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Capitolo IV La tutela dell’ambiente nei porti

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Capitolo IV

La tutela dell’ambiente nei porti

4.1. Introduzione e apporto fondamentale dell’unione europea

Nell’affrontare questo tema vitale per la nostra sopravvivenza, si è consapevoli del fatto che nel settore portuale non vi sia un grande quantitativo di norme o disposizioni

specifiche sulla tutela dell’ambiente; ciò non deve fermare la nostra missione

nell’individuare anche nei porti una speranza “verde”. Consci di questo difficile sforzo, si cercherà il più possibile di coordinare la disciplina generale sulla tutela dell’ambiente con, le seppur brevi, normative speciali al riguardo.

Ancora una volta per affrontare un tema simile, si deve partire da una considerazione storica, in quanto solo dal nostro passato, possiamo comprendere cosa saremo nel futuro e che strada dobbiamo percorrere.

Infatti, sono ormai trascorsi circa duecentocinquant’anni da quando la rivoluzione industriale ha fatto capolino introducendo un nuovo modo di sostentamento per gli uomini, che si caratterizzava dalla necessità pressante di produrre il più possibile affinché si realizzasse il benessere collettivo. Gli sforzi per perseguire quest’ultimo fine si sono compiuti, in quanto attualmente possediamo una tecnologia tale da poter regolare ogni aspetto della nostra vita. Tutto questo è stato fondamentale per quello che ora siamo, ovvero soggetti capaci di evolverci e di pensare al nostro futuro per non rimanere mai “disoccupati”; ma è proprio in virtù di questa spinta progressista che ci caratterizza, che appare imprescindibile tutelare un ambiente che appare certamente modificato rispetto a due secoli fa.

È adesso che si chiede l’impresa di poter garantire a chi verrà dopo di noi la possibilità, come è stata data a noi, di poter sperimentare soluzioni e modelli in grado di perseguire il benessere collettivo, senza mai perdere di vista ciò che ogni giorno ci sorregge ed è sempre buono con noi: il pianeta terra.

Questo perché “l’ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della

vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l’esigenza di un habitat naturale in cui l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti”1

1 Cfr. Corte Costituzionale n. 641 del 1987. Sul tema è interessante anche la decisione della Corte

d’Appello di Messina del 22 maggio 1989 che qualifica il “danno all’ambiente come indubitabilmente di carattere economico, anche se incide su valori immateriali non suscettibili di valutazione economica secondo i prezzi di mercato”

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Venendo alla tutela dell’ambiente marino (e di conseguenza quello dei porti), è noto a tutti che la causa dello stesso è da riconoscersi in capo alle ormai svariate attività umane. Noi ci concentreremo non tanto sull’inquinamento prodotto delle navi (che è sicuramente argomento interessante e fondamentale), quanto su altre forme di inquinamento, definite semplicisticamente dalla dottrina in materia “terrestri”, cioè “tutte le manifestazioni del

genere umano, come l’esercizio di attività industriali o la stessa vita nelle città, che hanno tra le proprie conseguenze il versamento in mare di sostanze inquinanti, direttamente o indirettamente tramite l’apporto di fiumi e altri corsi d’acqua”.2

Sempre su tali forme di inquinamento, si deve sottolineare come la disciplina sul tema sia del tutto limitata e ristretta rispetto a quella dell’inquinamento navale, questo perché esisteva solamente la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (CNUDM) del 1982, mentre nel settore opposto vi erano già state svariate Convenzioni (quelle sul dumping del 72’ e la MARPOL del 78’). L’insufficienza della disciplina al riguardo, è dimostrata dalla stessa CNUDM, all’art. 207, par. 1 che prevede che spetti agli stati membri adottare “leggi e regolamenti atti a prevenire, ridurre e tenere sotto controllo

l’inquinamento dell’ambiente marino di origine terrestre, ivi inclusi i fiumi, estuari, condotte ed installazioni di scarico tenendo conto delle regole, delle norme, procedure e pratiche raccomandate, concordate in ambito internazionale”.

Di fronte a ciò regna sicuramente una certa confusione tra gli stati, una insufficiente presa a cuore di una problematica importante allo stesso modo di quella delle navi, in quanto da entrambi dipende la nostra sopravvivenza. La mancanza di interesse forse deriva dal fatto che a livello internazionale si riteneva, errando, che gli effetti delle attività “terrestri” fossero generalmente limitate al singolo stato e le eventuali ripercussioni verso altri stati si realizzassero solo indirettamente. Questa valutazione internazionale è totalmente infondata in quanto non rispettosa di quella che è la realtà dei fatti; basti pensare al caso in cui si verificasse uno sversamento di liquidi dal porto non solo si riverserebbe nel mare aperto all’interno dello stato, ma le conseguenze

colpirebbero anche altri stati limitrofi. Perciò la difficoltà vera a livello extra-europeo è data dal fatto che in situazioni del genere non è per nulla facile stabilire la diretta responsabilità degli stati nell’arrecare danni ambientali agli altri paesi, è necessario dimostrare il nesso eziologico tra la condotta tenuta e gli effetti che ne sono sortiti. Ancora, la mancanza di interesse internazionale, deriva anche del fatto che

nell’inquinamento da attività terrestri, gli interessi in gioco sono molti. Non accade come nell’inquinamento navale, dove è sufficiente riferirsi all’imbarcazione che ha violato le normative antinquinamento e al suo stato di bandiera; nel nostro caso vi è una

molteplicità di soggetti diversi e disomogenei che ogni giorno possono rendersi responsabili di comportamenti dannosi per l’ambiente. Questa difficoltà si ripercuote

2 F.MUNARI E L. DI PEPE, “Tutela transnazionale dell’ambiente”, Urbino per Arti grafiche editoriali, 2012,

pag. 162.

Un appunto: in queste attività rientrano soprattutto quelle portuali che si ripercuotono ancor più direttamente, come tutti sanno, sull’ambiente.

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anche sulla predisposizione di una normativa vasta ed efficiente che possa indirizzare ogni condotta umana verso le migliori prassi ambientali e verso la cultura dello sviluppo sostenibile, cercando di far breccia sul comportamento dei cittadini e le imprese.

Da ultimo, un aspetto problematico dell’inquinamento marino terrestre, da tenere in considerazione, è dato dalla costatazione che la maggior parte dei centri abitati e delle attività industriali, si sviluppano sulla costa, andando così a sovraccaricare l’ecosistema marino, già onerato dal rischio di possibili incidenti durante la navigazione delle navi e dall’inquinamento provocato dalle imbarcazioni stesse.

Considerate così tutte le difficoltà in cui si va incontro affrontando tale tematica, per poter accendere l’interesse di tutti e fornire un valido contributo a questa minaccia inquinistica, specialmente quella proveniente dalle attività che si svolgono nel porto, si deve partire da una considerazione fondata sull’idea di porto all’avanguardia, cioè come sistema efficiente e affidabile che possa costituire un esempio da prendere a modello e che permetta anche di incentivare investimenti nazionali ed esteri, valorizzando sempre più i porti come fonte di attività commerciali e finanziarie e come strumento per un governo del territorio sempre più in linea con le preoccupazioni per la qualità dell’ambiente.

Anche nel nostro settore, è ormai consolidato il cosiddetto principio dello “sviluppo sostenibile”, così come elaborato dal Trattato di Amsterdam nel 1997, che consiste nella “necessità di garantire che le attuali generazioni possano comunque svilupparsi senza

compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni in un’ottica di solidarietà internazionale”. Viene così ripreso lo stesso concetto elaborato nel “rapporto di Brundtland” del 1986, in cui si dice che “lo sviluppo sostenibile soddisfa

i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”.

È inevitabile che tale principio acquisti importanza cardine in un settore in cui la tutela dagli effetti negativi delle attività portuali appare fondamentale per evitare danni all’ecosistema circostante, considerando anche che i porti costituiscono il baricentro di tutti gli scambi commerciali e non, e contribuiscono attivamente ad implementare l’economia reale dei singoli paesi. La conseguenza che ne deriva perciò è di cercare di contemperare la necessità di sviluppo e di implemento della produttività

dell’infrastruttura con quella della tutela ambientale circostante.

In altri termini, appare mai come ora essenziale che i concetti di porto e ambiente sussistano all’unisono dando vita ad un binomio inscindibile. È questa la nostra direttiva da seguire per trattare la materia dello sviluppo sostenibile che ha come obiettivo la diffusione della conoscenza e della cultura della tutela dell’ambiente e della gestione dei pericoli che possono derivare per l’ecosistema.

Detto questo, la sfida che davvero deve caratterizzare il nostro futuro prossimo, nell’ottica della strategia per lo sviluppo del sistema porto, è data dall’esigenza di implementare la natura “verde” dell’infrastruttura stessa, attenuando le esternalità che

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derivano dalle attività portuali, consapevoli del fatto che da un porto pulito può dipendere la capacità competitiva dello stesso. Questi sforzi non sarebbero sufficienti senza una strategia comune a livello europeo e nazionale che permettesse di prendere in

considerazione tutti i punti di vista degli stati, dando vita ad una strategia comune ed uniforme. Partendo dall’Europa, il contributo da essa fornito è talmente fondamentale e palese da far sì che nel prosieguo vengano riprese molto spesso le testuali parole fornite dalle stesse istituzioni europee.

Innanzitutto è emblematica la comunicazione n. 575 del 2007, dove la Commissione invitava gli stati membri ad impegnarsi per il conseguimento di uno sviluppo sostenibile dei porti, attraverso l’adozione di “buone pratiche” di contenimento degli impatti

ambientali. Inoltre la stessa Commissione “ha proposto una nuova politica dei porti che

tenga conto dei loro molteplici ruoli e del più ampio contesto della logistica europea, formulerà proposte volte a ridurre il livello dell’inquinamento atmosferico proveniente dalle navi nei porti ed infine pubblicherà gli orientamenti relativi all’applicazione della normativa ambientale comunitaria allo sviluppo portuale”. Un’altra testimonianza della politica europea dei porti, è stata la comunicazione n. 616 del 2007 che ha individuato soluzioni per aumentare la capacità dei porti nel rispetto dell’ambiente, in particolare si sottolinea come i porti siano “passaggi strategici per gli approvvigionamenti di merci ed

energia e snodi economici fondamentali” e che per questo motivo “necessitano di investimenti dal settore pubblico e privato con un ragionevole grado di certezza del diritto”. Queste due comunicazioni rappresentano perciò lo sforzo comune, incentivato dalle istituzioni europee, di realizzare una comunione di intenti circa la gestione

ambientale sostenibile dei porti per elaborare e creare un quadro complessivo cui fare ricorso, per individuare soluzioni volte ad un maggior efficientamento dei porti e dell’ambiente circostante.

A ciò si aggiunge anche una risoluzione del parlamento europeo (la n. 2007 del 2008) che ci ricorda ancora una volta l’interesse che l’Europa, in particolare la Commissione, ha verso lo sviluppo di una politica condivisa sui porti, “la quale dovrebbe promuovere i

quattro principi seguenti: sicurezza, tempestività dei servizi, basso costo e rispetto per l’ambiente”. Principi da valutare alla luce dell’importanza che i porti hanno ormai “assunto sotto il profilo economico, commerciale, sociale, ambientale e strategico” e sulla base dei quali la Commissione riesce a “garantire che tutti i porti europei siano in

grado di sviluppare appieno il proprio potenziale”. In ultimo, è importante riferirsi ad un aspetto pratico trattato dalla risoluzione stessa che riguarda la necessità che gli enti territoriali sostengano gli sforzi compiuti per ridurre le emissioni di CO2 provocate dalle

navi, attuando piani di gestione della qualità dell’aria3 . Il quadro che ne esce è

sicuramente incoraggiante, l’Europa più che mai ha svolto qui un ruolo di guida, ha contribuito a far emergere l’importanza strategica dei porti che favorisce la competitività tra gli stati e che si può realizzare solo puntando a costruire porti efficienti e rispettosi di ciò che li circonda. Diciamo che emerge a gran voce l’impronta verde dell’Europa che ha contribuito più di ogni altra istituzione a promuovere la cooperazione tra i porti europei e

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a “sottolineare il ruolo sociale e culturale dei porti per le popolazioni dell’entroterra e

sensibilizzando il pubblico sull’importanza dei porti come mezzi di sviluppo”4. In altre

parole, “sembra di poter affermare con una certa sicurezza che il sistema legislativo

europeo offra maggiori garanzie rispetto ad ogni altra sede legislativa nazionale o locale”5

Ma come sappiamo ben vengano le soluzioni normative senza le quali non sarebbe possibile alcun discorso, ma niente è sufficiente senza una vera e propria collaborazione attiva tra i vari soggetti pubblici o privati deputati a garantire un costante sviluppo dei porti e a garantire il rispetto della normativa circa lo sviluppo sostenibile. Ciò si ricava anche dalla stessa Risoluzione del 2008 nella quale al punto 44 prevede che si faccia ricorso ai “programmi di cooperazione europea della politica di coesione e ai

programmi di cooperazione della politica di prossimità e di allargamento dell’Ue”, ma anche dal punto 47 in cui ci si “compiace dell’accento posto sul dialogo nel settore

portuale e si incoraggia la creazione di un comitato europeo del dialogo sociale e ritiene che esso dovrebbe occuparsi di argomenti legati ai porti”. Quest’ultimo punto va letto in correlazione con quanto ribadito dalla già esaminata Comunicazione n. 616 del 2007 al punto 5 in cui si parla di “stabilire un dialogo strutturato tra i porti e le città”, in

particolare tra le due parti deve sussistere un legame reciproco che “permetta una pianificazione strategica a lungo termine”. Allo scopo, la Commissione promuoverà “la

cooperazione tra le autorità competenti e le parti interessate” e tra le stesse e l’unione stessa, “per migliorare l’immagine dei porti e l’integrazione nella “loro” città”. Ancora, sullo stesso tema la Commissione evidenzia la “necessità di stabilire un dialogo continuo

sulle prestazioni e sullo sviluppo dei porti tra le parti interessate alle attività portuali, e all’interno delle città, delle regioni e oltre, se necessario”. Un’impostazione basata sul dialogo con le parti interessate può contribuire a garantire attività portuali sostenibili e a migliorare le prospettive e le condizioni d’occupazione.

4.2 Le minacce all’ambiente nei porti e relative soluzioni

4.2.1 Rifiuti prodotti dalle navi nelle aree portuali

Questa problematica come ben sappiamo, non è nuova, perché attanaglia non solo gli scali, ma anche diverse città italiane da molto tempo, ma è soprattutto “a livello globale

che si è assistito ad un aumento della produzione dei rifiuti che rappresentano il frutto dell’aumento dei consumi, a sua volta legato all’aumento delle capacità delle persone di acquistare beni e all’induzione all’acquisto stesso che i modelli di consumo globali finiscono per favorire”6

4 Cfr. punto n. 17, Ris. del 2008

5R.LOMBARDI, “Porti verdi e sostenibilità del trasporto marittimo” contenuta in “Rivista quadrimestrale di

diritto dell’ambiente”, 2011, pag. 179.

6 F.MUNARI E L. DI PEPE, “Tutela transnazionale dell’ambiente”, Urbino per Arti grafiche editoriali, 2012,

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Lo stesso avviene nel settore portuale nel quale si è assistito ad un progressivo aumento, quasi inaccettabile, dei rifiuti prodotti dalle imprese portuali e industriali operanti in ogni porto, ma anche dalle navi che si trovano ormeggiate per svariate operazioni. A titolo esemplificativo, nell’unione europea si stimano quasi tre miliardi di tonnellate l’anno di rifiuti, di cui un terzo classificati come pericolosi, rispetto a vent’anni fa la cifra è quasi che raddoppiata, così come sono raddoppiati i danni all’ambiente in quanto tali rifiuti non sono smaltiti in modo sostenibile. Spesso sono inceneriti, esalando fumi tossici e nocivi per l’ecosistema, oppure rimangono depositati in discariche con conseguente danno alle falde acquifere e alle acque circostanti il porto.

Si sta perciò assistendo a quello che è una vera e propria violazione anche delle

Convenzioni internazionali, una su tutti la MARPOL 73/787 dedicata alla riduzione degli

sversamenti di idrocarburi, gas di scarico delle navi e sulla prevenzione

dell’inquinamento da rifiuti solidi scaricati dalle navi. Il vero obiettivo da perseguire è rappresentato dalla ricerca di soluzioni efficaci che possano migliorare i meccanismi per la raccolta dei rifiuti, per il loro deposito e per il loro smaltimento finale, magari

introducendo forme di controllo più penetranti, ma soprattutto incoraggiando e mettendo in risalto la fondamentale necessità di evitare qualsiasi forma di inquinamento anche prescrivendo piccoli accorgimenti che se eseguiti, possono dare un buon contributo per lo sviluppo sostenibile. In altri termini, i problemi da affrontare sono “quello della

circolazione di tali “cose” e quello della responsabilità derivante da attività di “dumping” delle stesse, attività vista ancora una volta come atto istantaneo di inquinamento, ingiusto e quindi illecito”.8

Ogni discorso non può essere completo, se non partendo dall’origine del fenomeno che è sicuramente frutto dello sviluppo delle città verso la costa che ha caratterizzato gli ultimi cent’anni. Il che ha portato ad uno sviluppo, quasi incontrollato, delle attività portuali che hanno sì favorito investimenti e prodotto ricchezza nelle città stesse, ma altresì hanno incrementato la produzione dei rifiuti incidendo negativamente sull’ambiente circostante. A questo punto ciò che si impone ai nostri fini è di cercare soluzioni pratiche che possano fondarsi sulla considerazione che “i rifiuti rappresentano si una delle prime forme di

inquinamento, potenzialmente adatte al riciclaggio e al riutilizzo; ci si allontana così dalla logica dello smaltimento dei rifiuti, avvicinandosi all’idea del recupero e

riciclaggio corretto e giungendo infine all’idea di economia circolare”9. Quest’ultima si

riferisce a quei procedimenti che trasformano i rifiuti in prodotti o oggetti riutilizzabili in altro modo o in altri ambiti.

7 Si deve precisare che tale Convenzione “non si applichi nel caso delle operazioni di smaltimento di rifiuti

pericolosi nelle aree portuali nazionali che sono regolate dalla normativa nazionale, conforme a quella comunitaria in tema di rifiuti”. Cit. L.MICCICHÈ, “Brevi note in tema di smaltimento di acque di sentina in ambito portuale”, in “Diritto marittimo”, 2005, pag. 509.

8 F.MUNARI E L. DI PEPE, “Tutela transnazionale dell’ambiente”, Urbino per Arti grafiche editoriali, 2012,

pag. 295.

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Ora, la necessaria attenzione verso i rifiuti non è nuova in quanto già dal 1942, data dell’entrata in vigore del codice della navigazione, all’articolo 7 che vietava di gettare materiali di qualsiasi tipo e che va letto in combinato disposto con l’art. 77 del

regolamento per l’esecuzione del codice stesso che vietava di “tenere i rifiuti accumulati

a bordo delle navi e dei galleggianti, nonché di gettarli negli ambiti terrestri o acquei del porto ad una distanza inferiore a quella stabilita dal comandante del porto”. In più si ricorda la disciplina penale che punisce all’art. 674 il “getto pericoloso di cose” cui si aggiunge il comma 1 dell’art. 51 del d.lgs. 22 del 1997 che punisce coloro “che effettuino

un’attività di raccolta, trasporto recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti senza autorizzazione, iscrizione o comunicazione”10. Da questi divieti previsti

dalla nostra normativa cui si aggiunge quello previsto dal d.lgs. 979/1982 che vieta in modo assoluto alle navi di bandiera italiana di operare lo scarico di sostanze inquinanti in acque internazionali, è sorto uno scontro nel nostro ordinamento nei confronti della Convenzione MARPOL che consente, invece, lo scarico, a determinate condizioni, di

alcune sostanze. Il conflitto è stato risolto dalle Sezioni Unite della Cassazione11 che si

sono espresse ritenendo che “lo sversamento delle sostanze effettuato secondo le

prescrizioni di tale Convenzione internazionale, non costituisca reato (…) in quanto essa costituisce fonte gerarchicamente preordinata rispetto alla disciplina interna”.

Detto questo, da tutti i divieti fissati dalla nostra normativa interna, emergono i primi sforzi e l’attenzione del sistema italiano verso, non tanto il riciclo ed il riutilizzo degli stessi, bensì sulle soluzioni per evitare la dispersione degli stessi. Obiettivo certamente lodevole, ma insufficiente in quanto è bene non disperdere i rifiuti, ma in ogni caso questi sono pur sempre prodotti e si impone di conseguenza il problema di come smaltirli e trasformarli in prodotti.

Anche in questo caso la spinta verso quest’aspetto, da noi trascurato, è rappresentata dalla normativa europea. Fondamentale è stata dapprima la direttiva 59 del 2000 che introdotto e sviluppato il principio “chi inquina paga” e quello di “precauzione e azione preventiva”. In virtù del primo si prevede che il costo degli impianti portuali di raccolta, incluso il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti prodotti dalle navi, dovrebbe essere a carico delle navi stesse. Per disincentivare lo scarico illegittimo dei rifiuti da parte delle navi, si prevede che le stesse contribuiscano ai costi di raccolta e gestione dei rifiuti. Inoltre la direttiva prosegue imponendo agli stati membri di predisporre un opportuno quadro amministrativo per il funzionamento adeguato degli impianti portuali di raccolta per individuare le navi che inquinando non rispettano la direttiva, eventualmente con la predisposizione di un sistema di controlli capillari ed ispezioni mirate. Infine rilevante ai fini di una maggiore tutela dell’ambiente marino e portuale si prevede la possibilità di rendere più adeguati gli impianti tramite piani aggiornati di raccolta e gestione dei rifiuti, attraverso l’imposizione alle navi di comunicare la necessità di utilizzare tali impianti o

10 Il divieto in esame è stato rilevato nella decisione della Cassazione sez. penale, del 30 maggio 2003. 11 Cfr. sent. Cass. 24 giugno 1998.

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l’obbligo in capo a tutte le navi di conferire i loro rifiuti agli impianti portuali di raccolta prima della loro partenza.

Per la completa messa in pratica di questi obiettivi, si è dovuto attendere fino al 2003, data del d.lgs. n. 182 che in primis ribadisce che i porti si dotino di impianti e servizi portuali per la raccolta dei rifiuti prodotti dalle navi e dei residui del carico adeguati in relazione alla classificazione dello stesso porto. A ciò si aggiunge l’obbligo di

conferimento dei rifiuti da parte delle navi, “ovvero in caso di nave in servizio regolare

tra più porti, un obbligo comunque della nave di conferire tali rifiuti prodotti, ovvero di assoggettarsi a verifiche e controlli rivolti ad impedire elusioni o violazioni delle normative internazionali, unionali ed interne circa la capacità di stoccaggio rifiuti a bordo e all’effettivo adempimento dell’obbligo di conferimento dei rifiuti in altro porto”12

In secondo luogo il decreto esegue le disposizioni della sopracitata direttiva circa

l’obbligo di predisporre in capo alle Autorità portuali un “piano di raccolta e gestione dei

rifiuti”. In particolare il decreto lasciava un anno di tempo all’Autorità portuale per elaborare e predisporre questo piano, previa consultazione con le parti interessate, enti locali, l’ufficio di sanità marittima, gli operatori dello scalo e i loro rappresentanti. Questo termine è risultato problematico in quanto non fu preso come tassativo,

esponendo il nostro ordinamento a numerosi richiami, pareri e sanzioni per il mancato adeguamento. Addirittura il nostro Stato (così come Grecia e Spagna), nel 2008, fu condannato dalla Corte di Giustizia europea, sentenza non eseguita pienamente dall’Italia che ha portato, come previsto in questi casi, ad un parere motivato da parte della

Commissione. In seguito il nostro paese, ha deciso finalmente di adeguarsi con la cosiddetta “legge salva infrazioni” (l. n. 135 del 2009) che è andata integrando l’art. 5 comma 4 concernente il Piano di raccolta e gestione dei rifiuti.

Attualmente ciascuna Autorità portuale elabora il proprio piano, tutti questi sono accomunati dal raggiungimento di un obiettivo che è sempre quello della raccolta e gestione di tutti i tipi di rifiuti e residui del carico proveniente dalle navi, tenendo presente le dimensioni dello scalo e della tipologia delle unità che vi approdano. Una precisazione è da fare circa la nozione di rifiuto prodotto dalla nave, che è definito dalla direttiva del 2000 come l’insieme di “tutti i rifiuti, comprese le acque reflue e i residui

diversi dai residui del carico, prodotti durante il servizio di una nave”.

Di contro si parla di “residuo del carico”, per indicare i resti di qualsiasi materiale che costituisce il carico contenuto a bordo della nave nella stiva o in cisterne e che permane al termine delle operazioni di scarico o di pulizia; tali residui comprendono anche

eccedenza di carico o di scarico”. Queste due definizioni vanno esaminate in relazione ad altre fornite dal Parlamento europeo con la direttiva 98 del 2008, la quale definisce il rifiuto come qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi. Si parla poi di “rifiuto pericoloso” per alcune caratteristiche che lo rendono tale, ad esempio la tossicità, l’infiammabilità o l’esplosività. La direttiva, poi,

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prosegue definendo ulteriori tipologie di rifiuti in modo dettagliato secondo una particolare scala gerarchica. Quest’ultima si articola nella fase della prevenzione,

preparazione per il riutilizzo, riciclaggio, recupero di altro tipo ed infine lo smaltimento. A tal fine l’articolo 4 della direttiva incoraggia gli stati membri a favorire l’applicazione di tale gerarchia, della cui importanza parleremo in seguito.

Una volta chiarito ciò, si può ritornare ai piani, i quali possono essere aggiornati al verificarsi di alcune condizioni. Infatti lo stesso Parlamento europeo ed il Consiglio hanno imposto agli stati membri di aggiornarli ogni cinque anni solo se si fossero verificati significativi cambiamenti nella gestione del porto, nel caso in cui non si realizzassero, nel quinto anno successivo alla prima approvazione ci si può limitare ad una semplice convalida della precedente approvazione. Inoltre, a livello generale, tutti i piani comprendono l’indicazione circa la capacità e tipologia degli impianti portuali di raccolta, le procedure da seguire nella raccolta e trattamento dei rifiuti, i sistemi tariffari da applicare alle navi circa i rifiuti conferiti. Infine sono tutti uniti dal fatto che

forniscono all’unisono i dati dell’attività di raccolta e gestione degli stessi, con l’indicazione annuale della tipologia e quantitativi dei rifiuti, indicando anche gli incrementi o meno che si sono susseguiti negli anni.

Emerge qui con chiarezza non solo l’esigenza di adeguarsi passivamente alla direttiva

europea13, ma anche quella di studiare nuovi accorgimenti e misure per perseguire le

finalità impartite a livello sovranazionale che permettono comunque un certo margine di manovra in capo agli stati, lasciandoli liberi di stabilire gli strumenti di realizzazione di tali scopi che meglio si adattano al proprio sistema interno.

Riferendoci con uno sguardo agli impianti portuali di raccolta per il conferimento dei rifiuti delle navi nei porti, importante è la nuova direttiva Ue del 2019 n. 883 (del 17 aprile) che ha abrogato la vecchia direttiva del 2000, innovando non solo la materia alla luce delle nuove tecnologie a tutela dell’ambiente, ma soprattutto ha inteso “proteggere

l’ambiente marino dagli effetti negativi degli scarichi dei rifiuti delle navi che utilizzano i porti situati nel territorio dell’unione e garantire l’uso di adeguati impianti portuali di raccolta dei rifiuti e il conferimento degli stessi presso tali impianti” (art. 1 della stessa direttiva). Sugli impianti si prevede che questi “dispongano delle capacità di ricevere i

tipi ed i quantitativi di rifiuti delle navi che abitualmente utilizzano tale porto”; inoltre debbono provvedere ad una gestione dei rifiuti delle navi ambientalmente compatibili e a tal fine gli stati garantiscono la raccolta differenziata per facilitare il riutilizzo ed il riciclaggio dei rifiuti delle navi nei porti, nel rispetto delle varie direttive in materia di rifiuti” (art. 4 direttiva 2019. La raccolta differenziata permette un ulteriore incremento

13 Soprattutto a seguito della condanna subita dall’Italia nel 2007 (18 dicembre) da parte della Corte di

Giustizia per essere venuta meno alla disciplina comunitaria in materia di rifiuti. In particolare si legge nelle motivazioni della Corte che l’Italia con il d.lgs. 138 del 2002 in materia di interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni e contenimento della spesa farmaceutica, abbia escluso l’applicazione del d.lgs. 22 del 1997 che disciplinava i rifiuti e le operazioni di smaltimento.

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delle politiche del riutilizzo e del recupero non solo nel porto, ma anche sulle stesse navi, le quali devono predisporre di sistemi efficienti di differenziazione dei rifiuti.

Ecco che il principio del recupero diventa uno dei pilastri dell’azione europea volta a fronteggiare la minaccia dei rifiuti che è spesso aggravata dal fatto che si tratta di rifiuti pericolosi. Il concetto di riciclo è chiaro anche al legislatore italiano che nel d.lgs. 152 del 2006 all’art. 184- ter in cui si dice che “con il recupero, il riciclaggio e la

predisposizione per il riutilizzo, il rifiuto cessi di esistere purché siano rispettate alcune condizioni quali, la sostanza o l’oggetto sono destinati ad essere utilizzati per scopi specifici, se esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto e l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà ad impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana”.

Per quanto riguarda il riciclaggio, la direttiva n. 98 del 2008 ne tratta insieme alla cosiddetta preparazione per il riutilizzo. Partendo dal primo, per avanzare verso

un’economia circolare europea con un alto livello di efficienza delle risorse, si prevede che gli stati adottino misure volte al riciclaggio di alta qualità attraverso l’istituzione di sistema di raccolta differenziata dei rifiuti entro la data del primo gennaio 2025. Pertanto, lo sforzo dei vari paesi è ancora in corso, ma possiamo già anticipare che quasi tutti gli stati hanno sperimentato con successo e adottato sistemi efficienti per lo stoccaggio dei rifiuti in base alle diverse componenti cui sono formati gli stessi, evitando anche di aggravare il lavoro di coloro che sono addetti alla raccolta e smaltimento.

Successivo al riciclo, vi è la fase finale dello smaltimento che si realizza quando non è possibile effettuare il recupero o il riciclo. Le operazioni di smaltimento previste

dall’allegato I della direttiva comprendono varie attività tra cui il lagunaggio (ad esempio lo scarico di rifiuti liquidi in stagni o lagune), l’immersione, compreso il seppellimento nel sottosuolo marino o il deposito sul o nel suolo come nel caso delle discariche. Per quanto riguarda quest’ultime, nel settore portuale era lo strumento che generalmente veniva utilizzato con maggior frequenza. Secondo la direttiva 31/1999 per discarica si intende “un’area di smaltimento dei rifiuti adibita al deposito degli stessi sulla o nella

terra”, sebbene il Consiglio con la risoluzione del 1990 abbia invitato la Commissione a proporre norme per lo smaltimento dei rifiuti in discarica in modo sicuro e controllato, in realtà la politica delle istituzioni europee, va ben oltre in quanto ciò che conta è la

valorizzazione del principio di prevenzione, riutilizzo e riciclaggio, la “valorizzazione dei

rifiuti nonché l’impiego dei materiali e dell’energia recuperati al fine di risparmiare le risorse naturali e di economicizzare le risorse del terreno”14.

Si può dunque dire che è bene depositare i rifiuti in apposite discariche, ma è anche bene, considerando la possibilità che le stesse producano effetti negativi (ad esempio

produzione di gas nocivi, come il metano) per l’ambiente e che di conseguenza siano controllate rigorosamente, ricercare continuamente soluzioni innovative per soddisfare l’obiettivo finale di uno sviluppo sostenibile e di una economia circolare. Per realizzare ciò appare necessario uno sforzo comune tra tutti gli stati membri, attraverso una

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disciplina condivisa ed uniforme che fissi criteri unanimi per lo smaltimento ed il deposito degli stessi nel terreno. Ma come già ribadito, questo non basta, perché quello che conta è avere un sistema organizzativo tecnico e specifico, elaborato dai singoli Stati, che miri alla costante riduzione dei rifiuti da depositare nelle discariche, selezionando solamente gli oggetti o gli scarti che non comportano alcuna forma di inquinamento (ad esempio i rifiuti solidi come il legno). Pe questi motivi, devono restare esclusi i rifiuti liquidi, pericolosi, infettivi e quelli differenziati o riciclati (art. 5 direttiva del 99’). Per quanto riguarda i rifiuti ammessi nelle discariche, il protocollo allegato alla direttiva in esame prevede “l’onere in capo ai paesi membri di stabilire elenchi dei rifiuti ammessi e

di quelli non ammessi o definire i criteri per l’inclusione negli elenchi”. I criteri contenuti negli elenchi sono definiti prendendo in considerazione “la protezione

dell’ambiente circostante, salvaguardia dei sistemi di protezione ambientale e protezione contro i rischi della salute umana”.

Infine, strumentali rispetto al bilanciamento tra deposito di rifiuti in discarica e danni provocati all’esterno di essa, sono i sistemi di controllo circa l’ammissibilità dei rifiuti. Si tratta di attività di verifica volte ad accertare che si tratti effettivamente di rifiuti non esclusi dagli elenchi nazionali di recente aggiornati con il decreto del 27 settembre 2010, che non si tratti di materiale inquinante, che siano state attuate tutte le procedure per il corretto deposito e smaltimento degli stessi e che sia in ultimo rispettata la normativa nazionale che in Italia è tuttora rappresentata dal d.lgs. n. 156/2006 contenente norme in materia ambientale ed il decreto legge del 1 luglio 2009 (n. 78) che ha istituito il

“Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti”, detto SISTRI, gestito dal Comando dei Carabinieri per la tutela dell’ambiente e di cui parleremo più avanti.

Terminata la disamina sulle discariche, per concludere sui tipi di rifiuti che caratterizzano maggiormente le attività portuali, interessante è fare riferimento ad altre tipologie di rifiuti, quali i rifiuti tossici, quelli pericolosi, quelli non pericolosi o persino quelli alimentari. In particolare è bene approfondire la tematica dei rifiuti pericolosi.

Questi, come lascia intendere la loro definizione, devono essere necessariamente regolati in modo specifico per il semplice fatto che non solo contribuiscono all’inquinamento, ma aggravano i pregiudizi ambientali che si sono già prodotti; il danno che provocano è perciò duplice e di conseguenza la limitazione degli stessi deve essere altrettanto stringente.

Sul tema, l’apripista è stata la Convenzione di Basilea del 1989 sul controllo del movimento transfrontaliero dei rifiuti pericolosi e sulla loro eliminazione. Questa ha avuto il merito, grazie alla sua peculiare struttura, di essere costantemente in evoluzione, in aggiornamento in quanto è istituita un organo chiamato “Conferenza delle parti”, che costantemente visiona sul rispetto da parte degli stati delle disposizioni convenzionali e verifica altresì lo stato di avanzamento della materia e le nuove esigenze che si pongono in relazione alla stessa. Particolare importanza è rivestita dal preambolo della stessa che ribadisce che il modo migliore per proteggere la salute umana e l’ambiente da questa minaccia è “ridurre al minimo la loro produzione dal punto di vista della quantità o dal

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pericolo potenziale e che gli stati dovrebbero prendere le misure necessarie per fare in modo che la gestione dei rifiuti pericolosi o di altri rifiuti, compresi i loro movimenti oltre frontiera e la loro eliminazione, sia compatibile con la protezione della salute umana e dell’ambiente, qualunque sia il luogo nel quale tali rifiuti vengono eliminati”. In aggiunta, si ribadisce ad ogni stato la possibilità, in quanto suo diritto, di vietare l’ingresso o lo smaltimento nel proprio territorio di tali rifiuti pericolosi e altri provenienti dall’estero.

Tuttavia questa possibilità per gli stati di bloccare vietando l’importazione o

l’esportazione di tali rifiuti è fondata sul principio del consenso informato, ovvero che questi devono informare della loro scelta gli altri stati.

Questi obiettivi che si pone la Convenzione, vengono ripresi da una Convenzione successiva, che è quella di Amsterdam del 1998, anch’essa mantiene il principio del consenso informato, per questo nel titolo si parla di “procedura di assenso preliminare

con conoscenza di causa sia per i prodotti chimici e antiparassitari pericolosi nel commercio internazionale”. In particolare si prevede per gli stati l’obbligo di notificare l’adozione degli atti normativi definitivi al Segretariato. La differenza tra le due

convenzioni riguarda innanzitutto i tipi di rifiuti, visto che si tratta solo di prodotti chimici o parassitari utilizzati nella terraferma che hanno effetti nocivi sull’ambiente marino. Proprio per la particolarità di questi prodotti, non ha senso applicare la stessa disciplina di Basilea, cioè vietare o limitare il commercio degli stessi. Per questo la disciplina in esame si limita semplicemente a regolare la loro commercializzazione e circolazione, introducendo un sistema di controlli.

Ricapitolando, le 2 Convenzioni esaminate non vanno oltre al principio del consenso informato e dei limiti e divieti relativi all’importazione o esportazione di rifiuti pericolosi e sostanze chimiche e parassitarie. Un passo avanti, soprattutto per il fatto che si

introducono soluzioni innovative, è la Convenzione di Stoccolma del 2001 che si occupa anch’essa di sostanze altamente pericolose, definiti inquinanti organici persistenti. La stessa sottolinea l’importanza che i produttori di tale sostanze si impegnino con responsabilità a limitare gli effetti nocivi causati dagli stessi, fornendo anche ulteriori informazioni agli utilizzatori, ai governi e al pubblico in merito alla pericolosità delle stesse. Inoltre, la stessa insiste molto sull’importanza di trovare soluzioni alternative sviluppando ed utilizzando sostanze chimiche e processi che siano conformi in più possibile all’esigenza di tutela ambientale e della salute umana.

Vedendo più nel dettaglio le misure per ridurre o eliminare le emissioni, si distinguono tra sostanze intenzionalmente prodotte e quelle non intenzionali. Iniziando dalle prime, si tende a favorire la loro graduale eliminazione e smaltimento, purché rispettosi

dell’ambiente, o “l’impiego residuo in casi e/o da parte di alcuni stati”15. Passando al

secondo caso, ovvero alle sostanze prodotte non intenzionalmente, per queste si prevede la possibilità di elaborare un piano d’azione per gestire le emissioni di tali sostanze

15 F.MUNARI E L. DI PEPE, “Tutela transnazionale dell’ambiente”, Urbino per Arti grafiche editoriali, 2012,

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nocive, di promuovere l’applicazione di misure disponibili “atte a raggiungere un livello

significativo di riduzione delle emissioni o eliminazione delle fonti ed infine di promuovere lo sviluppo e l’imposizione dell’uso di materiali, prodotti e processi modificati o alternativi, allo scopo di prevenire la formazione e l’emissione delle sostanze chimiche”(art. 5).

Alla luce di tutto ciò, si può dire che a livello internazionale non ci sia una disciplina così dettagliata ed efficace come ci si aspetterebbe da un’intera comunità riunita. Ad esempio nelle convenzioni, come quella di Basilea, mancano veramente obblighi cogenti in capo ai singoli stati e norme che permettano agli stessi di raggiungere i futuri obiettivi

prefissati. Emerge perciò una caratteristica che rappresenta una costante della materia ambientalistica, ovvero il fatto che a livello internazionale si abbiano sempre ottimi propositi ed obiettivi, si studino principi cardine, quali il consenso informato o il diritto di consentire l’importazione di alcune sostanze o rifiuti o il diritto di vietarne altre, si abbia sempre una grande adesione a livello di partecipanti, ma alla fine dal punto di vista pratico dei risultati raggiunti, non si registrano mai dati confortanti. Vi è sempre un forte divario tra la forma e la sostanza.

Come avremo modo di dire nel prosieguo, si deve ovviare alla fragilità internazionale attraverso il ricorso alla disciplina interna dei singoli stati membri; a questi spetta il gravoso compito di andare ad integrare, migliorare ed implementare la politica internazionale, la quale si manifesta attraverso documenti ufficiali, in particolare Convenzioni. I singoli stati devono essere in grado di realizzare un bilanciamento tra l’esigenza di rispettare le linee guida e gli indirizzi forniti a livello transnazionale e quella di trovare soluzioni che possano avere effetti diretti nei confronti di coloro da cui dipendono le sorti del pianeta: i cittadini e le imprese. Pertanto una soluzione valida può consistere nell’introdurre un sistema che permetta di individuare la responsabilità civile, penale ed amministrativa dei singoli soggetti che si sono resi colpevoli di aver violato la normativa circa la gestione e smaltimento dei rifiuti e sostanze pericolose.

Tuttavia gli sforzi dei singoli stati non sono sufficienti a poter garantire sempre il giusto escamotage ai problemi, spesso i paesi vengono lasciati soli in questa sfida improba, ma fortunatamente per i paesi europei, l’Unione rappresenta un organismo che più di qualunque altro a livello internazionale, è stata ed è in grado di anticipare i tempi, di essere sempre costantemente in sintonia con l’esigenza ambientale e per il fatto che le soluzioni imposte ai propri membri sono sempre efficaci dal punto di vista pratico. Un esempio lampante di questa straordinaria capacità emerge dal cosiddetto “sistema REACH” sulla registrazione, valutazione, autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche che è stato pensato ed introdotto dal Regolamento CE n. 1907 del 2006, che nasce dall’esigenza, ribadita dal preambolo, “di assicurare un elevato livello di

protezione della salute umana e dell’ambiente, nonché la libera circolazione delle sostanze”. Il regolamento prevede che l’intero sistema sia gestito e regolato dall’Agenzia chimica europea, alla quale spetta il compito di registrare tutte le sostanze chimiche prodotte dagli stati europei o da quest’ultimi importate, attraverso una valutazione circa

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la sussistenza di tutti i requisiti necessari per la registrazione; nel caso in cui si produca o si importi sostanze chimiche contenute in articoli, la registrazione è necessaria solo se vengono però rispettate due condizioni. Iniziando dalla prima, “le sostanze devono essere

contenute in tali articoli in quantitativi complessivamente superiori ad una tonnellata all’anno per produttore o importatore”16. Passando alla seconda, la sostanza deve essere

“rilasciata in condizioni d’uso normali o ragionevolmente prevedibili”. Per poter produrre o commercializzare nel mercato sostanze chimiche è necessario, secondo l’art. 5, procedere alle suddette registrazioni.

L’agenzia deve ricevere, inoltre, determinate informazioni circa le proprietà intrinseche, in particolare quelle fisico-chimiche delle sostanze prodotte o importate dagli stati. “Tali

informazioni devono essere rese note al pubblico e alle imprese, nell’ottica di condividerle e scambiarsi dati utili alla ricerca e alla sperimentazione ad essa relativa”17. Per questo che durante la procedura di valutazione circa la sussistenza dei

requisiti di registrazione, l’Agenzia può richiedere ai singoli per acquisire informazioni sulle proprietà intrinseche delle sostanze di svolgere dei test.

Ai nostri occhi, quello che ci rimane è un sistema di scambio di dati ed informazioni, apparentemente semplice, ma che in realtà nasconde una complessità non indifferente, in quanto la disciplina elaborata non è solo tecnico-amministrativa o legale, ma è

soprattutto tecnico-scientifica e per questo l’impresa di adeguamento richiede sforzi e costi aggiuntivi da parte dei produttori, i quali devono sostenere ingenti spese

economiche per realizzarli e per rimanere in linea con l’indirizzo europeo di riferimento. Nonostante ciò, questo sistema dimostra la già elogiata capacità europea di rappresentare un modello innovativo e allo stesso tempo valido anche per altri paesi extraeuropei. L’auspicio è quello che sempre più paesi esterni all’Europa si ispirino, o ancor meglio adottino questo stesso modello REACH, che anche se molto complesso e costoso, ha comunque portato a buoni risultati su un tema, quello delle sostanze pericolose, che è molto spinoso, perché incidente direttamente sulla salute umana e sull’ambiente. Prima di chiudere sullo smaltimento dei rifiuti pericolosi, vi è da analizzare una

problematica ancora irrisolta che è avvenuta alla luce a seguito del disastro dello scoppio di un reattore della centrale nucleare di Fukushima nel 2011 che ha portato alla decisione da parte del governo giapponese di rilasciare in mare un enorme quantitativo di acqua solo in piccola parte contaminata, in quanto utilizzata per raffreddare i reattori. Proprio questa attività ha fatto sorgere un dibattito a livello internazionale circa la possibilità per gli stati di versare materiale radioattivo direttamente in acqua.

Sul tema non esisteva alcuna fonte pattizia, (infatti la Convenzione sul Dumping si applicava solo allo scarico da parte delle navi), perciò “la soluzione andava ricercata nel

diritto consuetudinario internazionale, in particolare in alcune delle disposizioni di

16 Cfr. art. 7 del Regolamento CE 1907 del 2006.

17 F.MUNARI E L. DI PEPE, “Tutela transnazionale dell’ambiente”, Urbino per Arti grafiche editoriali, 2012,

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portata più generale contenuta nella CNUDM, a partire dall’obbligo di proteggere e conservare l’ambiente marino e fino ad arrivare alle norme circa l’inquinamento da terra”18. Certamente questi sono principi importanti, ma molto generali ed insufficienti per individuare una concreta soluzione. Quest’ultima ancora una volta è stata favorita dalle istituzioni europee; si tratta del Protocollo sull’inquinamento marino da fonti terrestri (1980) allegato alla Convenzione di Barcellona del 1976, modificata nel 1995. Il protocollo è importante perché prende in considerazione tutti i fattori terrestri che

incidono sull’ambiente marino, che sono “l’inquinamento originato da punti fissi o fonti

diffuse nel territorio, inclusi gli scarichi che raggiungono il mare attraverso fiumi o canali, le sostanze inquinanti che raggiungono il mare per via aerea, se originate sul territorio dei Paesi membri ed infine l’inquinamento originario da strutture artificiali sotto la giurisdizione di uno stato membro, a condizione che siano utilizzate per scopi diversi dall’esplorazione e lo sfruttamento”19. Inoltre, proprio a seguito degli scenari

derivanti dall’incidente esaminato in cui, nonostante siano state scoperte molte negligenze nel governo giapponese, si è agito per ragioni di emergenza.

Su questo aspetto è importante un altro Protocollo allegato alla Convenzione, che è quello circa la “cooperazione nella lotta operativa all’inquinamento del Mediterraneo

causato dal petrolio e da altre sostanze pericolose in situazioni di emergenza”. Si

impone ai singoli stati un dovere di collaborazione per l’adozione delle misure necessarie nelle situazioni emergenziali in cui vi è un pericolo grave ed imminente per l’ambiente marino. A tal fine lo stesso Protocollo prescrive agli stati di elaborare propri piani di intervento e gli strumenti per attuarli nelle fasi di assoluta criticità, come nel caso giapponese.

Infine anche la stessa Convenzione catalana, dà il proprio contributo alla materia, mantenendo il già elogiato “principio di precauzione”, ovvero che l’assenza di pareri scientifici su un tema, non può essere utilizzata come giustificazione per rinviare una disciplina o misure per farvi fronte. Sarebbe venir meno ad una responsabilità, che è invece fondamentale per la tutela dell’ambiente. Viene poi mantenuto anche il principio “chi inquina paga” che ha una grande efficacia deterrente per gli stati, che cercano sempre più di scoraggiare comportamenti anti-ambientali.

L’apporto europeo quindi rappresenta un’ottima soluzione e un modello di riferimento per altri ordinamenti e per risolvere situazioni tragiche come quella di Fukushima, in cui la velocità nel reagire e prendere decisioni con un’azione coordinata tra più stati, è l’unica strada percorribile. Quello che è mancato in questa vicenda.

Ritornando ai rifiuti in generale, per garantire l’operatività del divieto di abbandono dei rifiuti, ormai consolidato a livello generale in tutti gli stati, la direttiva introduce il principio di responsabilità estesa del produttore di rifiuti. Riprendendo le parole stesse dell’art. 8 tale principio serve “per rafforzare il riutilizzo, la prevenzione, il riciclaggio e

18 F.MUNARI E L. DI PEPE, “Tutela transnazionale dell’ambiente”, Urbino per Arti grafiche editoriali, 2012,

pag. 196

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l’altro recupero dei rifiuti” e far sì che ciascun “stato adotti misure legislative e non per

garantire il rispetto del principio in esame, anche utilizzando misure che possono includere l’accettazione dei prodotti restituiti e dei rifiuti che restano dopo l’utilizzo di tali prodotti, nonché la successiva gestione dei rifiuti e la responsabilità finanziaria per tali attività”20

In virtù sempre dello stesso principio, è data la possibilità agli stati di scegliere con propria discrezionalità se effettivamente istituire forme di responsabilità organizzativa e finanziaria in capo ai produttori o gestori dei rifiuti in tutte le fasi che caratterizzano “la vita” dei rifiuti stessi. In più gli stati sono legittimati a predisporre delle misure volte ad elaborare meccanismi che permettano di produrre oggetti e materiali che realizzano un basso grado di inquinamento e di sviluppare procedure di gestione e smaltimento degli stessi che riducano al minimo l’impatto ambientale. Ad esempio si possono produrre oggetti che possono essere riutilizzati più volte o costruiti con materiali che sono stati in precedenza riciclati, oppure realizzati in modo tale che siano biodegradabili o che possano essere riciclati a loro.

Tutte queste operazioni che riguardano la vita di ogni rifiuto, dal momento della loro produzione in avanti, sono comunque strumentali alla cosiddetta prevenzione dei rifiuti, cioè quell’attività rivolta a limitare la produzione dei rifiuti secondo l’art. 9. Questo prevede che “gli stati membri promuovono e sostengono modelli di produzione e

consumo sostenibili; incoraggino la progettazione, la fabbricazione e l’uso di prodotti efficienti sotto il profilo delle risorse durevoli, riparabili, riutilizzabili e aggiornabili; favoriscano il riutilizzo di prodotti e la creazione di sistemi che promuovano attività di riparazione o riutilizzo ed infine promuovano la riduzione del contenuto di sostanze pericolose in materiali e prodotti”. In materia di prevenzione dei rifiuti la direttiva in esame non è stata sufficiente, in quanto nel 2018 è stata abrogata e superata da una nuova direttiva (la n. 851) che prevede innanzitutto “misure volte a proteggere l’ambiente e la

salute umana evitando o riducendo la produzione dei rifiuti, gli effetti negativi della produzione e gestione dei rifiuti”. Questa direttiva è una di quattro adottate nel 2018 che hanno permesso di superare la direttiva sulla disciplina generale dei rifiuti (la n. 98 del 2008) e quella speciale sui rifiuti di imballaggio, discariche, apparecchiature elettriche ed elettroniche (cosiddetti RAEE) e rifiuti di pile e accumulatori. Tutti gli stati dovevano recepire la direttiva entro il 5 luglio 2020, in Italia ciò è avvenuto nel maggio del 2020.

4.2.2. Gestione delle acque nei porti

Terminata la disciplina sui rifiuti, è giunta l’ora di analizzare un argomento strettamente correlato a quello della gestione e smaltimento dei rifiuti, questo perché molti dei metodi utilizzati nello smaltimento degli stessi sono altresì utilizzabili anche per le acque e per il

20 Un appunto: “il principio di responsabilità estesa non opera solo il diritto di poter vietare nei confronti

del produttore, ma anche del detentore dei rifiuti; quest’ultimo non è solamente l’impresa che inquina e che lede il nostro diritto all’ambiente. Detentori dei rifiuti sono anche le persone fisiche in relazione alle quali si pone una specifica responsabilità di tipo ambientale a partecipare alla gestione dei rifiuti”.

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fatto che entrambi rientrano nelle priorità oggetto dell’azione sovranazionale verso l’economia sostenibile.

Si tratta della gestione delle acque all’interno dei porti, comprensivo anche della gestione degli scarichi dei liquidi delle navi. La necessità di parlarne, è dovuta al fatto che i porti non garantiscono un ricircolo ed un ricambio continuo delle acque, perciò gli scarichi delle navi, i residui delle attività portuali e di manutenzione delle imbarcazioni, le piogge acide provenienti dalle zone limitrofe al porto, rendono l’acqua dello stesso alquanto inquinata con conseguenze negative per l’habitat marino e terrestre.

L’argomento della gestione delle acque nei porti impone subito la necessità che si risolvano alcune problematicità che si riflettono sull’equilibrio del porto. Una prima minaccia allo specchio d’acqua portuale è rappresentata dallo scarico nel porto da parte delle navi delle acque di zavorra delle stesse, ovvero sia le acque incamerate dal natante per poter galleggiare in modo corretto sia durante la navigazione che durante le fasi di stazionamento, come per le operazioni di carico e scarico.

Sul tema si può ravvisare un interesse internazionale rappresentato dalla Convenzione di Londra (Ballast Water Treatment System) del 2004 sulle acque di zavorra delle navi e dei sedimenti. Questa è entrata in vigore da poco, solo nel 2017; essa parte dal presupposto secondo cui le acque di zavorra trasferiscono nel porto e nel mare agenti patogeni ed organismi acquatici nocivi con conseguente danno all’ecosistema marino nel suo complesso. Si sottolinea come di fatto, gli stati abbiano già sperimentato tecniche per prevenire e limitare i rischi di danni ambientali; sebbene questi sforzi siano positivi, non si può non avere una visione più ampia e comune che comprenda soluzioni condivise tra tutti gli stati aderenti, in particolare optando per modelli e linee guida per rendere tali azioni uniformi ed efficaci allo stesso tempo.

Proseguendo, la stessa Convenzione fornisce alcune nozioni interessanti per poter organizzare un discorso circa le soluzioni concrete al fenomeno. Per acque di zavorra “si

intendono le acque e il particolato in sospensione caricate a bordo di una nave per controllarne l’assetto longitudinale e trasversale, il pescaggio, la stabilità o le sollecitazioni cui è soggetta la nave”21; per quanto concerne, invece, la gestione delle

acque di zavorra si “intendono i processi meccanici, fisici, chimici e biologici utilizzati,

sia singolarmente che combinati, per eliminare, rendere innocui, o evitare di prendere o scaricare gli organismi acquatici nocivi e gli agenti patogeni presenti nelle acque di zavorra e nei sedimenti” (art. 1). Quest’ultimi insieme agli organismi nocivi se introdotti nel mare, possono mettere a repentaglio l’ambiente, la salute umana, i beni o le risorse, pregiudicare la diversità o intralciare ogni altra utilizzazione legittima di tali ambienti. La Convenzione una volta chiarito ciò, ripone negli stati la propria fiducia affinché questi eseguano le disposizioni in essa contenute per limitare l’espulsione di agenti ed organismi patogeni. Questo non è sufficiente, si richiede uno sforzo maggiore, a tal fine si sottolinea che “le parti dovrebbero accertarsi che le pratiche di gestione delle acque di

21 Cfr. art. 1 Convenzione di Londra del 2004 per il controllo e la gestione di acque di zavorra e dei

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zavorra non comportino maggiori danni di quelli che esse prevengono per il loro ambiente, la salute umana, i beni o le risorse oppure per quelli di altri stati” (art. 2). Si richiede perciò un’attenzione costante in capo agli stati affinché non si limitino ad un comportamento passivo di adeguamento alla Convenzione, ma si evolvano

continuamente in vista dell’eliminazione di questa minaccia ambientale, muovendosi oltre le disposizioni internazionali che rappresentano solo indirizzi e orientamenti per gli stati, cui spetta l’ultima decisione circa le misure da adottare.

Vige perciò un divieto generale di scarico nel mare, che può essere derogato nelle ipotesi previste dalla regola 8 dell’annesso IV, ovvero quando “la nave scarica liquami triturati

e disinfettati a distanza di almeno 4 miglia nautiche dalla costa o quando scarica

liquami non triturati o non disinfettati a distanza di almeno 12 miglia dalla costa, purché i liquami siano stati conservati in appositi serbatoi. Infine, quando la nave utilizzi un impianto di trattamento delle acque reflue approvato che è stato certificato

dall’Amministrazione per soddisfare i requisiti operativi previsti dalla regola 9 dell’annesso IV”.

Fatta questa precisazione sulle deroghe al divieto, un ulteriore impegno che la

Convenzione richiede ai singoli membri, consiste nel dovere di cooperazione tra gli stati per “far fronte alle minacce e ai rischi che gravano sugli ecosistemi marini sensibili,

vulnerabili o in pericolo e sulle diversità biologica, in zone situate al di là dei limiti della giurisdizione nazionale”22. In virtù di questo, il singolo stato è tenuto ad impegnarsi a

predisporre una strategia a livello nazionale, più in particolare un piano gestionale che permetta di ridurre al massimo il rischio di un fenomeno molto pericoloso come quello sotto esame. Ogni nave è tenuta infatti ad elaborare tale piano, necessariamente

approvato dal governo del singolo stato e deve contenere almeno alcune indicazioni previste dal regolamento B1, allegato alla Convenzione: le procedure di sicurezza per la nave e l’equipaggio, la descrizione dettagliata delle misure da adottare per far fronte ai requisiti fissati dalla stessa e le procedure per lo smaltimento dei sedimenti in mare o a terra.

Pertanto ogni imbarcazione è tenuta a mantenere per un periodo di tempo non superiore a due anni un registro sulle acque di zavorra in cui vengono inserite ogni operazione di scarico svolta, corredata dalla firma dell’ufficiale responsabile delle stesse.

Passando invece all’aspetto pratico, per quanto riguarda le soluzioni tecniche messe in campo dal regolamento D1 correlato al B4 per ridurre il rischio di scarico di acque di zavorra, si prevede che, “se possibile, ciascuna nave debba procedere allo scambio delle

acque di zavorra ad almeno 200 miglia nautiche dalla terra più vicina ed in acque di almeno 200 metri di profondità”. Se ciò non è possibile, “le operazioni si svolgono

quanto più lontano dalla terra più vicina, comunque ad almeno 50 miglia nautiche dalla costa e in acque di almeno 200 metri di profondità”. Il rispetto di tutti questi standard è fondamentale per la riduzione del rischio di alterazione dell’ambiente marino, tanto che

22 Cfr. art. 2 Convenzione di Londra del 2004 per il controllo e la gestione di acque di zavorra e dei

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anche a livello europeo, l’Agenzia europea per la sicurezza marittima ha istituito un’apposita guida che permette di verificare attraverso ispezioni e controlli che le navi rispettino la Convenzione internazionale di Londra. Ciò rientra nello spirito di

quest’ultima, la quale prevede la necessità di tali verifiche prima che la nave diventi operativa, all’esito delle quali la nave ottiene una certificazione. Sono possibili

successive ispezioni di conformità alla Convenzione in ogni porto o terminale da parte di appositi funzionari, prelevando anche campioni di acqua incamerata dall’imbarcazione. Per concludere sulle acque di zavorra, la Convenzione impone alle singole parti “di

garantire che in ciascun porto o nei terminali da essa designati, nei quali avvengono la pulizia e le riparazioni delle cisterne per l’acqua di zavorra, siano presenti adeguati impianti predisposti per la raccolta dei sedimenti che tengano conto delle linee guida elaborate dall’organizzazione”.

Strettamente connessa con la gestione dei rifiuti (come ribadito dalla direttiva 59/2000) e dell’acqua, vi è la problematica circa la raccolta dei residui del carico, ovvero i residui che restano dopo le operazioni di lavaggio di cisterne o delle parti interne dello scafo o dopo il carico e lo scarico, comprensivo anche di eventuali eccedenze o fuoriuscite. La stessa normativa del 2000 ha previsto al riguardo che il “comandante di una nave che fa

scalo in un porto europeo garantisce che i residui del carico siano conferiti ad un impianto di raccolta dei rifiuti in base alle disposizioni della Convenzione MARPOL 73/78. Ogni tariffa per il conferimento dei residui del carico viene pagata da chi utilizza l’impianto di raccolta”.

Ad integrare ciò, si deve porre l’attenzione verso l’annesso II della Convenzione MARPOL che “vieta la dispersione delle sostanze ottenute dalla pulizia di cisterne o

acque di zavorra, che se scaricate in mare causano danni via via minori alla salute, all’ambiente e all’attrazione dei luoghi”. Anche qui vige un divieto generale, ma sempre derogabile nelle ipotesi previste dalla “regola 5”, che vanno dalla velocità minima con cui deve procedere la nave, che deve essere superiore a 7 nodi, ai quantitativi di scarico che devono essere approvati dallo stato di bandiera per arrivare al fatto che le navi scarichino oltre le 12 miglia nautiche dalla costa.

Un ultimo aspetto da analizzare sulla gestione delle acque riguarda le operazioni di scarico delle acque industriali da parte dei cantieri navali e industrie che operano nelle adiacenze del porto. Per quanto riguarda la disciplina di questa materia, la troviamo principalmente nel nostro ordinamento nel d.lgs. 152 del 2006 che regola a livello molto generale la materia degli scarichi (manca infatti una disciplina dettagliata al riguardo). Questi sono “disciplinati in funzione del rispetto degli obiettivi di qualità dei corpi idrici

e devono comunque rispettare i valori limite fissati da regolamenti specifici”. Questo vale anche per le acque reflue industriali che sono scaricate in acque superficiali come quelle del porto. Per poter scaricare è necessario ottenere una specifica autorizzazione; una volta ottenuta, dopo che sono stati positivamente accertati i requisiti, le varie autorità competenti svolgono l’attività di supervisione, effettuando al riguardo ispezioni circa l’effettivo rispetto della normativa sui limiti di emissione. Possiamo dunque dire che a

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livello generale, tutti gli impianti industriali adiacenti all’infrastruttura portuale,

comprensivi anche dei cantieri, stanno producendo forti impatti a livello ambientale tanto da essere sottoposti ad un sistema di prevenzione e riduzione dell’inquinamento. Questi impatti nocivi all’ambiente circostante sono ulteriormente aggravati dal fatto che i porti e i luoghi adiacenti scaricano le acque utilizzate per il funzionamento degli impianti (acque cosiddette produttive) e che questi luoghi siano destinatari dello scarico delle cosiddette acque meteoriche, cioè le acque di pioggia che precipitano sull’intera superficie

impermeabilizzata (ovvero quella parte comprensiva di piazzali, aree di sosta , di carico e di scarico scoperte) attigua all’impianto di scarico delle acque.

L’ultima problematica da affrontare circa lo smaltimento delle acque reflue, riguarda in realtà una possibile soluzione a quest’ultime, che è rappresentata dalla possibilità di fare ricorso a sistemi di depurazione portuale. Ciò è di rilevante importanza, specie

considerando che le sostanze oleose (come gli idrocarburi) che galleggiano sulla superficie acqua rappresentano una minaccia estremamente pericolosa per gli esseri viventi che la abitano, in quanto impedisce all’aria di ossigenare l’acqua, non

consentendo perciò la sopravvivenza di tutte le forme di vita. Il tutto si aggrava dal fatto che l’acqua, anche nel lungo periodo, non è in grado di poter smaltire tali sostanze viscose, specialmente se sono in grande quantitativo, perciò i danni provocati da tali sostanze nocive, si propagano colpendo anche gli organismi che si trovano sul fondale. Di fronte a questa situazione, non è facile individuare il giusto escamotage tecnico, anche perché non è possibile depurare tutta la superficie acquea del porto, occorre di

conseguenza avere in mente un programma strategico specifico e allo stesso tempo efficiente e sostenibile. Interessanti sono le soluzioni prospettate da Luigi Antonio Pezone, noto ingegnere, secondo il quale occorrerebbe “una piccola e continua corrente

d’acqua verso la banchina lato terra tramite la creazione di un canale sottostante alla banchina stessa, nel quale si raccoglierebbero le acque di sfioro superficiali mediante delle soglie di sfioro regolabili con motorizzazione; posizionare nel suddetto canale elettropompe idrovore dimensionate per la presunta portata di sfioro; collegare le estremità dei canali ad un depuratore dell’acqua, realizzato secondo la tecnica dei depuratori coperti che evitano eccessivi ingombri e che possono svilupparsi sia sulla terra ferma che nel mare fuoriuscendo dall’area portuale e scaricando le acque depurate direttamente nel mare; infine realizzare un impianto di ventilazione interrato lungo il percorso degli automezzi in fila, al fine di aspirare le emissioni gassose e convogliarle verso bacini coperti, da dove l’aria sarebbe ripresa da elettrosoffianti per essere utilizzata per il trattamento di ossidazione del bacino, venendo a sua volta depurata nel processo”.

Questa soluzione offertaci, è sicuramente innovativa, ma allo stesso modo efficace soprattutto come strategia prevenzionistica, che appare fondamentale per arginare una minaccia, che se non controllata alla base, può essere davvero problematica e disastrosa per l’ecosistema.

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Il dragaggio dei porti è una sfida fondamentale per poter rendere sempre più operativi i porti, accrescere i traffici e perciò l’economia delle città. È una problematica

continuamente al centro dell’attenzione di qualsiasi politica ambientale e che possiamo definire “del tutto coerente con i dogmi della cosiddetta economia circolare, volta cioè a

massimizzare il riutilizzo delle risorse naturali ed ambientali in funzione di soddisfare i bisogni produttivi e di sviluppo dei sistemi economici”.23 I porti proprio perché il moto

ondoso accompagnato dalla forte salinità dell’acqua agiscono sugli elementi solidi che trovano sul loro cammino, accumulano moltissimi detriti che costituiscono una massa fangosa che può ostruire o danneggiare lo scafo delle imbarcazioni che fanno il loro ingresso nel porto. Ovviamente l’obiettivo che si intende risolvere non è solo quello della tutela dell’ecosistema marino, ma anche quello di sicurezza per il traffico marittimo in entrata o uscita.

Emerge qui a gran voce il fatto che la sicurezza sia il rovescio della medaglia della tutela ambientale, un connubio che deve sempre sussistere, affinché i porti possano

incrementare l’economia non perdendo di vista la tutela della vita umana e dell’ambiente in cui si vive. Passando all’aspetto tecnico dell’operazioni di dragaggio, queste

consistono in forme di escavazione dei detriti mediante l’utilizzo di navi da draga, le quali aspirano dal fondale per mezzo di tubazioni idrauliche tutto il materiale

accumulatosi nel tempo. Il vero problema a livello di inquinamento è sì dato dagli effetti che derivano dal raccogliere gli accumuli, ma anche come debbono essere smaltiti ed eventualmente riutilizzati per altri impieghi, ad esempio come riempimento delle spiagge o come materiale edilizio. L’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) evidenzia il fatto che l’attività di dragaggio sia molto positiva per approfondire la quota del fondale.

Dall’altro lato tali operazioni comportano effetti negativi sull’ecosistema marino, in quanto ne deriva un forte aumento della torbidità delle acque dovuta alla risospensione dei sedimenti, il che comporta una temporanea riduzione della quantità d’ossigeno nell’acqua con pericolo per la vita degli organismi marini. Talvolta gli effetti negativi (secondo ISPRA) si ripercuotono anche sulla qualità dell’aria perché si realizza il

sollevamento ed il trasporto aereo del particolato, cioè del materiale dragato, emissioni di gas di scarico dei macchinari utilizzati o il rumore provocato dagli stessi. Queste sono tutte esternalità minori e limitate a livello di impatto ambientale rispetto a quelle concernenti la qualità dell’acqua, anche se le stesse possono essere aggravate dal fatto che i macchinari possono espellere, per effetto di perdite, combustibile o sostanze tossiche o viscose (come oli).

Passando, invece, al problema dello smaltimento dei sedimenti del suolo subacqueo, ci viene incontro la normativa internazionale e nazionale. A livello sovranazionale si deve ricordare il Protocollo di Londra del 1996 (LP) all’allegato 1 che autorizza gli stati a scaricare il materiale del dragaggio. Nonostante il benestare del protocollo allo scarico, si devono perseguire tutti gli sforzi possibili per limitare la necessità di ricorrere a questa

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