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UNA FIABA CHE ATTRAVERSA I SECOLI 3

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UNA FIABA CHE ATTRAVERSA I SECOLI

L’AMORE DELLE TRE MELARANCE

Si ritiene opportuno prendere in considerazione una fiaba, i cui temi e motivi hanno avuto un successo tale da interessare numerosi autori in secoli diversi. Questi ultimi hanno risemantizzato le funzioni dei personaggi e del racconto, per dare nuova linfa alla storia e renderla di volta in volta attuale. Si tratta dell’Amore delle tre

melarance, che fa la sua comparsa a partire dal Cunto de li cunti di Basile, in cui

s’intitola Le tre cetra; il racconto viene poi recuperato nel Settecento da Gozzi, nella prima delle sue fiabe teatrali e rielaborato nel 2001 da Sanguineti nel suo travestimento teatrale. Anche Calvino, nelle Fiabe italiane, recupera la versione di Basile, intitolandola L’amore delle tre melagrane.

Da Basile a Calvino: L’amore delle tre melagrane

Tra il 1634 e 1636 viene pubblicato Il Cunto de li cunti, l’opera di Giambattista Basile che lo rende famoso a livello europeo. L’autore era già morto quando l’opera viene conosciuta dal pubblico con il titolo Pentamerone, assegnatole dal curatore Salvatore Scarano nella dedica della prima giornata, datata 3 gennaio 1634 e rivolta a Gian Galeazzo Francesco Pinelli, duca d’Aceranza; ciò nonostante questo titolo è significativo, perché allude agli stretti rapporti che collegano l’opera basileana al Decameron boccacciano. L’opera di Basile, infatti, conta cinquanta fiabe, distribuite in cinque giornate e narrate da dieci novellatrici; a Boccaccio rinvia non solo la divisione interna, ma anche l’appello iniziale del narratore alle «femene», la presenza di una brigata di narratori, il ritiro in luogo appartato, i giochi e gli intrattenimenti piacevoli del gruppo e la presenza di componimenti alla fine delle

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prime quattro giornate. Proprio questi elementi contraddistinguono antiteticamente la raccolta del Basile rispetto al Decameron, dal momento che il gioco riduttivo e il programmatico abbassamento operano in tutti i topoi indicati; la brigata, per esempio, non è più quella di giovani aristocratici che trascorrono il loro tempo in piacevoli e raffinati svaghi, ma di donne del popolo, grottescamente deformate, come indicano i loro nomi e gli appellativi che li accompagnano (Zesa scioffata, Cecca storta, Meneca vozzolosa, Tolla nasuta, Popa scartellata, Antonella vavosa, Ciulla mossuta, Paola sgargiata, Ciometella zellosa e Iacova squacquarata) e i loro intrattenimenti hanno lo scopo satirico di denuncia dei più diffusi mali sociali: ipocrisia, falsità, prevaricazione e corruzione.

Il titolo originario è anch’esso significativo in rapporto alla struttura dell’opera. Il principio che la sorregge è, infatti, quello della cornice, che racchiude i quarantanove racconti entro un unico racconto iniziale, completato solo alla fine; una struttura che non rinvia più al Decameron, ma alla novellistica orientale e che, secondo Calvino, ha il fine di arrivare, «quasi per un esaurirsi della combinatorietà del narrabile a una fiaba che, per analogia di situazioni, spieghi l’inganno e smascheri l’usurpatrice».1 Inoltre tale fiaba è dotata di un potere ermeneutico, come riteneva Lévi-Strauss, il quale pensava che, all’interno d’un sistema mitico, una variante può essere piegata solo da un’altra variante, che in questo caso, sarà appunto l’ultima fiaba del libro (o penultima, perché la fiaba-cornice fa da introduzione e da finale): I tre cedri.

Il racconto-cornice ha inizio con la vicenda della malinconica principessa Zosa, vittima della maledizione di una vecchia, la quale le permetterà di sposarsi solo se riuscirà a riempire di lacrime un’anfora molto capace. La giovane non riesce a completare l’impresa, perché cade addormentata. Sarà una schiava nera a sostituirla, colmando con le sue lacrime l’anfora e andando in sposa a Taddeo al posto suo. Tuttavia, anche la schiava diventa, a sua volta, vittima di un maleficio, perché la principessa offesa le infonde un inesauribile desiderio di ascoltare fiabe, che le costerà la vita. Chiamate le novellatrici, ha inizio la serie dei cunti che prosegue fino al momento in cui Zosa, sostituita l’ultima narratrice, rivela agli astanti la sua vera storia e l’inganno di cui è stata vittima. Punita in modo atroce l’ingannatrice, Zosa prende il suo legittimo posto di sposa accanto al principe.

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La cornice acquista maggior significato con il nono passatempo della quinta giornata, perché il quarantanovesimo racconto ha una struttura speculare al cinquantesimo, ovvero al racconto dei racconti; nella fiaba Le tre cetra (I tre cedri) si ritrovano molti motivi presenti nella cornice:

<Ciommetiello> non vole mogliere, ma, tagliatose no dito sopra na recotta la desidera de petena ianca e rossa comme a chella che ha fatta de recotta e sango e pe chesto cammina pellegrino pe lo munno ed a l’Isola de le tre fate have tre cetra, da lo taglio d’una de le quale acquista na bella fata conforme a lo core suio, la quale accisa da na schiava piglia la negra n cagno de la ianca; ma, scopierto lo trademiento, la schiava è fatta morire e la fata, tornata viva, deventa regina.2

Il riso, per esempio, è il dettaglio che in entrambe le situazioni aziona gli eventi: nell’apertura, la principessa Zosa osserva il comico scambio di offese fra la vecchia, che tentava di riempire una piccola bottiglia di olio ad una fontana, e un paggio dispettoso, che con un sassolino la manda in frantumi. Il tutto è reso più divertente dai modi della vecchia che, per concludere il diverbio, solleva il vestiario e mostra al ragazzo come natura l’ha fatta; la ragazza scoppia, allora, in una fragorosa risata, che la renderà bersaglio della maledizione della vecchia offesa. Nella nona fiaba della quinta giornata, a ridere è la fata: dall’albero su cui si rifugia, vede una serva mora, la quale, convinta che l’incantevole riflesso nell’acqua sia il suo, decide di non essere degna di servire una padrona accigliata e inizia a «sbucherellare l’otre, che diventò una piazzola di giardino con le fontane automatiche; la fata, vedendo questo, si mise a ridere a tutte guance»,3scatenando il risentimento della serva che con crudele astuzia si fa invitare sull’albero per uccidere la fata con uno spillone e sostituirsi a lei.

In entrambi i casi abbiamo un capovolgimento, perché se nella cultura classica il riso segnava la fine di un periodo doloroso, qui invece, ne segna l’inizio. Sembra, infatti,

2 BASILE 2013, p. 994; Traduzione dal napoletano di M. RAK, p. 995. «Ciommetiello non vuole moglie, ma si taglia un dito su una ricotta e la desidera di carnagione bianca e rossa come quell’intruglio di ricotta e sangue e per questo se ne va girando il mondo e sull’Isola delle tre fate ha tre cedri, tagliando uni di questi ottiene una bella fata come la desiderava, ma questa viene uccisa da una schiava e lui si prende la nera al posto della bianca; ma, scoperto l’inganno, la schiava viene ammazzata e la fata, tornata alla vita, diventa regina.»

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che le vicende seguano il topos classico del mondo alla rovescia e la sostituzione della promessa sposa, bianca e bella, con una serva, mora e crudele ne è un esempio.

Il mondo alla rovescia è il titolo del saggioche Calvino pubblica sulla rivista Pirelli nell’edizione gennaio-febbraio del 1970, in cui si occupa, sulla scia degli studi di Bachtin, del concetto di carnevalesco. Il Carnevale, infatti, è il luogo per eccellenza dove avviene la sovversione dei ruoli, dove tutto è al contrario di come è prima del suo inizio e dopo la sua conclusione:

Il carnevale è uno spettacolo senza ribalta e senza divisione in esecutori e spettatori. Nel carnevale tutti sono attivi partecipanti, tutti prendono parte all’azione carnevalesca. Il carnevale non si contempla e non si recita: si vive in esso, si vive secondo le sue leggi, finché queste leggi sono in vigore, cioè si vive la vita carnevalesca. Ma la vita carnevalesca è una vita tolta dal suo normale binario, è in una certa misura una “vita all’incontrario”, un “mondo alla rovescia”.4

Calvino come Bachtin sottolinea che le leggi, i divieti, le limitazioni dettati dall’ordine della vita normale, cioè extracarnevalesca, durante il carnevale sono aboliti, così come «l’ordine gerarchico e tutte le forme ad esso collegate di terrore, devozione, pietà, etichetta […], cioè tutto ciò che è determinato da una inuguaglianza gerarchico-sociale o di qualsiasi altro tipo».5

Lo scambio della sposa, tuttavia, può anche avere interpretazioni antropologiche: infatti, secondo lo studioso Arnold Van Gennep ha a che fare con I riti di passaggio6 e, in particolare, con l’usanza di sostituire la fidanzata con una persona anziana, per evitare quello che tra gli etnologi è definito «inoculazione» o influsso maligno da parte di spiriti malevoli. Proprio per questa scaramantica alternanza, e per altre ragioni, è stata rintracciata una similitudine con le fave. Nella cornice, così come nella nona fiaba, si fa riferimento al primo giorno di maggio come momento tanto atteso e carico di speranze; per questa ragione la serva del nono racconto deve essere vista dalla fata come una “mana” che si manifesta a maggio, mese in cui si raccolgono le fave, tra le quali c’è anche la specie più scura. La coltivazione della fava, infatti, prepara il terreno alla coltivazione del grano così come, nella fiaba

4 BACHTIN, 1968 Dostoevskij, poetica e stilistica, in I. CALVINO 2017, p. 252. 5 Ivi. p. 253.

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basileiana, la serva nera prepara la fata alle nozze. Tuttavia, il discorso metaforico dell’autore verte sul tema della verginità: da un lato c’è la sposa-frutto vergine, bianca e bellissima, dall’altra c’è la schiava nera dai forti attributi erotici.

Quest’ultima, alla perplessità di Cenzullo, a seguito della sostituzione, giustifica il cambiamento adducendo una spiegazione da ricercarsi nel cambio delle stagioni: «Non meravigliare, principe mio, io stare oplà, fatata, un anno a faccia bianca, un anno a culo nero!»7 La metafora si riferisce all’alternanza delle colture: il terreno viene coltivato un anno a grano o ad orzo e l’anno successivo a fava o a lupini. Il cunto conclusivo appare particolarmente crudele, perché non solo la serva mora ed imbrogliona è condannata a morte, ma con lei anche il figlio che porta in grembo; tuttavia, da un punto di vista agrario-misterico il finale è piuttosto significativo: la schiava è la fava e la fava come frutto non deve essere mangiato, perché secondo una credenza diffusa tra i Greci è di provenienza demoniaca. La fava, piuttosto, serve a nutrire il terreno. Infatti, si sotterra prima che spuntino i baccelli, cioè la figliolanza, così come avviene nella fiaba: «Tadeo […] diede subito ordine che fosse seppellita viva, con la testa soltanto fuori, perché la sua morte fosse più tormentata».8 La fava possedeva un carattere apotropaico, poiché la sua coltivazione era ritenuta magicamente benevola per la terra; tuttavia, era meglio non nutrirsene, anche se nei giorni dedicati a Saturno, i Saturnalia, l’ordine sociale era sovvertito e tutto era possibile (topos del mondo alla rovescia); infatti, nelle feste del ritorno dell’età dell’oro, nel tempo del ritorno dei morti benefici, cioè a maggio che è il tempo della cuccagna, i poveri e i ricchi mangiavano le stesse pietanze e il piatto principale era a base di legumi: fagioli, lupini, calia e fave appunto (a novembre, invece, i morti sono malefici perché preannunciano l’inverno e quindi la cattiva stagione).

Tuttavia, anche il finale della IX fiaba della quinta giornata è piuttosto significativo, perché la serva subisce la condanna da lei inconsapevolmente proposta, e proprio questo elemento è una costante in tutte le successive rielaborazioni della fiaba.

[Il re si rivolge alla corte] «Ditemi: chi facesse male a questa bella signora, che meriterebbe?» […]. Alla fine si rivolge alla regina e le fece la stessa domanda e le rispose: «Meriterebbe essere bruciata e cenere dal castello essere gettata!». E, sentite queste parole, il re le disse «Tu hai scritto il tuo destino con la tua penna!

7 BASILE 2013, p. 1009. 8 Ibid. p. 1021.

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ti sei data l’accetta sul piede! E ti sei forgiata le catene, hai affilato il coltello, hai liquefatto il veleno, perché nessuno ha fatto più male di te, cagna di cagna, giudeo! Ma sai che questa è la bella ragazza che hai trapassato con lo spillone? Ma sai che questa è la bella colomba che hai fatto sgozzare e cuocere in padella? svegliati, perché non è un colpo! Hai fatto cacca bella! Chi fa male male aspetta, chi cucina frasche, mangia fumo». E mentre diceva queste parole la fece prendere di peso e mettere vivissima su una grande catasta di legna e, quando fu ridotta in cenere, la sparpagliarono dalla cima del castello nel vento, confermando quel proverbio: non vada scalzo chi semina spine.9

Un ulteriore elemento merita attenzione, ossia la presenza del fuoco, che come spiega Calvino, nei giorni del Mondo alla rovescia, assume contemporaneamente una duplice valenza: distrugge e rinnova.

È improbabile che Basile, durante la stesura del Cunto, avesse presenti tutti questi elementi; è più plausibile la ripresa di un noto indovinello con tematiche a lui care, del quale farà un racconto permeato di tutta la sua invenzione fiabesca per svelare i falsi e rivelare le falsità. Sembra che Basile si diverta a giocare con quelle tradizioni popolari care alle élite, in particolar modo con quella che prevede la ricerca, ad ogni costo, della sposa vergine e di contro, del destino segnato di quelle ragazze che hanno concesso la verginità prima del matrimonio. Basile immagina che al posto della sposa-vergine, tanto desiderata e cercata in ogni angolo del mondo, il principe ritrovi una ragazza che è tutto l’opposto; da qui scaturisce la minuziosa ricerca nel racconto popolare degli indizi di tali situazioni, per metterli in evidenza, e farne una nuova fiaba destinata, a diventare un modello per numerosi autori.

Nel 1974, Italo Calvino si occupa dell’opera di Basile e dal suo studio ricava uno scritto intitolato La mappa delle metafore, in cui raccoglie le proprie considerazioni. Che Calvino conoscesse il Cunto era evidente da una delle fiabe che colloca nella sua raccolta, ovvero L’Amore delle tre melagrane, di cui si tratterà in modo più approfondito in seguito.

Calvino, a partire dall’opera di Basile, nota che

Il mondo delle fiabe è un mondo mattiniero. Quasi a ogni pagina il Pentamerone è illuminato da un’alba o da un’aurora. Si direbbe che per Basile il passaggio dalla notte al giorno (e così il suo inverso) faccia parte della

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punteggiatura, obbedisca a una necessità sintattica e ritmica, serva a segnare una pausa e una ripresa, un punto e a capo.10

Tuttavia, mentre i segni d’interpunzione si ripetono identici, le albe e i tramonti di Basile sono presentati, ogni volta, con delle metafore diverse, delle quali Calvino fornisce una classificazione in base ai codici impiegati: militar-equestre, giudiziario, scolastico, domestico, patologico…

L’interesse di Basile intorno a questo tema ha a che fare con l’opposizione luce-buio che domina tutta l’opera e che si vede, inoltre, nelle metafore dedicate al bosco fitto e tenebroso, dove «si congregavano le Ombre a congiurare contro il sole»11 e nell’opposizione bellezza-bruttezza. Se la morale, insieme cortigiana e popolare, fa da sfondo storico a queste fiabe, quest’ultimo aspetto evidenzia una significativa polarizzazione: bellezza e virtù stanno insieme alla regalità e la bruttezza e la meschinità stanno, invece, con il mondo plebeo. Lo si può vedere nella fiaba Le tre

cetra, così come nella cornice dell’opera: «Taddeo, il quale, come pipistrello, volava

sempre attorno a quella nera notte della schiava, divenne aquila a guardar sempre fisso nella persona di Zoza».12 Si ha così la polarizzazione di bellezza, virtù, regalità e luce, incarnate dalla promessa sposa e, dall’altra, bruttezza, vizio, condizione servile e buio, incarnati dalla serva mora, che in entrambe le fiabe si sostituisce alla fanciulla. Tuttavia, Calvino nota che le descrizioni della serva nella IX fiaba della quinta giornata sono degne di nota:

Se questo personaggio di piccola saracena malevola e insofferente della condizione servile è rappresentato in entrambi i racconti con tanta vivacità, tanta divertita petulanza nelle buffe deformazioni della parlata, quasi diremmo con tanta simpatia poetica, nonostante il ruolo odioso che la vicenda le impone, è sì per la sua rispondenza a un dato «realistico» («le schiave more – dice Croce – hanno i movimenti e il parlare delle tante schiave, che si vedevano allora nelle case di Napoli, per effetto dei corseggi contro i barbareschi»), ma è anche perché è proprio in questo personaggio che il sistema simbolico del Pentamerone conferma e festeggia il buon funzionamento della sua metafora fondamentale: l’alternanza del giorno e della notte.13

10 CALVINO 2011, p. 135. 11 Ivi. p. 137.

12 Ivi p. 149. 13 Ibid.

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La bellezza della fata, nei Tre cedri, è rappresentata attraverso i colori dell’aurora (bianco, oro, fiamma, rosa):

[…] una giovinetta tenera e bianca come giuncata, con certe strisce di rosso che pareva un prosciutto d’Abruzzo o una soppressata di Nola: cosa non vista mai al mondo, bellezza fuor di misura, bianco di cui non fu mai maggior bianco, grazia che era sopragrazia della grazia: nei capelli suoi aveva piovuto l’oro Giove […], a quegli occhi aveva acceso due globi di luminaria il sole, perché nel petto di chi la vedeva si mettesse fuoco alle botti di polvere e si tirassero razzi e tric-trac di sospiri; a quelle labbra c’era passata Venere col tempo suo, dando colore alla rosa per pungere con le spine mille anime innamorate; a quel seno aveva spremuto le sue mammelle Giunone per allattare le voglie umane; insomma, era così bella che dal capo al piede che non si poteva vedere cosa più vaga.14

Calvino considera la fiaba Le tre cetra un sapiente esempio dell’invenzione basileiana, la quale soverchia quella del dettato popolare, tanto che gli studiosi di folklore comparato la considerano una «fiaba d’autore».

Nell’Introduzione alle Fiabe italiane, Calvino scrive:

Tale è certo una delle rare fiabe – o forse l’unica? – sulla quale si pronuncia un verdetto di «probabile origine italiana»: quella dell’amore delle tre melarance (come in Gozzi), o dei tre cedri (come in Basile), o delle tre melagrane (come nella mia versione): una fontana di metamorfosi di gusto barocco (o persiano?), che meriterebbe d’esser tutta invenzione di Basile o d’un visionario tessitore di tappeti, una serie di metafore diventate racconto: la ricotta e il sangue, il frutto e la ragazza, a saracena che si specchia nel pozzo, la ragazza sull’albero che diventa colomba, le gocce di sangue di colomba da cui sorge a un tratto un albero, e dal frutto – e qui il cerchio si chiude – risalta fuori la ragazza.15

L’autore prosegue dicendo che tra le tante versioni popolari di cui disponeva si è servito della versione abruzzese, integrata con altre, per quanto riguarda la forma più classica, e di una ligure, come variante curiosa, dal momento che, nonostante l’abbondanza di materiale, non è riuscito a trovare una variante «da poter dire versione-principe; tuttavia riconosce la superiorità della fiaba del Basile, alla quale rimanda il lettore.

14 Ivi. pp. 149-150.

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Da questa riprende uno dei motivi destinati ad avere maggiore fortuna: il desiderio della sposa bianca come il latte e rossa come il sangue; proprio quest’ultimo elemento, ossia la goccia del sangue che cade, non solo aziona la vicenda, ma è alla base di tutte le metamorfosi presenti nella fiaba, le quali iniziano e terminano con la fuoriuscita della fanciulla, tanto desiderata dal figlio del Re, dalla melagrana:

Un figlio di Re mangiava a tavola. Tagliando la ricotta, si ferì un dito e una goccia di sangue andò sulla ricotta. Disse a sua madre: - Mammà, vorrei una donna bianca come il latte e rossa come il sangue.16

La ragazza non voleva scendere dall’albero, ma la Brutta Saracina insistette: - Lasciatevi pettinare che sarete ancora più bella. La fece scendere […]. Prese lo spillone e glielo ficcò in un’orecchia. Alla ragazza cadde una goccia di sangue, e poi morì. Ma la goccia di sangue, appena toccata terra, si trasformò in una palombella, e la palombella volò via.17

La Brutta Saracina fece più svelta del cuoco, la trafisse con uno spiedo e l’ammazzò.

La palombella morì. Ma una goccia di sangue cadde nel giardino, e in quel punto nacque subito un albero di melograno.18

In questa «misteriosa storia di trasformazioni», Calvino ravvisa una delle caratteristiche dell’elaborazione popolare della fiaba italiana. Nelle trasformazioni della donna in frutto e viceversa rintraccia una gran senso di bellezza, dovuto alle immagini di freschezza del frutto e della ragazza, così «la naturale «barbarie» della fiaba si piega ad una legge d’armonia». È del tutto assente «lo schizzar di sangue dei crudeli Grimm»19, perché è raro che nella fiaba italiana si raggiunga la truculenza; sono presenti elementi di crudeltà e d’ingiustizia, ma non sono mai gratuiti e la narrazione non infierisce mai sulla vittima, neppure con un’affettazione pietosa, piuttosto corre veloce ad una soluzione riparatrice, la quale, solitamente, comprende la spietata giustizia sommaria del malvagio, che, in questo caso, richiama la triste tradizione dei roghi delle streghe:

16 Ivi. vol. II, p. 498. 17 Ivi. p. 499-500. 18 Ivi. p. 501.

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Non voglio essere io a condannarti a morte. Condannati da te stessa.

E la Brutta Saracina, visto che non c’era più scampo, disse: - Fammi fare una camicia di pece e bruciami in mezzo alla piazza.20

Per quanto riguarda l’inizio della fiaba, Calvino ha dovuto compiere una scelta, dal momento che ne esistevano numerose versioni: in alcune c’era il principe che non ride, la fontana che butta olio, la vecchia a cui si rompono i fiaschi, la maledizione; in altre, invece, era presente la versione trascritta dall’autore.

Come si è già accennato, Calvino riprende la versione di una fiaba abruzzese, di Montenerodomo in provincia di Chieti, raccontata dalla giovane analfabeta Domenica Rossi; questa fiaba doveva essere piuttosto diffusa in Abruzzo, poiché anche D’Annunzio, nel periodo in cui s’interessò al folklore della sua terra, tradusse la fiaba numero 73 del Finamore, per pubblicarla sulla «Cronaca Bizantina» con il titolo La canzone della ricotta insanguinata.

Calvino integra la fiaba abruzzese con alcuni elementi attestati dalla variante irpina, di Avellino, A ‘Schiava Sarracina, come i versetti intercalati al testo; non tutti, però: i primi (Giovanottino dalle labbra d’oro ecc.) sono umbri, di Spoleto.

Le moltissime versioni popolari a disposizione di Calvino erano in gran parte fedeli alla tradizione che ispirò Basile, anche se i frutti da cui fuoriescono le tre ragazze erano i più svariati: nella versione abruzzese i tre frutti sono una noce, una nocciola e una castagna (probabilmente vengono ripresi i frutti che, nella cornice di Basile, le tre fate consegnano a Zosa per aiutarla a svelare l’inganno ed ottenere il fianco del principe Tadeo), altrove i frutti sono cocomeri, o cedri, o aranci, o mele, o melarance, o melangole (ossia arance in alcuni luoghi, arance amare in altri); la scelta delle melagrane dipende da una versione pisana dal titolo I Melagrani, poiché erano già presenti alla fine della versione abruzzese, come metamorfosi della colomba. Quest’ultima parte della fiaba, che Calvino ha trovato in diverse versioni meridionali, pur completando il ciclo delle trasformazioni, che si chiude così com’è cominciato, è assente nel Cunto del Basile. Da quel momento, infatti, le fiabe sono molto differenti: in quella di Calvino si racconta che su intercessione del figlio del Re, la Brutta Saracina cede l’ultima miracolosa melagrana ad una vecchia per guarire il marito morente, che però, al suo rientro è già morto. Decide allora di tenere la

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melagrana per bellezza, senza considerare che, mentre la vecchia va a messa, dalla melagrana esce una ragazza che «accende il fuoco, scopa la casa, fa da cucina e prepara la tavola e poi torna dentro la melagrana; la vecchia, rincasando, trova tutto pronto e non riesce a darsi una spiegazione. Su consiglio del confessore, una mattina, invece di uscire come al solito, si nasconde e vede la ragazza all’opera, la quale, colta sul fatto, racconta alla vecchia tutte le sue disavventure. La vecchia si prende cura della ragazza e la domenica la porta con sé a messa. Anche il figlio del Re è a messa e la vede; così chiede informazioni alla vecchia, la quale confessa che la ragazza viene dalla melagrana che proprio lui le dette. Sciolto l’intricato nodo di coincidenze, il figlio del Re porta la ragazza a palazzo, dove impone alla Brutta Saracina di stabilire la punizione che si merita.

L’ultimo elemento in comune fra la fiaba di Basile e quella di Calvino è proprio il finale, dal momento che in entrambi i racconti si pretende che la serva mora decida la sua punizione, anche se, nella fiaba secentesca avviene inconsapevolmente, e nella fiaba novecentesca la Brutta Saracina è cosciente di ciò che la attende. Ciò nonostante, in entrambi i casi, l’ambivalente fuoco bachtiniano, distruggendo, rinnova il corso degli eventi.

L’amore delle tre melarance:

un travestimento fiabesco da Gozzi a Sanguineti

Il 21 gennaio 1761 a Venezia, in pieno secolo dei lumi, va in scena la rappresentazione di una commedia fiabesca di Gozzi: L’amore delle tre melarance, la prima delle Fiabe teatrali gozziane, rappresentata al teatro San Samuele dalla compagnia Sacchi. Si trattava di un canovaccio, che per il proprio carattere aleatorio, da «opera aperta», doveva lasciare ampio spazio all’inventiva degli attori della compagnia, abituati alla recitazione improvvisata propria della commedia dell’arte. Della prima stesura non è rimasta traccia, poiché, nel momento di approntare l’edizione delle proprie opere, Gozzi sceglie una forma inconsueta: un dettagliato rendiconto dell’evento teatrale, intitolato Analisi riflessiva della fiaba L’amore delle

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dello spettacolo, ma anche un commento particolareggiato dell’autore, il quale appunta minuziosamente i risvolti polemici, i particolari dell’esecuzione e le reazioni del pubblico, secondo una modalità che sarà accolta, fatta propria e teorizzata da Edoardo Sanguineti nell’elaborazione della sua poetica del travestimento, a partire da

L’amore delle tre melarance. Un travestimento fiabesco del canovaccio di Carlo Gozzi, andato in scena a Venezia il 28 luglio 2001, al Teatro Verde dell’Isola di San

Giorgio, con la regia di un allievo di Brecht, l’italo-svizzero Benno Besson, e la co-regia, le scene e i costumi di Ezio Toffolutti.

Nel saggio La maschera e la fiaba, posto a introduzione e commento del travestimento scenico della fiaba, Sanguineti, in veste di drammaturgo e di critico letterario, analizza gli aspetti più innovativi e sperimentali del testo gozziano:

La scrittura gozziana, per noi, è una struttura drammaturgica, accompagnata pressoché continuamente da minuziose indicazioni esecutive. E dunque una sorta di commentario interpretativo di uno spettacolo che, nel caso, ci è raccomandato in forma di racconto. L’azione ha avuto luogo, e ci viene trasmessa una sequenza di eventi teatrali, che non si riduce a narrazione schematica di una determinata vicenda (la quale, per altro, si suppone già connotata, in essenza), ma ne offre un rendiconto minuzioso, che abbraccia ogni sorta di didascalie, relative ai costumi come alle scene, alla gestualità come all’eloquio. Di più, come in un’apologetica cronaca recensiva, ci informa dell’esito della rappresentazione, delle reazioni del pubblico, episodio per episodio.21

«È proprio quest’aspetto ibrido e variegato, da ‘opera aperta’ per eccellenza, in quanto suscettibile di continue varianti, riadattamenti, interpretazioni, interpolazioni, a seconda dei luoghi, delle circostanze, del pubblico e, soprattutto, dell’estro degli attori a riattivare in Sanguineti la componente sperimentale che ne aveva fatto uno dei protagonisti di spicco del Gruppo 63».22

Con il suo intervento nel settembre del 2012 al XVI Congresso Nazionale La

letteratura degli italiani, Borrello si propone di evidenziare gli «aspetti

pluridiscorsivi e sperimentali che fanno dello scrittore veneziano non solo uno dei maggiori riformatori del genere teatrale, ma anche un modello di riferimento per i Romantici tedeschi, propagatori di una vera e propria ‘moda’ o ‘maniera’ gozziana

21 WINTER 2001, p. 19.

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(Gozzische Manier) e, in ambito novecentesco, per recupero e riadattamenti messi in atto da neo, trans o post-avanguardie, di cui l’esempio più eclatante è senza dubbio il travestimento dell’ Amore delle tre melarance ad opera di Edoardo Sanguineti».23 La studiosa parla di travestimento anche a proposito del canovaccio gozziano, non solo perché si tratta di una trasposizione scenica della fiaba popolare tratta dal Cunto

de li cunti di Basile, ma anche letteralmente parlando, dal momento che i personaggi

indossano i panni della Commedia dell’arte.

La ripresa del racconto basileano è evidente a partire dalla trama del canovaccio: Tartaglia, figlio del Re di Coppe, è in preda a una misteriosa e mortale malinconia, effetto dei versi martelliani propinatigli dalla fata Morgana, «sotto le cui mentite spoglie si cela, en travestie, uno dei due rivali di Gozzi, l’abate Chiari».24 Il Re di Coppe e il ministro Pantalone si preoccupano di salvarlo, consultando i migliori medici e organizzando feste e divertimenti di ogni genere; tuttavia contro la guarigione del principe complottano Clarice, Leandro e Brighella, mentre a sostegno del Re di Coppe, Silvio, e di Pantalone è schiarato il mago Celio, ossia un grottesco mascheramento fiabesco di Goldoni. A corte si presenta la fata Morgana, travestita da sguaiata megera, proprio mentre Truffaldino, che incarna la Commedia dell’arte, tenta in mille modi di far divertire il principe Tartaglia, il quale, alla vista della vecchia, scoppia in una fragorosa risata, che lo libera dalla misteriosa malattia. Per ripicca Morgana gli lancia una maledizione in versi martelliani che lo condanna a porsi alla ricerca delle tre melarance, tenute prigioniere dalla gigantessa e maga Creonta. Dopo varie disavventure, il giovane riesce ad impossessarsi dei frutti, da cui fuoriescono tre bellissime fanciulle, e a sposarne l’ultima, Ninetta, figlia del re degli Antipodi. Come in una fiaba che si rispetti non poteva mancare il lieto fine: l’inganno è sciolto, i malvagi sono puniti e i buoni si accostano al banchetto nuziale presieduto da Celio, il quale esorta Truffaldino «a tener lungi i versi martelliani

diabolici dalle regie pignatte».25 Del racconto tradizionale è mantenuto solo l’intrigo principale, perché, per quanto concerne i personaggi, Gozzi allarga il loro numero in modo considerevole.

23 Ibid. 24 Ivi. p. 3.

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Il tutto si conclude con un balzo nella contemporaneità, «secondo modalità proprie del travestimento»26, riscontrabili nella «calda raccomandazione all’uditorio, perch’egli volesse farsi intercessore coi signori gazzettieri in vantaggio della buona fama di questa fanfaluca misteriosa».27 Questa esortazione «smentisce e rovescia platealmente, l’atemporalità tipica del genere fiabesco, svelandone la funzione di pretesto e di maschera per veicolare le idee estetiche e politiche dell’autore tramite, appunto, una ‘fanfaluca misteriosa’ rivisitata in chiave allegorica».28

Il teatro gozziano si presenta fin da subito come la contropartita del teatro riformato goldoniano: alla commedia borghese, caratterizzata da una ricerca del naturale, del verosimile, e dall’imitazione della realtà di personaggi e situazioni, Gozzi oppone un teatro fantastico, meraviglioso e inverosimile, che mira al divertimento degli spettatori e non all’insegnamento morale. Nell’Amore delle tre melarance il re, i principi e le maschere del teatro italiano popolano un regno immaginario. La scelta della fiaba, da parte di Gozzi, è tanto rischiosa quanto ambivalente: da una parte attinge ad un genere popolare e folklorico per fare del suo teatro una fonte di sano e puro divertimento, dall’altra per fare della sua opera uno strumento di polemica letteraria e ideologica, deve manipolare il genere fiabesco, tradizionalmente avulso dalla realtà e dalla storia, trasformando la fiaba in favola o, meglio ancora, con le sue stesse parole, in allegoria. Questa ambivalenza non compromette gli esiti drammaturgici, ma ne esalta la portata innovativa, colta a pieno nel travestimento di Sanguineti. Di ambivalenza si può parlare anche a proposito della sua natura bizzarra e paradossale, messa efficacemente in rilievo da Petronio, nel saggio introduttivo all’edizione Rizzoli del 1962 delle Opere di Carlo Gozzi, che lo definisce «giacobino nelle forme poetiche e codino nel resto». Gozzi si viene a trovare nella medesima situazione «quando asserisce polemicamente di voler ripristinare la commedia dell’arte e invece, per ovvie ragioni, è costretto ad uscire dagli schemi della commedia all’improvviso e produrre un testo scritto che rifletta le sue vedute e le sue tesi attraverso ‘uno spettacolo di mirabile grossolano e popolare’».29

26 SALINA BORRELLO 2014, p. 4. 27 SANGUINETI 2001, Ivi.

28 SALINA BORRELLO 2014, p. 4. 29 Ibid.

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La Commedia dell’arte e la fiaba hanno in comune la proposta di situazioni già note e la possibilità di intervenire, più o meno liberamente, su di esse combinandole. Gozzi, infatti, nel tentativo di commistione dei due generi, ha raggiunto esiti ingegnosi ed efficaci e soluzioni brillanti, che hanno prodotto un effetto di rottura degli schemi consueti ed ha aperto la strada ad azzardate combinazioni e sperimentazioni che diventeranno appannaggio di una Gozzische Manier tipicamente tedesca. Questo aspetto sperimentale, colto anticipatamente da Sanguineti, per Borrello è la motivazione più autentica e profonda dell’operazione condotta da Gozzi; infatti, nel Ragionamento ingenuo, l’autore ritiene che l’originalità e la novità siano gli elementi fondamentali per il successo di un’opera:

Il pubblico si annoia se non trova novità d’indole nelle produzioni scritte e ripiomba nella commedia improvvisa dell’arte, sempre spettacolo caricato e allegro […]. Mi riservo di provare che le mie Fiabe […] sono più originali e nuove nell’indole de’ drammi flessibili».30

Carlo Gozzi, nel corso della sua esperienza teatrale, ha maturato una risentita consapevolezza: aver seguito, solo e sempre, «il suo estro tanto fantasioso quanto imperioso che lo ha reso ‘misantropo’ (come ama definirsi) rispetto alla produzione dei suoi contemporanei».31 Nonostante le numerose opposizioni con il teatro contemporaneo, non si pone mai in polemica con il teatro classico, al quale dichiara di volersi attenere, giustificando le eventuali effrazioni delle norme aristoteliche, secondo cui: «Le mie dieci Fiabe teatrali sono regolarissime, per quanta regolarità può portare l’indole di quelle rappresentazioni»;32 infatti, nel secondo atto, con quella che Borrello definisce «un’agile mossa metatestuale», l’autore evidenzia ironicamente il brusco passaggio da un luogo all’altro delle vicenda, quasi a volersi difendere preventivamente dalle critiche di coloro che gli avrebbero rimproverato una non curanza dei parametri del teatro classico: «qui si calava una tenda che rappresentava la Reggia del Re di Coppe. Qual irregolarità! Qual censura mal impiegata!»;33 tuttavia, in un ulteriore passo del Ragionamento ingenuo, Gozzi

30 GOZZI 1962, pp. 1043 e 1069. 31 SALINA BORRELLO 2014, p. 5. 32 GOZZI, il Ragionamento ingenuo. 33 SANGUINETI 2001.

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sembra ripudiare i canoni classici, in nome di un divertimento, che liberi i popoli dalla noia che deriva da regole troppo ristrette: «la noia ne’ popoli fu una conseguenza di queste ristrette regole, e molti scrittori teatrali, ostinati in queste, empierono le opere loro di maggiori assurdi, che non le avrieno empiute, o se se ne fossero dispensati».34

Secondo Borrello, Gozzi non ha affrontato la problematica relativa all’introduzione del genere fiabesco nel teatro, ma, piuttosto, ha dato per scontata la legittimità dell’incontro fra Commedia dell’arte e fiaba, servendosi di quest’ultima come giustificazione per non aver rispettato sempre le regole aristoteliche. A questo proposito scrive anche Bosisio, autore del saggio introduttivo all’edizione delle

Fiabe teatrali del 1984, il quale sottolinea l’importanza dell’elemento fiabesco nella

scelte delle strategie drammaturgiche messe in atto da Gozzi:

Muovendo, dunque, dalle acquisizioni dei più aggiornati studi in tema di folklore e di tradizione fiabesca, si deve, innanzitutto, sottolineare la natura eminentemente drammatica della fiaba narrativa che senza nulla concedere a spiegazioni e motivazioni, rappresenta al vivo le situazioni e concentra l’attenzione sui personaggi solo quanto basta a illuminare la loro azione. […] caratteristica eminente della fiaba popolare è infatti la «stilizzazione astratta» che deriva, in primo luogo, dalla perfetta linearità della trama e dalla precisione con cui accade sempre ciò che deve accadere.35

Riutilizzando le modalità fiabesche, Gozzi fa proprio il processo di stilizzazione tipico della fiaba, come la ripetizione ternaria di situazioni, personaggi, divieti e formule magico-rituali: non a caso le melarance sono tre.

Secondo Susanne Winter «sorpassando i limiti del genere narrativo, le maschere della Commedia dell’Arte – Tartaglia, Pantalone, Truffaldino e Brighella – si mescolano al mondo fiabesco e, così facendo, la narrazione trova il proprio più congeniale complemento drammaturgico, con il risultato che la teatralità del gioco delle maschere, le loro scene improvvisate, i loro lazzi provocano irresistibilmente le risate degli spettatori».36 Gozzi, inserendo le maschere, non le contrappone ai personaggi, ma, al contrario, concatena le une agli altri; così la presenza delle maschere nelle sue fiabe teatrali mette in luce molti elementi: la teatralità del gioco,

34 GOZZI, Ivi, p. 1068.

35 GOZZI 1984, Saggio introduttivo a cura di P. Bosisio, pp. 60-61. 36 WINTER 2001, p. 19.

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il carattere spettacolare del teatro e il potenziale satirico ed ironico della fiaba. Questa felice unione all’insegna dell’ironia fra la fiaba e la Commedia dell’Arte legittima le intenzioni polemiche di Gozzi, perché, per l’autore, la polemica non è gratuita, ma s’iscrive nella storia letteraria e riceve da essa la sua giustificazione e la sua oggettivazione. Infatti, la volontà di ridicolizzare Goldoni e Chiari si concretizza a vari livelli nella fiaba teatrale:

Si può fare una distinzione fra un livello relativamente astratto o indiretto, quello della struttura, e due livelli più concreti, cioè quello dei personaggi, da un lato, la coppia antagonista formata dal mago Celio che rappresenta Goldoni e dalla fata Morgana che rappresenta Chiari e, dall’altro, quello dei riferimenti diretti o delle allusioni più o meno evidenti riguardanti i testi dei due autori e più precisamente l’intrigo, i caratteri, lo stile, il linguaggio.37

Dunque, Gozzi si serve della fiaba e della Commedia dell’Arte – di due generi che si caratterizzano per un’evidente stilizzazione – per sottolineare la propria distanza dalla realtà. Nessuno dei due generi, infatti, si avvale della ragione, così importante nel secolo dei lumi; essi, piuttosto, stimolano l’immaginazione e intervengono in modo indiretto. La prima commedia scritta da Gozzi non è soltanto una polemica contro Goldoni e Chiari, ma è anche un progetto che mira alla costruzione di un’estetica nuova. Non si tratta di una difesa di generi minacciati, al contrario, l’alleanza fra fiaba e Commedia dell’Arte è alla base di un progetto pieno di promesse per il futuro oltre i confini italiani. Inoltre, la predilezione di Gozzi per questi due generi lascia intravedere una nuova concezione estetica del teatro, che ha a che fare con il loro carattere fittizio e fattivo. Sia la fiaba sia la Commedia dell’Arte non pretendono di rappresentare il mondo reale e la verità vissuta, inoltre, la stilizzazione dei personaggi, delle situazioni e delle azioni tipiche per i due generi, sottolinea la distanza rispetto alla realtà e impedisce qualsiasi identificazione tra lo spettatore e la scena; «in questo modo la fiaba e la Commedia dell’Arte rinforzano vicendevolmente il proprio potere di procurare agli spettatori un piacere estetico legato all’immaginazione e di preservare, in un mondo dominato dal razionalismo, uno spazio all’illusione».38

37 Ivi. p. 21. 38 Ivi. p. 28.

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Fiaba e polemica vanno, quindi, di pari passo per suscitare le risate e l’entusiasmo del pubblico. Quella che Gozzi chiama in tono provocatorio «favola fanciullesca», «favola triviale», «mirabile novità puerile» e «fanfaluca misteriosa», si rivela come gioco complesso nel quale s’inseriscono elementi degli ambiti più diversi: fiaba, Commedia dell’Arte e parodia, le quali formano le componenti base di un testo che diventa «frivolo principio» di un nuovo genere: la fiaba teatrale.

L’amore delle tre melarance è prima di tutto un racconto per l’infanzia trasformato

in un testo teatrale, ma anche una parodia estremamente buffa delle opere di Goldoni e di Chiari e la reazione del pubblico prova che esso accetta ben volentieri tali «fanciullaggini» a teatro:

La novità d’una tal fola inaspettata, ridotta ad azione teatrale, che non lasciava d’essere una parodia arditissima sull’opera del Goldoni e del Chiari, né vuota di senso allegorico, ha cagionata un’allegra rivoluzione strepitosa e una diversione così grande nel pubblico, che i due poeti videro come in uno specchio la lor decadenza.39

Per quanto riguarda il lato fiabesco e l’intento polemico del pezzo, le fiabe di Gozzi si possono collegare alla fioritura della letteratura fiabesca nel Settecento, al gusto del meraviglioso per l’allontanamento dal proprio ambiente attraverso la finzione40; tuttavia, ciò che distingue l’impresa di Gozzi da questa tradizione letteraria è la trasformazione del genere narrativo in una componente del genere drammatico; infatti, anche se la designazione di fiaba sottolinea l’importanza del fiabesco nel nuovo genere creato da Gozzi, l’apporto delle maschere della Commedia dell’Arte non sembra meno essenziale.

Per tutte queste ragioni, Friedrich Schlegel lamenta l’abbandono, da parte del teatro italiano, della geniale commistione operata da Gozzi, di due generi popolari: «la fiaba, connotata da una intrinseca poeticità (attribuita dai Romantici alla fiaba soprattutto per il fatto che si tratta di un genere prettamente orale e popolare, a differenza della favola che è, invece, un genere letterario, eminentemente didascalico), e la commedia dell’arte, le cui maschere ‘rappresentavano esse stesse

39 GOZZI, Memorie inutili, a cura di Giuseppe Prezzolini, vol. I, Bari, Laterza 1910, p. 231. 40 STAROBINSKI 1966, pp. 293-298.

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quella parte prosaica che mette in ridicolo la parte poetica ed erano la personificazione dell’ironia’». 41 L’interesse di Schlegel era suscitato dalla «mescolanza di serio e grottesco, cui corrisponde una giustapposizione non solo di piani e di registri linguistici con diversa funzione comunicativa, ma anche di stili e di generi».42

Nel saggio di Borrello, a questo punto, si ha un chiarimento dei termini

parodia e travestimento, distinti da Schelegel, il quale ritiene che la parodia degrada

la materia del modello, mantenendone lo stile elevato, mentre il travestimento si appropria della materia del testo di riferimento e ne degrada lo stile; la studiosa precisa, però, che il termine “degradazione” non è adatto, infatti, propone di sostituirlo con la parola “trasformazione”, ritenuta più consona alla sensibilità contemporanea e propone un altro termine: pastiche. In riferimento ai numerosi travestitori, che oggi «si fregiano dell’appellativo di pasticheur, ignorandone spesso lo sfumato significato:

non è facile cogliere la sottile linea di demarcazione tra la parodia e il pastiche, in quanto entrambi disarticolano la catena sintagmatica di un testo per ricostruirlo in un altro modo. Ma, mentre l’una è anti-tematica, l’altro è allo-tematico rispetto al modello (che può essere una singola opera, ma anche tutto un genere, come ad esempio il poema cavalleresco). Inoltre, mentre la parodia ha sempre un intento satirico, dissacrante, il pastiche, come il travestimento, può essere tanto sublimante quanto demistificante.43

Borrello nota, inoltre, che la «pluricodicità» nei testi di Gozzi comporta vari tipi di riscrittura, che veicola messaggi diretti ad un pubblico coinvolto «in un girandola di allusioni, cripto e macro-citazioni, ribaltamenti parodici e riaggiustamenti riconsacranti, evidenti soprattutto nel riuso di ‘antichi racconti’».44

Beniscelli, infatti, si occupa delle riprese del Morgante di Pulci, nella Fiaba teatrale di Gozzi:

41 SALINA BORRELLO, op. cit., pp. 6-7. 42 Ivi, p.7.

43 Ivi. p. 9. 44 Ibid.

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Dal Morgante, intanto, è prelevata la citazione liminare dell’Amore delle tre melarance, la prima e perciò la più provocatoria delle dieci Fiabe. Si tratta di due ottave del cantare XXVIII in cui l’autore manifesta l’indole eversivo-polemica della propria fantasia e, confessandone gli eccessi, si compiace dell’obiettivo indicato alla poesia: “ben so che spesso, come già Morgante, / lasciato ho forse troppo andar la mazza; / ma dove sia poi giudice bastante, / materia c’è da camera e da piazza […]. Se l’esergo pulciano illumina metaletterariamente l’intera operazione drammaturgica, nel corso della vicenda non mancano altre riprese dal Morgante. La più significativa riguarda l’episodio centrale della maga-gigantessa Creonta […]. Nel poema di Pulci, al cantare XXI, Creonta è vista come una goffa e crudele “figura”, incaricata di tener prigionieri gli eroi sopraggiunti ma incapace di assolvere alla sua missione e destinata a morte ingloriosamente comica, colpita da un fulmine (Morgante, XXI, 19 e ss). Condannata infine a una morte altrettanto “orribile” Creonta gozziana sostanzia di nuove ragioni quella degradazione della materia cavalleresca che, non senza qualche preoccupazione, Pulci aveva precocemente avvertito.45

Continua scrivendo:

Quali siano le ragioni per cui Gozzi recupera e aggiorna questo registro caricaturale è presto detto. Così travestite, in imitazioni da Pulci e in rovesciamento da Boiardo, Creonta e Morgana hanno perduto ancorché ambiguo delle belle maghe di un tempo – addirittura esse parlano in versi martelliani, come le peggiori mezzane del teatro di Chiari e Goldoni -; a loro contatto i luoghi e gli eventi magici non emanano più il fascino che avevano posseduto […]. Ma l’operazione gozziana, inaugurata con la messinscena dell’ Amore delle tre melarance, non si trattiene sul solo registro parodico. Controllando da vicino il lavoro della compagnia comicale di Antonio Sacchi e osservando le reazioni del pubblico, il drammaturgo capisce di aver afferrato – con il regente della fiaba d’avventura, ben rilanciato dalla verve dei comici dell’arte – un filo dalle grandi potenzialità di trascinamento. In questa prospettiva, che dalle Tre melarance in avanti si consolida sempre più, si fanno numerosi i ‘ricordi’ di episodi depositati nei poemi di una volta, suscettibili dunque di due livelli di fruizione: la prima, immediata, di ulteriore presa sul “popolo” che accorreva alle rappresentazioni delle Fiabe, e la seconda, di ammicco letterario alla parte colta degli spettatori.46

Gozzi propone dei veri e propri pastiches, come il battibecco tra Celio e Morgana nel terzo atto, una scena, che per la sua intrinseca comicità, Sanguineti riprende letteralmente nel suo Travestimento, rimandando direttamente all’Analisi di Gozzi, con una semplice didascalia: «Segue il dialogo tra Celio e Morgana, conservato integralmente nel testo di Sanguineti». Celio si esprime in un bizzarro linguaggio

45 BENISCELLI 2006, p.70. 46 Ivi. pp. 70-71.

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forense (allusione alla professione esercitata da Goldoni, prima di dedicarsi al teatro), Morgana, invece, gli risponde in ampollosi versi martelliani.

Sanguineti, attraverso la citazione (altra modalità di riscrittura), dimostra che «il martelliano praticato direttamente da Gozzi non soltanto funziona per sé come strumento straordinariamente efficace e pertinente di straniamento, ma comporta, al nostro orecchio, un effetto che è, ad un tempo, puerile e comico, marionettistico e filastrocchesco, e insomma, ancora una volta, fra mascheratura e favolosità».47 Alla satira contro il teatro contemporaneo si aggiunge la caricatura degli autori Goldoni e Chiari, esplicitata nel contesto meraviglioso: Celio e Morgana, infatti, sono due creature tipicamente fiabesche, ma per loro, Gozzi introduce nel racconto un’altra componente, quella dei giochi di carte, facendo dei due maghi degli accaniti giocatori. Così Gozzi declina in vari modi la nozione di gioco: gioco di carte, gioco del teatro, gioco dei ruoli, valorizzando il carattere ludico della fiaba.

Nell’Analisi riflessiva di Gozzi ci sono precisi riferimenti alle opere di Goldoni e di Chiari: nel secondo atto Leandro, Clarice e Brighella discutono animatamente sul tipo di spettacolo da scegliere per divertire la corte: Clarice vorrebbe le commedie lacrimose (riferimento a Chiari), con i personaggi che si gettano dalle torri senza farsi del male; Leandro propone le commedie di carattere (riferimento a Goldoni) e Brighella consiglia la «commedia improvvisa con le maschere, opportuna a divertire il popolo con innocenza». Nel Travestimento fiabesco di Sanguineti, Brighella, invece, rivendica per sé, con un’evidente allusione ai personaggi di attualità, il monopolio delle reti televisive:

Ma soprattutto esigo che le televisioni Siano mie, e tutte mie ne sian tutte le azioni. Settemilasettantasette reti e canali,

tosto privatizzate, per via di decretali, avranno in esclusiva tutto l’etere immenso, spargendo elettrosmog ogni di vieppiù intenso. Ogni rete internettica, panottica, sinottica, chattabile, stampabile, ortottica e antiortottica…48

47 SANGUINETI 2001, p. 14. 48 Ivi. p. 84.

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«Al di là degli spunti comici e polemici evidenti, si tratta di un’operazione di travestimento tesa a ‘recuperare la dimensione satirica’ che ha segnato L’amore delle

tre melarance. Ciò che conta è notare che Brighella si fa qui portavoce dell’autore

nel proporre l’appropriazione del linguaggio televisivo divenuto imprescindibile in ogni tipo di comunicazione spettacolare».49 La norma della comunicazione spettacolare modella, ormai, tutti i livelli della nostra percezione della realtà e le strutture della nostra fantasia, mescolandoli in un «inestricabile impasto»:

Il teatro, poi, non è forse il luogo primario del «bello della diretta», come suggerisce di dire precisamente il gergo televisivo? E lo specifico televisivo non è stato forse, con unanime consenso, collocato nella trasmissione «all’improvviso», nell’emissione live, finzionale o documentaria che sia?50

Secondo Sanguineti «le motivazioni polemiche e satiriche, che sono le matrici di questa prima tra le opere gozziane, e che avevano come bersaglio, com’è noto, Goldoni e Chiari, sono ben lontane dall’esaurire le ragioni di questa sperimentazione, anzi ne riducono, per certi riguardi, ingiustamente, la portata».51 Lo stesso Gozzi ricorda che nelle repliche la fiaba era stata spogliata di ogni caricatura polemica e satirica «perch’era mancata la circostanza e il proposito»52. Inizialmente, in essa convivono una circostanza parodicamente intenzionata e lo sperimentalismo dettato da ciò che Propp definisce «l’ambivalenza della favola: la sua sorprendente varietà, la sua pittoresca eterogeneità, da un lato, la sua non meno sorprendente uniformità e ripetibilità, dall’altro».53 Tali elementi, su un diverso terreno, secondo Sanguineti, non costituiscono altro che le tipiche ambiguità della commedia all’italiana, dal momento che la maschera è concepita come funzione cristallizzata, all’interno del repertorio potenzialmente infinito dell’improvvisazione verbale e gestuale. Per Sanguineti, la modernità di Gozzi, conservatore e reazionario, sta nella teatralizzazione della fiaba, ossia nel comicizzarla: «la fiaba, spezza così, una volta per tutte, la sua radice mitica».54 Gozzi, più di chiunque altro in quel periodo, sente

49 SALINA BORRELLO 2014, p. 12. 50 Ivi. p. 13.

51 SANGUINETI 2001, p. 9. 52 GOZZI, op. cit.

53 PROPP 2012, p. 44. 54 SANGUINETI 2001, p. 11.

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che «l’universo fiabesco poteva funzionare come solenne paradigma iniziatico, finché era in opera una vera e propria direzione tradizionale, nella trasmissione culturale e civile»,55 ma questa concezione è entrata in crisi e per godere di una parabola iniziatica occorre una finzione particolare: «essere al foco colle vostre nonne», come si dice nella conclusione del prologo delle Melarance. Così, la fiaba teatrale dovrà farsi necessariamente tragicomica, prima di risolversi in filosofia, perché lo schema iniziale non si è perso, ma è reso perfettamente ambivalente. Tartaglia, il tipico e topico principe malinconico, sarà, come ogni principe da storia di magia, impegnato nelle sue prove canoniche, prima di accedere alle nozze e al trono, ripercorrendo puntualmente l’itinerario segnato, a principio, dai più remoti riti perduti; tuttavia, dovrà ripercorrerlo in degradazione, e lo spettatore ideale sarà colui che, al tempo stesso, rivive l’archetipo solenne e la sua irreparabile degradazione. «Gestita come fiaba, viene così a conclusione con Gozzi anche la lunga avventura della commedia dell’arte, che tenta la sua ultima sortita».56

La critica letteraria, però, non è stata molto favorevole né rispetto alle fiabe teatrali né al loro autore, perché per molti anni ha considerato Gozzi un fenomeno curioso e anacronistico, un nobile fondamentalmente invidioso del successo del borghese Goldoni; inoltre, è stato accusato di far risuscitare una tradizione teatrale, la Commedia dell’Arte, appena superata dalla riforma di Goldoni, e di impedire, così, lo sviluppo di una commedia all’italiana «regolare», sull’esempio francese. Questa critica letteraria ha visto nella forma fiabesca uno specchio della decadenza veneziana della seconda metà del Settecento; in Germania, tuttavia, Gozzi beneficiò di una critica assai più positiva da parte dei romantici, che presero le fiabe come una prefigurazione delle proprie teorie poetiche: essi vedevano la libertà creatrice della fantasia, il meraviglioso, la mescolanza del tragico, del comico e del patetico, l’ironia, l’umorismo e la satira.

Dunque Gozzi riprende la fiaba di Basile per diverse ragioni: la prima, perché, mescolandola alla commedia dell’arte, diventa lo strumento per spiegare le proprie idee estetiche e polemiche, che trasformano la fiaba prima in canovaccio e

55 Ibid. 56 Ivi. p. 11.

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poi in allegoria (viene meno la tipica atemporalità della fiaba). Inoltre, all’autore interessa la forte stilizzazione dei personaggi e delle situazioni che accomuna la fiaba alla commedia dell’arte. ciò gli permette di combinare liberamente i due generi, ottenendo esiti brillanti, che lo allontanano però dalla fonte: egli potenzia da una parte la carica drammatica della fiaba narrativa e dall’altra la sua carica satirica e ironica, al fine di legittimare i propri intenti polemici e la distanza dalle unità aristoteliche, che spesso viene giustificata con interventi metateatrali. Questo aspetto motiva le riprese novecentesche, che vedono nell’elemento tragicomico, ossia nell’allontanamento dalla radice mitica, uno dei tratti sperimentali gozziani più ricco di promesse per il futuro. L’obiettivo di Gozzi è divertire il pubblico: allontanandosi il più possibile dalla realtà, con l’impiego di due generi che esulano la razionalità, egli prende le distanze dalle pratiche del teatro borghese che pretende di essere tanto vero, quanto edificante.

Inoltre, l’allontanamento dalla fonte è rintracciabile anche nell’impiego del pastiche, evidente tanto nella riproduzione degli stili dei due rivali, quanto nel riuso di alcune ottave del Morgante; in entrambi i casi, l’autore mostra le caratteristiche della propria fantasia, che appare libera e polemica.

Si può concludere che Gozzi si mantiene fedele alla fiaba di Basile solo, e comunque in parte, per quanto riguarda la trama, la quale mostra l’assenza di alcuni motivi significativi che ricorrono nelle altre versioni della stessa fiaba: l’uccello che parla, l’assenza di aiutanti nella ricerca, il riflesso della ragazza nell’acqua che confonde la serva nera, l’autocondanna e le gocce di sangue sulla superficie bianca; queste differenze si possono attribuire al fatto che Le tre cetra non sono l’unica fonte a cui attinge Gozzi: in base ad un articolo di Angelo Fabrizi, si pensa che, tra le fonti dell’autore veneziano, ci sia anche una variante della tradizione orale della stessa fiaba, largamente diffusa in Italia, alla quale Gozzi si riferisce in maniera più sistematica. Tuttavia, L’amore delle tre melarance è la prima delle fiabe teatrali gozziane e per questa ragione è considerata la più provocatoria; essa mostra tutti gli aspetti con cui Gozzi si è dovuto confrontare a contatto con un genere ambivalente, che unisce eterogeneità ed uniformità; aspetti colti a pieno da Sanguineti, al quale interessano soprattutto due aspetti del testo gozziano: il carattere aperto, che gli concede ampi spazi d’intervento e il carattere comico della fiaba, ottenuto attraverso

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il progressivo allontanamento dalla radice mitica. Anche per Sanguineti si può parlare di travestimento: egli punteggia la materia gozziana di elementi che rimandano alla contemporaneità, mantenendo e aggiornando la carica polemica che l’opera ha avuto fin dalla nascita; inoltre, come Gozzi, impiega il pastiche al fine di provocare e attuare una critica nei confronti, non tanto dei versi martelliani, bensì del linguaggio televisivo, dal quale non si può prescindere; Benno Besson in un intervista di Viganò ritiene, appunto, che Sanguineti «abbia saputo […] andare al di là della fa vola per attingere a una personale critica del mondo».57

Il pastiche sanguinetiano costringe il regista, abituato a cimentarsi con i testi di Gozzi, ad un approccio nuovo: il testo, «attingendo al cabaret e all’avanspettacolo italiano, ora indugiando sulla critica diretta della televisione e di certi personaggi della contemporanea vita politica italiana»,58 si avvicina alla cronaca, esclusa dallo

Augellin belverde e dalle altre prove di Besson, il quale accetta la sfida che il

copione, con preciso spirito di provocazione, gli lancia.

Sanguineti, come Gozzi, complica la favola, la quale, sebbene sembri semplice, nasconde elementi complessi: la fata Morgana, nel tentativo di rovinare Tartaglia, in realtà lo aiuta; Clarice, nel testo di Sanguineti, si seve di Leandro, come una marionetta, tuttavia, sebbene dimostri di essere una donna intelligente, secondo Besson, come molte donne moderne, dimostra di essere incapace di avere un progetto che sappia superare il sistema patriarcale. Egli ritiene che sia Gozzi che Sanguineti «non sono mai molto generosi nei confronti dei personaggi femminili», così come non lo sono nei confronti dei servi che, contrariamente a quanto avveniva nella commedia dell’arte, non sono più mossi da bisogni primordiali (la fame, il sesso…), le loro pulsioni sono sempre più simili a quelle dei padroni (il potere prima di tutto). L’unico personaggio esilarante che mostra di essere «in rivolta» è Smeraldina, la serva mora: come in Basile, sebbene si tratti di un personaggio negativo, l’aiutante dell’antagonista in questo caso, raccoglie le simpatie degli autori, i quali indugiano nella sua descrizione e ne restituiscono una figura comica ed esasperata, sia fisicamente che sul piano del linguaggio.

Il linguaggio, infatti, è un elemento molto importante nel copione di Sanguineti: esso, inquadrato in versi martelliani, accosta lessico televisivo, pubblicitario,

57 SANGUINETI 2010, p. 138. 58 Ibid.

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politico, basso e triviale, per un pastiche che, connettendosi alla realtà insieme ad inserti metateatrali, elude l’atemporalità caratteristica del genere fiabesco. Qui, come nel canovaccio gozziano, l’intento polemico è evidente e forse preponderante, ma non esaurisce lo sperimentalismo: fiaba e commedia dell’arte rinnovano l’unione per esprimere, a distanza di secoli tanto criteri estetici quanto intenti polemici; Sanguineti, esponente della neoavanguardia e membro del Gruppo 63, mostra la sua insofferenza nei confronti di un linguaggio televisivo che tende ad inglobare tutto, dalle parole all’immaginazione, e ad appiattire la società secondo le logiche dettate dai mass-media.

I fratelli Grimm: La sposa bianca e la sposa nera

La storia di Biancaneve dei fratelli Grimm inizia così:

C’era una volta, nel cuore dell’inverno quando i fiocchi di neve cadono come piume dal cielo, una regina seduta a una finestra che aveva il telaio di nero ebano. E mentre cuciva guardando la neve si punse il dito coll’ago e tre gocce di sangue caddero sulla neve. L’effetto del rosso sulla candida neve fu così bello che essa pensò: ‘Vorrei avere una bambina bianca come la neve, rossa come il sangue e con i capelli neri come il legno del telaio della finestra.’ Poco dopo ebbe una figlioletta che era bianca come la neve e rossa come il sangue e aveva capelli neri come l’ebano, e che fu quindi chiamata Biancaneve.

Le tre gocce di sangue richiamano le stesse cadute sulla ricotta nella fiaba di Basile; per altro, Bettelheim, all’inizio dell’analisi psicanalitica di questa fiaba, precisa che c’è una versione italiana, intitolata La ragazza di latte e di sangue, in cui le tre gocce di sangue, versate dalla regina, non cadono sulla neve, «bensì su latte, marmo bianco o addirittura formaggio bianco».59 Sorvolando sui significati psicanalitici che il latte o la neve, il sangue e il numero tre assumono per lo studioso, si lascia questa fiaba, che presenta solo quest’ultimo motivo comune, per considerarne un’altra, sempre nella raccolta dei fratelli Grimm, che presenta numerosi elementi di contatto con la fiaba di Basile, alcuni dei quali sono molto importanti: la reincarnazione ripetuta, la

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falsa sposa che prende il posto della vera, la infida persona di colore e l’autocondanna; si tratta della La sposa bianca e della sposa nera, il cui titolo fa emergere uno dei motivi di confronto con la fiaba delle Tre melarance nelle diverse versioni.

La storia presenta una madre con una figlia e una figliastra che lavorano in un campo, un giorno si avvicina loro Dio con l’aspetto di un mendicante e chiede loro informazioni. L’uomo, però, trova gentilezza solo nella figliastra e, adirato con la madre e la figlia, lancia loro una maledizione che le fa diventare «nere come la notte, e brutte come il peccato»; alla figliastra, invece, concede tre doni: la fanciulla desidera, in primo luogo, di diventare bella come il sole, poi «un borsellino che non si svuoti mai» e infine, chiede il Paradiso dopo la morte. Quando la matrigna vede gli effetti della maledizione su di sé e sulla figlia e gli effetti della benedizione sulla figliastra, è colpita da una grande cattiveria che la spinge a meditare modi per fare del male alla bella ragazza, la quale aveva un fratello, Reginaldo, che decide di fare un ritratto della sorella da appendere in camera sua, alla corte del re dove lavora, per poterlo ammirare ogni giorno e ringraziare Dio. I servitori di corte, invidiosi, riferiscono al re, al quale da poco era morta la moglie dalla bellezza ineguagliabile, del ritratto di Reginaldo; il re ordina che gli venga mostrato il dipinto e, appreso che la bellissima ragazza raffigurata è la sorella del cocchiere, decide di prenderla in sposa. Reginaldo porta la notizia alla ragazza che ne è felice, ma le due donne nere tramano affinché diventi sposa del re la ragazza nera; la madre, dedita alle arti magiche, annebbia la vista di Reginaldo e tappa le orecchie alla sorella; così, durante il viaggio, con l’inganno, privano la ragazza del sontuoso abbigliamento, il quale viene indossato dalla figlia nera, e la gettano giù dalla carrozza, ma, prima di toccare il fondo, la ragazza si trasforma in un un’anatra bianca e risale in volo. Giunti a palazzo con la presunta sposa, il re pensa che Reginaldo si sia preso gioco di lui e, risentito, lo getta in una fossa piena di vipere e serpenti. Una sera, dallo scolo dell’acquaio risale un’anatra bianca, che chiede informazioni ad uno sguattero sul re, sulla sposa nera e la vecchia strega, e su Reginaldo; lo sguattero risponde e l’anatra se ne va. I giorni successivi avviene la stessa cosa, fino a quando lo sguattero non confessa dell’anatra al re, il quale uccide l’uccello tagliandogli la testa. Tuttavia, dal quel taglio esce «la più bella fanciulla del mondo», del tutto simile al ritratto che

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Reginaldo aveva dipinto. La fanciulla racconta al re che cosa le era capitato e lo prega di liberare il fratello; dopo di che, il re si rivolge alla strega nera, chiedendo che cosa meriti colei che fa del male ad una così bella fanciulla, la vecchia risponde: «merita che la spoglino e la mettano in una botte foderata di chiodi: e alla botte si attacchi un cavallo che la trascini dappertutto», questo è stato il destino della vecchia strega e della figlia nera.

Sebbene la storia sia piuttosto diversa dai racconti presi in esame fino a questo momento, si notano dei motivi in comune che ricorrono in tutte le trame: il più vistoso è la presenza di due donne, tra le quali non c’è alcun legame parentale, una bianca e l’altra nera. Come nelle altre fiabe, al colore della pelle si collegano tutta una serie di caratteristiche sia esteriori sia interiori: la ragazza bianca «è bella come la luce del sole» e gentile, al contrario, l’altra ragazza «è nera come la notte e buia come il peccato», si mostra invidiosa nei confronti della sorellastra e spregiudicata nell’ottenere ciò che desidera. I Grimm sono attenti nelle descrizioni, e alla polarizzazione bianco-virtù e nero-vizio aggiungono aggettivi che evocano l’immaginario del giorno e della notte, come avveniva anche nella fiaba di Basile. Come nelle altre fiabe, la ragazza bianca, bella e virtuosa viene sostituita con l’inganno dalla ragazza nera, brutta ed invidiosa, che riesce a mettersi al suo posto e a fuorviare tutti gli altri personaggi. Un altro motivo comune è la reincarnazione ripetuta: la ragazza, infatti, una volta buttata giù dalla carrozza, si trasforma in un’anatra, alla quale sarà tagliata la testa, atto che trasforma di nuovo l’anatra nella bellissima fanciulla; non si ha solo una serie di metamorfosi, ma l’anatra, come la palombella e la colomba, parla e, al momento della rottura dell’incantesimo, quando l’uccello si trasforma in una ragazza, quest’ultima racconta tutto ciò che ha subito a causa della ragazza nera, e, in questo caso, della vecchia strega, che, per certi elementi, ricorda la Morgana di Gozzi. L’ultimo motivo è l’autocondanna: il principe, dopo aver ascoltato con attenzione ciò che era capitato alla sua promessa sposa si rivolge alla corte e, in particolar modo, alla sposa nera e alla vecchia strega, chiedendo cosa meriterebbe il colpevole di tante angherie. La fiaba si conclude con l’attuazione della condanna proposta, in questo caso, dalla vecchia strega, che inconsapevolmente scrive il suo destino.

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