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EPILOGO Un bilancio “industriale”

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Academic year: 2021

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EPILOGO

Un bilancio “industriale”

Può un tema assunto come fulcro di un fascicolo monografico diventare prescrittivo per l’autore che decide di collaborarvi? Può un vecchio ed esperto scrittore come Vittorini pensare di ricreare artificialmente, negli anni Sessanta, una letteratura dell’impegno, tentando di orientare l’intellettuale in una direzione che non è la sua? Può il clima di comunicatività e compartecipazione che aveva caratterizzato il Neorealismo essere riesumato in un’epoca del tutto nuova ed intrinsecamente atomistica e disimpegnata? La vicenda- almeno poetica- de “Il Menabò” del 1961 dimostra di no.

Nel saggio introduttivo a quel fascicolo, lo scrittore siracusano rifiutava una partecipazione al tema Letteratura e industria che fosse mera descrizione della fabbrica e dei suoi cicli di lavoro, identificando “la verità industriale” con la catena di effetti che il mondo neocapitalistico mette in moto. Aggiungendo, come monito sia al contenutismo operaista che al piagnisteo naturalista, che lo scrittore sarebbe stato a livello industriale solo nella misura in cui il suo sguardo e il suo giudizio si fossero “compenetrati di questa verità e delle istanze (istanze di appropriazione, istanze di trasformazione ulteriore) ”1 che essa conteneva. L’invito era, insomma, ad assumere una prospettiva piuttosto ampia sull’argomento, talmente ampia che l’intellettuale doveva dimenticare il rancore per una società che lo emarginava sempre di più, abbandonare gli aristocratici retaggi di un umanesimo anacronistico e controproducente, e unirsi all’industria in un grande abbraccio neoscientista. Queste, almeno, erano le premesse.

Sereni, Pignotti e Giudici “rispondono” a Vittorini in maniera disomogenea, anzi, gli ultimi due non avrebbero mai risposto, se Bilenchi per l’uno, il poeta di Luino per l’altro, non avessero fatto da tramite. Comune a tutti e tre è la direzione non mirata, ma trasversale, riflessa, con cui arrivano a confrontarsi con il tema dell’industria; il dimensionamento dell’esperienza in una fase successiva; la non continuità, lo scorporamento dal contesto iniziale e lo smistamento in altre raccolte2. Anche per chi poi si è affermato come poeta di fama, della partecipazione a “Il Menabò” non rimane che qualche traccia sparuta in biografie dettagliatissime, dovuta sia all’esigua rilevanza

1

Cfr VITTORINI, Industria e letteratura, p.20

2 Rispettivamente si tratta de Gli strumenti umani, Nozione di uomo e (per quasi tutte le poesie giudiciane) La vita in

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letteraria di quell’esperienza, sia alla poca considerazione che le hanno riservato, a posteriori, gli stessi autori.

Per Vittorio Sereni, ad esempio, parlare di “impegno dell’intellettuale” è, per sua stessa ammissione, una forzatura: lontano, suo malgrado, dai momenti cruciali della storia3, si volta di spalle anche quando la storia è accanto a lui. Una visita in fabbrica nasce dalla sua personale esperienza alla Pirelli, e non da una vocazione sociale o politica, anche se poi riesce a superare il muro che la tiene confinata all’occasione per cui è stata scritta e a svilupparsi in direzioni interessanti. All’interno del poemetto si aprono, senza essere caricati di un’attenzione troppo ideologica, numerosi squarci di realtà: quello dell’intellettuale gettato nell’industria, degli operai che hanno gradatamente perduto la loro tensione proletaria (tenuta viva per anni dalla sirena artigiana), la demoralizzazione piccolo-borghese, il paternalismo dei grandi complessi aziendali. E, più di tutti, quello dell’incomunicabilità tra l’intellettuale, temporaneo visitatore dell’opificio, e i lavoratori, ergastolani in quegli asettici inferni, uno scarto che a mio parere rappresenta il limite reale della “letteratura industriale” di quegli anni. Certo, lo scenario delineato da Sereni nasce in parte indipendentemente dalle intenzioni dell’autore (“Io non avevo queste cose da dire, ma queste cose sono, con altre più immediate, i pezzi del mio discorso”4

), che rimangono quelle di un borghese non impegnato politicamente: una certa ansia di aver dilatato la poesia in una direzione non volutamente rivoluzionaria porterà infatti Sereni a numerosi distinguo e ad una diversa redazione del poemetto per Gli strumenti umani. La sua partecipazione è insomma quella propria di chi, in una confidenza privata, decide di raccontare la sua esperienza personale, ma poi si ritrae se deve testimoniare in un processo pubblico. Per questo, il desiderio vittoriniano di stimolare un dibattito sul rapporto tra letteratura e industria cade in parte a vuoto con Sereni, che scrive della sua pirelliana visita in fabbrica preoccupandosi di non attribuirle una validità più vasta, esemplare, rappresentativa di una realtà comune a molti.

Diverso è il caso di Lamberto Pignotti, inventore, nell’ambito del Gruppo 70, di una poesia tecnologica che è “merce rispedita al mittente”5

, assunzione del linguaggio burocratico, pubblicitario, mediatico in un tessuto poetico ma non lirico, demistificazione della letteratura bella e inutile, genere ibrido tra il polemico e il

nonsense. La sua partecipazione al quarto numero de “Il Menabò” avviene in virtù del

3

Si ricordi la prigionia in Algeria che gli impedisce di partecipare alla Resistenza.

4 BUZZI, Una vicenda amicale: lettere di Vittorio Sereni cit. in BARILE, Sereni, p.50 5 Cfr la mia Conversazione con Pignotti in Appendice

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fatto che l’arte di Pignotti già procedeva in quel periodo sui binari di una critica alla civiltà tecnologica (di cui, per l’autore, il mondo industriale costituisce un sottoinsieme), critica attuata con le armi formali di una rivoluzione del linguaggio poetico (o, meglio, di una ridefinizione di ciò che può essere considerato tale). È poi il

deus ex machina Bilenchi a notare la compatibilità tra la direzione polemica intrapresa

da Pignotti e il contesto monografico de“Il Menabò” dedicato all’industria, una compatibilità che però non si realizza fino in fondo. Le scelte stilistiche e formali, pur dissacratorie nei confronti dell’alienazione e della massificazione della civiltà industriale, non riescono infatti ad evolversi nella formulazione di un messaggio organico, completo, e rimangono quasi al livello di un esercizio di demistificazione linguistica. Se poi assumiamo, in ultima analisi, il conclamato disinteresse di Pignotti per il tema dell’industria in sé6

, risulta evidente la non rispondenza de L’uomo di qualità

al profilo letterario vagheggiato da Vittorini: la raccolta, ben lontana dal restituire “la catena di effetti che il mondo neocapitalistico mette in moto”7

, si ferma alla descrizione superficiale di un’atmosfera grigia ed artificiale, che si rivela quasi unicamente come il contesto pretestuoso per una provocazione linguistica.

Giovanni Giudici, infine, è l’autore che nella sua raccolta mischia insolubilmente i versi e la vita, adottando una prospettiva sul mondo industriale che raramente riesce ad uscire dalla soggettività del poeta, egli stesso immerso nello smog, nella frustrazione impiegatizia, nel grigiore di un civico decoro che rappresenta la dimensione più auspicabile e rassicurante per il piccolo borghese milanese. Fin qui, niente di male, se non fosse per la zavorra cattolica che il poeta si porta dietro dall’infanzia, e che lo costringe ad un continuo riequilibrio delle parti tra la rassegnazione ad un mondo che sì, potrebbe essere migliore, ma che in fondo è solo un momento di passaggio, e l’istinto di ribellione e di cambiamento stimolato dalla sua coscienza critica di sinistra. Il conflitto non è gratuito: se lo sguardo di Giudici sulla realtà è forse il più lucido e completo tra quelli- poetici- presenti sul “Menabò” (lo scenario tratteggiato riflette veramente la catena di effetti del mondo neocapitalistico), a mancare è la successiva parte propositiva, reattiva. Ovvero, Giudici traspone in versi, con esplicita franchezza, le controindicazioni e le aporie del miracolo economico, ma al momento di dover fare una scelta di parte tra adeguamento e rifiuto, è incapace di schierarsi o anche solo di capire se sia opportuno per lui trasferirsi in campagna.

6

“Il tema dell’industria in sé non mi è mai interessato, né ho mai amato il neorealismo, con il suo operaio, la fabbrica, la bicicletta. Era un piccolo mondo chiuso.” Cfr Conversazione con Pignotti in Appendice

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Questa indecisione di fondo costituisce a mio parere un handicap per la raccolta, non tanto perché non approda ad un atteggiamento militante (assolutamente non richiesto), quanto perché impedisce una vera penetrazione in quella realtà, spostando l’attenzione su direttrici ancora più autobiografiche, come i suoi dilemmi interiori, la sua paura della morte, il conflitto-confronto con la figura del padre. Ne deriva una poesia in cui la vita prevale sul resto, che viene spesso relegato ad un paesaggio-stato d’animo grigio e fumoso dove si stagliano le vicende personali e le dicotomie del poeta.

Per ragioni diverse, i testi poetici del “Menabò” del 1961 non riescono quindi a restituire esaurientemente la congerie di implicazioni che lo sviluppo industriale ha avuto sull’uomo e sulla vita negli anni Sessanta, complice un disinteresse di fondo nello svolgere un “compito” squisitamente vittoriniano. Del resto, la forma poetica, sebbene al culmine di un processo di emancipazione da regole e schemi costrittivi durato tutto il Novecento, per il suo carattere intrinsecamente lirico, o intimistico, non risulta la più adatta per una narrazione “industriale” in senso lato. Esiste sì un tipo di poesia “saggistica”, più versatile a fare propri temi politici e sociali ma, ammesso che la raccolta di Pignotti rientri in una simile definizione, la carenza andrebbe piuttosto registrata dal punto di vista della qualità.

L’abbandono di ogni residuo lirico si attua solo nel numero successivo, il “Menabò” del 1962 (trait d’union tra un tema industriale in fase di dissolvenza e la nascente neoavanguardia) , con Progetto letterario di Francesco Leonetti, “saggio in versi”8

liberi e ultima manifestazione sull’argomento monografico del 1961, nel quale il primato della struttura e l’invenzione linguistica rispecchiano in pieno le peculiarità di una poesia che si professa novissima9. Il lungo poemetto tripartito10 ha per protagonista un intellettuale (“conservatore/ di speranze che sono usate,/ di usanze” La tentazione di

Heidegger) insofferente al consumismo sfrenato ( “L’uomo è colmo/ dei beni del

miracolo o dello spazio/ e di veri rapporti privato…”, Gli anni Sessanta) e ormai dissidente nei confronti dei passati idoli rivoluzionari (“Abbiamo tutti patito/ un’insufficienza di Marx/ diventato giuridico,/ e cominciammo a dire utopia, a dire progetto…”, Ritmo bolognese).11

Secondo Crovi, “Leonetti farcisce i suoi testi di

8 Cfr CROVI, Notizia su Francesco Leonetti, p.84. Si noti il primo altolà per poter continuare a parlare propriamente di

“poesia”.

9

“I novissimi” è il titolo di un’antologia poetica pubblicata nel 1961, che prefigura i punti di rottura che la

Neoavanguardia farà propri nel 1963, anno di fondazione del movimento. Leonetti non fa parte della prima antologia, ma le innovazioni sono sostanzialmente le stesse.

10

Le tre sezioni che compongono Progetto letterario s’intitolano, rispettivamente, Gli anni Sessanta, La tentazione di

Heidegger, Ritmo bolognese.

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figurazioni metaforiche di dati sociologici, filosofici, antropologici, economici, politici, trasformando schemi e risultati di un processo d’analisi culturale in immagini, in poesia”12

. Vero, ma di che tipo di poesia si tratta? A premere sotto la superficie di un contenuto assimilabile a quello delle raccolte del 1961, ad esigere sempre più spazio e visibilità nel “saggio in versi” è in realtà la novità formale che la neoavanguardia teorizzerà, ovvero ancora “il primato della struttura, il suo porsi in luogo della rappresentazione” che significa che “la poesia, anziché offrirsi nel suo insieme come metafora del reale, si costituisce come un altro polo del mondo linguistico.”13 Lo scopo precipuo di Leonetti è allora, ancora una volta, diverso da quello individuato da Vittorini: a cavallo tra il fascicolo dedicato al rapporto tra industria e letteratura, e quello che per primo funziona da vetrina per alcuni testi già avanguardistici, il

pamphlet14 del redattore di “Officina” è fortemente sbilanciato verso il secondo

orientamento15.

Il quarto numero de “Il Menabò” viene quindi spazzato via da un vento letterario apparentemente nuovo e rivoluzionario, per il quale l’impegno sulla realtà risiede nel

modo di formare16, ma soprattutto dall’inattualità di un tema come quello riguardante la

critica contro l’industria, verso cui l’italiano medio degli anni Sessanta, pago dei beni materiali che invece da essa ha avuto, rimane insensibile. E dell’epilogo di Vittorini resta, in fin dei conti, più che un risultato di qualità, la prova estrema del suo ruolo centrale nella cultura del Dopoguerra, anche quando questo ruolo appare chiaramente esautorato, anacronistico, superato.

12

Cfr CROVI, ivi, p. 84

13

Cfr GIULIANI, Prefazione del 1965 a “I novissimi”, in GIULIANI, p.12

14 La definizione è in CROVI, ivi, p. 84

15 Sempre di Leonetti si veda, sul sesto numero, ormai completamente consacrato alla Neoavanguardia (siamo nel

1963), anche La fabbrica di Ravenna, definito già dall’indice “saggio in versi”.

16 Il riferimento è al titolo del celebre saggio di ECO, Del modo di formare come impegno sulla realtà, in “Menabò” 5,

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