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Capitolo 2: I Campi Flegrei

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Academic year: 2021

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Capitolo 2: I Campi Flegrei

2.1 Inquadramento Geologico

I Campi Flegrei sono un’ampia area vulcanica situata a Ovest della città di Napoli. La morfostruttura caratteristica di quest’area è un caldera complessa risultante dall’interazione tra la tettonica regionale e locale (Orsi et al., 1996; Civetta et al., 1996a).

Figura 2.1 Schema geologico-strutturale del distretto vulcanico Napoletano–Flegreo (Rosi e Sbrana,

1986)

La caldera è abitata da circa 1,5 milioni di persone e il suo sistema magmatico è tuttora attivo come testimoniato dall’eruzione del Monte Nuovo risalente al 1538 D. C.,

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dalla diffusa attività fumarolica e termale e dagli episodi di bradisismo degli anni 1969-1972 e 1982-1984, che hanno generato una risalita di 3,5 m nell’intorno della città di Pozzuoli (Casertano et al., 1977; Corrado et al., 1977; Barberi et al., 1984, 1989). L’intensa urbanizzazione e la deformazione a breve termine particolarmente attiva sono indice, per quest’area, di un alto rischio vulcanico. In un’ area con queste caratteristiche, la determinazione sia della storia vulcanica che della deformazione a lungo termine, è fondamentale per la comprensione dei movimenti a breve termine durante gli eventi bradisismici, e per la previsione del comportamento del sistema (Orsi et al., 1996).

Numerosi centri eruttivi sono presenti all’interno della depressione calderica: coni di tufo, coni di cenere, duomi di lava e coni di scorie principalmente monogenici e di piccole dimensioni.

I prodotti più antichi affiorano lungo i margini della struttura e consistono nei duomi di lava di Punta Marmolite, Monte di Procida, Cuma e nella zona urbana di Napoli. La presenza, in profondità, di altri prodotti relativi a precedenti attività subaeree e sottomarine è stata evidenziata dalle perforazioni di pozzi geotermici (Pappalardo et al., 2002).

La morfologia dell’area vulcanica Napoletano-Flegrea è il risultato dell’avvicendamento di eventi vulcanici o vulcano-tettonici sia distruttivi che costruttivi. Le variazioni del livello del mare nel tempo e nello spazio hanno contribuito anch’esse al presente assetto geomorfologico (Orsi et al., 1996).

Orsi et al. (1996) hanno interpretato la depressione flegrea come una nested caldera, formata da due collassi relativi alle due grandi eruzioni che hanno caratterizzato la storia eruttiva dell’area: l’Ignimbrite Campana ed il Tufo Giallo Napoletano. Parti del margine strutturale di ciascuna delle due caldere risultano dall’attivazione parziale di faglie regionali preesistenti.

Lo studio dei dati ricavati dai profili sismici a riflessione evidenzia la risalita del mantello al disotto della regione; il valore del gradiente geotermico, stimato in 150°C/km (Rosi e Sbrana, 1987), confrontato con i dati sismici (Ferrucci et al., 1989), rivela l’esistenza di una camera magmatica al disotto delle sequenze carbonatiche, ad una profondità di circa 5 km. Armienti et al. (1983) affermano che il sistema magmatico abbia agito come un sistema chiuso in cui si è sviluppata una stratificazione composizionale dovuta al processo di cristallizzazione frazionata. Civetta et al. (1991) hanno confutato questa tesi utilizzando dati isotopici sui prodotti eruttati negli ultimi 10

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ka. Orsi et al. (1992, 1995) hanno dimostrato che il sistema, prima dell’eruzione del Tufo Giallo Napoletano, si è comportato come un sistema aperto ricaricato da risalita di magma. Pappalardo et al. (1999) tramite dati geochimici ed isotopici dimostrano che il sistema magmatico flegreo, prima dell’eruzione del Tufo Giallo Napoletano, si sia comportato come un sistema complesso in cui ha agito sia la cristallizzazione frazionata del magma residente sia gli apporti di nuovo magma al sistema.

2.2 Il vulcanismo Flegreo

La storia vulcanica dei Campi Flegrei è segnata da due grandi eruzioni, quella dell’Ignimbrite Campana e quella del Tufo Giallo Napoletano. La prima, datata a 39 ka (Deino et al., 2004) ha eruttato 150 km3 di magma (DRE) disperdendo i propri prodotti si di un area di oltre 30000 km2, la seconda invece risalente a 15,3 ka (Deino et al., 2004) ha ricoperto un area di oltre 1000 km2 eruttando circa 40-50 km3 di magma (DRE) (Orsi et al., 1996).

Sulla base degli eventi vulcanici e deformativi principali, Orsi et al. (1996) suddividono l’attività vulcanica Flegrea in cinque fasi:

 Vulcanismo più antico dell’Ignimbrite Campana

 Eruzione dell’Ignimbrite Campana e relativo collasso calderico  Vulcanismo tra l’Ignimbrite Campana ed il Tufo Giallo Napoletano  Eruzione del Tufo Giallo Napoletano e relativo collasso calderico  Vulcanismo più giovane del Tufo Giallo Napoletano

2.2.1 Vulcanismo pre-Ignimbrite Campana

I Campi Flegrei, sin dalle prime fasi della propria attività, sono stati caratterizzati dalla presenza di piccoli e numerosi centri eruttivi. L’ipotesi che vedeva l’esistenza di un unico grande edificio centrale, l’Archiflegreo (Rittmann, 1950), è stata definitivamente abbandonata in seguito all’acquisizione dei dati ottenuti dalle perforazioni dei pozzi. (Rosi e Sbrana, 1987).

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L’inizio del vulcanismo Flegreo non è definibile con esattezza, i prodotti più antichi affiorano lungo il margine della caldera, lungo la falesia e le scarpate che delimitano il Monte di Procida, lungo le pareti che delimitano la collina di Cuma, lungo le scarpate che bordano a nord le piane di Quarto e Soccavo che comprendono il duomo lavico di Punta Marmolite datato a 47 ka (Cassignol e Gillot, 1982), i depositi piroclastici dei Tufi di Torre di Franco più antichi di 42 ka (Alessio et al., 1973) ed i coni di tufo relitti di Monte Grillo.

Solo alcuni vent eruttivi, relativi ai prodotti riconosciuti, sono esposti. Per i flussi e i duomi lavici può essere ipotizzato che i centri eruttivi possano esser collocati nei pressi dei depositi esposti. Le sequenza piroclastiche esposte e perforate hanno generalmente caratteristiche sedimentologiche di depositi prossimali. In una cava in località Trefola, lungo il margine nord orientale della piana di Quarto, in cui è ben visibile una successione di depositi piroclastici pre-Ignibrite Campana, le impronte da impatto dei proietti balistici presenti all’interno di queste piroclastici suggeriscono una collocazione dei vent verso Est-Nord Est (Orsi et al., 1996).

2.2.2 Eruzione dell’Ignimbrite Campana e relativo collasso calderico

L’Ignimbrite Campana, conosciuta anche come Tufo Grigio Campano, è il più grande deposito piroclastico dell’area mediterranea degli ultimi 200000 anni (Barberi et al., 1978); copre una superficie di circa 30000 km2 con circa 150 km3 (Civetta et al., 1997) di magma eruttato (DRE), di composizione variante da trachite a trachite-fonolitica.

La collocazione del centro eruttivo è stata a lungo dibattuta in letteratura. Di Girolamo (1968), Barberi et al. (1978) e Di Girolamo et al. (1984) ritengono che l’Ignimbrite Campana sia il prodotto di una sola eruzione originata da una frattura orientata NW-SE e collocabile a Nord della città di Napoli. L’eruzione avrebbe provocato lo sprofondamento di un’ampia area che comprende i Campi Flegrei e parte del Golfo di Napoli. Scandone et al. (1991) suggeriscono che la depressione di Acerra, localizzata a Nord di Napoli possa essere il centro eruttivo e che lo sprofondamento calderico sia avvenuto solo in seguito all’eruzione del Tufo Giallo Napoletano. Rosi et al. (1983, 1996), Rosi e Sbrana (1987) e Barberi et al. (1991), localizzano il centro eruttivo all’interno dei Campi Flegrei sulla base di dati geologici, vulcanologici e

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geofisici. Civetta et al. (1996) e Rosi et al. (1996) ipotizzano che il vent sia migrato e la caldera abbia iniziato a collassare durante il corso dell’eruzione.

I prodotti prossimali dell’Ignimbrite Campana, affiorano lungo le scarpate che bordano i margini occidentali e settentrionali della depressione Flegrea e si estendono verso est lungo l’allineamento Camaldoli-Poggioreale (Orsi et al., 1996). I prodotti sono invece assenti all’interno dei Campi Flegrei, verosimilmente a causa dei processi erosivi o perché ricoperti dai prodotti delle successive eruzioni dei Campi Flegrei e del Vesuvio e da terreni alluvionali.

Rosi et al. (1983) e Rosi e Sbrana (1987) comprendono nell’Ignimbrite Campana anche i depositi chiamati Piperno e alcune brecce identificate con il nome di Breccia Museo. Questi depositi vengono interpretati dagli autori come facies prossimali dell’Ignimbrite Campana, legate alla fase di calderizzazione: il flusso piroclastico avrebbe abbandonato questo materiale grossolano e pesante nelle aree prossime al centro di emissione. Al contrario, Lirer et al. (1991) e Perrotta et al. (1994) attribuiscono questi depositi ad eruzioni posteriori.

I prodotti dell’Ignimbrite Campana consistono prevalentemente in pomici e scorie nere, più o meno schiacciate, deformate ed inglobate in una matrice cineritica con subordinate quantità di litici e cristalli; in alcuni punti è possibile osservare fratturazioni colonnari e strutture di degassazione (pipes).

Di Girolamo (1968) e Barberi et al. (1978) ritengono che l’Ignimbrite Campana sia il deposito di una sola eruzione, anche se i prodotti evidenziano marcate differenze da una zona all’altra, come la variazione da depositi di colore grigio poco saldati a depositi di colore giallo più saldati. Un più alto grado di litificazione è collegato a processi di alterazione secondaria, frequenti nei depositi ignimbritici, detti zeolitizzazione (Di Girolamo, 1968). Lo stesso Di Girolamo (1968) riconosce nel deposito ulteriori variazioni verticali: la parte inferiore è costituita da una matrice cineritica saldata inglobante scorie scure schiacciate ed disorientate, mentre nella parte superiore le scorie tendono ad essere meno deformate e disperse senza orientazione preferenziale.

Nei settori orientali della Piana Campana e dell’Appennino si trova, alla base dell’Ignimbrite Campana, uno strato di pomici di caduta. Ciò è significativo in quanto evidenzia che, prima della formazione del flusso piroclastico, l’eruzione ha avuto una fase pliniana.

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2.2.3 Vulcanismo tra l’Ignimbrite Campana ed il Tufo Giallo Napoletano

I prodotti delle eruzioni comprese tra l’Ignimbrite Campana ed il Tufo Giallo Napoletano affiorano lungo i bordi della caldera dell’Ignimbrite Campana, all’interno della città di Napoli e lungo i versanti nord occidentali della collina di Posillipo. La maggior parte delle rocce esposte rappresenta il prodotto di eruzioni esplosive a carattere prevalentemente idromagmatico (Orsi et al., 1996).

Le caratteristiche sedimentologiche e morfologiche delle rocce esposte indicano che i centri eruttivi erano ubicati all’interno e lungo il bordo della caldera dell’Ignimbrite Campana. Centri eruttivi di questo periodo sono riconosciuti a Torregaveta, Monticelli, Monte Ruscello, Mofete, nelle parti nord occidentali e sud occidentali della collina di Posillipo e nell’areale di Pianura.

2.2.4 Eruzione del Tufo Giallo Napoletano e relativo collasso calderico

L’eruzione del Tufo Giallo Napoletano, la seconda per importanza nell’area Campana, è stata caratterizzata da una storia eruttiva complessa, assumendo comportamento da freatopliniano a freatomagmatico, in funzione della variabile efficienza dell’interazione acqua/magma e del collasso calderico (Orsi et al., 1991a, 1992, 1995; Wohletz et al., 1995).

L’area ricoperta dal tufo è di circa 1000 km2 ed include le baie di Pozzuoli e Napoli, mentre il volume di magma eruttato (DRE), di composizione variabile da alcalitrchitica a latitica, è di circa 40 km3 (Orsi et al., 1996).

Sebbene il centro eruttivo sia senza dubbio collocato all’interno dei Campi Flegrei, gli affioramenti più vicini al centro si rinvengono solo ad una distanza di alcuni km da quest’ultimo. Sulla base sia di studi paleontologici sui sedimenti marini (Buccheri e Di Stefano, 1984) che di studi geochimici sui tephra carotati nella baia di Pozzuoli (Carbone et al., 1984), è stato evidenziato che depositi attribuibili al Tufo Giallo Napoletano sono presenti anche nel Golfo di Napoli.

Sulla base delle caratteristiche stratigrafiche, sedimentologiche e composizionali del TGN, Orsi e Scarpati (1989) ed Orsi et al., (1991a, 1992) hanno dedotto che la caldera ha iniziato a collassare nel corso dell’eruzione. Questa ipotesi è stata successivamente sostenuta da Scarpati et al. (1993), da Orsi et al. (1996) e da Wholetz

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et al. (1995). Sebbene il collasso calderico sia ben supportato dalle caratteristiche chimiche e sedimentologiche del tufo, il bordo della caldera non è visibile in affioramento. La sola evidenza morfologica è data dal versante occidentale della collina di Posillipo, che probabilmente rappresenta l’evoluzione morfologica di una scarpata di faglia formatasi durante il collasso calderico.

Gran parte del bordo della caldera del Tufo Giallo Napoletano può essere ricostruito sulla base di indagini geofisiche, essenzialmente gravimetriche e magnetiche e sulla base delle interpretazioni di perforazioni superficiali e profonde. L’andamento circolare delle anomalie gravimetriche positive (Barberi et al., 1991) è interpretabile come coincidente con le faglie che bordano il settore più depresso della caldera del Tufo Giallo Napoletano. Tutti i centri eruttivi successivi al Tufo Giallo Napoletano sono ubicati all’interno dall’area calderica così individuata. L’allineamento NS dei centri eruttivi di Averno e Capo Miseno può essere considerato come un evidenza del fatto che il margine occidentale della caldera è probabilmente legato ad una sistema di faglie regionale.

L’intera depressione della baia di Pozzuoli, con ogni probabilità è conseguenza del collasso calderico, come testimoniano le scarpate che la delimitano e che sono di età compatibile con quella del Tufo Giallo Napoletano (Orsi et al., 1996).

Lo studio dei dati provenienti dalle perforazioni dimostra che il collasso calderico è avvenuto attraverso l’attivazione di faglie (sia preesistenti che prodottesi ex-novo) che hanno sbloccato il fondo della caldera, dislocando una serie di blocchi in maniera differenziale.

Alfred Rittmann (1950) riteneva che i depositi di Tufo Giallo affioranti nei Campi Flegrei e nella città di Napoli fossero depositi relativi a differenti eruzioni. Rosi et al. (1983) e Rosi e Sbrana (1987) concordano con Rittmann, evidenziando la presenza di diverse bocche eruttive sulla collina di Posillipo (Coroglio, Trentaremi, Chiaia). Altri autori (Lirer e Munno, 1975 e Di Girolamo et al., 1984) ritengono, invece, che almeno i depositi affioranti nei pressi dei margini dei Campi Flegrei, all’interno e all’esterno della depressione, siano stati emessi da un unico episodio eruttivo a cui sarebbe legato anche il collasso dell’area (Lirer et al., 1987b).

L'ipotesi di una sola eruzione sembrerebbe essere confermata da uno studio di Scarpati e Cole (1993); questi autori ricostruiscono l'evoluzione dell'eruzione attraverso la sequenza dei prodotti: i depositi basali, formati da strati alternati di pomici e ceneri,

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deriverebbero da una fase eruttiva iniziale freato-pliniana, alla quale sarebbe seguita una violenta fase di surge e flussi piroclastici.

Figura 2.2 Cronostratigrafia degli eventi vulcanici della caldera dei Campi Flegrei negli ultimi 15 ka (da

Isaia et al., 2004).

2.2.5 Vulcanismo post-Tufo Giallo Napoletano

Questo periodo comprende l’attività dei Campi Flegrei dopo la messa in posto del Tufo Giallo Napoletano, fino in epoca storica.

L’eruzione ed il collasso calderico del Tufo Giallo Napoletano furono seguiti dall’ingressione marina all’interno della parte meridionale degli attuali Campi Flegrei. Le colline di Cuma e di Monte di Procida erano delle piccole isole, mentre le piane di Quarto, Pianura e Soccavo erano al disotto del livello del mare. Nei pozzi si rinvengono sedimenti marini intercalati a piroclastici più giovani. Questi sedimenti giacciono al

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disopra di un tufo giallo zeolitizzato che verosimilmente sembra essere il Tufo Giallo Napoletano (Rosi e Sbrana, 1987).

Circa 30 eruzioni nei Campi Flegrei sono succedute al Tufo Giallo Napoletano, la maggior parte delle quali tra 10,5 e 8,0 ka e tra 4,5 e 3,7 ka (Rosi e Sbrana, 1987).

La più recente eruzione è avvenuta nel settembre 1538 D.C. dopo una quiescenza di circa 3000 anni.

I depositi di questi due periodi di attività sono separati da un paleosuolo spesso e diffuso, formatosi circa 4,6 ka (Rosi e Sbrana, 1987).

Di Vito et al. (1999) e D’Antonio et al. (1999) riconoscono invece, per questo periodo, tre epoche di intensa attività vulcanica alternate a due momenti di quiescenza, distinguendo ben 65 eruzioni originatesi da centri localizzati sia all’interno che sui bordi della caldera più giovane e i cui prodotti si alternano a paleosuoli ed a sedimenti fluvio- palustri e marini.

• Prima Epoca (12 ka - 9,5 ka): i centri eruttivi si sviluppano lungo il bordo della caldera del Tufo Giallo Napoletano, con un’attività prevalentemente subacquea. La forte interazione acqua-magma provoca un’attività freatomagmatica, con eruzioni fortemente esplosive che generano strutture tipo “tuff cones” e “tuff rings” (Orsi et al., 1996). In questo periodo sono avvenute ben 34 eruzioni, di cui la più antica è datata 11,1 ka e corrisponde a quella del centro di La Pigna 1. La composizione dei magmi eruttati varia da trachite ad alcali-trachite, solo l’eruzione di Minopoli ha emesso magmi trachibasaltici (Armienti et al., 1983; Civetta et al., 1991). Il più grande tuff cone formatosi in questo periodo è l’edificio del Gauro, formato circa 10 ka, mentre una delle più grandi eruzioni degli ultimi 12 ka ha generato le Pomici Principali (Scherillo e Franco 1960), un deposito datato a 10 ka (Alessio et al., 1971) costituito da pomici di caduta e quindi interpretato come il prodotto di un’eruzione pliniana originatasi nell’area di Agnano (Lirer et al., 1987b). A questa fase vengono anche attribuiti i prodotti dell’attività antica di Agnano, il tuff cone di Nisida, lo spatter cone di Fondo Riccio, i prodotti delle eruzioni di Concola e di Montagna Spaccata.

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• Seconda Epoca (8,6 ka – 8,2 ka): caratterizzata da 6 eruzioni i cui centri sono dislocati lungo il bordo nord orientale della caldera ad eccezione della prima eruzione di questo periodo, attribuita al centro eruttivo di Fondi di Baia (8,6 Ka) (Di Vito et al, 1999; Isaia et al., 2004). Le eruzioni in questo periodo sono avvenute con una frequenza di 65 anni. Risale alla fine di questa fase la formazione del terrazzo di La Starza (Rosi e Sbrana, 1987): questa struttura vulcano-tettonica si sviluppa per circo 4,5 km in direzione E-W tagliando la città di Pozzuoli. L’unità di La Starza, datata a 5,3 Ka (Rosi e Sbrana, 1987), include sedimenti di litorale e di spiaggia contenenti abbondanti macrofossili, sabbia, silt e lenti di pomici arrotondate. Al tetto di questa unità si rinvengono tefra subaerei appartenenti ad eruzioni successive. Il terrazzo di La Starza si è formato probabilmente in seguito ad un’intrusione di magma in livelli strutturalmente alti (Rosi e Sbrana, 1987).

• Terza Epoca (4,8 ka – 3,8 ka): questo periodo a cui sono attribuite 20 eruzioni, inizia dopo 4000 anni di quiescenza ed è caratterizzato da eruzioni prevalentemente esplosive con fasi freatomagmatiche (Orsi et al., 1996). Piccole eruzioni a carattere effusivo hanno formato il duomo dell’Olibano ed il duomo dell’Accademia, entrambi di composizione trachitica (Rosi e Sbrana, 1987). Anche in questo periodo i centri eruttivi sono ubicati principalmente lungo il margine nord-orientale della caldera. Le eruzioni più grandi della terza epoca sono quelle che hanno generato il

tuff ring di Astroni (Di Filippo et al., 1991) ed i tephra del complesso di

Agnano-Monte Spina (Rosi e Santacroce, 1984). Questo periodo termina con le eruzioni di Senga, Averno, Solfatara ed Astroni (Alessio et al.,1973; Di Girolamo et al.,1984; Rosi e Sbrana, 1987). Dopo l’eruzione di Senga, datata a 3,7 Ka, l’attività vulcanica dei Campi Flegrei attraversa un periodo di quiescenza della durata di circa 3000 anni. Questo periodo viene interrotto dall’eruzione del Monte Nuovo avvenuta nel settembre 1538 D.C. e preceduta da diversi anni di sismicità e di sollevamento del suolo (De Natale et al., 1991).

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2.3 Deformazione della Caldera dei Campi Flegrei

La base della caldera dei Campi Flegrei è stata interessata negli ultimi 12000 anni da generali subsidenza e risorgenze localizzate nella caldera del Tufo Giallo Napoletano. Caratteristiche strutturali come faglie e blocchi dislocati sono evidenze di una deformazione verticale a lungo termine, mentre la documentata deformazione del terreno che ha preceduto l’eruzione del Monte Nuovo nel 1538 D.C. e i due eventi bradisismici del 1972-1974 e del 1982-1984 sono ottimi esempi di deformazione a breve termine (Orsi et al., 1996).

2.3.1 Deformazione a lungo termine

La risorgenza all’interno della caldea del Tufo Giallo Napoletano inizia tra 10,5 e 8,0 ka (Giudicepietro, 1993) e può avere avuto inizio con l’eruzione di Minopoli il cui vent si colloca su una struttura regionale parzialmente riattivata durante i collassi calderici sia dell’Ignimbrite Campana che del Tufo Giallo Napoletano. Il massimo di questa risorgenza è stato raggiunto circa 5 ka (Rosi e Sbrana, 1987), e preannuncia l’ultima epoca dell’attività post Tufo Giallo. La porzione maggiormente risorgente della base della caldera include il terrazzo marino di La Starza. La risorgenza della parte centrale della caldera del Tufo Giallo Napoletano non è omogenea. Avviene invece tramite la dislocazione verticale di diversi blocchi. Oltretutto la periferia della base caldera è caratterizzata da blocchi che risultano essere meno sollevati rispetto alla parte centrale o addirittura subsidenti come nelle piane di Agnano e di Fuorigrotta (Orsi et al., 1996).

2.3.2 Deformazione a breve termine

Nei Campi Flegrei la deformazione verticale a breve termine è stata individuata in tempi recenti. Dall’inizio del XIV secolo, prima dell’eruzione del Monte Nuovo (1538 D.C.), la linea di costa tra Pozzuoli e Baia è arretrata come risultato di una lenta risalita. L’attività sismica nei due anni precedenti all’eruzione è stata collegata a questa risalita. Nei due giorni precedenti l’eruzione avvennero fino a 20 violenti terremoti ed aumentò il tasso di sollevamento, generando una dislocazione verticale di 7 m. All’eruzione è seguita una subsidenza che verosimilmente è proseguita fino al 1969, quando ricominciò un nuovo sollevamento. Tra il 1969 e la metà del 1972 i Campi

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Flegrei risentirono del primo evento bradisismico positivo monitorato. Il sollevamento massimo fu di 1,7 m rilevato nella città di Pozzuoli (Corrado et al. 1977). Questo sollevamento è stato accompagnato da sismicità con epicentri nella baia di Pozzuoli e nell’area tra Averno ed Agnano. Tra il 1972 ed il 1974 il suolo è stato interessato da una subsidenza di circa 0,22 m, mentre nei successivi 8 anni non ci sono state evidenze di variazione di elevazione così come di sismicità. Nel 1982 ha inizio un nuovo sollevamento (Barberi et al., 1984, 1989), con una debole sismicità proseguita fino alla fine dell’anno. Dalla fine del 1983 al 1984 la sismicità e stata molto intensa con epicentri localizzati nelle aree della Solfatara e del Monte Nuovo. Alla fine del 1984 il sollevamento massimo è stato di 1,8m.

2.4 Petrografia

Gran parte dei prodotti vulcanici dei Campi Flegrei sono piroclastici. Colate e duomi di lava sono di piccoli volumi e sono prevalentemente concentrati nel periodo pre-Ignimbrite Campana. Le rocce Flegree variano in composizione da trachibasalti a trachiti fonolitiche per alcaline. Qui di seguito vengono riportati i tipi petrografici caratteristici dell’area flegrea (Rosi e Sbrana, 1987):

− Trachibasalti: i trachibasalti affioranti sono essenzialmente solo le piroclastici di Minopoli e rappresentano una minima percentuale delle rocce Flegree. Si tratta di scorie leggermente sottosature in silice caratterizzate da fenocristalli di plagioclasio, olivina e clinopirosseno immersi in una massa di fondo finemente vescicolata. Raramente sono presenti fenocristalli di biotite e magnetite.

− Latiti: le latiti mostrano un grado di sottosaturazione in silice simile a quello dei trachibasalti. Sono porfiriche per fenocristalli di plagioclasio, clinopirosseno e biotite in una pasta di fondo vertrosa ialopilitica ricca in magnetite e sanidino. L’olivina è rara ed in fenocristalli. Nella matrice sporadicamente si rinviene la leucite.

− Trachiti: le trachiti sono rocce debolmente sottosature. Si rinvengono sia come lave che come piroclastici. Le lave sono praticamente olocristalline con fenocristalli di sanidino e subordinatamente di plagioclasio, clinopirosseno, biotite e magnetite in una pasta di fondo pilotassitica ricca in sanidino. La stessa associazione si rinviene nelle piroclastiti trachitiche caratterizzate da una matrice pomicea o ossidianacea altamente vescicolata.

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Figura 2. 3 Classificazione dei prodotti flegrei (Rosi e Sbrana., 1987). Diagramma nefelina normativa vs

indice di differenziazione.

− Alcali-trachiti: si rinvengono sia come lave che come lave che come piroclastici. Generalmente sono debolmente porfiriche e varietà oloialine sono comuni. La fase più abbondante in fenocristalli è il sanidino, generalmente associato con minori quantità di clinopirosseno, plagioclasi, biotite e minerali opachi. Nei termini iperalcalini sia il plagioclasio che la biotite tendono a scomparire, mentre il k-feldspato raggiunge composizioni di tipo anortoclasio. Le alcali-trachiti, insieme alle alcali-trachiti, rappresentano i principali costituenti delle rocce Flegree.

− Trachiti Fonolitiche Peralcaline: anche queste rocce si rinvengono sia come lave che come piroclastici. Generalmente sono totalmente vetrose, sia pomicee che ossidianacee, con sporadici sanidini sodici e clinopirosseni verdastri. I tipi olocristallini sono presenti solo tra le lave e sono caratterizzati da un associazione in cui il sanidino sodico è accompagnato da minori quantità di clinopirosseno verdastro, anfibolo marrone, titanite, opachi ed in alcuni casi da felspatoidi del gruppo della sodalite.

Figura

Figura  2.1  Schema  geologico-strutturale  del  distretto  vulcanico  Napoletano–Flegreo  (Rosi  e  Sbrana,
Figura 2.2 Cronostratigrafia degli eventi vulcanici della caldera dei Campi Flegrei negli ultimi 15 ka (da
Figura 2. 3 Classificazione dei prodotti flegrei (Rosi e Sbrana., 1987).  Diagramma nefelina normativa vs

Riferimenti

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