano’ morrisiano, bensì quella del bruto ancestrale dentro di noi”.

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I critici di ogni secolo, luogo e nazionalità, presentano unanimemente Wells come l’antesignano della distopia novecentesca e della fantascienza, un romanziere la cui scrittura appare ampliamente influenzata dalla scienza, visto che le sue “specialità” sono la messa in scena di società future apocalittiche, di macchinari ancora da inventare e di società da temere e non imitare. Wells, del resto, vive in un momento in cui la fede vittoriana nel progresso entra in una profonda crisi e nel quale si assiste a una rivalutazione della scienza, tesa a riconsiderarne gli aspetti negativi: non è più possibile ignorare l’ombra gettata sulla fede nel progresso delle scoperte scientifiche. Nonostante questo contesto storico e sociale influenzi nel profondo le opere di Wells, la carriera dell’autore sarà accompagnata da un’alternanza di speranza e di disperazione, che varieranno a seconda delle vicende politiche mondiali e della sua vita, delle sue condizioni fisiche e emotive. Questa continua alternanza emerge con chiarezza soprattutto nelle numerose opere e nei saggi critici che Wells pubblicherà nel corso di tutta la sua attività.

Ma un cenno di speranza non scompare mai completamente, nemmeno nei momenti più bui. Questi «scientific-romances» vengono proposti come tremende premonizioni, allo scopo di mettere in guardia l’umanità contro i suoi mali presenti, perché ne prenda atto e vi ponga rimedio prima che sia troppo tardi. Non si nega, a livello letterale, che l’umanità possa essere spodestata e che l’universo vada alla deriva: l’evoluzione e l’entropia rendono entrambe le cose possibili e forse inevitabili.15

Del 1895-96 è The Time Machine, il suo capolavoro, in cui un’élite scientistica e tecnologica senza scrupoli porta, in un tempo peraltro lontano centinaia di migliaia di anni, alla distruzione del mondo. La morte del pianeta è descritta dal viaggiatore nel tempo fermatosi nell’anno 802.701, dove trova una società degenerata, divisa in classi in lotta tra loro e nella quale le macchine hanno sostituito il lavoro dell’uomo, portando degrado e miseria tra gli uomini.

14 Ibid., p. 540

15 K. Kumar, Utopia e antiutopia: Wells, Huxley, Orwell, Ravenna: Longo Editore, 1995, p. 38.

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In The Island of Dr. Moreau (1896) e in The Invisible Man (1897) si racconta di scienziati pazzi, apprendisti stregoni senza scrupoli, animati da una sete di potere che li priva di ogni umanità, cinici e amorali. Sono il prodotto dell’idea di progresso scientifico e tecnologico spinta all’estremo e privata di ogni controllo etico.

Niente di diverso dai marziani, efficienti e disumani che invadono la terra in The War of the Worlds (1898). E poi ci sono i seleniti di The First Man in the Moon (1901) che formano una civiltà sviluppata e razionale; la loro è una logica fredda e senza sentimento, che non ammette emozioni.

Più “profetico” appare When the Sleeper Wakes (1899), che ci porta in un XXII secolo sempre più meccanizzato, sempre più uniforme (case e ambienti tutti uguali, organizzazione sociale identica in tutto il mondo,una lingua comune) nel quale sono scomparse la democrazia e ogni autonomia per l’individuo. Sembra per certi aspetti la realizzazione di certe utopie settecentesche, sebbene la felicità si ottenga a forza di regolamenti e burocrazia, attraverso strumenti propagandistici e il condizionamento culturale che riduce tutta la popolazione alla schiavitù.

Col nuovo secolo, però, Wells sembra ripensare a una concezione positiva del futuro, concludendo che si possa davvero ritornare all’utopia: in A Modern Utopia (1905), che merita un trattamento speciale nella disamina dell’utopismo di Wells, egli recupera una visione di stampo platonico, in cui propone una società che pratica l’eugenetica e la selezione, e affida la vita dei cittadini,rigorosamente divisi in classi, ad un’élite armata. Il romanzo evoca una visione, oltre a enunciare semplicemente un programma, diventando il più caratteristico, il più wellsiano dei suoi libri, originale nella forma e autentico nella sua originalità.

16

Dopo la prima guerra mondiale, Wells torna a temi antiutopici e apocalittici, in cui fa, fra l’altro, i conti con i totalitarismi del XX secolo e il loro potenziale distruttivo. Il tema è ribadito in un altro libro del 1933, The Shapes of the Things to Come: la società futura sarà completamente organizzata, formata da un proletariato industriale schiavizzato; la natura, abbandonata a se stessa, ridiventerà selvaggia e inospitale. Ciò che emerge da tutte queste opere è che le società perfette lo sono in una prospettiva sempre più lontana dall’umano.

16 Ibid., p. 50

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XXVI

Wells, tuttavia, non ha mai smesso di credere, neanche nei suoi momenti di maggiore pessimismo, che l’umanità potesse essere corretta e salvata. E come sottolinea anche Beatrice Battaglia

17

, come l’arte e la letteratura contemporanea, il significato delle opere di Wells sembra essere racchiuso nella domanda che conclude A Modern Utopia: «Are we meant to serve the mysteries? Are we driven to an end we cannot understand?»

3.2. Le distopie del Novecento

Uno dei nomi più importanti del primo Novecento è quello di E. M. Forster che nel racconto The Machine Stops, pubblicato per la prima volta nel 1928 in The Eternal Moment and Other Stories, ci mostra che la realtà è stata sostituita dalla finzione del progresso e del cambiamento. La prima distopia del Novecento non solo si è rivelata una future history, ma continua a essere l’allegoria di un futuro possibile e quasi inevitabile. Qui la descrizione della realtà distopica coincide con la sconfitta dell’uomo. Lo spirito razionale, ‘meccanico’ quasi, e totalitario della cultura vittoriana e borghese ha trasformato il mondo in una grande macchina, che ha surclassato gli individui, trasformandoli in semplici ingranaggi: ogni individuo svolge la propria funzione a servizio esclusivo della macchina (e i neonati più forti vengono uccisi perché nessuno può pensare di superarla), che provvede a tutto e rende il corpo inutilizzato e inutile. Il mondo è diventato un luogo mostruoso: la superficie terrestre è stata dilaniata e abbandonata dagli esseri umani, che vivono sotto terra; non si può uscire se non con una maschera e del resto non si trovano più abbastanza motivi per farlo; le città sono tutte identiche e non si viaggia più; lo studio del pianeta non ha più alcuna importanza. Il protagonista, Kuno, si ribella, facendosi carico di un’impresa collettiva, che rimane però sempre individuale. Anche nel finale, quando la Macchina si ferma, lasciando l’umanità a morire senza aria e senza luce, sembra essere l’unico a capire “ciò che veramente conta”, morendo tra le braccia della madre che è finalmente riuscito a raggiungere. L’uomo moderno, come Kuno, è destinato a

17 B. Battaglia, Nostalgia e mito nella distopia inglese. Saggi su Oliphant, Wells, Forster, Orwell, Burdekin, Ravenna: Longo Editore, 1998, p.116.

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XXVII

soccombere, ad essere un nuovo Frankenstein, vittima del proprio intelletto e di una forza più grande di lui. Un fantoccio nelle mani della scienza.

Il lamento di Forster riecheggia in tutto il Novecento, da Lawrence a Orwell a Durrell, da Horkehimer a Baudrillard a Jameson. Anche se i nomi più importanti sono proprio quelli di Huxley e di Orwell, anche altri autori meritano di essere menzionati. In meno di tre anni vengono composte The Wild Goose Chase, di Rex Warner, nel 1937, Swastika Night di Katharine Burdekin, sempre nel ‘37, e Anthem di Ayn Rand, nel 1938. Tra gli scrittori di fiction apocalittica e catastrofica, un posto importante è occupato da Lawrence Durrell. Egli si distacca da molti suoi contemporanei in quanto non accetta il presente e la loro idea pessimistica del futuro: per quanto negativa possa apparire la sua visione della vita, in essa egli ha ancora fede. Nelle sue opere distopiche, The Black Book (1938), The Dark Labyrinth (1947), The Alexandria Quartet (1962), e soprattutto in The Revolt of Aphrodite (1974), Durrell cerca di dar voce al mito, unendo al linguaggio del fantastico un sottile atteggiamento parodico e ironico. Una strada simile a quella percorsa da Durrell, sarà quella di gran parte dei grandi scrittori distopici del Novecento, da J. G. Ballard, autore di opere come Condominium (1965), The Atrocity Exhibition (1970) e Crash (1973), a John Wyndham (The Day of the Triffids, 1951), a John Christopher (Death of Glass, 1956; The World in Winter, 1962).

Scritto nel 1953, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury è considerato uno dei pilastri del genere distopico e un’opera fondamentale nel panorama della science fiction novecentesca. Questo romanzo sembra ricollegarsi alla “fantascienza sociologica” che, come ricorda Elena dell’Agnese, “è fiorita sulle riviste statunitensi a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, della quale risulta essere il prodotto più noto e maturo”.

18

Ambientato in un imprecisato futuro posteriore al 1960, vi si descrive una società distopica in cui leggere o possedere libri è considerato un grave reato. Per contrastare i “lettori” di libri proibiti, è stato istituito un apposito corpo dei vigili del fuoco, impegnato a bruciare ogni tipo di volume e a scoraggiare chiunque voglia dedicarsi a questa attività. Il titolo del

18 E. Dell’Agnese, “La strada inversa: geografia eco-critica, paesaggi e discorso ambientalista nella letteratura distopica e post-apocalittica”, in Bollettino della Società geografica italiana, Serie XIII – Volume V – Fascicolo 3 – luglio-settembre 2012, p. 552.

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XXVIII

romanzo si riferisce, infatti, a quella che Bradbury riteneva essere la temperatura di accensione della carta. Affrontando i temi della gestione delle informazioni, della censura e della libertà di pensiero e soprattutto del controllo sociale, il romanzo sembra seguire la scia delle opere di Huxley e di Orwell. L’unica differenza è il finale, che in Fahrenheit 451 sembra essere aperto alla speranza e alla possibilità per l’uomo di creare una nuova vita e un mondo nuovo: il protagonista e gli altri superstiti all’ordigno nucleare che viene sganciato sulla loro città rappresentano la memoria letteraria dell’umanità, quasi un popolo nuovo e migliore che sia avvia consapevole a prestare soccorso agli altri sopravvissuti.

Come anche nell’opera di Bradbury, in The Lord of the Flies (1954) William Golding ricorre al romanzo distopico per raccontare la crisi e l’erosione dei valori della società, operata anche dalla furia distruttrice delle due guerre mondiali. Conseguenze della guerra e delle altre dinamiche sociali della prima metà del secolo scorso sembrano essere un crescente disprezzo per la vita umana e il timore del futuro, che diffondono in men che non si dica il catastrofismo letterario. Golding, per esempio, negando ogni positiva potenzialità originaria dell’uomo, propone per i suoi giovanissimi protagonisti lo stesso imbarbarimento raggiunto dalla civiltà. I protagonisti di The Lord of the Flies sono naufragati in un’isola prenatale e paradisiaca, lontano dalla portata distruttiva della guerra mondiale, ma gli effetti disastrosi del loro tempo sembrano averli raggiunti anche lì. Nessuna via di fuga quindi, nessuna speranza.

Uno dei romanzi del genere più letto e apprezzato di sempre (anche grazie

all’omonimo film di Stanley Kubrick) è A Clockwork Orange (1962) di Anthony

Burgess, che rinnova i canoni del romanzo distopico contemporaneo. Burgess dà

origine a un mondo di personaggi eversivi, che si ribellano all’ordine costituito

perché troppo “felice”, creando un mondo in cui regna una disarmonia

prestabilita. In questo romanzo, la ribellione appare un fatto d’élite, che nasce

dalla riscoperta del passato e della cultura umanistica. In A Clockwork Orange,

Alex padroneggia perfettamente le varietà linguistiche più antiche e quelle più

nuove, e questo lo rende un “outsider”, l’individuo perfetto per commettere atti di

violenza e di barbarie. Il personaggio distopico, qui come altrove, attraversa un

itinerario, un viaggio solamente ideale, che sostituisce il viaggio per mare delle

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XXIX

prime utopie, attraverso il quale dovrà essere “riabilitato”. Alex viene indotto a

“guarire” e il lettore può assistere al suo recupero (almeno apparente). È importante notare che l’“outsider” non è mai da solo, non è mai presentato come isolato: ad Alex vengono affiancati i suoi “droogs”, il cappellano del carcere, e in seguito una sua vittima, lo scrittore F. Alexander. La funzione di questi personaggi è di caratterizzare la lotta al sistema come individuale o collettiva, partendo, per questa ragione, quasi sempre da personaggi anonimi.

Le opere distopiche quindi inglobano il mondo utopico per irriderlo e minare le basi stesse su cui esso si poggia, come accade in Brave New World e in 1984, che rappresentano comunque l’apice della produzione distopica e un modello per tutti i romanzi successivi.

3.2.1. Aldous Huxley e il mondo nuovo

Fra gli autori di distopie novecentesche, forse quello che manifesta il pensiero più articolato e fecondo, è Aldous Huxley, colui che più degli altri riesce a cogliere il problema delle utopie. Egli realizza con estrema chiarezza che il mondo moderno per la prima volta rende possibile la realizzazione delle utopie, e anzi che lo sviluppo occidentale moderno è una continua discesa nell’incubo. La civiltà del XX secolo è un cimitero sterile, un inferno, e il futuro non sembra essere più roseo. Attraverso le sue opere, egli condusse un’indagine sulle caratteristiche e sulle prospettive del mondo occidentale moderno, per concludere con una visione quasi totalmente negativa e pessimistica tanto del presente che del futuro.

Nemmeno nelle alternative che propone, Huxley riesce a vedere un po’ di

luce, e la forma di organizzazione sociale elitaria da lui proposta è del tipo che

egli stesso critica spietatamente in Brave New World. Anche il suo primo romanzo

distopico, Crome Yellow (1921), rappresenta uno stato totalitario: l’idea principale

di questo stato è l’eliminazione degli sprechi, attraverso il rigido controllo dei

tempi, così come quello di una catena di montaggio. Per farlo, la società è divisa

in compartimenti rigidamente gerarchizzati. Il modello lontano è la Repubblica di

Platone, sia per la gerarchia di classi, sia per il rigido controllo sulla riproduzione.

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XXX

In realtà si è più vicini all’organizzazione sociale proposta dal fascismo italiano che all’affermazione di uno stato positivo e migliorato.

Il suo romanzo più importante rimane comunque Brave New World (1932), dove è rappresentata la società del 2600, una realtà nella quale la vita degli individui è profondamente condizionata da sistemi biochimici, psicologici, dal culto della personalità e delle gerarchie. Gli uomini sono stati totalmente annichiliti nella loro umanità, al punto da essere in gran parte convinti di essere felici; dal momento che la vita meccanica e piatta non ha più niente dell’esistenza piena e “naturale” condotta nei secoli precedenti, essi utilizzano sistematicamente una droga eccitante detta “soma”, che crea un meccanismo di divertimento obbligatorio stabilito da una società che si incarica di far avere a tutti, o meglio di imporre a tutti, il piacere. In questa società rigidamente gerarchizzata, gli uomini vengono divisi fin dalla nascita in classi, distinte dalle lettere dell’alfabeto greco, e vige la riproduzione artificiale relegata solo a certi luoghi. Anche qui il sesso è libero e incoraggiato, con l’obiettivo di eliminare le passioni, e fra di esse soprattutto l’amore. Ed è questa stessa società a fare un uso continuo della propaganda, tentando di convincere gli uomini, con ogni mezzo di comunicazione di massa possibile, che questo è il modo di vivere migliore: lo slogan che riassume questa società è “Comunità, Identità, Stabilità”.

Ma c’è un altro elemento al centro della critica di Huxley: la scienza.

È legittimo considerare Brave New World un’antiutopia della scienza, l’antiutopia della scienza per eccellenza. Ma occorre tener presente che il bersaglio di Huxley non è la scienza in quanto tale ma piuttosto lo scientismo. È l’applicazione della scienza in un particolare contesto sociale, e con un particolare scopo sociale, che attira i suoi strali. In seguito, Huxley scrisse che «il tema di Brave New World non è il progresso della scienza in sé, ma i suoi effetti sugli individui».19

Sebbene Huxley non presti molta attenzione allo sviluppo della chimica, della fisica e dell’ingegneria, sebbene gli siano stati riservati molti giudizi negativi sull’attualità della sua critica scientifica (per esempio quella di non aver visto le possibilità dell’atomo), e sebbene si rivolga più alla biologia e alla psicologia che

19 Ibid., p. 113

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XXXI

ad altri aspetti della scienza, si percepisce con chiarezza che egli guarda ad essa come ad un’attività minacciosa e potenzialmente sovversiva. Dalle incubatrici al condizionamento delle menti, dall’ipnopedia ai jingles pubblicitari, dalla pubblicità di massa alla soma, egli manifesta tutti i suoi timori nei confronti di queste innovazioni. E proprio perché lui stesso era cupamente certo delle proprie anticipazioni, «in nessuna altra utopia o antiutopia moderna, nemmeno in Wells e Orwell, riconosciamo il mondo di oggi come in Brave New World»

20

che a quasi un secolo di distanza dipinge una realtà che risulta immediatamente familiare al lettore contemporaneo. E del resto i lineamenti di questa società totalitaria erano già visibili nella vita americana a lui nota. In tutto questo l’uomo non sembra capace di ribellarsi al sistema, sebbene l’intera narrazione del romanzo sia incentrata sul dissenso e sulla ribellione, com’è convenzione del romanzo distopico. A conti fatti la ribellione in Brave New World è patetica, immatura, sterile, condannata fin dall’inizio e facilmente debellata (tant’è che per “the Savage” la ribellione si esaurisce nella rievocazione del linguaggio di Shakespeare), quasi che Huxley abbia voluto sottolineare la forza e la stabilità che sottostanno al Mondo Nuovo, avvertendoci ancora una volta di quanto minaccioso sia quello che ci aspetta. E la minaccia si estende ai problemi del sovraffollamento globale, della fame nel mondo, dell’inquinamento ambientale, ma ancora una volta soprattutto alla “morality of science”.

Per finire, occorre almeno menzionare l’altro grande romanzo di Huxley, The Island pubblicato nel 1962. L’opera racconta la storia del giornalista Will Farnaby che durante un viaggio alla volta dell’Estremo Oriente, naufraga sull'isola di Pala, un luogo sconosciuto e mai visitato. Qui viene a contatto con una popolazione dal carattere gentile e sereno che è riuscita a coniugare scienza e arte.

Sarà proprio in questo mondo apparentemente idilliaco che Farnaby si troverà coinvolto in un tentativo di impossessarsi del petrolio. Anche qui ritornano i temi della somministrazione coatta di droghe, della suddivisione degli abitanti in gruppi, della riproduzione assistita e della contraccezione, temi che delineano un’altra società totalitaria, un’altra società distopica per eccellenza: ancora un altro messaggio politico simile a quello di Brave New World:

20 Ibid., p. 129

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XXXII

Huxley scarcely mentions the word politics […] The message is, essentially, as antitotalitarian and as morally concerned with the future of humanity as Orwell’s. Both books were written out of the same impulse to protect the individual and to protect history.

Their differences belong mostly to the specific periods in which they were written, their similarities to this shared impulse, a valid one whenever the time, present or future.21

È qui che possiamo inserire il discorso sulla distopia forse più letta e conosciuta di tutti i tempi e passare al nome più famoso della distopia moderna, la cui fama gli ha fatto raggiungere quasi la dimensione di mito: George Orwell.

3.2.2. Il mito di George Orwell

La terza grande narrazione distopica novecentesca è quella di George Orwell. Di qualche anno più giovane di Huxley, morto prematuramente nel 1950, è autore di due libri che propongono la realizzazione distorta di un’utopia: Animal Farm e 1984.

Il primo, apparso nel 1945, è una favola, dagli accenti un po’ disneyani:

mette in scena degli animali “rivoluzionari”, che scacciano l’uomo dalla fattoria in cui vivono e installano una nuova società tutta loro. All’inizio tutto sembra andare bene, poi però cominciano a delinearsi delle divisioni: un gruppo di maiali prende di fatto il potere e diventa una classe ben precisa di burocrati. Il loro slogan sottintende che tutti gli animali sono uguali, ma che ce ne sono di più uguali degli altri. Pian piano la nuova società si rivela simile a quella vecchia, con l’unica differenza che a dirigere non ci sono più gli uomini, divenuti ormai schiavi, ma i maiali. Come si vede, si tratta di una posizione pessimistica, che sembra condannare ogni società che non risponda all’ideale di Orwell di una società liberale; in qualsiasi organizzazione politica e statale, dunque, egli ravvisa la presenza di un dominio illiberale dell’uomo sull’uomo. Ecco che Animal Farm è stata letta dai critici come una parodia della rivoluzione russa, nonché come la prima espressione veramente consapevole della necessità dell’impegno politico.

21 J. Calder, Huxley and Orwell: Brave New World and Nineteen Eighty-Four, London: Edward Arnold, 1976, p.59.

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