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Roma: da Fellini a

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Roma: da Fellini a La grande bellezza

Il cinema italiano negli anni è stato più volte utilizzato come testimonianza dell’evoluzione della società circostante. Uno strumento che è divenuto fonte di ricerca in diversi ambiti, con un occhio di riguardo nell’indagine topologica. Utilizzando le immagini della storia del cinema italiano, si può catalogare e riconoscere una collezione di momenti, situazioni, simboli e luoghi attraverso i quali, è possibile ricostruire in parte la storia dell’evoluzione del nostro territorio. Un fenomeno che si concentra maggiormente dopo il secondo conflitto mondiale, passando per il boom economico, fino ad arrivare ai nostri giorni. Nei cineasti nasce il bisogno di informare e di testimoniare la visione della società contemporanea, ma verso la fine degli anni Novanta, questa esigenza sembra aver perso valore nella cinematografia italiana. Negli anni Ottanta, infatti, si apre per il cinema del nostro paese una crisi produttiva, e quindi creativa, che ha avuto effetti sulle rappresentazioni. Un periodo di decadenza, nella quale sono emersi dei registi che non hanno rinunciato a dare testimonianza dell’evoluzione del nostro territorio e della società odierna.

[…] La scoperta e l’interesse verso la nuova forma espressiva coincide con il fermento creativo da cui, in quelle stagioni, il cinema italiano è interessato. Sono gli anni, infatti, in cui nel panorama del cinema nazionale si affaccia alla ribalta una nuova generazione di autori che sembra dar vita a un “giovane”, o comunque “altro e diverso” cinema: un cinema che cerca di disincagliarsi dalle secche espressivo – produttive di gran parte

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110 degli anni Ottanta, di levare le ancore e gonfiare le vele

lasciandosi alle spalle quel vuoto sconfortante e gli abissi della mediocrità in cui la produzione filmica nazionale era piombata nei lustri precedenti, pur seguendo rotte non definite né tracciate o programmate1.

Una storia, dunque, quella della nostra industria cinematografica, che va a braccetto con la storia del nostro Paese. Uno dei maggiori “oratori” dagli anni Cinquanta è stato Federico Fellini, che con i suoi film ha rappresentato meccanismi e dinamiche delle tappe dell’evoluzione del paese concentrando lo sguardo soprattutto sulla capitale, divenuta la sua città adottiva. Una città che è stata più volte scelta, da molti registi, come luogo in cui ambientare le proprie pellicole. Fellini, nello specifico, ha raffigurato nei suoi lavori, non solo i momenti di ricostruzione, industrializzazione ed esplosione delle periferie urbane, ma anche associato la condizione della società e del singolo, in una situazione di stallo per tutti gli italiani. Spesso questi mutamenti sono divenuti topoi classici dell’immaginario comune, grazie alla potenza dei suoi film. Il cinema del regista riminese si definisce modernista, riaffermando le prerogative di controllo e manipolazione dell’attenzione e dello spettatore, senza però tralasciare la sottile prospettiva postmoderna che sembra volere mettere in luce come lo spettatore è capace di divenire “editor” di sè stesso. In questo modo il regista fornisce sia una creazione artistica, che una critica al valore di tale operazione. Le sue opere hanno tratti autobiografici, raccontano la storia del nostro paese, attraverso eventi che il regista, molte volte, ha sentito, visto o, addirittura, vissuto. Sono storie che

1 F. Vigni, La maschera, il potere, la solitudine. Il cinema di Paolo Sorrentino, Firenze, Aska, 2014, p. 18.

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111 vogliono porre l’accento sulla diversità apparente dei vari stati sociali, che coesistono nello stesso luogo e non possono fare a meno l’uno dell’altro.

Forse proprio perché affascinati da questa idea di fare cinema, alcuni giovani artisti contemporanei hanno deciso di intraprendere la settima arte e raccontare l’uomo dei nostri giorni e la realtà circostante. Tra questi spicca Paolo Sorrentino che con le sue pellicole ha dato testimonianza della società logorata e decadente dei nostri giorni, attirato a sè il mondo della critica.

3.1 Un maestro chiamato Fellini

Diversi i termini di paragone che più volte sono stati utilizzati tra l’opera di Paolo Sorrentino La grande bellezza, e quelle di Federico Fellini. Quest’ultimo è spesso preso a modello soprattutto per le idee che riguardano il suo sviluppo nel campo della cinematografia, una svolta che non si sofferma solo al suo modo di fare cinema, ma che influenza tutta l’industria cinematografica italiana. Infatti, il regista riminese, con La dolce vita segna un cambio nel suo modo di fare cinema che approfondisce con le pellicole successive. Roma, 8 ½ e Intervista, sono di sicuro alcuni dei film che indubbiamente hanno influenzato e ispirato Sorrentino e il suo lavoro. Lavoro, che è considerato innovativo dai i critici contemporanei. Il film di Sorrentino, spesso, fa ritornare alla mente, in diversi momenti, le pellicole di Fellini, ma questo non vuol dire che sia un remake, o la brutta copia dei suoi film, come spesso è stato definito. Di seguito, è riportata l’analisi del confronto tra l’opera di Sorrentino e quelle di Fellini. Uno studio basato sulle

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112 analogie riscontrate tra le opere prese in esame, prendendo come punto di riferimento l’influenza cui è stata soggetta La grande bellezza e non in base alla loro prima proiezione nelle sale cinematografiche.

3.1.1 La dolce vita VS La grande bellezza

Uno tra i film, di Fellini, in cui si trova maggiore assonanza, indubbiamente è La

dolce vita. Un film che ha segnato un cambiamento nel cinema del regista

riminese. Una pellicola che è divenuta un nuovo punto di partenza per tutto il cinema italiano. I due cineasti condividono, nonostante la distanza di sessant’anni, un’idea di cinema come territorio di esplorazione visionaria e surreale. Sia ne La

dolce vita che ne La grande bellezza ogni singolo particolare è significativo.

Federico Fellini e Paolo Sorrentino non hanno lasciato nulla al caso durante la stesura delle loro opere, né tanto meno durante la loro messa in scena. Due registi che prima di cimentarsi nelle loro rispettive pellicole, si sono “spogliati” di tutto quello che li poteva coinvolgere nella composizione dell’opera cinematografica, così da immedesimarsi nello spettatore facendogli scoprire nuovi ambiti dell’animo umano. Entrambi hanno deciso di ritrarre Roma, la coprotagonista delle pellicole, sotto un profilo nuovo insolito, osservando non solo la città, ma soprattutto chi la vive. Roma è vista come da un turista ammaliato dalla città eterna. Un luogo in cui convivono la borghesia, il clero e la nobiltà, che si lascia trascinare dagli eventi, e dalla moda. I due cineasti mettono in scena la loro realtà contemporanea, una visione non così distante, nonostante La dolce vita ritrae la

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113 Roma del boom economico, mentre La grande bellezza quella decadente del nostro periodo. Una società che mescola il sacro con il profano che si perde e non riesce più a trovare la strada del ritorno. In entrambe le pellicole emerge una Roma di straripante grandiosità e malinconia, antica ma moderna, nobile ma volgare, solenne ma miseranda2. Ne La dolce vita il regista rileva l’impossibilità e

il fallimento dei propri personaggi di sperimentare una conversione. In questa pellicola si mette in scena uno spettacolo multiplo, l’espressione di una cultura onnivora con una grande fame arretrata di esperienze negate3. Mentre Sorrentino si focalizza su un ambiente caratterizzato da scorci di personaggi e una babele di linguaggi diversi, in cui Jep si fa osservatore distaccato. Fellini nella sua opera mette in scena come un “diario notturno”, di un personaggio qualunque di mezza strada tra il gusto e il disgusto per l’ambiente in cui vive4. I due protagonisti sono

simili ma allo stesso tempo molto diversi. Poiché Marcello, rappresenta un personaggio che fin da subito si mostra sensibile, e aspira una vita diversa. Si scorge già dalle prime scene il suo sentirsi inadatto alla realtà che lo circonda. Marcello cerca di attorniarsi da persone importanti della società “in” di Roma, alle quali vorrebbe cercare un aiuto che non possono dargli, finendo così a mescolarsi in un turbinio di gente cercando di capire chi è lui, e la strada da intraprendere. Ben diversa è la descrizione di Jep, fin dalle scene iniziali, è raffigurato come un cinico, come il re dei modani.

2 F. Vigni, La maschera, il potere, la solitudine. Il cinema di Paolo Sorrentino, Firenze, Aska, 2014, p. 204.

3 T. Kezich, Federico Fellini, la vita e i film, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 202. 4 Ivi, p. 200.

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114 Io non volevo essere, semplicemente, un mondano. Volevo

diventare il re dei mondani. E ci sono riuscito. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire5.

Il suo personaggio appare sicuro di se, solo durante il film si scopre il lato sensibile e i dubbi che lo assalgono. I due film sono molto simili nella trama, ma anche nella concatenazione delle scene. Sia La dolce vita, che La grande bellezza, sono caratterizzati da un montaggio complesso, episodi a tratti frammentari che si alternano ad altri completi che balenano solitari e splendenti durante la pellicola. I diversi episodi hanno una funzione simbolica, che per Marcello rappresentano le vie offertegli per arrivare alla pace con sè stesso e con il mondo: ma sono tutte strade da cui non trova via di uscita. Differente per Jep che si ritrova a far i conti con il passato, riuscendo a riflettere e a ritrovare la sua sensibilità, che sembrava perduta.

Sono forti gli echi che richiamano al capolavoro degli anni Sessanta, anche in alcune scene. Rappresentativa la sequenza che inquadra la scala a chiocciola, in entrambe le pellicole, intimando nello spettatore un senso di vuoto e in ambedue i casi sono preludio di morte. Ne La dolce vita è ripresa poco prima della scoperta del suicidio di Steiner. Marcello sale di corsa questa scala tortuosa fino ad arrivare davanti alla porta di casa dell’amico di vecchia data. Una scena che segna una svolta nell’animo del protagonista che ritorna a smarrirsi. Anche ne La grande

bellezza lo spettatore si trova di fronte alla stessa inquadratura, la scala ripresa dal

basso, ma non c’è quella tensione che si percepisce nell’opera di Fellini. Anche in questo caso l’inquadratura segue una brutta notizia: la morte di Elisa, il grande

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115 amore di Jep Gambardella. Una scena inaspettata che vede il protagonista piangere come un bambino e lascia nello spettatore sbigottito e con un senso di vuoto interiore. Proprio da questa sequenza cambia la visione del pubblico nei confronti del protagonista, riemerge il suo lato umano, quello debole che ha cercato sempre di nascondere. Altre scene sembrano rifarsi alla pellicola di Fellini come ad esempio il circolo d’intellettuali a casa di Steiner, in cui erano presenti letterari, musicisti gente che voleva cambiare il mondo stando comodamente seduti a discutere nei salotti. Così anche Sorrentino propone il suo “cenacolo”, ma non più formato da letterari, ma dalla gente mondana di Roma che discute del più e del meno, finendo a parlare di cose vacue, pettegolezzi, sciocchezzuole6,

consapevoli delle loro fragilità e debolezze. Punti in comune che non si limitano solo ai temi delle scene, ma anche nella realizzazione delle inquadrature. Infatti, sia nell’opera di Fellini che quella di Sorrentino, sono presenti dei quadri molto simili. Tra tutte la falsa soggettiva è forse quella più significativa. Infatti, tutti e due i registi, hanno deciso di utilizzare questa inquadratura, per sottolineare un momento clou del film. Ne La dolce vita è adoperata, nel momento in cui Marcello, con Emma entra per la prima volta a casa Steiner. Un episodio che immette il protagonista in un ambiente da lui sempre ammirato, ma che ben presto scoprirà che è pieno di vacuità. Mentre Sorrentino si avvale della scelta di una falsa soggettiva, per rendere più efficace l’azione introspettiva nei confronti del protagonista. La scena si svolge all’interno del Chiostro del Bramante, in cui si sente la voce di una bambina che domanda a Jep chi è, e la sua stessa risposta che gli dice che è nessuno. Un episodio che colpisce l’animo del protagonista.

6 Ivi, p. 78.

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116 I due film hanno in comune un tipo di linguaggio cinematografico sontuoso e barocco. Una scelta che evidenza ancora di più tutte le bellezze di Roma, i luoghi principali visitati dai turisti, ma anche Via Veneto, una delle vie maggiormente frequentate dalla società mondana. Un’ambientazione questa, che, più volte, ha posto i due colossi del cinema italiano come il primo continuazione dell’altro. In realtà, nei due film sembrano due vie completamente diverse. Ne La dolce vita è raffigurata una strada piena di gente importante, dove da un lato sono presenti i vip e dall’altro i giornalisti e i fotografi pronti a immortalare una rissa, o un bacio rubato. Uno scenario che non combacia con quello presente ne La grande

bellezza. La scena riprende Jep mentre cammina solo con le mani dietro la schiena

osservando le vetrine dei locali e una limousine con gente altolocata della società romana, accompagnata da delle escort.

Una sostanziale differenza tra i due registi sta nell’idea di realizzazione dell’opera. Fellini basa i suoi racconti per lo più su eventi realmente accaduti che danno vera testimonianza del mondo che lo circonda, di un’Italia a volte soprafatta dal boom economico. Mentre con La grande bellezza ci troviamo di fronte a un’opera del tutto immaginata dove ogni singolo personaggi, ogni episodio è stato studiato nei dettagli, arrivando quasi a esasperare la situazione e la realtà che lo circonda. È evidente come ambedue i registi hanno deciso di dare un ritratto agrodolce, ma essenzialmente comicheggiante della vita “in” del loro tempo. Non hanno tralasciato nulla al caso e ciò si nota anche nella cura dei dettagli, dalla stravaganza e dalla particolarità degli abiti indossati dalle protagoniste femminili. Basti pensare all’abito talare di Anita Ekberg e al

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117 soprabito di Sabrina Ferilli con un ampio rivolto che le fascia il collo e avvolge parte della testa.

In conclusione si può affermare che La dolce vita è il manifesto di quella che si potrebbe chiamare “la seconda liberazione”, contrassegnata agli inizi degli anni Sessanta, che rifiuta ogni schema moralistico nel giudicare eventi e personaggi. Una scelta simile viene sviluppata da Sorrentino, poiché anche lui volge lo sguardo alla vuotezza su cui si basa la società borghese di oggi.

3.1.2 Roma VS La grande bellezza

Un altro film spesso usato come termine di paragone con La grande bellezza è

Roma. Fellini sia in quest’opera che ne La dolce vita, propone delle immagini

dilatate e barocche, che riprendono la realtà che lo circonda, ma con la differenza che in Roma, raffigura una società già dentro un futuro più nevrotizzante e pauroso, tali che neanche un “visionario” come Fellini potesse immaginare7. Un

film che ruota intorno all’idea di fondo che la spiegazione del presente deve venire dal passato, e viceversa. In questa pellicola è possibile cogliere un lieve filo narrativo legato alle memorie personali, come ad esempio, l’infanzia in provincia con tutti i discorsi su Roma, o l’arrivo alla Stazione Termini8. Fellini, rievocando

anche il passato, si propone di affrontare un film sulla Roma moderna, osservando le cose da un punto di vista nuovo9. Il tema è, quindi, la vita della città di Roma,

un argomento che inevitabilmente è sviluppato anche da Sorrentino, facendo

7 T. Kezich, Federico Fellini, la vita e i film, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 297. 8 Ivi, p. 295.

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118 riferimento ai nostri giorni. Entrambe le opere, sono sviluppate dai registi, attraverso lo sguardo dei protagonisti. Sia, in Roma, che ne La grande bellezza, si racconta una città con gli occhi di un turista, che si trasferisce dal paese di provincia, per andare nella grande metropoli. In questi due film emerge la visione di Roma come una città illusoria, ma allo stesso anche un grande luogo turistico. In Roma, Fellini, dà un’immagine della città eterna, come una figura femminile con tratti tipicamente materni. La stessa idea che sviluppa Sorrentino, ma in modo diverso, sottolineando come sia difficile vivere in un luogo così eterogeneo, spesso anche per chi c’è nato. Il regista ne La grande bellezza, mostra l’incapacità di vivere nella capitale sia di Romano, amico di Jep, proveniente anche lui da un piccolo paese di provincia, sia di Ramona, nata e vissuta nella città, che allo stesso tempo ama e odia. Loro rappresentano le due vittime di Roma, la grande mamma che accoglie tutti, ma che non si occupa dei propri figli. Un’immagine di madre che rimanda alla sessualità, presente in entrambe le opere. In Roma quest’aspetto è prorompente, e continuo, dalla moglie del dentista che approfitta del buio della sala cinematografica per farsi toccare dal suo amante, oppure la continua visione delle prostitute. O ancora, la visone dei bordelli che, per Fellini sono, dei veri e propri, punti d’incontro, dove gli uomini si ritrovano non alla ricerca di un rapporto sessuale di natura perversa, ma di un rapporto deresponsabilizzato10.

Sorrentino racconta una sessualità diversa, di un uomo che può avere tutte le donne “ai suoi piedi”, ma dopo aver compiuto sessantacinque anni, arriva alla consistente scoperta che non può «più perdere tempo a fare cose che non mi va di

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119 fare»11, quindi è alla ricerca di quel rapporto già vissuto durante la sua adolescenza per Elisa.

Anche in questa pellicola di Fellini la città eterna diventa inevitabilmente coprotagonista. Infatti, Roma, così come già in precedenza La dolce vita, presenta un contributo unico dato alla storia della mitologia della città, uno dei punti di raccolta principali d’idee, immagini e miti di tutta la cultura occidentale. Il regista utilizza la città antica e quella moderna come “fondale” per dimostrare che, secondo lui, la creazione di miti da una parte, e d’immagini dall’altra, sono archetipiche della mente umana, e che la liberazione dell’artista nell’atto creativo sia l’ultima e definitiva forma di libertà12. Un’idea che viene in parte ripresa anche

da Sorrentino, con la visione della città dal belvedere del Gianicolo già dalla prima scena, o la visione del Colosseo dalla terrazza di Jep, per poi passare alla visita notturna dei palazzi storici di Roma. Scenari che ricongiungono la storia antica della capitale, con la società contemporanea, che troppo spesso cozzano tra di loro.

Uno degli aspetti forse più importanti è il ruolo, che nelle due opere, ha la visione del protagonista da bambino. Fellini rievoca il passato fin da subito, cercando di far immedesimare lo spettatore su quello che voleva dire “Roma”, negli anni del secondo conflitto mondiale. L’opera ha inizio con i ricordi del regista di quando era piccolo, che vedeva la capitale come luogo di grandi opportunità e di benessere. In modo diverso troviamo queste sequenze anche in Sorrentino. Cambia sia il senso sia lo sviluppo della scena. Il regista sceglie di montate con una dissolvenza i ricordi del protagonista da fanciullo, così da enfatizzare ancora

11 P. Sorrentino, U. Contarello, La grande bellezza, Milano, Skira, 2013, p. 58. 12 P. Bondanella, Il cinema di Federico Fellini, Rimini, Guaraldi, 1994, pp. 218/221.

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120 di più il suo stato d’animo. Ricordi che fanno riferimento a momenti felici della sua vita in un paese di provincia.

La struttura della pellicola di Fellini è suddivisa in capitoli, in cui ogni sequenza ha un ruolo fondamentale. Una suddivisione tipica del regista riminese, ma di certo in questa pellicola utilizza una forma più frammentaria, sgangherata e confidenziale. Una suddivisione che accomuna i due artisti. Infatti, anche Sorrentino ha impostato la sua opera cinematografica in episodi, che a volte disorientano e altre, invece, aiutano lo spettatore, nell’immedesimazione del protagonista.

3.1.3 8 ½ VS La grande bellezza

Un altro termine di paragone viene naturale farlo con il film8 ½, di Federico Fellini. Un film che racconta di un uomo al gaudio dei quarant’anni che interrompe il ritmo della sua esistenza con una cura termale. Immerso in una specie di limbo fatto di fanghi e vapori, ripensa ai casi suoi, si confronta con gli altri, riceve le visite sovrapposte della moglie e dell’amante, non riuscendo a sottrarsi agli impegni lavorativi. Il protagonista Guido Anselmi, interpretato da Marcello Mastroianni, raffigura lo stesso regista, raccontando la sua vita, i suoi sogni e le sue preoccupazioni. In questa opera Fellini ha messo in gioco la sua coscienza, i segreti inconfessabili, e la drammaticità di fare un film, il dubbio dell’impotenza creativa, il gran carnevale del cinema13. Questo film è innovativo

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121 poiché Fellini si mette a nudo, rinnovando così l’efficacia dell’uomo di spettacolo. La pellicola coniuga il carattere onirico, a un’analisi autoriflessiva sulla creatività cinematografica. La grande novità di questo film è nel raggiungimento della serenità, non si chiude sull’angoscia o con un improvviso recupero di speranza, ma con una resa stoica e divertita all’assalto del mondo14. Un film che riflette

l’interesse dell’autore verso l’universo interiore, e volge lo sguardo verso una migliore ricerca espressionistica del proprio personale mondo della fantasia15.

Anche quest’opera, seppur in maniera minore rispetto a La dolce vita e Roma, è stata citata come elemento di confronto con La grande bellezza di Sorrentino. Fellini racconta la sua storia su due piani quello “reale”, che narra il tempo che l’uomo passa all’intorno delle terme e nel susseguirsi delle sue giornate, e quello “fantastico”, fatto di sogni, d’immaginazioni e ricordi che lo assalgono16.

Un’evoluzione della sceneggiatura, fatta a episodi che viene, utilizza lata anche da Sorrentino. Mentre Fellini in 8 ½, realizza perlopiù un’analisi del suo subconscio e dei suoi sogni, con rimandi ad alcuni suoi ricordi da fanciullo. Sorrentino, invece, ne La grande bellezza, riscopre il suo lato sensibile, immergendosi nei ricordi della sua adolescenza, dell’azzurro del suo mare e del suo amore per Elisa. Lo sgretolamento dell’io e lo smarrimento identitario emergono, ponendo Jep come dinanzi una superficie riflettente, inducendolo a specchiarsi nella propria interiorità17. I due protagonisti prendono consapevolezza e accettano i loro problemi sia psicologici che professionali. Un’accettazione che porta alla riconciliazione con sè stessi e alla liberalizzazione dagli effetti paralizzanti che

14 Ivi, p. 237.

15 P. Bondanella, Il cinema di Federico Fellini, Rimini, Guaraldi, 1994, p. 171. 16 Ivi, p. 182.

17 F. Vigni, La maschera, il potere, la solitudine. Il cinema di Paolo Sorrentino, Firenze, Aska, 2014, p. 203.

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122 non gli permettono una nuova creatività artistica. In entrambe le pellicole, questi episodi che riprendono sogni fantastici e ricordi adolescenziali, fanno scoprire al protagonista e allo spettatore la parte più interiore del loro essere.

Fellini, ma anche Sorrentino, nei loro lavori mostra un interesse per l’illusionismo. In 8 ½, il protagonista Guido, incontra quasi per caso un illusionista e la sua assistente durante una cena con degli amici. Il mago si esibisce in una stravagante lettura del pensiero. Una scena densa d’incanto, il mago conosce il protagonista e i due si scambiano sguardi benevoli. Quando Guido chiede come fanno a trasmettersi i pensieri e l’illusionista gli risponde che ci sono dei trucchi, ma anche qualcosa di vero. Con queste parole sembra voler lasciare un po’ di conforto all’amico regista. Anche nel film di Sorrentino, il protagonista s’imbatte in un amico di vecchia data, un illusionista. Jep ammira, immerso in mezzo alle Terme di Caracalla, illuminate a giorno con potenti “diecimila” montati su torrette, una giraffa enorme alta cinque metri18. Mentre

osserva l’animale, gli si avvicina un suo amico illusionista. L’uomo deve provare il suo spettacolo: far scomparire la giraffa. Diverso il finale della scena, mentre in

8 ½ il mago cerca di illudere il protagonista, ne La grande bellezza, l’amico si

mostra impotente e confessa l’illusione, il trucco. Forse l’analogia che colpisce di più nei due film è il finale. Entrambi i protagonisti sembrano entrare in pace con loro stessi, senza bisogno di alcun tipo di conversione. In 8 ½ sembra che a redimere Guido sia il mondo dell’Arte19. Il protagonista prova delle sensazioni

che lo spiazzano. Il piacere che lo pervade, lo spinge a mostrarsi con sua moglie, arrivando a una serenità interiore che non gli fa aver più paura del futuro e della

18 P. Sorrentino, U. Contarello, La grande bellezza, Milano, Skira, 2013, p. 148. 19 P. Bondanella, Il cinema di Federico Fellini, Rimini, Guaraldi, 1994, p. 196.

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123 vita. Il protagonista prende consapevolezza di sè stesso e dei suoi limiti. Questa accettazione lo porta a una nuova creatività artistica.

Ma che cosa è questo lampo di felicità che mi fa tremare, mi ridà forza vita. Vi domando scusa dolcissime creature non avevo capito, non sapevo com’è giusto accertarvi, amarvi, e com’è semplice. Luisa, mi sento come liberato. Tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero. Ah come vorrei sapermi spiegare, ma non so dire. Ecco tutto ritorna come prima, di nuovo confuso, ma questa confusione sono io. Io come sono, no come vorrei essere. Non mi fa più paura, dire la verità quello che non so che cerco che non ho ancora trovato. Solo così mi sento vivo e posso guardare i tuoi occhi felici senza vergogna. È una festa la vita, viviamola insieme. Non so dire altro Luisa, né a te né agli altri, accettami così come sono, solo se puoi è l’unico modo per tentare di trovarci20.

Sia a Guido che a Jep la vita mette paura, ed entrambi lo confessano nel monologo finale del film. Anche ne La grande bellezza il protagonista espone i suoi pensieri e l’importanza di ritornare alle radici, perché sono importanti.

Finisce sempre così. Con la morte. Prima però c’è stata la vita. Nascosta sotto il bla bla bla […] L’emozione e la paura. Gli sparuti, incostanti spazzi di bellezza.

E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo21.

20 F. Fellini, E. Flaiano, B. Rondi, T. Pinelli, 8 ½, dal film, Roma, 1963.

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124 Jep capisce cosa è importante per lui. Il film è stato per il protagonista stesso una riscoperta dei valori. Solo dopo aver trovato la sua pace interiore, e aver capito che la vita è solo un trucco, può iniziare il suo nuovo romanzo. In entrambe le opere il finale risulta aperto, si dà vita a una nuova storia, in cui il protagonista si mostra con un altro aspetto, che noi spettatori possiamo solo immaginare.

3.1.4 Intervista VS La grande bellezza

Un altro film meta cinematografico, interessante come termine di paragone con il film di Sorrentino è sicuramente l’Intervista. Qui il regista raggiunge la sintesi di tutti i temi meta cinematografici affrontati nei suoi film. Fellini lo considera un filmetto, onde a sottolineare come l’intento fosse quello di celebrare un modo personale e artigianale di fare cinema22. Anche in quest’opera si descrive una crisi personale dell’autore, ma senza la figura mediatrice. Un’opera che mostra l’attenzione che Fellini ha nei confronti degli “strumenti di lavoro”, non si può definire un vero e proprio documentario, giacché mostra il punto di vista dell’autore nei confronti del mezzo cinematografico. In questa pellicola, si percepisce ancora di più, come per Fellini il cinema deve essere una forma dell’espressione personale della creatività artistica. Un film dentro il film che mostra la magica capitale, ma in realtà è tutto un artificio. Una scelta che il regista fa, a volte quasi disorientando lo spettatore, ma che accentua il concetto che nel cinema tutto ciò che è immaginabile diventa possibile.

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125 Un primo rimando, seppur quasi sicuramente involontario, sta nella presenza già dalle prime sequenze di un gruppetto di giapponesi. Una presenza pressoché costante, all’interno dell’opera di Fellini, quella di un gruppo di reporter che devono fare un’intervista al Maestro23. Un intervento geniale e quasi cruciale, perché evidenziano le varie fasi del fare il cinema da parte del regista. Mentre per Sorrentino usa la presenza del gruppo di turisti giapponesi che rimangono estasiati dalla bellezza di Roma fino a perdere fiato e morire. In entrambi i casi, i registi fanno un parallelismo con la società contemporanea. Infatti, il significato finale di

Intervista è che quando ci interessiamo di qualcosa di cui non siamo molto ferrati,

siamo come gli intervistatori giapponesi che tampinano Fellini dal principio alla fine24. Mentre Sorrentino, ci paragona a degli eterni turisti ammaliati dalla bellezza della capitale.

Nella pellicola di Fellini, come già accade in Roma, assistiamo a dei salti indietro nel passato, elemento che ritroviamo spesso anche nel La grande bellezza. I due registi usano lo stesso metodo ma con risultati differenti. In Intervista lo spettatore prende consapevolezza del progetto lavorativo del regista e lui mostra gli artifici lavorativi che di certo non usufruiscono delle ultime ritrovate tecnologiche. Mentre Sorrentino fa riscoprire l’animo del protagonista, in un percorso di eventi, che a volte, il pubblico non si aspetta. La sicurezza di Jep lascia poco alla volta spazio alla sua sensibilità e alle sue emozioni. Fellini con Intervista realizza una pellicola autoriflessiva, nella quale l’autore, che diviene anche protagonista, conduce un’esplorazione delle diverse dimensioni dell’arte cinematografica e

23 T. Kezich, Federico Fellini, la vita e i film, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 360. 24 Ivi, p. 362.

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126 tenta di trovare una definizione concreta della propria vocazione di regista25. Esplorazione che non nasconde alcune preoccupazioni che emergono durante i sogni. Per Fellini il sogno ha un ruolo fondamentale, in base alle teorie di Jung, esprimono il nostro inconscio, forse anche per questo le dà una maggiore importanza. All’incontro con la troupe dei giapponesi Fellini racconta un suo sogno, che probabilmente sarà anche l’inizio del suo nuovo film.

Mi trovavo in un ambiente buio inquietante, ma nello stesso tempo anche familiare, mi muovevo lentamente. Nell’oscurità profonda e le mie mani toccavano una parete che non finiva mai. In altri film, sogni come questo mi liberavo volando via. Ma adesso chissà, un po’ più vecchio, un po’ più pesante, facevo una gran fatica a sollevarmi da terra. Infine ci riuscì, e mi trovavo liberato a grandissima altezza. E il paesaggio che vedevo tra squarci di nubi lì in fondo cosa era? La città universitaria? Il Policlinico? Sembrava un reclusorio, un rifugio antiatomico, alla fine la riconoscevo era Cinecittà26.

Nei sogni Fellini fa rivivere le sue inquietudini e le sue certezze. Anche Sorrentino, usa l’espediente del sogno per far emergere i pensieri del suo personaggio principale. Jep sogna il mare. Sdraiato sul letto, s’immerge nell’azzurro limpido del suo mare, e rivive il passato, la sua gioventù. Sogni che lasciano nello spettatore, l’amaro in bocca, una sensazione di tristezza, nonostante i colori limpidi che dovrebbero comunicare serenità. Sogni che appaiono quasi opposti, infatti, Fellini usa un’immagine offuscata dalla nebbia e buia, con scenari

25 P. Bondanella, Il cinema di Federico Fellini, Rimini, Guaraldi, 1994, p. 227. 26 F. Fellini, G. Angelucci, Intervista, dal film, Roma, 1987.

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127 lugubri, che mettono ansia. Per entrambi il sogno resta la chiave principale per scoprire l’interiorità dell’essere umano.

3.2 Due registi, una società

Federico Fellini e Paolo Sorrentino sono due artisti che seppur distanti diversi anni, hanno in comune lo stesso amore, e la stessa passione per il cinema. Di sicuro Sorrentino, fa sua la ricerca felliniana di un cinema della poesia, che si realizza nell’ambigua caratterizzazione dei protagonisti, oltre che nella grande tensione evocativa della musica. Infatti, nelle loro pellicole sono evidenti i giochi poetici di rimandi e allusioni che sono accentuati dall’importantissimo ruolo svolto dalla musica27. La bellezza di Roma è evidenziata con il lato acustico che si alterna a volte come protagonista silente, e altre diviene a tratti chiassosa, ma sempre riflessiva. Un aspetto che si evidenzia maggiormente ne La dolce vita, basti pensare all’inizio e alla fine del film caratterizzati dal rumore assordante che in cui non arrivano a sentirsi nemmeno i dialoghi tra i personaggi. Ne La grande

bellezza, il giovane regista napoletano, non si limita a un semplice uso della

musica, perlopiù sacra, per enfatizzare delle scene, ma fa uso del “ponte sonoro” per collegare delle sequenze, come ad esempio lo sparo del cannone che dà inizio al film, o ancora meglio l’urlo che unisce la prima e la seconda scena. Sorrentino, forse ancor più di Fellini, fa un controllo rigido delle trecce audio poiché vuole catturare lo spettatore permettendogli una totale permeabilità allo spazio. Il loro

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128 scopo, è offrire al pubblico un percorso ultra sensoriale, che non si limita alla scelta di materiale audio ma anche visivo, creando un’estasi spettatoriale. I due registi, cercano di catturare il pubblico, utilizzando anche espedienti come l’uso di carrellate, movimenti lunghi e di panoramiche, il loro scopo è di dare una visione centralizzata e prospettica. Questa diviene una procedura del racconto, utilizzata per evidenziare la dimensione simbolica dell’evento e la necessità di vedere la scena oltre la superficie della sua temporalità fenomenica, caricando le immagini di una tensione compositiva. La macchina da presa utilizzata da Fellini, non solo, è spesso in movimento, ma allo stesso tempo ferma, si svuota dai lirismi, e dagli incantesimi, divenendo pura cronaca. Per Fellini, questa procedura può essere più complicata, poiché lui spesso si mette in gioco, creando, e vedendo nascere, all’interno di Cinecittà l’ambiente in cui girare la scena, così come lo immagina. Non per questo, però limita i movimenti di macchina. Anche ne La grande

bellezza sono presenti, soprattutto all’inizio e alla fine, dei movimenti di macchina

lunghi e sinuosi, tali da avvolgere le statue, i monumenti, le fontane e il Tevere. Spesso, in entrambi i registi, la composizione dell’immagine da aulica diventa documentaristica, a dei tableu vivant, delle vere e proprie composizioni visive che delineano una stilistica propria e intimistica, oltre che compositiva28. Cercano, in questo modo, con l’inquadratura e i movimenti di macchina, di creare intorno all’oggetto una specie di diaframma che rende il più possibile irrazionale e magica la sua immissione e concatenazione di rapporti con il mondo che lo circonda. Scelte che non sono lasciate ma che sono esaminate e progettate dai due registi. I loro lavori non sono lasciati al caso, e prima di iniziare a girare realizzano dei

28 E. M. Vernaglione, La galassia di Jep Gambardella. Un Big Bang chiamato Federico Fellini, Taranto, Edita, 2014, p. 70.

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129 bozzetti, dei luoghi, dei personaggi e delle scene. Fellini è conosciuto per i suoi innumerevoli schizzi, tutti i personaggi dei suoi film sono visualizzati sotto forma di disegno nel quale si combinavano espressione facciale, costume e spazio scenografico all’interno del quale gli attori si muovevano29. Anche Sorrentino non

è da meno, infatti, per lui è indispensabile sviluppare degli storyboard, prima delle riprese dei suoi film. In questo modo lui già sa, il risultato finale della scena prima ancora di essere girato. Una visione ricorrente e molto importante per i due cineasti è la visione del clero. In entrambi appare chiaro l’ammirazione per gli insegnamenti etici del Cristianesimo. Un messaggio comprensivo di tutti i film di Fellini, è il tentativo di descrivere un mondo privo d’amore, pieno di personaggi egoisti e sfruttatori, ma in mezzo a tutto ciò c’è sempre qualcuno disposto a dare amore. In definitiva i suoi film non nascono dalla logica, ma dall’amore30. Questo

è un aspetto che hanno in comune, infatti, Sorrentino, ha fiducia nell’amore, e alla fine del suo racconto è proprio a lui che si affida per ricominciare.

La chiave di lettura per comprendere a meglio, come nascono i loro film, è il grottesco. Un fattore di cui entrambi i registi ne sono affascinati e cui non possono rinunciare. Nei loro film appare chiaro, come loro siano attratti dal fascino per il grottesco. Entrambi, infatti, prendono ispirazione dalla società, riuscendo a dare un’interpretazione inedita. Il grottesco diviene, quindi, una vocazione espressionistica. Una cultura e una società “spremono” all’esterno, allo sguardo dell’artista, e poi a quello dello spettatore, il loro “inconscio”, ossia la sfera labirintica del desiderio31. La loro “missione” è raffigurare la libido fondante la

29 P. Bondanella, Il cinema di Federico Fellini, Rimini, Guaraldi, 1994, p. 151. 30 Ivi, pp.115/116

31 P. De Sanctis, D. Monetti, L. Pallach, Divi e Antidivi. Il cinema di Paolo Sorrentino, Roma, Laboratorio Guttemberg, 2010, p. 16.

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130 cultura italiana, del desiderio dettato dalla gestione dei rapporti forza32. In questo modo la narrazione ruota intorno al grottesco, non limitandosi a riprendere una società logorata e deformata, ma a mostrarla nei suoi lati più oscuri. Nei suoi film Fellini offre una drammatica allegoria, sul deserto che sta dietro la facciata di un carnevale perpetuo. In modo diverso anche Sorrentino, seppur realizzando un film sulla vacuità e la solitudine, indaga senza mezzi termini sulla realtà contemporanea. Di certo non appare una realtà nuda e cruda, ma la deformazione psichica di una cultura e di una società33. Sia Fellini sia Sorrentino, a loro modo, ci presentano un lato della nostra società. Il loro scopo è farci specchiare, dandoci la possibilità di vedere fin dove siamo disposti ad arrivare, e fin dove già siamo approdati. I vari protagonisti dei due registi, trapiantati a Roma, fanno parte della società disgregata e distrutta che raccontano, con i loro occhi curiosi e riescono a carpirne i vizi e le virtù senza elevarsi a giudice34. Loro stessi arrivano a diventare semplici spettatori degli eventi che li circondano. Sono semplici uomini parte integrante della storia, con i vizi e le virtù di una Roma, che somiglia sempre più a un’orgia da circo, più che a una città. Tutti i protagonisti sono pieni di vizi, ma al tempo stesso meditano e criticano il loro tempo. I registi attraverso loro ci mostrano un’Italia deformata nel corso degli anni, una cultura che si spinge sempre più oltre e che ha perso i freni inibitori. Lo spettatore è guidato dai personaggi principali in quella babilonia che è Roma. Questi pur essendo parte integrante della società, molto spesso immorale, hanno uno sguardo distaccato e interrogativo della realtà che li circonda. Le storie sono intrecciate da episodi, e

32 Ivi. 33 Ivi, p. 15.

34 E. M. Vernaglione, La galassia di Jep Gambardella. Un Big Bang chiamato Federico Fellini, Taranto, Edita, 2014, pp. 25/26.

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131 ogni vicenda è composta di frammenti di vita altrui, che nel caso di Fellini corrispondono a volte a eventi veramente accaduti. Per i personaggi principali la vita che gli brulica attorno diviene sempre più incomprensibile, arrivando anche a non saper prendere delle decisioni. Quello che spesso accade anche a noi. Il regista riminese e quello napoletano, basano le loro storie proprio sul dare testimonianza della realtà che li circonda. Fellini ritrae un’Italia internazionale, dove è già lontano il ricordo della guerra. Una società che vuole rimettersi in gioco, in cui la povertà è mostrata in maniera periferica. Un paese meta dei divi di Hollywood, che approdano a Roma per allegri soggiorni. Una visione cui anche Sorrentino non vuole rinunciare, ma non mostra più le vacanze delle star, ma quelle dei giapponesi che rimangono folgorati dalla bellezza di un paese pieno di storia. Sia nelle pellicole di Fellini sia in quella di Sorrentino, Roma è mostrata come un centro di vita culturale e mondana al tempo stesso, vero specchio della realtà. Fellini attinge dalla vita reale e porta in scena episodi che si susseguono nell’Italia a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta. Divenendo così, cronista e poeta, che analizza la sua contemporaneità e al tempo stesso prova a profetizzarne il futuro35. Un futuro ancora più decadente da quello immaginabile, che viene

ritratto da Sorrentino. Il regista napoletano analizza la stesa fauna, ritraendo un’umanità varia, della quale risalta talora la miseria mediocrità, talaltra l’aura di grandezza. Una società, che negli anni, sembra profondamente cambiata, ancora più rovinata. Nella Roma di Sorrentino sembra non esserci più nessuna legge morale. Una città che rispecchia l’Italia intera, fatta di occasioni perdute e mancate, alla quale gli si conferisce un tono più malinconico. Una società che

35 Ivi, pp. 54/55.

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132 appare logorata, dove neanche il clero si salva, tutti si lasciano trasportare dai loro desideri. In questa situazione, dove tutto sembra corrotto, diventa difficile trovare la propria strada, ricongiungersi con il proprio animo. Solo alla fine dei film, i protagonisti sia di Fellini sia di Sorrentino, raggiungono la piena consapevolezza della realtà circostante e anche di loro stessi scegliendo la strada da continuare. In definitiva, i due registi seppur cresciuti e formati in periodi diversi, hanno un percorso lavorativo molto simile. Entrambi non sono di Roma, ma hanno deciso di trasferirsi nella capitale. I due iniziarono la loro carriera dal gradino più basso, fino ad arrivare a conquistare grandi premi. Il loro amore per la città di Roma, che li ha accolti “a braccia aperte”, si percepisce nelle loro pellicole. Sia Fellini, che Sorrentino, prima della realizzazione dei loro film, si spogliano delle cose superflue e cercano di mostrare la città eterna con lo stesso sguardo che hanno avuto loro quando sono arrivati. Lo sguardo di un turista che è consapevole di non poter far più ritorno nel suo paese natio, perché la sua vita ormai è lì. La Roma che ci viene mostrata è piena di sfaccettature, in tutti i momenti della giornata, tra la modernità e l’antichità, tra la bellezza e lo squallore, tra la realtà e la finzione, tra la purezza e la corruzione36. Una città che, come più volte è stato affermato,

riveste i panni di una mamma benevola che accoglie tutti, ma che non riesce a prendersi cura dei suoi figli, che spesso abbandona, lasciando nello spettatore una sensazione di solitudine.

36 Ivi, p. 36.

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