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CAPITOLO II LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEL MAGISTRATO: CONSIDERAZIONI SU ALCUNI MODELLI STORICI

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CAPITOLO II

LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEL MAGISTRATO:

CONSIDERAZIONI SU ALCUNI MODELLI STORICI

Sommario: 1) La responsabilità del giudice nel diritto romano e nel diritto

greco; 2) L’affermazione della responsabilità del giudice in Germania ed in Francia nel XVII e XVIII secolo; 3) La tradizione italiana della civiltà comunale; 4) La responsabilità del giudice negli Stati preunitari: in particolare l’esperienza napoletana e quella piemontese; 5) Lo Stato liberale; 6) Lo Stato fascista.

(2)

1. La responsabilità del giudice nel diritto romano e nel diritto greco

Constatato che il tema della responsabilità del giudice continua a

riproporsi nel dibattito politico attuale, può essere utile, al fine di

giungere ad una valida ed efficace soluzione della questione,

osservare quali siano stati nella storia i tentativi di conciliare il

principio di indipendenza del giudice con quello della sua

responsabilità.

A tale scopo, poco rileva l’esperienza del diritto romano, questo sia

per le differenze tra il sistema processuale classico e quello attuale,

sia per la peculiarità della figura del pretore romano, che molto si

discosta da quella odierna del magistrato1.

Tuttavia, il principio di responsabilità del giudice si affermò proprio

nell’ambito del processo di cognizione ufficiale extra ordinem.

Infatti, se nell’epoca repubblicana e del principato la giustizia era

amministrata da soggetti definiti honoratiores, che godevano del

consenso dell’opinione pubblica, fu con l’espansione territoriale,

politica e demografica dell’Impero che si affermò l’esigenza di un

controllo centrale sull’operato del giudice nelle province.

Il giudice da libero cittadino si era trasformato in quel nuovo

contesto in un burocrate negligente, corrotto e spesso ingiusto e per

tali ragioni la legge imperiale stabilì che venisse chiamato a

1 G. ASTUTI, Indipendenza e responsabilità del giudice, in Giuliani e Picardi, La responsabilità del giudice, Perugia, 1978, XIII.

(3)

rispondere, civilmente e penalmente, dei torti commessi e fosse in tal

modo ripristinato il diritto alla tutela giurisdizionale garantito a tutti i

cittadini dell’Impero2.

Al contrario, il principio di responsabilità dei magistrati costituiva il

pilastro su cui si fondava l’intera democrazia greca ed il suo diritto.

Ciò in attuazione dell’ideale di uguaglianza che permeava la società

greca in tutti i suoi aspetti.

Nel diritto greco il modello di giudice è l’arbitro, ovvero un giudice

di equità, estraneo alle fazioni politiche, che disponeva di un’ampia

discrezionalità decisionale, corredata, però, da un severo regime di

responsabilità. Nella prassi egli costituiva pressoché un mediatore di

conflitti, la cui autorità si basava sul consenso e sulla stima della

collettività. Inoltre, pesanti sanzioni come l’atimía, cioè la privazione

dei diritti civili e politici, ed il pericolo di perdere la propria

reputazione scoraggiavano l’arbitro dall’abusare del proprio ufficio e

del potere decisionale.

Attraverso la figura dell’arbitro si realizza la moralità del diritto,

quella commistione tra logica ed etica per cui la giustizia della

decisione corrisponde alla correttezza del funzionario che l’ha

adottata.

Lo stesso Aristotele, nella Costituzione degli Ateniesi e nell’Etica

nicomechea, sviluppa la sua indagine sulla responsabilità del giudice

2 G. NOCERA, La responsabilità del giudice, in Giuliani e Picardi, La responsabilità del giudice, Perugia, 1978, 75.

(4)

partendo dall’analisi della figura dell’arbitro per poi affrontare la

questione della sentenza ingiusta. In proposito egli evidenzia il

legame tra la decisione giudiziale e la condotta processuale del

giudice. Tuttavia, afferma che se alla condotta intenzionale del

giudice, oggi diremmo dolosa, corrisponde senza dubbio una

sentenza ingiusta ed invalida,altrettanto non può affermarsi con tale

facilità in relazione ad una condotta del giudice che risulti affetta da

colpa, negligenza o imperizia. Infatti, se è vero che la certezza della

cosa giudicata è un bene per la società e che offrire alle parti il potere

di convenire il giudice in giudizio può comportare gravi abusi, è

altrettanto vero che non si può considerare giusta una decisione solo

perché conforme alla legge. Così, già per Aristotele il problema della

responsabilità del giudice non appare di semplice soluzione, essendo

molteplici ed eterogenei gli interessi che rilevano in merito.

2. L’affermazione della responsabilità del giudice in Germania ed in Francia nel XVII e XVIII secolo

È col giusnaturalismo moderno che si è assistito all’abbandono del

modello di responsabilità professionale del giudice, così come

elaborato dal diritto romano comune, e si è invece visto l’affermarsi

di un modello di responsabilità disciplinare del giudice, correlato al

principio di sostanziale irresponsabilità dello stesso.

Tuttavia, il passaggio tra queste due forme di responsabilità è stato

(5)

subordinata che i giudici hanno assunto rispetto al potere legislativo

a partire dal XVI secolo3. Ma, sarà solamente del periodo tra il XVII

ed il XVIII secolo che nei paesi di tradizione giuridica continentale,

sull’onda della diffusione della teoria assolutista, si comincerà a

parlare di unificazione del diritto e di accentramento della

giurisdizione4.

In Germania, già dal XVI secolo, la responsabilità si presentava

come uno strumento necessario per raggiungere l’obiettivo

dell’unificazione del diritto nel Sacro Romano Impero.

È a tal fine che fu istituito in Tribunale camerale dell’Impero

(Kaierliches und Reichskammergericht), che doveva decidere

tenendo in considerazione non solo il diritto comune, ma anche gli

statuti e le ordinanze imperiali. Il controllo sull’operato di tali giudici

era poi garantito dalla facoltà di rimozione degli stessi, che poteva

essere imposta o dallo stesso Tribunale o da una commissione di

“Visitatori Imperiali” (Reichsvisitationsdeputation), composta da

membri della Dieta.

Fu, però, solo con un’ordinanza del 1532 che il sistema di controllo

si perfezionò attraverso l’adozione di una versione tedesca

dell’azione di sindacato (Syndikatsklage), introducendo così il diritto

del cittadino di contestare la sentenza del giudice gravemente errata o

3 A. GIULIANI- N. PICARDI, La responsabilità del giudice, Perugia, 1978, 27. 4 G. TARELLO, Le ideologie della codificazione, Genova, 1969, 39 e F.

(6)

priva di contenuto. In questo modo si affermava una responsabilità

civile del giudice, che, però, nella prassi rappresentò solo una forma

supplementare di responsabilità disciplinare. Infatti, la competenza a

decidere in merito all’azione spettava anche in questo ambito alle

commissioni dei Visitatori ed era in ogni caso esclusa ogni forma di

responsabilità per colpa del magistrato.

Quindi, in Germania l’istituto italiano del sindacato subì importanti

trasformazioni e venne nella sostanza a fungere anch’esso da

strumento di controllo dei giudici da parte della classe politica.

Il consolidamento della responsabilità disciplinare si ebbe, però, con

Federico II di Prussia, il quale intraprese un’opera di semplificazione

ed uniformazione dell’organizzazione giudiziaria che iniziò col

Codex Marchius del 1748 e si prolungò per circa trent’anni.

Il nuovo sistema giudiziario ruotava intorno ai presidenti del

Tribunale Camerale, ai quali era affidato il compito di vigilare sulla

corretta amministrazione della giustizia e che rispondevano

direttamente al Sovrano dello svolgimento di questa funzione.

Inoltre, la riforma, che era d’ispirazione militare, stabiliva per la

carriera dei magistrati il principio di promozione basato sul merito e

predeterminava le sanzioni che avrebbero colpito presidenti e giudici

in caso di violazione dei doveri imposti loro.

In conclusione, i sovrani degli Stati tedeschi abbracciando la teoria

(7)

diritto, riuscirono nella riorganizzazione dell’apparto statale, al punto

che, mentre la magistratura rimaneva incorporata nell’ordinamento

burocratico, il loro potere ne usciva rafforzato5.

Al medesimo tempo, alla luce della nuova disciplina il giudice

diveniva fondamentalmente irresponsabile nei confronti dei sudditi e

l’azione di sindacato veniva privata di ogni significato.

In Francia nello stesso periodo storico i giudici svolgevano numerose

funzioni vedendosi pienamente garantite l’inamovibilità e

l’indipendenza, ma questo avveniva in ovvio contrasto con

l’impostazione assolutistica della monarchia6.

Per siffatte ragioni Luigi XIV, con la nota Ordonnance del 1667

(c.d. Code Luis), regolò l’attività e le funzioni dei Parlaments7 e

tentò di avvalersi a fini disciplinari dell’istituto della prise à partie,

nato nel XVI secolo al fine di regolamentare la responsabilità civile

del giudice. Invece, nella nuova veste la prise à partie veniva a

costituire uno strumento a tutela dello ius irisdictionis e sanciva la

responsabilità del giudice per dolo, frode o concussione.

Al medesimo tempo, però, la normativa conteneva numerose lacune,

che ne permisero una rara applicazione, e la magistratura fu ancora

5 F. BIONDI, La responsabilità del magistrato, Milano, 2006, 32. 6 A. GIULIANI- N. PICARDI, cit., 33.

7

In tale ottica, si prevedeva che gli editti regi dovessero essere registrati immediatamente, senza modifiche o restrizioni, e solo in questo momento i

Parlaments avrebbero potuto esercitare il loro diritto di remontrance. Inoltre, in

caso di respingimento, le remontrances non potevano essere riproposte. Tuttavia già nel 1715 l’istituto veniva ripristinato da Filippo d’Orleans, che in cambio ottenne la modifica a proprio favore delle disposizioni testamentarie di Luigi XIV. In proposito G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, Bologna, 1976, 57 e P. ALATRI, Parlamenti e lotta politica nella Francia del Settecento, Roma-Bari, 1977, 106.

(8)

libera di aumentare ancora il proprio peso amministrativo, politico e

sociale.

Luigi XV tentò allora di arginare il pericolo del crescente potere

della classe giudiziaria riformando l’intero sistema. Pertanto, nel

1771 Moupeau, l’ultimo cancelliere dell’Ancien Régime, abolì la

venalità delle cariche e sancì la nomina dei magistrati da parte del re,

su proposta della corte. Inoltre, la giustizia veniva a configurarsi

come un servizio gratuito, poiché i magistrati sarebbero stati pagati

da quel momento in poi dallo Stato.

Tuttavia, nonostante i suoi sforzi il Re di Francia non riuscì ad

imporre la responsabilità disciplinare i suoi giudici e la normativa

ebbe breve vigenza, infatti il suo successore Luigi XVI fu costretto,

all’inizio del suo regno, a ristabilire i vecchi istituti ed il relativo

sistema della venalità delle cariche8.

Nell’intento riuscì, invece, la legislazione napoleonica.

Ciò, infatti, si era reso possibile grazie allo stravolgimento

dell’assetto istituzionale realizzato in epoca rivoluzionaria9. Tra il

1789 ed il 1791 l’Assemblea Costituente aveva sostituito tutti i

magistrati dell’Ancien Régime, abolito la venalità e l’ereditarietà

delle cariche giudiziarie ed imposto nuovamente il salario statale ai

giudici. Il risultato di queste riforme era una magistratura

radicalmente trasformata: subordinata al potere esecutivo, era

8 N. PICARDI, Studi in onore di Pierfrancesco Grossi, a cura di A. D’Atena, 2012. 9 “La posterità non vorrà mai credere a ciò che l’Assemblea Nazionale ha fatto nel tempo di cinque ora. Ha soppresso abusi che esistevano da novecento anni e che un secolo di filosofia aveva combattuto invano”, cit. J. M. Pellerin.

(9)

divenuta un corpo di burocrati inquadrati in un rigido ordinamento

gerarchico.

A questo punto restava da trovare una soluzione alla questione della

responsabilità del giudice.

E fu Napoleone che, con la legge del 20 aprile 1810, si assicurò il

dominio sulla magistratura, riservando il reclutamento e la

progressione in carriera dei suoi membri all’esecutivo e adottando

una nozione elastica di illecito disciplinare. Ai sensi della nuova

normativa la responsabilità del giudice sarebbe conseguita a qualsiasi

comportamento che avesse compromesso la dignità del suo ufficio e

l’impronta fortemente repressiva del regime regolamentare era

svelata da un puntiglioso elenco di sanzioni, che andavano dal

rimprovero ed alla censura fino alla sospensione ed alla decadenza.

Al contrario, una volta garantito il controllo disciplinare sull’attività

dei magistrati, la tutela delle parti e la responsabilità professionale

divennero questioni che, sia nella legislazione rivoluzionaria sia in

quella napoleonica, risultarono immeritevoli di attenzione. Inoltre,

vani furono anche i tentativi di ripristinare l’uso dell’istituto della

prise à partie ed il giudice restava così sostanzialmente

irresponsabile nei confronti delle parti.

In conclusione, ciò che risalta all’occhio dell’osservatore è che le

modifiche all’ordinamento apportate dalla legislazione rivoluzionaria

e napoleonica hanno invertito il precedente rapporto di ingerenza tra

(10)

impostazione sembra anch’essa poco funzionale a garantire il diritto

alla tutela giurisdizionale dei cittadini.

3. La tradizione italiana della civiltà comunale

Nella società italiana comunale era stata, invece, accolta l’idea

classica di uguaglianza e di giustizia come reciprocità10.

Questa tendenza è dimostrata dall’affermarsi del principio della

similitudo supplicii, ma soprattutto dalla sottoposizione dei

magistrati alla responsabilità professionale.

L’operato dei giudici era costantemente sottoposto al controllo

esterno delle parti e dell’opinione pubblica. Ed espressione di questo

orientamento costituisce anche il particolare significato che veniva

attribuito alla pubblicità delle procedure giudiziarie. Infatti, il giudice

non solo era tenuto a motivare la sentenza davanti alle parti e talvolta

anche di fronte alla comunità, ma, in caso di giudizio collegiale,

doveva anche manifestare il proprio dissenso.

Quindi, attestato che la sentenza era considerata come la

giustificazione di una decisione pratica e che la relativa

comunicazione costituiva il presupposto di questa logica della scelta,

l’eventuale contestazione della sentenza determinava in realtà la

messa in discussione del giudice stesso.

(11)

E, sulla base di questo riscontro, possiamo concludere che è la

tradizione italiana comunale ad elaborare e lasciarci in eredità il

modello di responsabilità professionale: sul presupposto

dell’uguaglianza fra i cittadini, l’operato del giudice è sottoposto al

controllo esterno dell’opinione pubblica. Ed egli non è un burocrate

od un funzionario, che si limita ad applicare la legge in quanto

manifestazione della volontà del sovrano, al contrario il giudice è un

arbitro imparziale, un mediatore, che cerca di ricomporre la

controversi tra le parti ricercandone il consenso.

Il più efficace strumento di controllo esterno sull’amministrazione

delle giustizia era rappresentato dal giudizio di sindacato. Era per

mezzo di questo istituto che si cercava di garantire il diritto del

cittadino ad un “giudice giusto”.

In breve, alla fine del loro mandato i magistrati, che spesso erano

cittadini stranieri, subivano un procedimento volto ad individuare

eventuali illeciti professionali, pretextu officii o favore officii, da

loro compiuti nell’esercizio delle loro funzioni. La competenza in

merito era riservata ad un tribunale in composizione collegiale con

conoscenze civili, penali ed amministrative, ed il giudice imputato si

vedeva sempre riconosciuti il pieno diritto di difesa e la presunzione

di innocenza.

In epoca comunale il sindacato si rivelò un istituto valido ed

adeguato al fine di garantire il cittadino da eventuali abusi di potere

(12)

avuto a partire dal XIV secolo col passaggio dal comune al

principato, infatti, quando la nomina dei sindacatori fu rivendicata

dal principe il giudizio di sindacato si trasformò in uno strumento di

controllo interno, volto ad individuare la responsabilità disciplinare

del giudice, e non più esterno.

4. La responsabilità del giudice negli Stati preunitari: in particolare l’esperienza napoletana e quella piemontese

Nella ricostruzione dell’evoluzione storica della responsabilità dei

magistrati può essere utile soffermare la nostra indagine anche sui

modelli giuridici adottati negli Stati preunitari.

In particolare, l’osservazione dell’esperienza napoletana ci consentirà

di ripercorrere lo sviluppo dell’istituto del sindacato, mentre l’analisi

dell’esperienza piemontese ci permetterà di riportare alla luce quelle

che sono le radici della nostra legislazione11

Per quel riguarda le vicende del Regno di Napoli12 ed il giudizio di

sindacato, occorre evidenziare che nel XVIII secolo i giudici

temporanei erano ancora sottoposti a tale procedimento e che

furono numerosi gli interventi legislativi con cui Carlo III di Borbone

ed il figlio Ferdinando IV specificarono e modificarono la disciplina

11 A. GIULIANI- N. PICARDI, cit., 506.

12 R. AJELLO, Il problema della riforma giudiziaria e legislativa nel Regno di Napoli durante la prima metà del sec. XVIII, Napoli, 1961.

(13)

dell’istituto. Anzi, proprio con questa legislazione, opera del

Ministro della Giustizia dell’epoca Bernardo Tanucci, ebbe inizio il

passaggio da un modello di responsabilità professionale del giudice

ad uno di responsabilità disciplinare.

Tanucci, infatti, ispirandosi a ciò che stava parallelamente avvenendo

in Francia ed in Prussia, intraprese un cammino di riforma

dell’ordinamento giudiziario napoletano. E se anche non riuscì nel

suo ambizioso intento produrre un nuovo codice, egli riuscì

comunque rinnovare la fisionomia dell’assetto istituzionale.

Coi sui dispacci il Ministro risolse il problema del dissenso nei

giudizi collegiali creando il voto separato 13 e fissò un rigido sistema

di doveri e sanzioni per i giudici li violassero. Limitò, però, le ipotesi

di responsabilità del giudice ai soli casi di “dolo, baratterie,

concussioni, estorsioni ed altre somiglianti”14. Inoltre, stabilì che in

caso di assoluzione del giudice i querelanti sarebbero stati condannati

ad un forfettario risarcimento dei danni, ma soprattutto Tanucci

introdusse l’obbligo di motivazione della sentenza, assicurandosi

così sia la razionalità della decisione sia la possibilità di controllare

l’attività del giusdicente.

In effetti, alla luce di tutte queste innovazioni l’ordinamento

giudiziario napoletano sembrava aver iniziato un percorso di

burocratizzazione della magistratura.

13 Tanucci, in un dispaccio del 3 novembre 1753, specifica che il giudice posto in

minoranza dovrà firmare la sentenza, ma potrà, poi, far notare il suo voto nel libro dei voti.

(14)

Ciò nonostante, sarà solo dopo la breve occupazione francese

(1799-1815) che a Napoli potrà considerarsi definitivamente recepito il

modello di responsabilità disciplinare del giudice.

Infatti, al momento della restaurazione del dominio borbonico e della

creazione del nuovo Regno delle Due Sicilie l’istituto del sindacato

poteva dirsi soppiantato da quello francese della prise à partie.

Inoltre, sempre in ragione dell’influenza francese, l’ordinamento

giudiziario napoletano si informò ad uno schema rigidamente

gerarchico ed ai magistrati venne assegnata una retribuzione statale15.

In sostanza, si optò per un controllo indiretto della magistratura, che

passò per l’epurazione dei magistrati del decennio francese e che la

legge dell’ordinamento del 1817 realizzò accentrando il potere di

nomina, reclutamento e trasferimento dei membri del corpo

giudiziario nelle mani del Sovrano.

Tuttavia, anche se più lentamente, si andava delineando anche una

forma di controllo diretto dei magistrati. Di fatti, una volta sancito

che l’ordine giudiziario sarà subordinato solamente all’autorità della

propria gerarchia, veniva affidato alla Corte suprema di giustizia il

compito di vigilare sui giudici e deliberare sul loro operato in caso di

richiesta del Re.

Da questa breve ricostruzione storica possiamo quindi trarre la

conclusione che anche nel’ordinamento napoletano, come in quello

15 Ne derivò che l’antica prassi per cui i giudici ricevevano regalie, sportule,

propine o altri diritti pecuniari direttamente dalle parti venne sanzionata come prevaricazione. A. GIULIANI- N. PICARDI, cit., 510.

(15)

francese e prussiano della stessa epoca, il modello di responsabilità

professionale del giudice finì col piegarsi nel giro di pochi anni alle

esigenze d’imperio dell’esecutivo e assumere i caratteri di

responsabilità disciplinare.

Nel Regno di Sardegna16, al contrario, era più forte il sentimento

antifrancese ed i Savoia, una volta tornati al potere dopo la

Restaurazione, nell’immediato si preoccuparono di ripristinare

l’antico ordinamento giudiziario piemontese, per poi solo

successivamente dimostrarsi disponibili al recupero di alcuni istituti

napoleonici17. Per primo fu Carlo Felice che con un editto del 1822

diede un assaggio dell’asservimento del potere giudiziario a quello

politico. Egli inquadrò i magistrati tra funzionari dello Stato, attribuì

loro una retribuzione fissa graduata, ma soprattutto iniziò

un’operazione di epurazione politica tra i giudici, il così detto

squittinio. Nello specifico venne sancito che l’inamovibilità sarebbe

stata garantita ai giudici solo dopo tre anni di esercizio delle loro,

però allo stesso tempo l’epurazione del 1851 risultò esigua poiché si

ammise che la prova della fede politica iniziasse a decorrere

dall’entrata in vigore dello Statuto Albertino del 1848.

Inoltre, il controllo dell’esecutivo sulla magistratura piemontese

venne realizzato attribuendo alla stessa una struttura burocratica e

16 G. ASTUTI, Gli ordinamenti giuridici degli Stati Sabaudi, in Storia del Piemonte, Torino, 1960-1961.

(16)

gerarchica con il Magistrato di cassazione al suo vertice e

introducendo il principio della carriera, sia giuridica che economica,

dei magistrati.

Per quanto riguarda, invece, la possibilità di trasferimento del giudice

senza il suo consenso, in principio con la legge Siccardi del 1851

venne adottato il sistema francese, che fissava il principio di

inamovibilità assoluta dei giudici, fatti salvi i casi previsti dalla

legge18.Ma, già nel 1859 la legge Rattazzi, sulla scia

dell’ordinamento napoletano, optò per un’inamovibilità relativa e

conferì al ministro la possibilità di trasferire di sede il magistrato

inamovibile per utilità di servizio, riconoscendo però a tale

magistrato il diritto a mantenere lo stesso grado e stipendio ed a

vedergli attribuita un’indennità.

Infine, per quel che attiene la responsabilità disciplinare del giudice,

se la legge Siccardi si limitava considerare una nozione elastica di

illecito ed a distinguere le varie pene disciplinari, la legge Rattazzi

apportò, invece,alcune specificazioni ed alcuni perfezionamenti al

sistema. Prevedendo, ad esempio, la rimozione per il giudice che

rifiutasse di adempiere ad un dovere che gli era imposto dalla legge e

dai regolamenti.

18 Tra questi può essere ricordata la condizione di incompatibilità morale non

(17)

Per quanto attiene la responsabilità civile, il sistema del Regno di

Sardegna si ispira a quello napoleonico basato sulla prise à partie e

sarà anche di ispirazione nella stesura del codice italiano del 1865.

5. Lo Stato liberale

Una volta completata l’opera di annessione degli Stati preunitari a

quello piemontese, nel dibattito politico venne respinto qualsiasi

tentativo di avviare un processo costituente per il nuovo Stato e si

impose, al contrario, la linea cavouriana della continuità istituzionale

del Regno Sabaudo19.

Ed in questa fase di unificazione nazionale si decise anche di portare

avanti l’iter di burocratizzazione e subordinazione della magistratura

all’esecutivo intrapreso nei vecchi Stati della penisola20.

Il nuovo ordinamento giudiziario del 1865, adottato con Regio

Decreto n. 2629 e modellato sulla legge Rattazzi del 1859, conteneva

numerosi rimandi a quello francese e delineava un ordine dei

magistrati posto alle dipendenze del Ministro della Giustizia21.

In proposito, sulla falsariga della legge del 20 aprile del 1810, veniva

adottata una nozione elastica di illecito disciplinare, che

comprendeva ogni compromissione della dignità del magistrato o

della considerazione dell’ordine giudiziario.

19 G. VOLPE, L’Italietta, Storia costituzionale degli italiani, Torino, 2009, 18. 20 A. GIULIANI- N. PICARDI, cit., 515.

21 F. DAL CANTO, La responsabilità dei magistrati nell’ordinamento italiano,

(18)

Per quel che invece concerne le sanzioni disciplinari il nuovo

ordinamento si rifaceva alla legge Siccardi, seppur con qualche

irrigidimento. Si distingueva tra le sanzioni irrogate direttamente dal

superiore giudiziario, come l’ammonizione,e quelle comminate a

seguito di regolare processo, come la censura, la riprensione e la

sospensione dall’ufficio o dallo stipendio. Infine, era previsto che i

magistrati amovibili potessero essere destituiti in base alle

disposizioni comuni agli altri impiegati statali, mentre quelli

inamovibili potevano incorrere in destituzione o automaticamente in

conseguenza di determinate condanne penali22 o previa declaratoria

delle sezioni unite della Corte di Cassazione.

Il procedimento disciplinare si instaurava su iniziativa del p.m.,

avveniva in assenza di istruttoria ed in udienza a porte chiuse, a cui il

magistrato accusato partecipava personalmente senza assistenza dei

propri difensori. Il giudice incolpato aveva però la possibilità di

presentare le proprie dimissioni, determinando l’estinzione del

processo, e di chiedere la revisione del giudizio disciplinare.

A parte l’ordinamento del 1865 regolamentava la responsabilità

disciplinare dei pubblici ministeri, infatti, poiché quest’ultimi erano

apparati del Ministero di giustizia, ogni potere disciplinare era

attribuito al guardasigilli.

22 Nello specifico condanne a pene criminali e ad alcune pene correzionali, ex art.

(19)

Sempre di ispirazione francese erano le disposizione degli artt. 783

ss. del codice di procedura civile dedicati alla “azione civile contro le

autorità giudiziarie e gli ufficiali del Ministero Pubblico”.

L’istituto si caratterizzava per la sua specialità sia processuale che

sostanziale.

Dal punto di vista processuale, invero, la competenza per tali

processi apparteneva ai giudici sovraordinati, quindi, a seconda dei

casi, alla Corte di appello o di cassazione. Tale Corte doveva anche

previamente autorizzare la proposizione della domanda di

responsabilità civile23. Infine, a queste garanzie sostanziali e

procedurali previste a favore dei magistrati, costituivano un

deterrente all’esercizio dell’azione civile le disposizioni contenute

negli articoli 787 e 792, che condannavano il richiedente al

pagamento di una multa sia in caso di diniego di autorizzazione

preventiva che in caso di rigetto della domanda.

Dal punto di vista sostanziale, per di più, il giudice rispondeva

civilmente oltre che nelle ipotesi di dolo, frode e concussione, anche

23

Art. 786: “L’azione civile contro le autorità giudiziarie o gli ufficiali del Ministero Pubblico deve essere autorizzata dalla Corte cui spetta di giudicarne. L’autorizzazione è chiesta con ricorso insieme ai documenti, sui quali la domanda è fondata. Il ricorso indica i fatti e i mezzi di prova. Quando nel ricorso siano usate espressioni ingiuriose, chi lo ha sottoscritto è punito con multa estendibile a lire trecento; il procuratore è inoltre punito con la sospensione per tempo non maggiore di sei mesi, salvo in tutti i casi l’azione penale”. In caso di accoglimento del ricorso, l’autorizzazione era concessa con decreto, che veniva notificato al magistrato interessato. Quest’ultimo, ex art.788, doveva presentare le proprie difese nel termine stabilito dal decreto stesso. Presentate le difese, o decorso il termine stabilito per presentarle, veniva fissata l’udienza per la decisione (art. 790), alla quale poteva intervenire anche la parte ricorrente, ma solo se rappresentata da un procuratore (art. 791).

(20)

in caso di diniego di giustizia24 nonché nelle altre ipotesi previste

dalla legge25.

L’osservazione della giurisprudenza dell’epoca, tuttavia, mette in

luce la rara applicazione dell’istituto.

Le ragioni di tale prassi giurisprudenziale si ritrovano sia nel

consolidarsi di un sistema che privilegiava il ricorso a strumenti di

controllo disciplinare del giudice sia nella specialità della disciplina

dell’istituto.

Nello specifico, l’elencazione dell’art. 783 venne considerata

tassativa, perciò si ritenne che il giudice non rispondesse civilmente

per colpa, neppure grave e, vista la segretezza delle deliberazioni,

anche la collegialità costituì un limite alla responsabilità del giudice.

Inoltre, all’epoca assumevano particolare importanza anche gli

strumenti di controllo paradisciplinare.

In proposito, vennero istituite delle commissioni censorie col

compito di dispensare dal servizio i magistrati degli ex Stati che non

avessero superato il loro controllo politico26. Ma anche altri

24 Che conseguiva a due messe in mora del giudice intervallate nel tempo. Ex art.

784 cod. proc. civ. del 1865: “Affinché possa aver luogo l’azione civile nel caso di cui al n. 2 dell’art. 783 è necessario che la parte abbia fatto due istanze all’autorità giudiziaria o all’ufficiale del Ministero Pubblico nella persona del rispettivo cancelliere o segretario, per mezzo di usciere. Dalla prima alla seconda istanza deve esservi l’intervallo di cinque giorni almeno, se trattasi di conciliatori o di pretori, e di giorni dieci se trattasi di altra autorità giudiziaria o di ufficiali del Ministero Pubblico. L’usciere non può rifiutarsi a queste notificazioni sotto pena di destituzione” .

25 Art. 783: “Le autorità giudiziarie e gli ufficiali del Ministero Pubblico sono

civilmente responsabili: 1) Quando nell’esercizio delle loro funzioni siano imputabili di dolo, frode o concussione; 2) Quando rifiutino di provvedere sulle domande delle parti, o tralascino di giudicare o conchiudere sopra affari che si trovino in istato d’essere decisi; 3) Negli altri casi dichiarati dalla legge”.

(21)

strumenti tra cui la nomina politica dei magistrati, l’assegnazione

delle cause, le promozioni ed i trasferimenti d’ufficio permisero

all’esecutivo di realizzare il suo programma di rinnovamento e

subordinazione dell’ordine giudiziario. Un primo tentativo di porre

freno all’abuso di questi meccanismi di controllo fu realizzato solo

nel 187327 e nel 188028 quando i ministri Vigliani e Villa istituirono

delle apposite Commissioni consultive al fine di limitare il potere

discrezionale dell’esecutivo in merito alla progressione in carriera,

ma fu Giuseppe Zanardelli che nel 1890, rendendo obbligatorio il

reclutamento dei magistrati mediante concorso, pose fine al sistema

delle nomine politiche.

Nonostante sia stata da subito oggetto di critiche, l’ordinamento del

1865 è rimasto vigente fino alla c.d. Legge sulle guarentigie e

disciplina della magistratura del 190829.

Con questa legge Vittorio Emanuele Orlando, che in quel momento

reggeva il dicastero di Grazia e Giustizia, realizzò un primo tentativo

di tipizzazione degli illeciti disciplinari, provvedendo anche a

regolamentare le pene disciplinari, limitandosi però a distinguere

solo tra l’ammonimento ed il resto dei provvedimenti disciplinari.

Inoltre, innovativa fu l’idea di introdurre la possibilità di

accompagnare ai provvedimenti disciplinari altri accessori, come il

27 R.d. del 3 ottobre 1873, n. 1595. 28 R.d. del 4 gennaio 1880, n. 5230. 29 Legge del 24 luglio 1908, n. 438.

(22)

tramutamento d’ufficio del magistrato o la perdita in tutto o in parte

della pensione.

La riforma riguardò anche la struttura dei tribunali disciplinari.

Infatti, vennero appositamente creati un Consiglio di disciplina30 sito

presso ogni Corte di appello ed una Corte Suprema disciplinare31

presso il Ministero di grazia e giustizia.

Titolare dell’azione disciplinare era il ministro, ma il suo esercizio

avveniva da parte del p.m. su delega. Il dibattimento rimaneva a

porte chiuse, ma venne prevista una previa fase istruttoria in cui il

magistrato accusato poteva farsi assistere da un difensore. Tale

istruttoria, però, salva requisitoria conforme del p.m., non poteva

concludersi con sentenza di non luogo a procedere.

Infine, le disposizioni sul processo disciplinare venivano estese

anche al p.m., ma in questo caso gli eventuali provvedimenti

sanzionatori sarebbero stati adottati con decreto reale su proposta del

Ministro.

In questa nuova regolamentazione, inoltre, conservarono la propria

importanza anche strumenti di controllo paradisciplinare come la

dispensa dall’impiego del magistrato, che veniva proposta dal

tribunale al ministro qualora non si fosse riuscita a dimostrare la

colpa del giudice nel processo disciplinare, ma risultasse comunque

30 Composto di soli magistrati e con giurisdizione sui giudici inferiori.

31 Composta da magistrati e senatori e con giurisdizione sia sui magistrati di grado

(23)

che quest’ultimo avesse perso la stima e la fiducia dell’opinione

pubblica.

6. Lo Stato fascista

Tra coloro che sostengono che il fascismo si ponga su una linea di

continuità rispetto all’epoca liberale e coloro che, al contrario,

mettono in luce i plurimi punti di frattura tra le legislazioni 32, è

riscontrabile che per quanto riguarda la figura del giudice e la

disciplina della sua responsabilità possono essere evidenziate

significative innovazioni.

Per quel che attiene la responsabilità disciplinare e paradisciplinare, a

seguito dell’epurazione dei magistrati che avessero assunto una

posizione incompatibile con la politica di governo, si procedette nel

1925 anche allo scioglimento dell’Associazione generale dei

magistrati.

Con l’Ordinamento Oviglio33, adottato con Regio Decreto n. 2786

del 1923, fu recepito il sistema Orlando, anche se con alcuni

adattamenti. Infatti si accolse una nozione esclusivamente elastica di

illecito disciplinare e si accentuò l’ingerenza dell’esecutivo nel

meccanismo di nomina dei membri della Corte Suprema disciplinare.

32 A. GIULIANI- N. PICARDI, cit., 531.

33 T.U. delle leggi sull’ordinamento giudiziario approvato con R.D. del 30

(24)

Sempre con questo T.U. ci si preoccupò poi di dare al Consiglio

Superiore della Magistratura un inquadramento compatibile col

concetto unitario di Stato fascista, stabilendo che i suoi componenti

fossero nominati dal guardasigilli, udito il Consiglio dei ministri ed

attribuendo all’organo una funzione meramente consultiva ed

ausiliaria del Ministro di Giustizia.

Ma, è all’interno dell’Ordinamento Grandi34 del 1941 che sono

contenute le modifiche più incisive della regolamentazione. In questa

occasione, difatti, vennero soppressi i Consigli di disciplina presso le

Corti d’appello, vennero esclusi i senatori dalla Corte disciplinare e

venne, inoltre, esteso il sistema Orlando di controllo della

magistratura requirente a quella giudicante, rafforzando così il

sistema gerarchico ed poteri disciplinari del ministro. Sempre al

ministro venne, infine, anche attribuita la facoltà di respingere le

dimissioni del magistrato sottoposto a processo disciplinare e di

trasferire d’ufficio il giudice inamovibile condannato a sanzione

disciplinare diversa dall’ammonimento, senza riconoscere alcuna

garanzia al magistrato.

Tuttavia, è stato dimostrato35 che, tale è stata l’efficacia dei

meccanismi indiretti di controllo adottati dal regime, in realtà il

34

T.U. dell’ordinamento giudiziario approvato con R.D. del 30 gennaio 1941, n. 12.

35 La ricostruzione in AA. VV., La disciplina dei magistrati. Evoluzione e continuità: dall’Italia Albertina alla Repubblica democratica, in Quale giustizia,

(25)

sistema della responsabilità disciplinare è stato attivato solo in poche

occasioni.

Si può giungere addirittura ad affermare che in quest’epoca la

magistratura sia stata inquadrata in un modello paramilitare, piuttosto

che semplicemente burocratico. Invero, i giudici erano distribuiti in

una piramide gerarchica di undici gradi e la facoltà di attribuire

promozioni era riservata ai superiori secondo il criterio del merito. Al

vertice di questa piramide si collocava il guardasigilli, che nella

pratica esercitò il suo potere di controllo attraverso l’istituto delle

circolari ministeriali e quello del trasferimento d’ufficio del

magistrato. In merito a questo secondo istituto, poi, rileva che,

secondo la nuova normativa, potesse essere imposto al magistrato

anche per mere esigenze di servizio e che il parere del C.S.M. fu

sostituito con quello di una commissione dell’esecutivo.

In merito alla responsabilità civile del magistrato, invece, si osserva

che in questo contesto storico si affermò il pensiero della dottrina che

fondava l’immunità del magistrato, cioè il c.d. privilegio del giudice,

sul principio del giudicato. Riprova di questa tendenza è data dal

fatto che nei lavori preparatori per il nuovo codice di procedura civile

del 1940 la tematica della responsabilità civile del giudice ebbe

(26)

L’istituto venne disciplinato dall’art. 55 del nuovo codice36 di

procedura civile del Regno d’Italia, adottato con Regio Decreto n.

1443, che fissando tassativamente le ipotesi in cui il giudice sarebbe

stato chiamato a rispondere civilmente del proprio operato,

richiamava solo la responsabilità per dolo, frode, concussione e

diniego di giustizia37. Si trattava, sostanzialmente, delle stesse ipotesi

già previste dal Codice del 186538.

Dal punto di vista procedurale39 vennero introdotte alcune modifiche,

che avevano l’obiettivo di rafforzare il vincolo che subordinava la

magistratura all’esecutivo e l’inquadramento gerarchico della stessa.

Venne, difatti, trasferita al ministro la competenza ad autorizzare il

processo e competente sul merito della vicenda sarebbe stato un

giudice designato dalla Corte di cassazione. Al contrario, furono

abolite le pene pecuniarie previste dal precedente codice nei casi di

mancata autorizzazione o di rigetto della domanda.

36 Art. 55 c.p.c.: “Il giudice è civilmente responsabile soltanto: 1) quando

nell’esercizio delle sue funzioni è imputabile di dolo, frode o concussione; 2) quando senza giusto motivo rifiuta, omette o ritarda di provvedere sulle domande o istanze delle parti e, in generale, di compiere un atto del suo ministero. Le ipotesi previste al n. 2 possono aversi per avverate solo quando la parte ha depositato in cancelleria istanza al giudice per ottenere il provvedimento o l’atto, e sono decorsi inutilmente dieci giorni dal deposito”.

37 Per il cui accertamento sarebbe stata sufficiente una sola messa in mora ed il

decorso di dieci giorni dal deposito della stessa.

38

E. TIRA, La responsabilità civile dei magistrati: evoluzione normativa e

proposte di riforma, reperibile su sito www.archivio.rivistaaic.it, 2011.

39 Art. 56 c.p.c.: “La domanda per la dichiarazione di responsabilità del giudice non

può essere proposta senza l’autorizzazione del ministro di grazia e giustizia. A richiesta della parte autorizzata la corte di cassazione designa, con decreto emesso in camera di consiglio, il giudice che deve pronunciare sulla domanda. Le disposizioni del presente articolo e del precedente non si applicano in caso di costituzione di parte civile nel processo penale o di azione civile in seguito a condanna penale”.

(27)

Infine, l’art. 74 del nuovo codice di procedura riferendosi alla

responsabilità dei magistrati requirenti richiamava essenzialmente

quanto previsto per i giudici.

Appare evidente quindi come è in questa epoca che, legando il c.d.

privilegio del giudice al principio della cosa giudicata, si siano poste

le basi della problematica della sostanziale irresponsabilità del

giudice. Problematica che, nonostante l’infinito dibattito politico e

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