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un po’ di storia La riforma del Consiglio di Sicurezza: APITOLO I C

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C

APITOLO

I

La riforma del Consiglio di Sicurezza:

un po’ di storia

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All’indomani della seconda guerra mondiale, l’esigenza di un organismo sovranazionale, che fosse in grado di garantire la pace e arginare il nazionalismo che aveva prodotto i tragici risultati che tutti conoscono, era molto sentita. L’idea di una organizzazione internazionale, nata dalle ceneri della Società delle Nazioni, perciò, era nell’aria e quando ad essa fece riferimento il presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, il mondo pensò realmente che un nuovo corso della storia e dei rapporti tra Stati potesse essere intrapreso. In occasione della Organizzazione internazionale del lavoro, riunita a Filadelfia nel maggio del 1944, perciò, il presidente degli Stati Uniti afferma per la prima volta: «Sono molto fiducioso che l’alleanza delle nazioni Unite avrà alla fine una nuova agenzia internazionale, che collegherà il mondo in maniera più stretta di quanto sia mai stato prima nella sua storia»1. In realtà è già del 1941 che l’amministrazione americana riflette sull’opportunità di un nuovo organismo, che possa garantire pace, sicurezza, libertà economica e decolonizzazione. Parlando al congresso, infatti, l’allora presidente USA pronuncia un discorso rimasto celebre, traboccante di speranza e fiducia. «Per il futuro, che cerchiamo di rendere sicuro, guardiamo a un mondo fondato su quattro essenziali libertà umane. La prima è la libertà di parola ed espressione ovunque nel mondo. La seconda è la libertà di ogni persona di pregare Dio nel modo che crede, in ogni parte del mondo. La terza è la libertà dal bisogno, che tradotto in termini mondiali, significa mezzi economici, accordi che assicurino a ogni nazione un periodo di pace prospera per i suoi abitanti, in ogni parte del mondo. La quarta è la libertà dalla paura, che tradotto in termini mondiali significa una riduzione in tutto il mondo degli armamenti fino al punto e in una maniera tale che nessuna nazione sarà in una posizione di commetter un atto di aggressione fisica

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contro ogni vicino, in ogni parte del mondo. Questa non è la visione di un millennio lontano. È la base determinata per un tipo di mondo raggiungibile nella nostra epoca e generazione. Questo tipo di mondo è l’antitesi del cosiddetto nuovo ordine di tirannia, che i dittatori cercano di creare con la distruzione bellica. A questo nuovo ordine opponiamo una concezione più grande, un ordine morale. Una buona società è capace di fronteggiare gli schemi di dominazione mondiale e rivoluzioni straniere senza paura»2. Parole che non lasciano adito a dubbi o ripensamenti: il mondo sta per cambiare e gli USA intendono dare il proprio contributo.

È, però, alla conferenza di Teheran, svoltasi dal il 28 novembre al 1o dicembre del 1943 che comincia a delinearsi la fisionomia del nuovo organismo. Roosevelt, nel frattempo, è riuscito a coinvolgere le altre nazioni vincitrici del secondo conflitto mondiale: l’URSS, (ben felice di aderire al progetto, che la porterà di diritto a sedere al tavolo delle grandi potenze) e la Gran Bretagna (con il primo ministro Churchill, che inizialmente suggeriva un sistema di sicurezza collettiva affidato a consigli regionali, ognuno assegnato ad una grande potenza). Cina e Francia (che pure hanno diritto a comparire nel novero dei vincitori) vengono reclutate in un secondo momento e comunque alla tavola rotonda organizzata presso Dumbarton Oaks, per tracciare le linee guida della futura organizzazione internazionale, non furono presenti. La Cina, infatti, risultava un ospite poco gradito all’URSS; la Francia, invece, era al momento “invisa” e pagava lo scotto di dare con una sua eventuale presenza un peso eccessivamente europeo alla conferenza. Tutto ciò, come è evidente, porta a due conclusioni: la prima, piuttosto scontata, è che a decidere delle sorti di un organismo, che aveva pretese di garantire benessere al mondo intero

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Il discorso completo pronunciato da Roosevelt è disponibile al seguente indirizzo internet: http://www.americanrhetoric.com/speeches/fdrthefourfreedoms.htm.

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furono soltanto tre Paesi, vale a dire USA, URSS, Gran Bretagna. La seconda, altrettanto palese, è che fin dall’inizio si sono presentate “resistenze” a questa o quella proposta, sottolineando così quanto fosse difficile mettere tutti d’accordo. E del resto, una volta delineata la struttura e gli organi che avrebbero costituito l’Organizzazione delle Nazioni Unite, gli Usa avrebbero voluto far rientrare anche il Brasile, in rappresentanza dell’America latina, ma invano a causa dell’opposizione di URSS e Gran Bretagna.

Nonostante la morte di Roosevelt, improvvisa e inaspettata a pochi giorni dal solenne meeting che avrebbe presentato al mondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite, la via ormai era stata tracciata e il neopresidente Truman diede inizio ai lavori della Conferenza di San Francisco, apertasi il 25 aprile 1945 nella città della California: risultavano presenti tutti gli Stati americani, alcuni Stati europei e asiatici, pochi africani, l’ Australia e la Nuova Zelanda. Erano rimasti esclusi i Paesi filo-fascisti, quelli neutrali e l’Argentina, che aveva mantenuto una posizione ambigua nel confronti del nazismo3. Non erano mancati, perciò, malumori da parte di Stati lasciati fuori.

Meno problematica, paradossalmente, la scelta di introdurre un veto: ciascuno dei cinque futuri grandi, infatti, vide da subito in esso una garanzia altrimenti esigibile. L’URSS in particolare, che tanto utilizzerà questo strumento, paralizzando l’attività dell’ONU negli anni della guerra fredda, scorge nel veto una possibile alternativa a proposte che potrebbero non incontrare il favore del Cremlino. E del resto, un meccanismo regolatore era già presente nella Società delle Nazioni, ove, tuttavia, era richiesta l’unanimità tra tutti i membri coinvolti; la clausola, come si può

3 Per l’elenco completo dei partecipanti si veda

http://2001-2009.state.gov/r/pa/ho/pubs/fs/55407.htm.

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immaginare, provocava di fatto uno stallo nelle attività. Così, per non incappare nuovamente in tale situazione, i vincitori della seconda guerra mondiale immaginarono un Organismo nel quale il meccanismo di voto fosse basato sulla maggioranza dei due terzi, raggiunta tra membri permanenti e membri semipermanenti. In più, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina e URSS riservarono per se stesse un ulteriore meccanismo a difesa dei propri interessi nazionali, che, tuttavia, presentarono al resto del mondo come un tassello mancante nella sorpassata società delle Nazioni, per il corretto funzionamento di tutta l’Organizzazione: si giunse così alla determinazione del veto per quelli che poi saranno conosciuti come i Cinque Grandi4.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite, dunque, presenta un vizio di forma fin dalla sua fondazione: come definire altrimenti la volontà di riservare a cinque sole Nazioni la prerogativa di sedere in Consiglio di Sicurezza? E come definire il veto, se non come un privilegio che nel tempo, ha scavato un solco tra l’Olimpo dei cinque che ne beneficiano e il resto dei Paesi aderenti all’ONU? Probabilmente bisognerebbe partire da tale riflessione di fondo nell’affrontare lo studio delle numerosissime ipotesi di riforma presentate lungo un arco di tempo che copre quasi settanta anni.

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In realtà, non si parla apertamente di veto, quanto, piuttosto di necessaria unanimità tra i cinque grandi.

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1. La questione del veto e il risentimento verso i membri permanenti

A San Francisco, dunque, fu decisa la struttura che l’organizzazione avrebbe avuto, organizzata attorno ad Assemblea generale, Consiglio di Sicurezza, Consiglio fiduciario, Segretariato, Consiglio economico e sociale, Corte internazionale di giustizia.

Ma già durante la conferenza di San Francisco, negli ambienti della società civile, man mano che le indiscrezioni trapelavano circa gli accordi stretti tra potenze vincitrici, andava diffondendosi senso di frustrazione e delusione. Presto, infatti, fu chiaro che il nuovo organismo mondiale sarebbe stato fondato su un sistema di sicurezza collettiva, che per sua stessa natura aveva come obiettivo quello di mantenere lo status quo e di tutelare la sovranità assoluta di ogni suo membro5. Il fallimento della Società delle Nazioni, perciò, sembrava non avere insegnato nulla: a distanza di anni non era ancora chiaro che il problema della guerra si sarebbe potuto definitivamente eliminare con un’autentica organizzazione sopranazionale. Mantenere, invece, le cose nella situazione in cui erano e garantire la sovranità di ogni Paese, sapendo che qualunque minaccia a o rottura dell’ordine internazionale avrebbe fatto scattare la reazione automatica dell’intera comunità, era il meccanismo che la cultura politica uscita devastata dall’esperienza del secondo conflitto mondiale sapeva produrre.

Quanto al veto, nonostante le rassicurazioni che i membri permanenti offrirono ai piccoli Paesi, con le quali si impegnavano ad usare tale strumento solo nel caso in cui il loro interesse vitale fosse stato seriamente

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Tra le critiche più incisive della teoria e della pratica della sicurezza collettiva L. Lothian, Il pacifismo non basta, Il Mulino, Bologna, 1986; E. Reves, Anatomia della pace, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 173-190.

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minacciato, esso finì con l’essere impiegato molto più spesso di quanto si sarebbe dovuto fare ed un’analisi neppure troppo approfondita dell’uso fatto dal 1945 ad oggi, smentisce senza ombra di dubbio i buoni propositi delle potenze vincitrici. Il veto, infatti, è stato utilizzato nella maggior parte dei casi non per proteggere interessi vitali, ma per esempio, per bloccare l’ingresso di Paesi indesiderati, per impedire l’elezione di un Segretario generale non gradito6 o, ancora, per impedire l’espulsione di un Paese dall’Organizzazione e, naturalmente, per ottemperare a meccanismi di rivalsa molto frequenti durante la guerra fredda. Si parla addirittura di “effetto prenatale” del veto, quando è sufficiente la sola minaccia del suo impiego per impedire che si tenga una discussione in seno al Consiglio o, comunque, che si giunga ad una votazione; fenomeno, questo, tristemente noto durante la guerra fredda7. Ma è, in realtà, l’intera funzionalità del sistema ONU ad essere ostaggio del veto e ciò, purtroppo, anche in tempi più recenti: quando nel 2002, infatti, è nata la Corte Penale Internazionale, gli USA hanno minacciato di impiegare il veto su ogni futura operazione di

peacekeeping se non avessero ricevuto rassicurazioni circa la possibilità di

immunità per i propri soldati nei confronti della giurisdizione della Corte stessa. Solo eufemisticamente, perciò, si può continuare a parlare di veto quale meccanismo di contenimento e garanzia per l’Organizzazione tutta:

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Si ricorda per completezza che il Segretario generale delle nazioni Unite è eletto dall’Assemblea generale, su proposta del Consiglio di Sicurezza. Il suo mandato dura cinque anni, rinnovabili. All’indirizzo http://www.un.org/sg/ si può consultare la pagina a lui dedicata, all’interno del sito dell’ONU.

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Il fenomeno è ampiamente documentabile durante la Guerra Fredda, a causa dell’atteggiamento ostruzionistico dell’URSS, ma ha purtroppo mantenuto una certa rilevanza anche in epoche successive: basti pensare all’esempio del Kosovo, nel 1999, quando l’intervento militare è avvenuto incredibilmente fuori dalla Nazioni Unite senza che neppure si fosse tenuta una votazione formale, in Consiglio, a causa della nota contrarietà di Cina e Russia ad interventi lesivi della sovranità nazionale. Ugualmente, nel 2003, per l’intervento americano contro l’Iraq, quando nessuna discussione ha avuto luogo, per la contrarietà di Francia, Cina e Russia.

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esso, nel tempo, ha rivelato la sua reale natura e definirlo un mero strumento di ricatto nelle mani dei Paesi permanenti forse non è del tutto errato8.

A ciò bisogna aggiungere l’ulteriore ambiguità per cui l’assenso dei cinque membri permanenti è richiesto solo in caso di decisioni politiche e non procedurali. Non è tuttavia specificato quando una decisione possa intendersi appunto appartenente all’una o all’altra categoria, con il risultato che le grandi potenze hanno imposto negli anni la prassi secondo la quale decidere se una questione sia procedurale richieda a sua volta l’unanimità dei membri permanenti. La conseguenza è giungere di fatto al cosiddetto “doppio veto”: il primo per impedire che una questione venga posta come procedurale e il secondo per impedire che una risoluzione su tale questione venga presa.

Insomma, quella legata al veto è sicuramente una delle questioni più spinose per la riforma del Consiglio di Sicurezza: essa, infatti, non è solo un’esigenza sentita dai Paesi, che pur facendo parte dell’Organizzazione non ne usufruiscono – e sono chiaramente la maggioranza – ma anche e soprattutto dalla società civile, che la avverte senza dubbio come una istanza elementare e, perciò, molto diffusa e sentita. Nel tempo, quindi, numerosi Stati si sono battuti perché venisse eliminato: proviamo qui a farne una rapida carrellata.

Tra i Paesi maggiormente attivi nella protesta e nella richiesta di una sua rimozione definitiva, troviamo le Filippine, che per bocca dell’ambasciatore Carlos Romulo hanno presentato più di una risoluzione in Assemblea generale9. Anche il Cile ha avanzato una proposta

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Per un elenco completo dell’uso fatto del veto si rimanda alla pagina internet http://www.un.org/depts/dhl/resguide/scact_veto_en.shtml.

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interessante: abolire il veto a partire dal 2030, data non simbolica, perché a ottantacinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale e dall’istituzione dell’ONU10

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La Nuova Zelanda ha suggerito che un membro permanente potesse esercitare il suo diritto di veto solo con il concorso di un altro membro permanente11. Ancora, le Filippine hanno avanzato l’ipotesi che le decisioni non procedurali richiedessero una maggioranza di sette membri su undici, compresi tre permanenti12. È dell’Australia, invece, l’ipotesi di un emendamento per estendere le “questioni procedurali” per cui non si rendeva necessaria l’unanimità dei membri permanenti, all’intero cap. VI della Carta, che tratta della soluzione pacifica delle controversie. Il Parlamento Europeo, la cui posizione nei confronti della riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU è affrontata in questo lavoro oltre, ha, invece, suggerito di poter limitare il ricorso al veto per le sole questioni del capitolo VII, implicanti, cioè, misure coercitive.

In generale, comunque e come si evincerà meglio leggendo oltre queste pagine, le istanza dei Paesi in via di sviluppo sono state realisticamente incentrate su una limitazione del veto piuttosto che sulla richiesta velleitaria di una sua eliminazione totale, che, appunto, appare irrealistica. Allo stato attuale, del resto, se i numerosi tentativi di riformare e migliorare i lavori del Consiglio di Sicurezza sono falliti, è anche perché decidere se estendere o meno il veto o circoscriverne il suo utilizzo, è molto difficile.

Un ulteriore motivo di risentimento, poi, nei confronti dei Paesi che siedono permanentemente in Consiglio, è giunto dalle piccole e medie

10 L’intervento è consultabile al’indirizzo:

http://www.cinu.org.mx/onu/reforma_cs/a52_47.pdf.

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Si veda UN Doc. A/ AC. 18/38, 12 March 1948.

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potenze, a causa del paradosso per cui sono proprio loro e non i primi a fornire i maggiori contributi in termini di uomini e di mezzi, da quando le Nazioni Unite hanno creato lo strumento del peacekeeping. Ciò è dovuto al fatto che l’allora segretario generale Dasg Hammarskjöld, nel contesto della crisi di Suez del 1956, decise che le operazioni di interposizioni, tecnicamente peacekeeping, si sarebbero dovute servire esclusivamente di truppe messe a disposizione da medie potenze e non provenienti da membri permanenti, dato che lo scopo di tali operazioni era proprio quello di evitare che la guerra fredda trovasse terreno fertile per alimentarsi. Tra il 1945 e il 1989 così i membri permanenti hanno fornito quasi sempre contributi marginali sotto il profilo militare, dando vita, perciò, a un’antipatica consuetudine, per cui erano loro a decidere di truppe messe a disposizione da Paesi privi di un reale peso all’interno dell’ONU e spessissimo non presenti nel Consiglio di Sicurezza. Nonostante la guerra fredda sia finita ormai da anni, la situazione non è mutata e un rapido sguardo ai dati sull’offerta delle truppe da parte delle diverse nazioni, lo conferma13.

A ciò, poi, bisogna aggiungere che proprio stati Uniti, Cina e Francia risultano tra i maggiori debitori nei confronti dell’ONU, aggravando ulteriormente così la loro posizione, che a fronte di tanti privilegi, non garantisce tuttavia, responsabilità maggiori14.

13 All’indirizzo

http://www.globalpolicy.org/images/pdfs/images/pdfs/Contributions_-_size_June_2012.pdf è possibile consultare gli ultimi dati, relativi all’anno 2012.

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Aggiornata alla data del dicembre 2010 è possibile consultare all’indirizzo http://www.globalpolicy.org/images/pdfs/UN_Finance/2011/Debt_of_15_Largest_Paye rs_to_the_Peacekeeping_Budget.pdf la tabella riassuntiva della situazione debitoria dei quindici contribuenti più grandi al mantenimento della pace per l’anno 2011.

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2. La riforma

La riforma delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza in particolare non è questione recente: dibattiti e dichiarazioni a riguardo impegnano da diversi anni numerosi membri dell’organismo. Purtroppo, come spesso succede quando la posta in gioco è notevole, non si riescono a far collimare gli interessi di tutti gli attori. Accade così, che su una questione già di per sé delicata per la rilevanza dei temi da affrontare, si abbatta anche la difficoltà di trovare un compromesso che sia valido per tutti. Per tale ragione, non stupisce sapere che «I progetti, dibattiti e negoziati sulla riforma sono divenuti in molte organizzazioni una sorta di processo permanente. Essi non rispondono più a un’esigenza precisa di mutamento, ma divengono parte del lavoro di organizzazione, così come in certi Paesi la “riforma dello Stato” è divenuta elemento permanente del dibattito della vita politica. In questo senso, alle Nazioni Unite i gruppi di lavoro creati per discutere i diversi temi della riforma sono il foro dove si svolge una parte del lavoro sostanzialmente dell’Organizzazione. Pertanto il concetto di riforma finisce in certi casi per allargarsi fino quasi a perdere un reale significato»15. Allo stesso modo, non stupirà la distinzione, molto pragmatica, fatta tra riforme possibili, indicando con esse quelle che hanno riguardato settori dell’Organizzazione quali il segretariato, le procedure di bilancio e programmazione economica, il riordino dell’amministrazione interna, e riforme impossibili, come quella inerente appunto la composizione del Consiglio di Sicurezza16.

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A. De Guttry-F. Pagani, Le Nazioni Unite. Sviluppo e riforma del sistema di sicurezza collettiva, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 81.

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Per comodità, si parla di tre tappe distinte nel processo di riforma, corrispondenti ad altrettanti periodi: il primo va dalle origini fino alla metà degli anni Cinquanta, il secondo comprende gli anni Ottanta e coinvolge buona parte dei Paesi nati dalla decolonizzazione, il terzo, dalla fine della guerra fredda, con tutto ciò che ne consegue, fino al 2007.

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3. I fase: 1945-1955

Il 17 gennaio del 1946 si inaugurava l’attività del Consiglio di Sicurezza e dopo i fasti iniziali, fu chiaro da subito che le rivalità Est-Ovest ne avrebbero ostacolato il lavoro. Le eventuali sanzioni al regime spagnolo di Franco, la nascente questione Palestinese, la guerra indo-pakistana, la crisi di Berlino, la guerra in Corea: sono solo alcuni dei temi che l’Organizzazione si trovò ad affrontare, districandosi tra mille difficoltà, dovute soprattutto alla mancata convergenza tra i membri del Consiglio.

Nel frattempo, cominciava a diffondersi il malcontento di numerosi Stati, che chiedevano a gran voce una revisione della Carta e una modifica ai meccanismi che concedevano solo ad alcuni Paesi determinati privilegi. Non è un caso che nel 1955, con la conferenza di Bandung nasca ufficialmente il movimento dei Paesi non allineati, desiderosi di ottenere una propria visibilità e una presenza almeno nell’Assemblea generale.

L’articolo 109 della carta costituzionale recita, in tre commi differenti: 1. una Conferenza generale dei Membri delle Nazioni Unite per la revisione del presente Statuto potrà essere tenuta alla data e nel luogo da stabilirsi con un voto a maggioranza dei due terzi dei Membri dell’Assemblea generale e con un voto di nove Membri qualsiasi del Consiglio di Sicurezza. Ogni Membro delle Nazioni Unite disporrà di un voto alla Conferenza.

2. Qualunque modificazione del presente Statuto proposta dalla Conferenza alla maggioranza dei due terzi entrerà in vigore quando sarà stata ratificata, in conformità alle rispettive norme costituzionali, dai due terzi dei Membri delle Nazioni Unite, ivi compresi tutti i Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

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3. Se tale Conferenza non sarà tenuta prima della 10a sessione annuale dell’Assemblea generale susseguente all’entrata in vigore del presente Statuto, la proposta di convocare tale Conferenza dovrà essere iscritta all’ordine del giorno di quella sessione dell’Assemblea generale, e la Conferenza sarà tenuta se così sarà stato deciso con un voto a maggioranza dei due terzi dei Membri dell’Assemblea generale e con un voto di sette Membri qualsiasi del Consiglio di Sicurezza.

Una revisione della carta, dunque, era prevista fin dall’inizio, anche se non c’erano regole ben definite e il limite temporale, che ci si era imposti, corrispondeva alla 10a sessione annuale dell’assemblea. Il limite temporale, perciò, era relativo non già ad una conferenza di riforma, bensì alla decisione da votare appunto in Assemblea, sul procedere o meno con una convocazione. In verità, alcuni Paesi, soprattutto Cuba e Argentina, fin dall’inizio si spesero molto affinché tale convocazione venisse inserita nell’agenda, sostenendo, senza mezzi termini, che il veto dovesse essere abolito. Ma altrettanto attivi si rivelarono i meccanismi messi in campo dall’URSS, non disposta, come già accennato, a voler metter in discussione il veto, men che meno a rinunciarvi17. Non riuscendo trovare un’alternativa, si decise, perciò, di rimandare il problema ad un momento in cui la situazione si fosse rivelata meno farraginosa. Si trattava, come è evidente, del primo intoppo posto dinanzi a qualunque possibile ipotesi di riforma. E, a distanza di anni, la situazione non è sostanzialmente mutata, pur essendo stati compiuti sforzi e pur essendo state create commissioni e gruppi di lavoro ad hoc. La cosa è indicativa dello spirito di fondo che è alla base di

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«L’avversione alla convocazione della conferenza veniva soprattutto dai membri permanenti, che temevano che venissero messe in discussione le loro prerogative in un contesto internazionale, che invece, imponeva loro di utilizzare il Consiglio, ed i loro poteri all’interno di esso, a fini di contrapposizioni tra blocchi», cfr. G. Finizio, Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU: un inventario critico delle proposte di riforma, Torino, Centro Studi sul Federalismo, agosto 2008, p. 28.

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una riforma sempre più difficile da attuare e/o immaginare. Fin da questa occasione mancata, infatti, si è compreso come attorno alla possibilità di fruire o meno del veto, come quella di una sua totale o parziale abolizione, si giochino i destini di una organizzazione tutta. È questo, dunque, il vero nodo da sciogliere e fino a quando la disparità tra gli Stati rimarrà tale, è difficile immaginare uno sbocco reale alla questione. La riprova, del resto, sta nel fatto che dopo le proteste di Cuba e Argentina, a fare sentire il proprio dissenso furono non solo i Paesi nati dal processo di decolonizzazione, ma anche quelli del cosiddetto Gruppo 77, nome con cui si indicano numerosi Stati in via di sviluppo. Inizialmente ad aderire al Gruppo furono appunto in settantasette, oggi il numero è ben più elevato18.

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Solo per completezza, si fa qui presente che il gruppo nacque nel giugno del 1964, dalla volontà di sessantasette Paesi in via di sviluppo, firmatari della “Dichiarazione unitaria dei 77 Stati”, sottoscritta in occasione della prima sessione della Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo e il Commercio (UNCTAD) svoltasi a Ginevra.

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4. II fase: 1955-1989

Alla fine degli anni Cinquanta, dunque, mentre il confronto est-ovest imperversa, l’Organizzazione delle nazioni va incontro ad una parziale trasformazione, cercando di assumere quel carattere universale, posto alla base della sua fondazione come carattere precipuo. È in questi anni, infatti, che vengono presentate diverse proposte, alcune andate in porto, altre bocciate, per modificare la composizione del Consiglio, almeno tra i membri non permanenti. Nascono addirittura organismi e commissioni con lo scopo di facilitare tali mutamenti, eppure tutti falliranno, inciampando pesantemente nel dissenso dei membri permanenti.

Ma andiamo con ordine e ripercorriamo le tappe principali di questo

iter così tortuoso.

Nel 1955 aderiscono all’organismo numerosi Paesi dell’Europa, tra cui anche l’Italia e alcuni dell’area asiatica (India, Pakistan, Indonesia, Giappone).

Appena cinque anni dopo, alla data del 1960, altri diciassette Stati, questa volta del continente africano, siedono al tavolo del palazzo di vetro, in seguito alla lenta, ma progressiva decolonizzazione. E l’Organizzazione passa, così, dagli ottanta membri del 1956 ai centoventidue del 1966, fino ai centoquarantasette del 1976. In questo contesto, Stati uniti ed Unione sovietica non perdono tempo per cercare di catturare le simpatie dei nuovi arrivati e, ancora nell’ottica di una significativa distanza tra est e ovest, i Paesi sorti dalla decolonizzazione del continente africano finiscono con l’essere terreno di scontro tra le due potenze, in perenne competizione. Assicurarsi una consistente influenza su Nazioni che si apprestano a camminare con le proprie gambe, infatti, significa concretizzare in maniera

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tangibile una membership che Washington e Mosca si contendono più o meno apertamente.

È del 1963, perciò, la novità più rilevante ed anche l’unica formale fino ad oggi realizzata: l’allargamento dei membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza19, che si trova ad essere composto ora da quindici membri complessivi: cinque permanenti con diritto di veto e dieci non permanenti, senza diritto di veto, contro gli iniziali sei. La risoluzione, approvata con novantasette voti favorevoli, undici contrari e quattro astensioni, riflette il seguente quadro: contrarietà di URSS e Francia, approvazione di Usa, Gran Bretagna e Cina, allora ancora rappresentata dal governo di Taipei.

È bene sottolineare a questo punto che l’articolo ventitre della Carta, al comma uno, recita: «Il Consiglio di Sicurezza si compone di quindici Membri delle Nazioni Unite. La Repubblica di Cina, la Francia, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il Regno Unito di Gran Bretagna e l’Irlanda Settentrionale e gli Stati Uniti d’America sono Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. L’Assemblea generale elegge dieci altri Membri delle Nazioni Unite quali Membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza, avendo speciale riguardo, in primo luogo, al contributo dei Membri delle Nazioni Unite al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale ed agli altri fini dell’Organizzazione, ed inoltre ad un’equa distribuzione geografica».

La componente geografica, dunque, è solo uno dei parametri da tener presente e neppure il principale. Concretamente, invece, esso ha costituito il vero, reale motore della scelta tra i diversi componenti del gruppo dei non permanenti: accordi informali, infatti, i cosiddetti gentleman’s

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In quell’anno, con la risoluzione 1991-XVIII fu votato anche l’allargamento del consiglio economico e sociale: da diciotto a ventisette membri.

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agreement del 1946 avevano suddiviso i seggi, assegnandone due

all’America Latina, uno al Commonwealth britannico,uno alla zona del Medio Oriente, e ancora uno per l’Europa occidentale e uno per quella Orientale. Dopo gli emendamenti del 1963, la situazione muta, ma non il criterio con cui si sceglie, che rimane nuovamente legato alla provenienza geografica: tre seggi al continente africano, due a quello asiatico, ancora due per l’America Latina, due per l’Europa occidentale e uno per quella orientale. Ancora oggi, perciò, i membri non permanenti, che siedono nel Consiglio di Sicurezza sono scelti sostanzialmente in base alla ripartizione geografica, in barba a quanto proclamato dall’articolo ventitre ed «è curioso che i Paesi dell’Europa orientale mantengano ancora oggi quel seggio che rifletteva gli equilibri di un sistema bipolare da tempo scomparso»20.

Occorre, in ogni caso, riflettere sull’espressione “equa distribuzione geografica”, la quale, come sottolinea Giovanni Finizio è differente da “equa rappresentazione geografica”. «Se in entrambi i casi si parla usualmente di “regioni” cui attribuire i seggi, la seconda espressione indica l’idea che gli eletti al Consiglio siano scelti dai diversi raggruppamenti affinché questi li rappresentino tutelandone perciò gli interessi, e dunque implica che i gruppi esprimano una comunanza di interessi se non un’identità comune, mentre la prima indica una mera assegnazione di seggi dichiaratamente geografica, che non richiede l’esistenza di un processo di regionalizzazione a livello sociale e di un regionalismo a livello politico, e che considera l’Asia, ad esempio, costitutiva di un gruppo unitario, come se un Paese come il Giappone possa rappresentare l’India o la Tailandia, non considerando l’estrema eterogeneità del continente su base economica, demografica, culturale, religiosa e così via. Le regioni previste dagli

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accordi, in altre parole, sono gruppi elettorali nell’ambito dei quali l’Assemblea generale elegge i membri del Consiglio in buona parte sulla base della rotazione o di considerazioni geopolitiche»21. Ed analizzando la composizione dei gruppi si può dedurre che, in effetti, il criterio della rappresentatività è solo di facciata: a riprova di ciò, ancora Finizio cita il fatto che la Nuova Zelanda fu per lungo tempo indecisa se scegliere per la propria allocazione il gruppo dell’Asia sud-occidentale, verso cui la portava la sua posizione geografica, o quello europeo, in virtù della passata adesione al Commonwealth britannico, finendo poi con il preferire la seconda opzione. Alla stessa maniera, il Sudafrica, fu incerto se aderire al blocco europeo o a quello africano, preferendo infine quest’ultimo. In tale contesto, poi, ci sono anche Stati che proprio per le modalità con cui i gruppi vengono individuati, sono stati esclusi dal sistema. Palau, Estonia ed Israele non appartengono al momento ad alcun gruppo elettorale nel contesto dell’ONU. Si può, perciò, concordare con Finizio, quando dice «tutto ciò mette in luce come questo sistema di allocazione di seggi non parta dall’esistenza di “regioni” nelle quali vi sia comunità d’interessi, valori, identità, e dimostra, dunque, che ben pochi Paesi possono ritenere di essere rappresentati nel Consiglio di Sicurezza, a prescindere da quale possa essere il suo assetto – undici, quindici o anche venti membri»22.

Un’ulteriore anomalia in tema di membri non permanenti è data dal fatto che non tutti i Paesi aderenti all’ONU sono riusciti di fatto ad accedere al Consiglio di Sicurezza, così come altri, davvero molto piccoli per dimensioni e numero di abitanti, hanno, invece, ottenuto un posto in Consiglio per lo stesso numero di anni concesso a Paesi ben più grandi e

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Finizio, Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU cit., pp. 13-14.

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più popolosi23. Le motivazioni date per giustificare la stranezza, nel primo caso, non sono state sempre convincenti: fin tanto, infatti, che a non rientrare tra i seggi non permanenti sono o sono stati i cosiddetti “Paesi canaglia”, l’immagine dell’ONU potrebbe uscirne pure rinforzata e pienamente rispondente allo scopo per cui l’organizzazione è nata. In realtà, a ben vedere, si scopre che Stati quali la Spagna franchista o l’Iraq, per fare solo due esempi, non hanno sofferto di restrizioni, che pure avrebbero avuto ragion d’essere, considerato che non hanno brillato nel momento in cui sedevano nel Consiglio di Sicurezza per democrazia e rispetto dei diritti umani24. Esempi poco edificanti potrebbero continuare: USA e Gran Bretagna, infatti, hanno promosso ancora nel 2003 una guerra contro l’Iraq, che si può ben definire illegale. In generale poi, è nota la difficile condizione di lavoro dei membri non permanenti, eletti, vale la pena ricordarlo, per un biennio, di cui il primo anno speso in adempimenti e burocrazia: «come l’ambasciatore di un piccolo Paese ha fatto notare, il primo anno di permanenza viene speso nell’ambientamento e nel cogliere

23

Come si può verificare all’indirizzo internet www.un.org dal 1946 non sono mai stati in Consiglio di Sicurezza i seguenti Paesi: Afghanistan, Albania, Andorra, Antigua e Barbuda, Armenia, Bahamas, Barbados, Belize, Bhutan, Brunei Darussalam, Cambogia, Repubblica Centro Africana, Comoros, Cipro, Repubblica democratica di Corea, Dominica, Repubblica Dominicana, El Salvador, Guinea equatoriale, Eritrea, Estonia, Fiji, Georgia, Granada, Haiti, Islanda, Israele, Kazakistan, Kiribati, Kyrgyzistan, Repubblica democratica del Laos, Lettonia, Lesotho, Liechtenstein, Malawi, Maldive, Isole Marshall, Stati federati di Micronesia, Monaco, Mongolia, Montenegro, Mozambico, Myanmar, Nauru, Palau, Papua Nuova Guinea, Repubblica di Moldova, San Kitts e Nevis, Santa Lucia, San Vincenzo, Samoa, San Marino, Sao Tome e Principe, Serbia, Seychelles, Isole Salomone, Sudan del sud, Suriname, Swaziland, Svizzera, Tagikistan, Repubblica di Macedonia, Timor Est, Tonga, Turkmenistan, Tuvalu, Uzbekistan, Vanuatu.

24

Un ulteriore esempio più vicino nel tempo è dato dal caso emblematico del Rwanda, che nel biennio 1994-1995 eletto quale membro a rotazione nel Consiglio di Sicurezza, ha potuto impunemente bloccare l’intervento della comunità internazionale contro il terribile genocidio, che si stava consumando sul suo territorio. A riguardo si può consultare alla pagina http://www.securitycouncilreport.org/atf/cf/%7B65BFCF9B-6D27-4E9C-8CD3-CF6E4FF96FF9%7D/POC%20S19991257.pdf, rapporto conclusivo dell’inchiesta commissionata dall’allora segretario generale Kofi Annan.

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25

appieno il proprio ruolo nel Consiglio»25. Per non parlare delle minacce più o meno velate, soprattutto se si tratta di piccoli Stati. Il caso più clamoroso durante la prima guerra del Golfo, quando gli Stati Uniti dapprima minacciarono lo Yemen perché non votasse contro la risoluzione che proponeva nella regione un intervento armato sotto la direzione americana, poi, in un secondo momento non avendo raggiunto lo scopo, privarono il piccolo Paese arabico degli aiuti fino a quel momento concessi.

E dire che i membri non permanenti hanno nelle proprie mani un grande potere: quello del cosiddetto “sesto veto”. Si tratta di uno strumento che, incredibilmente, i membri eletti a rotazione non sono mai riusciti ad utilizzare, perché privi della coesione necessaria. Il “sesto veto”, infatti, sarebbe possibile se si riuscissero ad ottenere sette voti contrari dei membri non permanenti, dal momento che la maggioranza per approvare una risoluzione è di nove membri su quindici. Sarebbe questo l’unico modo per bloccare decisioni prese dai cinque Paesi permanenti. «A ben vedere questi fenomeni possono essere ricondotti alla contraddizione che investe l’intera Organizzazione, tra il principio di sovrana eguaglianza e la realtà dei rapporti di potere che governano le relazioni internazionali, che rende il piano evanescente»26.

Ma torniamo al tortuoso iter compiuto per cercare di riformare il Consiglio di Sicurezza. Una proposta per modificare il numero dei membri non permanenti ci fu ancora nel 1980, quando il Gruppo dei 77 chiese, invano, di aumentarne le presenze da dieci a sedici: ancora una volta l’URSS presentò una ferma opposizione e anche gli Stati Uniti in quella circostanza non diedero parere favorevole. Nel frattempo, l’esigenza di una revisione generale, che magari comporti anche di prendere in

25

Finizio, Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU cit., pp. 17-18.

26

(22)

26

considerazione l’idea di riforme più sostanziali, si fa molto viva e già nel 1974 nasce un comitato specifico per tali funzioni: Special Committee on

the Charter of the United Nations and on the Strenghtening of Role of the Organization27. Ne fanno parte quarantadue Stati e l’intento è quello di

operare una attenta valutazione sulle proposte avanzate da numerosi Paesi non allineati, in materia di riforma. Ancora una volta il gruppo dei cinque permanenti si oppone e il comitato ripiegherà su altri obiettivi, meno scottanti e oggettivamente più generici, quali, ad esempio, il rafforzamento del ruolo dell’Organizzazione. Continua, a quanto pare, un dialogo tra sordi.

27

All’indirizzo http://www.un-documents.net/a30r3499.htm si può leggere il verbale della riunione da cui scaturì il comitato.

(23)

27

5. III fase: 1989-2007

Con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS il panorama internazionale muta completamente. La guerra fredda, che già negli ultimi anni precedenti la riunificazione di Berlino Est e Berlino Ovest è meno acuta, ora non fa più paura e i segnali di distensione tra le super potenze fanno sperare per il meglio: il gioco dei veti incrociati, che ha paralizzato l’ONU, improvvisamente viene meno e la cooperazione per un organismo più funzionante si fa pressante. Ovvio che il tema scottante della riforma diventi uno degli argomenti più dibattuti. La composizione del Consiglio di Sicurezza e i meccanismi di voto al suo interno rimangono il nodo centrale attorno cui ragionare, ma, da questo momento in poi, i tentavi di giungere ad una reale conclusione della questione si faranno sempre più intricati, con la nascita ancora una volta di organismi, commissioni, gruppi operativi, che nell’affannosa ricerca di proporre una qualche soluzione valida per tutti, si scontrano sistematicamente con questa o con quella potenza.

Il dibattito sulla riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ebbe ufficialmente inizio l’11 dicembre 1992 quando fu approvata dall’Assemblea generale la risoluzione /47/L.26/Rev.13528

per includere nell’agenda della 48a

sessione il punto “Questione dell’equa rappresentanza e dell’allargamento dei membri del Consiglio di Sicurezza”. In questa proposta si faceva riferimento al documento finale della conferenza dei Nac (Non-aligned countries) svoltasi dal 1 al 6 settembre 1992 a Jakarta, che

28

La proposta di risoluzione fu presentata da Algeria, Barbados, Bhutan, Brasile, Cile, Cuba, Egitto, Guyana, Honduras,India, Indonesia, Giamaica, Giappone, Giordania, Libano, Liberia, Libia, Lituania, Malaysia, Mali, Mauritius, Messico, Nepal, Nicaragua, Nigeria, Pakistan, Paraguay, Perù, Senegal, Toga, Tunisia, Uganda, Venezuela, Vietnam, Zimbabwe.

(24)

28

dichiarava: «They also called for a review of membership of the Council with a view to reflecting the increased membership of the United Nations and promoting a more equitable and balanced representation of the members of the United Nations»29.

Con la risoluzione si invitavano tutti i Paesi a presentare proposte operative inerenti il tema. E dato l’alto numero di progetti raccolti in breve tempo, nel 1993 l’Assemblea generale decise di creare un gruppo specifico che si occupasse della questione.

Nasce così il cosiddetto Open-ended Working Group on the Question

of Equitable Representation on and Increase in the Membership of the Security Council and Other Matters related to the Security Council, con lo

scopo dichiarato, perciò, di riflettere attorno alla composizione del Consiglio, al meccanismo di voto in esso esplicitato e al miglioramento del lavoro svolto. Nonostante il nome altisonante, il Working group ha, tuttavia, potuto poco. O meglio: esso ha fatto da sfondo a numerose proposte e alternative, anche interessanti; tutte, però, si sono rivelate inefficaci dinanzi alla chiusura delle cinque super potenze e, alla data odierna, si continua a discettare in maniera anche piuttosto astratta, non considerando che senza una reale volontà di cambiare, si conseguirà sempre il medesimo risultato. Maggiori riscontri ha ottenuto il Gruppo di Lavoro nel miglioramento delle procedure e organizzazioni del lavoro: gli sforzi compiuti sono stati tutti nell’ottica della trasparenza, dell’apertura e dell’efficacia. Per tale motivo, è diminuito il numero delle riunioni informali, cioè private, mentre sono state introdotte le cosiddette “sessioni private”, cioè riunioni non pubbliche, ma aperte all’intera membership dell’Organizzazione. Sono state implementate, inoltre, le consultazioni con altri soggetti, tra cui i numerosi esperti esterni, provenienti dalla società

29

(25)

29

civile o da organizzazioni non governative, chiamati ad intervenire grazie alla formula Arria, dal nome dell’ambasciatore venezuelano che per primo la propose e che di fatto l’ha resa ormai molto diffusa ed utilizzata30

.

Nel 1995, intanto, l’Italia getta le basi del Coffee Club e riunisce attorno a sé molti Paesi che chiedono maggiore rappresentatività. Anche la Germania e il Giappone si fanno avanti e in seguito al contributo fornito nel corso della prima Guerra del Golfo, pensano di poter ottenere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza31. È questa l’ipotesi del cosiddetto «quick fix» o aggiustamento rapido, caldeggiata dall’amministrazione Clinton.

Ancora il 10 novembre del 2005, John R. Bolton, rappresentante permanente degli Stati Uniti dichiara «We have long supported a permanent seat for Japan. We hope very much that Japan will be able to take a permanent seat at the earliest possible opportunity. And we believe that developing countries deserve greater representation on this body. As I have already noted, particular emphasis should be placed on criteria for membership. And those member states who most clearly meet those criteria should be allowed to serve on the Council, even where there is a disagreement over other candidates»32.

30

Si veda per ulteriori dettagli la pagina http://www.globalpolicy.org/security/mtgsetc/arria.htm.

31

A sostegno della candidatura della Germania si espresse anche l’allora Segretario Generale Boutros Boutros-Ghali, come si evince dai seguenti documenti: http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-13680342.html e Boutros-Ghali verlangt von Bonn uneingeschränkte deutsche Beteiligung an allen Aktionen der UN, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 12 gennaio 1993, 9/2, p. 1.

32

L’intervento completo dell’ambasciatore Bolt è consultabile all’indirizzo: http://www.globalpolicy.org/security-council/security-council-reform/documents-and-statements/41378.html?itemid=915.

(26)

30

Simile all’ipotesi quick fix, la tesi nota come “due + tre”, incoraggiata dal cosiddetto Gruppo degli otto33 e considerata come second best rispetto alla precedente. Essa proponeva oltre ai seggi permanenti per Germania e Giappone, anche uno per Asia, Africa, e America latina, in aggiunta ad un allargamento del numero di quelli non permanenti. Nonostante l’idea del

quick fix fosse apparsa come una strada percorribile, col tempo essa ha

perso slancio e vitalità, anche perché gli stessi Germania e Giappone si sono rivelati piuttosto esitanti nel rivendicare tale possibilità. Dal canto loro, Gran Bretagna e Francia si sono dette favorevoli a tale soluzione34, che, invece, è stata giudicata inaccettabile dalla maggior parte dei Paesi membri, a cominciare dall’Italia: il nostro Paese, infatti, ha avvertito nell’ipotesi di un seggio assegnato alla Germania la definitiva estromissione per sé dal Consiglio di Sicurezza. È logico, perciò, che vi si sia opposta in maniera ferma e decisa. E del resto, un’ulteriore presenza europea, accanto a quelle già “ingombranti” di Francia e Gran Bretagna non è sembrata la soluzione ideale anche per tutti quegli Stati, che da sempre chiedono a gran voce maggiore equità rappresentativa. L’idea del “due + tre”, invece, ha avuto maggiore successo ed è stata poi ripresa a distanza di qualche anno, come vedremo.

Intanto, cominciano a circolare con insistenza anche il nome di India e Brasile come possibili candidati ad un seggio permanente: la prima in ragione della portata demografica e del contributo fornito negli anni alle

33

Ne fanno parte Austria, Belgio, Estonia, Irlanda, Repubblica Ceca, Slovenia, Ungheria, Portogallo.

34

E. Greco, La riforma della composizione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: il dibattito attuale e la posizione dell’Italia, in Documenti IAI 9618, Roma, IAI, 1996.

(27)

31

diverse attività di peacekeeping, la seconda in ragione del ruolo di spicco nel panorama economico sudamericano35.

L’attività del Working group, dunque, nonostante tutto prosegue e nel 1996 sembra giungere ad una conclusione. Le proposte raccolte nel cosiddetto terzo report sono così sintetizzabili: «Proposte status quo, anche dette zero models; soluzioni di ampliamento parallelo, plus models; progetti di allargamento modificato, region models [...] Tra i modelli zero si distinse la proposta italiana, seguita con sottili divergenze da Turchia e Messico; le tre furono infatti le uniche proposte a ripudiare del tutto l’idea dell’allargamento dell’elite dei membri permanenti»36

. Il terzo report raccolse anche altre idee e proposte, avanzate per lo più da non addetti ai lavori, da esterni, dagli ambienti accademici: tali suggerimenti, però, non vennero presi in considerazione né in quella circostanza né in futuro e la cosa è stata pesantemente criticata da quanti avrebbero voluto e continuano a sostenere che il progetto di riforma di un Organismo che si dice internazionale e rivolto a tutti, sia giustappunto condiviso e non discusso all’interno di logiche “intramoenia”. Ne è un esempio, l’attività svolta da

35

Il Brasile in realtà era stato individuato dal Presidente degli Stati Uniti Roosevelt come possibile sesto Stato permanente già agli albori dell’ONU, ma, come precedentemente detto, ad un suo possibile ingresso nel consesso dei grandi si opposero URSS e Gran Bretagna. La candidatura indiana, invece, venne avanzata già nella prima metà degli anni cinquanta, quando il Paese brillò sotto l’astro di Nehru e sembrò che potesse occupare il seggio riservato alla Cina, allora divisa tra posizione nazionalista e comunista.

36

L. De Micco, L’impasse nella riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”, anzi gli oceani, «Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti», 4, 2012 del 13/11/2012, p. 6, consultabile all’indirizzo: http://www.rivistaaic.it/sites/default/files/rivista/articoli/allegati/De%20Micco_0.pdf.

(28)

32

piattaforme web di discussione come quella creata da Visionforum, la

TrasformUn37.

Come già ribadito, il dibattito sull’allargamento dei seggi permanenti è tanto complesso, perché legato indissolubilmente alla possibilità di dotare i nuovi membri del diritto di veto. Il già citato terzo report stilato dal

Working group ha cercato di giungere a proposte concrete anche in questo

ambito. Due sostanzialmente sono le soluzioni presentate: modificare l’uso del veto per quegli Stati che lo detengono o estenderlo anche ad altri nuovi eventuali membri. «In particolare, nell’ambito della prima categoria di proposte, si distinguono l’affidamento al voto unanime del Consiglio della definizione delle materie sottratte al potere di veto, il cosiddetto double veto; la restrizione del suo ambito di applicazione; l’ aumento dei numeri dei veti necessari per bloccare l’azione delle nazioni Unite (almeno due secondo la proposta italiana); la sospensione del potere di veto, in particolari occasioni definite da una maggioranza qualificata dell’Assemblea generale»38

.

Un anno dopo si registra il contributo di Ismail Razali, ambasciatore della Malaysia e allora Presidente dell’Assemblea generale nonché del

Working group39. Egli propone di aumentare a ventiquattro il numero dei

membri del Consiglio, (ipotizzando cioè, cinque nuovi permanenti e quattro non permanenti, scelti sulla base del criterio geografico), aggiungendo che il ricorso al veto, non esteso ai nuovi membri, sia possibile solo per le azioni di forza previste dal Capitolo VII. La proposta Razali, che apparentemente ottiene il consenso statunitense, naufraga invece,

37

A riprova di quanto affermato, l’articolo consultabile alla pagina internet http://www.visionwebsite.eu/UserFiles/File/filedascaricare/grillomilio_IT.pdf, che offre, secondo me, un esempio di approccio critico alla questione.

38

De Micco, L’impasse nella riforma del Consiglio di Sicurezza cit., p. 6.

39

Il testo della mozione a firma Razali è consultabile sul sito internet http://www.globalpolicy.org/security/reform/raz-497.htm.

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33

soprattutto per l’intervento dell’Italia. Spiegano De Guttry-Pagani40

: «Si trattava di far passare all’Assemblea una risoluzione – quadro che dettava un percorso di riforma nel senso della formula “due + tre”. Non trattandosi formalmente di un emendamento della carta, i suoi promotori sostenevano che per la sua approvazione, la maggioranza dei due terzi dei presenti e votanti sarebbe stata sufficiente e che non si applicava l’articolo 108 che, che prevede una maggioranza dei due terzi dei membri dell’Organizzazione. Si trattava di uno stratagemma, basato su una lettura assai formalistica dell’articolo 108, che tentava di far passare una decisione cruciale, contando sull’assenza o distrazione di molti componenti dell’Assemblea. L’Italia che ne sarebbe uscita penalizzata, lanciava una campagna contro tale possibilità e promuoveva, assieme ad altri Paesi, una risoluzione che imponeva il rispetto della maggioranza prevista dall’articolo 108 per risoluzioni o decisioni sull’allargamento del Consiglio e questioni connesse. Questa risoluzione ispirata dall’Italia, dopo il superamento di strenue resistenze, fu approvata il 23 novembre 1998 per

consensus dall’Assemblea»41. L’episodio, come è chiaro, è significativo

dello strenuo attaccamento dimostrato dal nostro Paese al progetto di non rimanere escluso dal Consiglio di Sicurezza. La posta in gioco era elevata e il momento cruciale: se la proposta Razali fosse stata approvata, probabilmente la questione del rinnovamento del Consiglio di Sicurezza avrebbe preso altre strade.

Arriviamo al 2000, quando in occasione dell’Assemblea del Millennio, viene affermata la necessità di intensificare gli sforzi per una

40

De Guttry-Pagani, Le nazioni Unite cit., p. 123.

41

L’Italia fu rappresentata in questa battaglia dall’allora rappresentante Francesco Paolo Fulci. Si veda infra, capitolo II.

(30)

34

riforma del Consiglio, senza, tuttavia, che a ciò abbia fatto seguito un impegno degli Stati membri in tal senso42.

Bisogna, perciò, attendere il 2003 perché un ulteriore tassello all’intricato puzzle venga aggiunto per volontà di Kofi Annan, segretario generale, in carica dal 1997 al 2006. A lui si deve, infatti, la creazione di un nuovo gruppo di lavoro: lo High Level Panel on Threats, Challenges and

Change43.

Annan, in verità, si fa interprete di una più generale esigenza di rinnovamento, che da tempo ha investito le nazioni Unite, dopo i disastri del Ruanda e della Bosnia e dopo gli attacchi terroristici del 200144.

Thomas G. Weiss, a questo proposito, ha parlato di «quiet revolution», indicando con tale espressione la volontà del segretario Annan di promuovere cambiamenti e modifiche senza che vengano praticate variazioni alla Carta e senza dipendere da risoluzioni approvate dagli Stati membri: un esempio proviene dalla decisione di operare con maggiore trasparenza e dalla possibilità di una maggiore accessibilità all’Assemblea generale. Weiss, perciò, ritiene che la scelta di procedere per piccoli passi possa dare i suoi frutti ed essere addirittura una risposta alternativa al passo da gigante della riforma del Consiglio di Sicurezza, sempre più agognata, suggerendo, perciò, come soluzione di compromesso quella di eliminare la clausola dell’articolo 23 dello Statuto, che preclude una durata in carica dei

42

Il testo completo della Dichiarazione pronunciata all’assemblea è consultabile alla pagina https://www.unric.org/it/informazioni-generali-sullonu/36.

43

Il nuovo strumento era costituito da sedici eminenti personalità ed esperti del settore, guidate da Anand Panyarachun, ex primo ministro della Thailandia. All’indirizzo seguente http://www1.umn.edu/humanrts/instree/report.pdf si può leggere il verbale della riunione tenutasi il 2 dicembre 2004 con la quale il gruppo presentava i risultati raggiunti.

44

Per completezza, si fa qui notare che si deve ancora ad Annan l’aver posto la questione dei diritti umani al primo posto tra le priorità delle Nazioni Unite. Non a caso, nel 2001, l’ONU ed il suo Segretario Kofi Annan ottennero il premio Nobel per la pace.

(31)

35

membri non permanenti superiore a due anni. Weiss, quindi, non esita ad affermare che una siffatta proposta «would undoubtedly garner more consensus than attemps to change the number of permanent members, and the result could be similar»45.

L’obiettivo di Annan è quello di arrivare preparati all’appuntamento del 2015 e perseguire con successo i millenium goals. In quest’ottica, egli cerca di riorganizzare gli uffici del palazzo di vetro, eliminando sprechi e inutili doppioni, scegliendo personale più motivato e preparato e, dunque, affrontando anche lo spinoso problema della riforma del Consiglio di Sicurezza. Il risultato a cui si giunge è racchiuso nel rapporto A More

Secure World: Our Shared Responsability46, che sostanzialmente propone due possibilità, entrambe basate su una ripartizione dei seggi tra i quattro maggiori gruppi regionali: Africa, Asia e Pacifico, Europa e America.

In particolare, il modello A prevedeva l’aggiunta di sei nuovi membri permanenti senza diritto di veto, più tre non permanenti, di durata biennale. Individuati informalmente erano stati l’India e il Giappone per l’Asia, il Brasile per l’area del Pacifico, la Germania per l’Europa. Non erano precisati i seggi africani.

Il modello B, invece, immaginava non l’aggiunta di membri permanenti, bensì la creazione di una nuova categoria di ben otto seggi non permanenti, con mandato quadriennale rinnovabile, più uno non permanente, di durata biennale e non rinnovabile. La prima tesi, è lampante, non avrebbe fatto altro che lasciare inalterati gli squilibri, già al momento così evidenti. «La seconda soluzione ha come evidente scopo quello di soddisfare le ambizioni frustrate di Paesi, come l’Italia, che nella

45

T.G. Weiss, Overcoming the Security Council Reform Impasse. The Implausible Versus the Plausible, New York, Friedrich-Ebert-Stiftung, «Dialogue on Globalization», 14, January 2005.

46

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36

prima ipotesi si vedrebbero privati del rango di primi della classe, ma a rischio di rendere il funzionamento del Consiglio più farraginoso e il ruolo dei membri semi permanenti meno incisivo»47.

Le ipotesi di riforma, dunque, vengono presentate all’Assemblea generale, durante il vertice mondiale, che si tiene a New York dal 14 al 16 settembre del 2005. In quella circostanza, nondimeno, l’Assemblea si limita ad affermare: «We reaffirm that Member States have conferred on the Security Council primary responsibility for the maintenance of international peace and security, acting on their behalf, as provided for by the Charter. We support early reform of the Security Council – an essential element of our overall effort to reform the United Nations – in order to make it more broadly representative, efficient and transparent and thus to further enhance its effectiveness and the legitimacy and implementation of its decisions. We commit ourselves to continuing our efforts to achieve a decision to this end and request the General Assembly to review progress on the reform set out above by the end of 2005»48. Ma si tratta di un impegno generico, come i già numerosi del passato. Il summit, perciò, si rivelerà un fallimento e la volontà di riformare il Consiglio, perché diventi un organo realmente rappresentativo e democratico, si perde nei dibattiti inutili e nelle promesse sterili, che non trovano una conclusione degna di questo nome. Le posizioni degli attori principali, infatti, continuano ad essere divergenti e non sembrano esserci concreti margini per un accordo. La riunione del 2005, in realtà, non produrrà alcun cambiamento, anche per un atteggiamento sostanzialmente neutrale o comunque poco propositivo da parte degli Stati Uniti, che nel passaggio dall’amministrazione Clinton

47

Polsi, Storia dell’Onu cit.

48

Al seguente indirizzo internet http://www.un.org/womenwatch/ods/A-RES-60-1-E.pdf è possibile leggere il testo completo del documento.

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37

(partito democratico) a quella Bush junior (partito repubblicano), non dimostrano particolare interesse a che un seggio sia assegnato alla Germania, da cui, i recenti attriti nati durante il conflitto in Iraq, li hanno allontanati. Sulla scia di un conflitto che ha sollevato non poche polemiche, perciò, i rapporti tra Organizzazione e amministrazione americana si sono fatti più tesi e in un contesto simile non ha giovato l’attività di natura prettamente politica svolta da fondazioni repubblicane, volta ad attaccare pubblicamente l’ONU. L’esempio migliore è rappresentato dalla Heritage Foundation che nel luglio del 2005 ha pubblicato un articolo al vetriolo in cui affermazioni dettate dal nazionalismo più conservatore la fanno da padrone49. Facendo riferimento alle crescenti minacce alla sicurezza internazionale, il pezzo finisce con l’affermare apertamente che l’allargamento del Consiglio di Sicurezza non garantirebbe standard di sicurezza accettabili per gli USA, concludendo poi che tale ipotetica espansione è direttamente in conflitto con gli interessi americani, giacché diversi candidati al ruolo di nuovo membro permanente hanno espresso voti contrari alla posizione statunitense in diverse occasioni. Ma anche la stampa quotidiana prende di mira l’Organizzazione: lo fa per esempio, il noto quotidiano statunitense Americandaily, che in un articolo a firma di Tom Barrett, arriva a domandarsi il perché gli Stati Uniti continuino a sedere in un Organismo che li critica e li attacca su tutto, fondamentalmente perché dominato da Paesi comunisti, nemici e invidiosi dell’America50

. Gli esempi potrebbero proseguire grazie anche a pubblicazioni italiane: Christian Rocca, editorialista de «Il foglio», altro quotidiano conservatore, ha pubblicato nel 2005 un testo dal titolo

49 L’articolo è reperibile all’indirizzo internet

http://www.heritage.org/research/reports/2005/08/the-united-states-should-oppose-expansion-of-the-un-security-council?ac=1.

50

(34)

38

emblematico Contro l’ONU. Il fallimento delle Nazioni Unite e la

formidabile idea di un’alleanza tra le democrazie, che spiega molto bene il

clima in cui in quegli anni si trovò ad operare l’Organizzazione internazionale51.

Credo possa giovare, arrivati a questo punto, soffermarsi un momento ad indicare quali siano i protagonisti principali, che si fronteggiano sul terreno della “riforma impossibile”, così come sono venuti delineandosi negli anni. Si tratta, in effetti, di tre compagini: il G452, il Gruppo africano e quello indicato con il nome Uniting for Consensus, nato proprio nel 2005 dall’accorpamento dei membri del Coffee Club e per il quale si può vedere oltre, il capitolo dedicato all’Italia.

Del primo, dunque, fanno parte Giappone, Germania, Brasile e India: i quattro Stati, cioè, già ipoteticamente presenti nel modello A, dal quale tuttavia differiscono, poiché essi mirano ad un allargamento del Consiglio di Sicurezza da quindici a venticinque membri, con quattro seggi non permanenti anziché tre53. Inizialmente la proposta estendeva il diritto di veto anche i nuovi permanenti, ma data l’opposizione dei cinque attuali permanenti, Giappone, Germania, Brasile ed India hanno accettato di rinviare la questione di quindici anni.

Il gruppo Africano, invece, chiede, ormai da tempo, un maggiore riconoscimento per il proprio continente, palesemente sotto rappresentato. Le proposte del gruppo nato per volontà italiana, infine, si inseriscono nel solco già tracciato: evitare che ci siano altri membri permanenti e spingere,

51

Gli esempi di certa letteratura spicciola, non supportata da analisi rigorose dei fatti citati ha trovato, come facile immaginare, un pubblico piuttosto nutrito. Per una rassegna completa di tali contributi, si rimanda a Polsi, Storia dell’Onu cit., p. 191.

52

La sigla G4, che si riferisce al gruppo composto da Brasile ,Germania, Giappone e India è indicato sia come “Group of 4” che come “Gang of 4”.

53

Alla pagina internet http://daccess-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/LTD/N05/410/80/PDF/N0541080.pdf?OpenElement è possibile leggere il documento con la proposta in questione.

(35)

39

invece, affinché il Consiglio di Sicurezza sia portato a venticinque membri, di cui dieci, soggetti a rotazione biennale e rinnovabili.

Per completezza si fa poi presente che ancora nello stesso anno nasce un ulteriore gruppo, che pur non facendo parte di quelli che si contendono la scena, è comunque da segnalare. Si tratta del cosiddetto S-5, cioè Small 554, costituito da Costa Rica, Giordania, Liechtenstein, Singapore e Svizzera. Paesi, che, evidentemente, verrebbe la tentazione di “liquidare” come secondari e che, tuttavia, non hanno rinunciato alla volontà di dare il proprio contributo nell’intricato e un po’ fumoso dibattito sul tentativo di riforma in corso. Essi, infatti, hanno espresso posizioni ben chiare, che possono definirsi “intermedie” rispetto a quelle enunciate dai gruppi principali: hanno proposto la creazione di una nuova categoria di seggi , non permanenti, ma con mandato rinnovabile e più lungo rispetto agli attuali due anni. In linea con la posizione Uniting for Consensus, si sono detti, invece, contrari all’aumento dei membri permanenti, la cui proliferazione non farebbe altro che aumentare le differenze già evidenti tra Stati. Permettere, viceversa, ad una platea sempre maggiore di Nazioni di sedere in Consiglio, anche se in qualità di membri non permanenti, gioverebbe alla maggiore rappresentatività dello stesso (obiettivo da loro saldamente ricercato) e ne rafforzerebbe anche la legittimità nelle decisioni, senza tuttavia, che un numero elevato di voci, rischi di diminuirne l’efficienza. Per lo stesso motivo, si sono detti contrari al veto, strumento inutile e superato, viste le mutate condizioni geo-politiche che ne potevano giustificare l’esistenza in passato. Contrari ad estendere tale mezzo ai nuovi eventuali membri, hanno anzi chiesto ai cinque permanenti del Consiglio di

54 Si rimanda all’indirizzo internet

http://csnu.itamaraty.gov.br/images/24._A_60_L_49_Working_Methods_Small-5.pdf per consultare il verbale dell’intervento del gruppo S5 nel corso della 60a

Assemblea generale.

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Sicurezza un uso moderato dello stesso, al cui impiego bisognerebbe sempre ricorrere solo dopo aver dato esaustive motivazioni. Esso, in ogni caso, dovrebbe essere evitato in caso di questioni delicate come genocidi o violazioni dei diritti umani. Il gruppo S-5, comunque, ha posto l’accento sulla necessità che il Consiglio di Sicurezza diventi maggiormente trasparente nelle sue scelte, migliorando, così, anche la propria efficienza: una riforma del Consiglio di Sicurezza, infatti, non può prescindere da una revisione anche dei metodi di lavoro utilizzati. Consultazioni regolari e frequenti tra il Consiglio e gli Stati membri, nonché tra il Consiglio e l’Assemblea generale sono, dunque, secondo gli S-5 il metodo migliore per garantire funzionalità ed efficienza.

Per tutto il 2006 si svolgeranno incontri informali, mentre è il 2007 l’anno chiave per la ripresa dei round di consultazioni, promosse da Sheikha Haya Rashed Al Khalifa, Presidente dell’Assemblea generale. Gli argomenti all’ordine del giorno sono tra gli altri: la membership del Consiglio di Sicurezza, il potere di veto, l’allargamento del Consiglio di Sicurezza, la rappresentanza regionale. La rilevanza dei temi è evidente: si sceglie, perciò, di affidare a ciascun rappresentante permanente un argomento, da sviscerare in qualità di “facilitatore”. La conclusione alla quale si giunge è ancora una volta intermedia, di compromesso, cosa che avrebbe avuto, almeno nelle intenzioni dei facilitatori, il vantaggio di non far arenare nuovamente il dibattito, preludendo, a piccoli passi, a decisioni più stabili e definitive. Data la questione spinosa, infatti, i facilitatori ritennero che sarebbe stato più semplice “accontentarsi” di soluzioni temporanee, come per esempio l’allargamento dei membri non permanenti o l’estensione della durata in carica superiore al biennio, con o senza l’opportunità di una rielezione, tralasciando, dunque, per il momento altre dispute. Si tratta di un “approccio transitorio”, dettato dalla necessità di

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