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Capitolo 2: Inquadramento geologico dei Campi Flegrei

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Capitolo 2: Inquadramento geologico dei Campi Flegrei

2.1 Introduzione

I Campi Fregrei si collocano all’interno della Piana Campana a nord-ovest della città di Napoli. Quest’area è stata caratterizzata da un intenso vulcanismo e da un intensa attività geotermica che nel corso dei secoli l’hanno resa oggetto di interesse, nonché di grande pericolo, da parte dell’uomo. Solo la parte più strettamente flegrea è infatti abitata da più di 1,5 milioni di persone mentre il computo delle persone realmente a rischio in caso di eruzione sarebbe di gran lunga superione. Infatti l’intero campo vulcanico è tuttora attivo come dimostrano l’eruzione di Monte Nuovo del 1538 D.C., la diffusa attività fumarolica e termale e i frequenti fenomeni di bradisismo degli anni 1969–1972 e 1982–1984, fenomeni che hanno generato una risalita di 3,5 m nell’intorno della città di Pozzuoli (Casertano et al., 1977; Corrado et al., 1977; Barberi et al., 1984, 1989). Questo contesto di grande pericolo e il notevole interesse per l’energia geotermica che un luogo come questo potrebbe produrre rendono i Campi Fregrei una delle aree più studiate d’Italia.

Quest’area si presenta come un campo vulcanico originatosi all'interno di una grossa caldera di collasso, circa 12 x 15 km con asse maggiore orientato NO – SE (figura 2.1). Questa caldera è stata interpretata da Orsi et al. (1996) come una nested caldera, cioè una caldera complessa formatasi in seguito ai collassi eruttivi successivi alle due grandi eruzioni che hanno caratterizzato la storia eruttiva dei Campi Flegrei: L’Ignimbrite Campana e il Tufo Giallo Napoletano. Alcuni dei margini delle caldere risultano dalla riattivazione di vecchie faglie regionali preesistenti. Lungo questi margini affiorano i depositi più antichi dell’area corrispondenti ai duomi di lava di Punta Marmolite, del Monte di Procida, di Cuma e di Napoli.

La caldera nel complesso è parzialmente colmata da livelli di depositi piroclastici per uno spessore di circa 1500m ed al suo interno sono presenti numerosi centri eruttivi: coni di tufo, coni di cenere, duomi di lava e coni di scorie principalmente monogenici e di piccole dimensioni.

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Figura 2. 1: Schema geologico-strutturale semplificato dell’area flegrea (Rosi e Sbrana, 1986). Per la

legenda fare riferimento alla figura 2.3.

2.2 Vulcanismo Flegreo

La storia vulcanica dei Campi Flegrei è segnata principalmente da due grandi eruzioni, quella dell’Ignimbrite Campana e quella del Tufo Giallo Napoletano. La prima, datata a 39 ka (Deino et al., 2004), ha eruttato 150 km3 di magma (DRE) disperdendo i propri prodotti su di un area di oltre 30000 km2, la seconda invece, risalente a 15,3 ka (Deino et al., 2004), ha ricoperto un area di oltre 1000 km2 eruttando circa 40 – 50 km3 di magma (DRE) (Orsi et al., 1996).

Sulla base degli eventi vulcanici e deformativi principali, Orsi et al. (1996) suddividono l’attività vulcanica Flegrea in cinque fasi:

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 Vulcanismo più antico dell’Ignimbrite Campana

 Eruzione dell’Ignimbrite Campana e relativo collasso calderico  Vulcanismo tra l’Ignimbrite Campana ed il Tufo Giallo Napoletano  Eruzione del Tufo Giallo Napoletano e relativo collasso calderico  Vulcanismo più giovane del Tufo Giallo Napoletano

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2.2.1 Vulcanismo pre – Ignimbrite Campana

L’inizio del vulcanismo flegreo non è stato ancora definito in quanto l’elevata attività vulcanica che caratterizza questa zona, e quindi l’elevato spessore dei depositi accumulatisi dall’eruzione dell’Ignimbrite Campana ad oggi, hanno diminuito drasticamente il numero di affioramenti relativi ai prodotti più antichi. Questi depositi sono collocati ai margini della caldera dei Campi Flegrei presso il Monte di Procida, la collina di Cuma, le scarpate che delimitano la piana di Quarto e quella di Soccavo, Punta Marmolite, la collina dei Camaldoli e Monte Grillo. Solo alcune delle età di questi depositi sono però conosciute, generalmente le datazioni disponibili sono riferibili ai duomi di lava. I duomi di Punta Marmolite e di Cuma sono infatti datati a 47 e 37 ka rispettivamente (Cassignol e Gillot, 1982) mentre i Tufi di Torre di Franco sono precedenti ai 42 ka (Alessio et al., 1973).

La maggior parte di questi depositi sono separati da paleosuoli che in genere sono molto spessi e scuri. Questi depositi sono risultati dalle eruzioni di piccoli e numerosi centri eruttivi che solo in alcuni casi sono ancora riconoscibili. Monte Grillo ad esempio è un relitto di un cono vulcanico mentre in altri casi i centri eruttivi, anche se non visibili, possono essere ipotizzati vicini al deposito stesso come nel caso di duomi o colate laviche.

2.2.2 Eruzione dell’ Ignimbrite Campana

L’Ignimbrite Campana, datata a 39 ka da De Vivo et al. (2001), rappresenta il deposito piroclastico più esteso di tutta l’area Mediterranea (Barberi et al., 1978). Questa eruzione ricopre infatti un area di circa 30000 km2 con circa 150 km3 (DRE) di volume di magma eruttato variabile in composizione da trachite a trachite-fonolitica (Civetta et al., 1996).

I prodotti prossimali dell’Ignimbrite Campana, affiorano lungo le scarpate che bordano i margini occidentali e settentrionali della depressione Flegrea e si estendono verso est lungo l’allineamento Camaldoli – Poggioreale (Orsi et al., 1996). I prodotti sono invece assenti all’interno dei Campi Flegrei, verosimilmente a causa dei processi erosivi o perché ricoperti dai prodotti delle successive eruzioni dei Campi Flegrei e del Vesuvio e da terreni alluvionali.

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I prodotti dell’Ignimbrite Campana consistono prevalentemente in pomici e scorie nere, più o meno schiacciate, deformate ed inglobate in una matrice cineritica con subordinate quantità di litici e cristalli; in alcuni punti è possibile osservare fratturazioni colonnari e strutture di degassamento (pipes).

Di Girolamo (1968) e Barberi et al. (1978) ritengono che l’Ignimbrite Campana sia il deposito di una sola eruzione, anche se i prodotti evidenziano marcate differenze da una zona all’altra, come la variazione da depositi di colore grigio poco saldati a depositi di colore giallo più saldati. Un più alto grado di litificazione è collegato a processi di alterazione secondaria, frequenti nei depositi ignimbritici, detti zeolitizzazione (Di Girolamo, 1968). Lo stesso Di Girolamo riconosce nel deposito ulteriori variazioni verticali: la parte inferiore è costituita da una matrice cineritica saldata inglobante scorie scure schiacciate ed disorientate, mentre nella parte superiore le scorie tendono ad essere meno deformate e disperse senza orientazione preferenziale. Rosi et al. (1983) e Rosi e Sbrana (1987) comprendono nell’Ignimbrite Campana anche i depositi chiamati Piperno e alcune brecce identificate con il nome di Breccia Museo. Questi depositi vengono interpretati dagli autori come facies prossimali dell’Ignimbrite Campana, legate alla fase di calderizzazione: il flusso piroclastico avrebbe abbandonato questo materiale grossolano e pesante nelle aree prossime al centro di emissione. Al contrario, Lirer et al. (1991) e Perrotta et al. (1994) attribuiscono questi depositi ad eruzioni posteriori.

Nei settori orientali della Piana Campana e dell’Appeninno si trova, alla base dell’Ignimbrite Campana, uno strato di pomici di caduta. Ciò è significativo in quanto evidenzia che, prima della formazione del flusso piroclastico, l’eruzione ha avuto una fase pliniana.

La collocazione del centro eruttivo è stata a lungo dibattuta in letteratura. Di Girolamo (1968), Barberi et al. (1978) e Di Girolamo et al. (1984) ritengono che l’Ignimbrite Campana sia il prodotto di una sola eruzione originata da una frattura orientata NO – SE e collocabile a Nord della città di Napoli. L’eruzione avrebbe provocato lo sprofondamento di un’ampia area che comprende i Campi Flegrei e parte del Golfo di Napoli. Scandone et al. (1991) suggeriscono che la depressione di Acerra, localizzata a Nord di Napoli possa essere il centro eruttivo e che lo sprofondamento calderico sia avvenuto solo in seguito all’eruzione del Tufo Giallo Napoletano. Rosi et al. (1983, 1996), Rosi e Sbrana (1987) e Barberi et al. (1991), localizzano il vent

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all’interno dei Campi Flegrei sulla base di dati geologici, vulcanologici e geofisici. Civetta et al. (1996) e Rosi et al. (1996) ipotizzano che il vent sia migrato e la caldera abbia iniziato a collassare durante il corso dell’eruzione.

2.2.3 Vulcanismo tra l’Ignimbrite Campana ed il Tufo Giallo Napoletano

I prodotti delle eruzioni comprese tra l’Ignimbrite Campana ed il Tufo Giallo Napoletano affiorano lungo i bordi della caldera dell’Ignimbrite Campana, all’interno della città di Napoli e lungo i versanti nord occidentali della collina di Posillipo. Inoltre questi prodotti sono stati ritrovati anche in molte perforazioni.

La maggior parte delle rocce affioranti sono prodotti di attività esplosiva, principalmente idromagmatica. Si ritrovano quindi prodotti presso il Monte di Procida, Cuma, Punta Marmolite, Trefola, Masseria del Monte, Vallone del Verdolino, Moiariello, Ponti Rossi, Sant'Arpino, Monte Echia, Collina di S.Martino, Villanova, Coroglio e Trentaremi. Le caratteristiche morfologiche e sedimentologiche delle rocce affioranti suggeriscono che i centri eruttivi fossero situati all'interno della caldera dell'Ignimbrite Campana presso Torregaveta, Monticelli, Monte Echia, ai piedi delle colline di San Martino e Capodimonte, presso la scarpata occidentale della collina di Posillipo, nell’areale di Pianura e nei settori occidentali a Monte Ruscello e Mofete.

2.2.4 L'eruzione del Tufo Giallo Napoletano

Questo evento avvenuto circa 15000 anni fa è stato caratterizzato da una storia eruttiva molto complessa (Orsi et al., 1991a, 1992, 1995; Wohletz et al., 1995) caratterizzata da alcuni cambiamenti nella dinamica eruttiva in accordo con le variazioni nell'efficenza dell'interazione acqua/magma e con il collasso calderico sineruttivo.

Il volume di magma eruttato, con una composizione variabile da alcali-trachitica e latitica, è stato di circa 50 km3 con una superficie coperta di circa 1000 km2 compresi i golfi di Pozzuoli e Napoli. I depositi connessi con l'eruzione del Tufo Giallo Napoletano si rinvengono nell'area napoletano-flegrea e nella Piana Campana fino ai rilievi appenninici. Sebbene il centro eruttivo fosse sicuramente ubicato nei Campi Flegrei, gli affioramenti più vicini al centro si rinvengono solo ad una distanza di alcuni km da

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quest’ultimo. Anche nel Golfo di Napoli si rinvengono depositi, attualmente sommersi, attribuibili al Tufo Giallo Napoletano.

Orsi e Scarpati (1989) ed Orsi et al. (1991 a, 1992), sulla base delle caratteristiche stratigrafiche, sedimentologiche e composizionali del Tufo Giallo Napoletano, hanno dedotto che nel corso dell'eruzione incominciò a verificarsi un collasso calderico. Questa ipotesi fu in seguito sostenuta anche da Scarpati et al. (1993), da Orsi et al (1995) e da Wohletz et al. (1995). Sebbene il verificarsi di un collasso calderico sia comprovato dalle stesse caratteristiche sedimentologiche e chimiche dei prodotti, il bordo della caldera non è visibile in affioramento. La sola evidenza morfologica, visibile nella parte continentale della caldera, è data dal versante occidentale ad alto angolo della collina di Posilipo, che probabilmente, rappresenta l'evoluzione morfologica di una scarpata di faglia prodottasi durante il collasso calderico.

La maggior parte del bordo calderico può essere ricostruita sulla base di evidenze di carattere geofisico, essenzialmente dati gravimetrici e magnetici (Barberi et al., 1991), sulla base della distribuzione dei centri eruttivi più recenti del TGN, sulla base dell'andamento di superfici di abrasione marina di età nota nella parte sommersa dei Campi Flegrei (Pescatore et al., 1984), e sulla base delle interpretazioni di perforazioni superficiali e profonde. Tutti i centri eruttivi di età inferiore a 15 ka sono ubicati all'interno dell'area calderica così individuata. L'allineamento di centri eruttivi tra Averno e Capo Miseno può essere considerato come un'evidenza del fatto che il margine occidentale della caldera segue una struttura ad andamento N-S, probabilmente legata ad un sistema regionale di faglie.

La depressione della baia di Pozzuoli è delimitata verso sud dagli alti morfologici del banco di Pentapalummo e del banco di Miseno. L'età di questi due banchi è compresa tra 39 e 18-14 ka ed i loro depositi sono spianati dalla superficie di abrasione marina del Würm, che viene bruscamente interrotta e ribassata a nord del banco di Pentapalummo. Le scarpate tagliate nei depositi del banco di Pentapalummo sono ricoperte in discordanza da depositi, tra 14 e 9.0-6.5 ka, che ne hanno variato la geometria originaria e hanno parzialmente colmato la baia di Pozzuoli. L'età delle scarpate che delimitano a sud la baia di Pozzuoli, quindi, sarebbe compatibile con quella del Tufo Giallo Napoletano e pertanto esse si sarebbero formate, con ogni probabilità, a seguito del collasso calderico, così come l'intera depressione della baia di Pozzuoli.

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L'insieme dei dati provenienti dallo studio delle perforazioni, inoltre, dimostra che il collasso calderico si è realizzato attraverso l'attivazione di faglie (sia preesistenti che prodottesi ex novo), che hanno sbloccato il fondo della caldera, dislocando una serie di blocchi in maniera differenziale.

Nel 1950 Alfred Rittman sostenne che l'eruzione del Tufo Giallo Napoletano non fosse attribuibile ad un solo centro eruttivo. Questa teoria ha successivamente trovato altri sostenitori, Rosi et al. (1983) e Rosi e Sbrana (1987), che hanno evidenziato la presenza di diverse bocche eruttive sulla collina di Posillipo (Coroglio, Trentaremi, Chiaia). Ci sono invece altri autori che sostengono che tutti i prodotti affioranti nei pressi dei margini dei Campi Flegrei siano il risultato di un unico episodio eruttivo a cui sarebbe legato anche il collasso calderico sineruttivo (Lirer e Munno, 1975 e Di Girolamo et al., 1984)

L'ipotesi di una sola eruzione sembrerebbe essere confermata da uno studio di Scarpati e Cole (1993); questi autori ricostruiscono l'evoluzione dell'eruzione attraverso la sequenza dei prodotti: i depositi basali, formati da strati alternati di pomici e ceneri, deriverebbero da una fase eruttiva iniziale freato-pliniana, alla quale sarebbe seguita una violenta fase di surge e flussi piroclastici.

2.2.5 Vulcanismo post-Tufo Giallo Napoletano

L’eruzione e il collasso calderico del Tufo Giallo Napoletano furono seguiti dall’ingressione marina all’interno della parte meridionale degli attuali Campi Flegrei. Le colline di Cuma e di Monte di Procida erano delle piccole isole, mentre le piane di Quarto, Pianura e Soccavo erano al disotto del livello del mare. Nei pozzi si rinvengono sedimenti marini intercalati a piroclastici più giovani. Questi sedimenti giacciono al disopra di un tufo giallo zeolitizzato che verosimilmente sembra essere il Tufo Giallo Napoletano (Rosi e Sbrana, 1987).

Circa 30 eruzioni nei Campi Flegrei si sono succedute al Tufo Giallo Napoletano, la maggior parte delle quali tra 12 e 8,0 Ka e tra 4,8 e 3,7 Ka (Rosi e Sbrana, 1987).

La più recente eruzione è avvenuta nel settembre 1538 D.C. dopo una quiescenza di circa 3000 anni.

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I depositi di questi due periodi di attività sono separati da un paleosuolo spesso e diffuso, formatosi circa 4,6 Ka (Rosi e Sbrana,1987).

Di Vito et al. (1999) e D’Antonio et al. (1999) riconoscono invece, per questo periodo, tre epoche di intensa attività vulcanica alternate a due momenti di quiescenza, distinguendo ben 65 eruzioni originatesi da centri localizzati sia all’interno che sui bordi della caldera più giovane e i cui prodotti si alternano a paleosuoli ed a sedimenti fluvio– palustri e marini.

• Prima Epoca (12 ka – 9,5 ka): i centri eruttivi si sviluppano lungo il bordo della caldera del Tufo Giallo Napoletano, con un’attività prevalentemente subacquea. La forte interazione acqua – magma provoca un’attività freatomagmatica, con eruzioni fortemente esplosive che generano strutture tipo “tuff cones” e “tuff rings” (Orsi et al., 1996). In questo periodo sono avvenute ben 34 eruzioni, di cui la più antica è datata 11,1 Ka e corrisponde a quella del centro di La Pigna 1. La composizione dei magmi eruttati varia da trachite ad alcali – trachite, solo l’eruzione di Minopoli ha emesso magmi trachibasaltici (Armienti et al., 1983; Civetta et al., 1991). Il più grande tuff cone formatosi in questo periodo è l’edificio del Gauro, formato circa 10 Ka, mentre una delle più grandi eruzioni degli ultimi 12 Ka ha generato le Pomici Principali (Scherillo e Franco 1960), un deposito datato a 10 Ka (Alessio et al., 1971) costituito da pomici di caduta e quindi interpretato come il prodotto di un’eruzione pliniana originatasi nell’area di Agnano (Lirer et al., 1987b). A questa fase vengono anche attribuiti i prodotti dell’attività antica di Agnano, il tuff cone di Nisida, lo spatter cone di Fondo Riccio, i prodotti delle eruzioni di Concola e di Montagna Spaccata.

• Seconda Epoca (8,6 Ka – 8,2 Ka): caratterizzata da 6 eruzioni i cui centri sono dislocati lungo il bordo nord orientale della caldera ad eccezione della prima eruzione di questo periodo, attribuita al centro eruttivo di Fondi di Baia (8,6 Ka) (Di Vito et al, 1999; Isaia et al., 2004). Le eruzioni in questo periodo sono avvenute con una frequenza di circa 65 anni.

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Figura 2.2 Cronostratigrafia degli eventi vulcanici e deformativi della caldera dei Campi Flegrei negli

ultimi 12Ka (da Di Vito et al., 1999).

Risale alla fine di questa fase la formazione del terrazzo di La Starza (Rosi e Sbrana, 1987): questa struttura vulcano – tettonica si sviluppa per circo 4,5 km in direzione E-O tagliando la città di Pozzuoli. L’unità di La Starza, datata a 5,3 Ka (Rosi e Sbrana, 1987), include sedimenti di litorale e di spiaggia contenenti abbondanti macrofossili, sabbia, silt e lenti di pomici arrotondate. Al tetto di questa unità si rinvengono tefra subaerei appartenenti ad eruzioni successive. Il terrazzo di La Starza si è formato probabilmente in seguito a un’intrusione di magma in livelli strutturalmente alti (Rosi e Sbrana, 1987).

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• Terza Epoca (4,8 – 3,8 Ka): questo periodo a cui sono attribuite 20 eruzioni, inizia dopo 4000 anni di quiescenza ed è caratterizzato da eruzioni prevalentemente esplosive con fasi freatomagmatiche (Orsi et al., 1996). Piccole eruzioni a carattere effusiovo hanno formato il duomo dell’Olibano ed il duomo dell’Accademia, entrambi di composizione trachitica (Rosi e Sbrana, 1987). Anche in questo periodo i centri eruttivi sono ubicati principalmente lungo il margine nord – orientale della caldera. Le eruzioni più grandi della terza epoca sono quelle che hanno generato il tuff ring di Astroni (Di Filippo et al., 1991) ed i tefra del complesso di Agnano – Monte Spina (Rosi e Santacroce, 1984). Questo periodo termina con le eruzioni di Senga, Averno, Solfatara ed Astroni (Alessio et al.,1973; Di Girolamo et al.,1984; Rosi e Sbrana, 1987). Dopo l’eruzione di Senga, datata a 3,7 Ka, l’attività vulcanica dei Campi Flegrei attraversa un periodo di quiescenza della durata di circa 3000 anni. Questo periodo viene interrotto dall’eruzione del Monte Nuovo avvenuta nel settembre 1538 D.C. e preceduta da diversi anni di sismicità e di sollevamento del suolo (De Natale et al., 1991).

2.3 Deformazione della Caldera dei Campi Flegrei

La base della caldera dei Campi Flegrei è stata interessata negli ultimi 12000 anni da fenomeni di subsidenza e risorgenza localizzati nella caldera del Tufo Giallo Napoletano. Caratteristiche strutturali come faglie e blocchi dislocati sono evidenze di una deformazione verticale a lungo termine, mentre la documentata deformazione del terreno che ha preceduto l’eruzione del Monte Nuovo nel 1538 D.C. e i due eventi bradisismici del 1972 – 1974 e del 1982 – 1984 sono ottimi esempi di deformazione a breve termine (Orsi et al., 1996).

2.3.1 Deformazione a lungo termine

La risorgenza all’interno della caldea del Tufo Giallo Napoletano inizia tra 10,5 e 8,0 Ka (Giudicepietro, 1993) e può avere avuto inizio con l’eruzione di Minopoli il cui vent si colloca su una struttura regionale parzialmente riattivata durante i collassi

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calderici sia dell’Ignimbrite Campana che del Tufo Giallo Napoletano. Il massimo valore di questa risorgenza è stato raggiunto circa 5000 anni fa (Rosi e Sbrana, 1987), e preannuncia l’ultima epoca dell’attività post Tufo Giallo. La porzione maggiormente risorgente della base della caldera include il terrazzo marino di La Starza.

La risorgenza della parte centrale della caldera del Tufo Giallo Napoletano non è omogenea. Avviene invece tramite la dislocazione verticale di diversi blocchi. Oltretutto la periferia della base caldera è caratterizzata da blocchi che risultano essere meno sollevati rispetto alla parte centrale o addirittura subsidenti come nelle piane di Agnano e di Fuorigrotta (Orsi et al., 1996).

2.3.2 Deformazione a breve termine

Nei Campi Flegrei la deformazione verticale a breve termine è stata individuata in tempi recenti. Dall’inizio del XIV secolo, prima dell’eruzione del Monte Nuovo (1538 D.C.), la linea di costa tra Pozzuoli e Baia è arretrata come risultato di una lenta risalita. L’attività sismica nei due anni precedenti all’eruzione è stata collegata a questa risalita. Nei due giorni precedenti l’eruzione avvennero fino a 20 violenti terremoti ed aumentò il tasso di sollevamento, generando una dislocazione verticale di 7m. All’eruzione è seguita una subsidenza che verosimilmente è proseguita fino al 1969, quando ricominciò un nuovo sollevamento. Tra il 1969 e la metà del 1972 i Campi Flegrei risentirono del primo evento bradisismico positivo monitorato. Il sollevamento massimo fu di 1,7m rilevato nella città di Pozzuoli (Corrado et al. 1977). Questo sollevamento è stato accompagnato da sismicità con epicentri nella baia di Pozuoli e nell’area tra Averno ed Agnano. Tra il 1972 ed il 1974 il suolo è stato interessato da una subsidenza di circa 0,22m, mentre nei successivi 8 anni non ci sono state evidenze di bradisismo così come di sismicità.

Nel 1982 ha inizio un nuovo sollevamento (Barberi et al., 1984, 1989), con una debole sismicità proseguita fino alla fine dell’anno. Dalla fine del 1983 al 1984 la sismicità e stata molto intensa con epicentri localizzati nelle aree della Solfatara e del Monte Nuovo. Alla fine del 1984 il sollevamento massimo è stato di 1,8m.

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2.4 Petrografia

Gran parte dei prodotti vulcanici dei Campi Flegrei sono piroclastici. Colate e duomi di lava sono di norma piccoli volumi e concentrati prevalentemente nel periodo pre Ignimbrite Campana. Le rocce Flegree variano in composizione da trachibasalti a trachiti fonolitiche peralcaline. Queste rocce sono rappresentate da latiti, trachiti ed alcali – trachiti (Rosi e Sbrana, 1987). Qui di seguito vengono riportati i tipi petrografici caratteristici dell’area flegrea.

− Trachibasalti: i trachibasalti affioranti sono essenzialmente solo le piroclastici di Minopoli e rappresentano una minima percentuale delle rocce Flegree. Si tratta di scorie leggermente sottosature in silice caratterizzate da fenocristalli di plagioclasio, olivina e clinopirosseno immersi in una massa di fondo finemente vescicolata. Raramente sono presenti fenocristalli di biotite e magnetite.

− Latiti: le latiti mostrano un grado di sottosaturazione in silice simile a quello dei trachibasalti. Sono porfiriche per fenocristalli di plagioclasio, clinopirosseno e biotite in una pasta di fondo vetrosa ialopilitica ricca in magnetite e sanidino. L’olivina è rara ed in fenocristalli. Nella matrice sporadicamente si rinviene la leucite.

− Trachiti: le trachiti flegree in genere sono debolmente sottosature. Si rinvengono sia come lave che come piroclastiti. Le lave sono praticamente olocristalline con fenocristalli di sanidino e subordinati plagioclasio, clinopirosseno, biotite e magnetite in una pasta di fondo pilotassitica ricca in sanidino. La stessa associazione si rinviene nelle piroclastiti trachitiche caratterizzate da una matrice pomicea o ossidianacea altamente vescicolata.

− Alcali – trachiti: si rinvengono sia come lave che come lave che come piroclastici. Generalmente sono debolmente porfiriche e varietà oloialine sono comuni. La fase più abbondante in fenocristalli è il sanidino, generalmente associato con minori quantità di clinopirosseno, plagioclasi, biotite e minerali opachi. Nei termini iperalcalini sia il plagioclasio che la biotite tendono a scomparire, mentre il k–feldspato raggiunge composizioni tipo anortoclasio. Le alcali–trachiti, insieme alle trachiti, rappresentano i principali costituenti delle rocce Flegree.

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− Trachiti Fonolitiche Peralcaline: anche queste rocce si rinvengono sia come lave che come piroclastici. Generalmente sono totalmente vetrose, sia pomicee che ossidianacee, con sporadici sanidini sodici e clinopirosseni verdastri. I tipi olocristallini sono presenti solo tra le lave e sono caratterizzati da un associazione in cui il sanidino sodico è accompagnato da minori quantità di clinopirosseno verdastro, anfibolo marrone, titanite, opachi ed in alcuni casi da felspatoidi del gruppo della sodalite.

Figura 2. 3: Diagramma classificativo, Nefelina Normativo vs. D.I (Indice di differenziazione) (armienti

Figura

Figura  2.  1:  Schema  geologico-strutturale  semplificato  dell’area  flegrea  (Rosi  e  Sbrana,  1986)
Figura 2. 2: Cronogramma dell’attività dei Campi Flegrei (www.ov.ingv.it).
Figura  2.2  Cronostratigrafia  degli  eventi  vulcanici  e  deformativi  della  caldera  dei  Campi  Flegrei  negli
Figura 2. 3: Diagramma classificativo, Nefelina Normativo vs. D.I (Indice di differenziazione) (armienti

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