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QUADRO TEORICO

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Capitolo I

QUADRO TEORICO

Risulta necessario, in prima istanza, fornire al lettore la definizione di alcuni concetti la cui conoscenza e descrizione possono risultare utili per ‘muoversi’ con maggiore facilità all’interno dei successivi capitoli. Tale primo capitolo ambisce, senza alcuna pretese di risultare esaustivo, non solo a delineare il quadro teorico all’interno del quale ci muoveremo, ma anche a dotare il lettore di strumenti utili a comprendere meglio quel linguaggio settoriale, proprio delle scienze economiche e giuridiche, che potrebbe risultare, forse, poco comprensibile per il profano.

Si cercherà, quindi, di fornire in forma essenziale, senza l’utilizzo di grafici e formule algebriche, gli elementi giuridici e di microeconomia propedeutici alla comprensione dei successivi capitoli, mantenendo costantemente l’attenzione puntata su quei tratti che risultano rilevanti per il diritto antitrust.

1.1 Nozione d’impresa

Occorre definire in primo luogo, seppure in modo piuttosto sommario e senza scendere eccessivamente nel dettaglio, a cosa ci si riferisce quando si utilizza il termine impresa.

Tale passaggio, nonostante possa apparire superfluo, è importante, in quanto tanto l’analisi economica che la normativa oggetto dell’analisi proposta nei prossimi capitoli ha

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come punto di partenza e di arrivo questo elemento primario di un economia di mercato.

L’impresa, quale unità basica del sistema economico, può essere analizzata nelle sue diverse manifestazioni fenomeniche sotto luci differenti volte ad illuminare ciascun sistema elementare di cui si compone, attraverso il quale si esplica la coordinazione dell’attività economica. Per impresa si intende l’unità produttiva fondamentale in un’economia di mercato o mista. Per unità produttiva fondamentale ci si riferisce a quel complesso insieme di capitali, manodopera e conoscenza che possiede caratteristiche ineludibili quali la sistematicità e l’efficienza, ovvero, l’organizzazione produttiva. Tuttavia, la definizione e il concetto d’impresa varia enormemente a seconda della disciplina speculativa che prendiamo in considerazione.

Nell’indagine e nella riflessione teorica sociologica l’impresa assume particolare valore come motore per lo sviluppo ed il progresso della società umana. Il suo ruolo appare ampio ed importante: nel corso dei secoli essa ha progressivamente allargato e rafforzato la propria posizione sociale, arricchendosi di nuove funzioni che la dinamica degli eventi storico-politici ha finito per farle assumere, talvolta contro gli stessi canoni e leggi che regolano l’economia.

Si delinea, pertanto, nei Paesi industrializzati una realtà sociale dominata da piccole e grandi imprese, centrali di vita politica oltre che economica, in cui tra una molteplicità di gruppi interni ed esterni all’organizzazione si sviluppano rapporti di collaborazione-contrasto e che finisce per modificare tanto gli schemi operativi quanto lo stesso concetto di società.1

Al margine di tale prima definizione sociologica assume particolare rilevanza ai fini dell’oggetto della nostra indagine l’analisi del concetto di impresa tanto nelle scienze economiche quanto in quelle giuridiche.

Da un punto di vista economico l’impresa rappresenta l’ente che acquista determinati input, lavoro e capitale, col fine di produrre e vendere beni e servizi (output).

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Le imprese esistono per varie ragioni, la più importante delle quali è che esse sono organizzazioni specializzate che si dedicano alla gestione del processo produttivo, il cui fine principale è conseguire profitti (differenza tra ricavi totali e costi totali) che possano remunerare l’impegno del soggetto economico: l’imprenditore.

In tale visione gli elementi fondamentali che costituiscono l’impresa sono la tecnologia, ovvero i diversi modi di combinare i fattori produttivi per ottenere il prodotto/servizio finale, e l’imprenditore, inteso come proprietario e manager.

Secondo questa definizione, elaborata a partire dalla ‘rivoluzione marginalista’ della fine del XIX secolo, l’impresa viene, quindi, considerata esclusivamente come il luogo della produzione, ovvero della trasformazione di input in output.

Ipotesi implicite della teoria neoclassica dell’impresa2 sono che essa è gestita da un imprenditore che si comporti in maniera razionale, che l’impresa abbia una conoscenza perfetta del mercato e che i benefici e gli oneri dell’impresa (sia sociali che privati) sono completamente espressi dai ricavi e dai costi. Per conseguire l’obiettivo di massimizzazione dei profitti l’imprenditore deve risolvere due problemi.

In primo luogo, data la tecnologia a disposizione deve combinare gli input per ottenere gli output in modo efficiente, quindi esso limiterà la propria scelta all’insieme delle tecniche Pareto efficienti. Una tecnica è Pareto non efficiente se è possibile ottenere lo stessa quantità di output con un impiego inferiore di almeno un input. L’insieme delle tecniche Pareto efficienti nell’ambito delle quali l’imprenditore può operare la sua scelta è definito dalla funzione di produzione3 ovvero la relazione tra input ed output che indica tutti e soli i modi efficienti di produrre un certo output data una certa tecnologia.

2

La nascita delle teorie dell’economia neoclassica (o ‘rivoluzione marginalista’) si può datare intorno al 1870, con i contributi di M. E. L. Walras, W.S. Jevons, A. Marshall. Successivamente l’espressione è stata usata per indicare il complesso delle teorie economiche canoniche, che include parte della teoria keynesiana, quella monetarista e le teorie derivate.

3 La funzione di produzione è la relazione tra la quantità di produzione di un bene economico e le quantità

dei singoli fattori di produzione. È una funzione matematica che mette in relazione il flusso di un bene prodotto Y e il flusso degli n fattori produttivi X utilizzati nel processo produttivo in un determinato periodo di tempo. Dato un insieme di produzione Z, la funzione di produzione associa la quantità massima di produzione ottenibile con una determinata combinazione di quantità dei fattori produttivi, in un determinato periodo di tempo, a parità di capitale. Nel caso più semplice di un prodotto Y e di un fattore X la funzione di produzione è formulata nel seguente modo: Yq = f(xq). Per una trattazione più estesa

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In secondo luogo, dati i modi efficienti di produrre (ovvero la funzione di produzione) l’imprenditore dovrà definire la scala di produzione in modo da realizzare l’obiettivo di massimo profitto. Secondo la regola marginalista di massimizzazione del profitto l’impresa produrrà quella quantità di output tale che il ricavo marginale eguagli il costo marginale4.

L’imprenditore quindi si limita a controllare l’esatto funzionamento del procedimento di trasformazione e di combinazione dei fattori, in base alla funzione di produzione scelta, ignorando come concretamente si ottenga l’output, ovvero come si svolge il processo produttivo. A tale mero coordinatore, centro d’imputazione dei rapporti contrattuali che regolano l’acquisto degli input e la cessione degli output, si affianca la tecnologia, strumento in grado di incrementare l’output data una certa quantità di input.5

Dal punto di vista della normativa e della regolamentazione che ha come oggetto l’impresa e, in senso più ampio, il mercato è necessario, con il fine di porre dei limiti all’ambito di applicazione delle norme, definire cosa si intenda per impresa.

Nel diritto Comunitario, tanto in quello dei trattati quanto in quello derivato,6 il concetto di impresa è stato impiegato dal legislatore con una certa frequenza, nonostante ciò, ad oggi manca ancora una definizione rilevante ai fini del diritto antitrust.

Quasi consapevole di ciò, la giurisprudenza ha cercato di elaborare ed in seguito migliorare e completare tale nozione, alla luce degli specifici casi che vi si presentavano. Il punto di partenza può essere individuato nella precisazione del giudice della Corte di Giustizia della Comunità europea che, pronunciandosi sul caso Hofner/Macroton (1991)7, dice: «nel contesto del diritto della concorrenza, la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che svolga un’attività economica indipendentemente dal suo status giuridico e dal suo modo di finanziamento, e che l'attività di collocamento è una attività

dell’argomento si può vedere qualsiasi manuale di microeconomia (uno per tutti: N. G. Mankiw, M. P. Taylor, Principi di economia, 5ª Ed., Zanichelli, 2012).

4 Il costo marginale esprime la variazione del costo conseguente ad una variazione unitaria dell'output. Il

ricavo marginale esprime la variazione del ricavo conseguente ad una variazione unitaria dell'output.

5

N.Giocoli, Impresa, concorrenza, regole, Giappichelli, 2009, pp. 1-2.

6 Si fa riferimento esclusivamente al diritto antitrust Comunitario o dell’Unione Europea in quanto la

normazione in materia dei Paesi membri fondamentalmente ricopia o rinvia direttamente alle norme Comunitarie o dell’Unione.

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economica». Pertanto, secondo la Corte, tale nozione è indipendente dall’esistenza di uno scopo di lucro e di una personalità giuridica; ciò che conta è semplicemente lo svolgimento di un’attività economica, sia essa di produzione e/o scambio di beni o servizi, dietro remunerazione. Il sentiero tracciato dalla Corte, risulta peraltro seguito dalla Commissione stessa, la quale, ad esempio nel caso Pauwels Travel/FIFA (1992)8, precisa che «costituisce attività di natura economica qualsiasi attività che partecipi agli scambi economici, anche a prescindere dalla ricerca di profitto a dell’eventuale distribuzione degli utili». La stessa dottrina ha evidenziato come la giurisprudenza comunitaria adotti un concetto di impresa estensivo e trascurando qualsiasi riferimento ad un criterio organico, pone l’accento sul criterio funzionale9. È proprio la funzione dell’attività svolta dal soggetto considerato il discriminante per qualificare un’entità economica come impresa, ai sensi degli articoli 101 e 102 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea. Se questa, rispondendo ad un bisogno economico, si colloca sul mercato, allora rientra nel raggio d’azione delle regole sulla concorrenza.

Analogamente, secondo altri autori «sulla base della prassi della Commissione e della giurisprudenza della Corte si può definire l’impresa come un’organizzazione unitaria di elementi personali, materiali ed immateriali, attraverso la quale viene esercitata un’attività economica, a titolo non gratuito, in modo duraturo ed indipendente. La nozione ha un contenuto comunitario, essendo indipendente dai concetti desumibili dai diversi diritti nazionali»10.

Naturalmente la nozione di impresa elaborata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (A.G.C.M.) italiana risulta in linea con quella comunitaria, avendo anche in questo caso un ampio raggio d’azione. Basti qui ricordare alcuni provvedimenti nei quali l’A.G.C.M. ha considerato degli enti pubblici come imprese in quanto entità che

8 Commissione dell’Unione Europea, 27 ottobre 1992, Pauwels Travel/FIFA, in G.U.C.E. n. L326, 1992, p.

31.

9

AA. VV., Antitrust fra diritto nazionale e diritto comunitario, Giuffrè, Milano, 1996, p.24.

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esercitano attività economiche a prescindere dal loro status giuridico e dalle loro modalità di finanziamento11.

Anche nella normativa e nella giurisprudenza statunitense manca una chiara ed esplicita definizione del concetto di company12. Dal momento che gli Stati Uniti sono un sistema federale, la maggior parte della normativa volta a regolare le imprese sono di competenza dei singoli Stati federati. Ciò ha portato alla formazione di legislazioni differenti in ciascuno Stato tese a categorizzare le diverse forme d’impresa che è possibile costituire sancendone diritti e doveri, senza occuparsi di dare una definizione generale del concetto d’impresa. Tuttavia non mancano leggi federali che regolano le attività d’ impresa, ma anche in questo caso sono, o rivolte a singole categorie di imprese13 o rimandano a tutte quelle organizzazioni che possono essere considerate come imprese nei diversi Stati federati.

Come per quanto detto per l’Unione Europea, allo stesso modo il diritto statunitense, con il fine di dare un’ampia portata alla normativa antitrust, tende ad adottare un concetto d’impresa piuttosto estensivo.

Fondamentalmente il concetto d’impresa che deriva dagli studi economici è ridotto al luogo di produzione, il cui fine principale del soggetto economico è massimizzare i profitti. D’altro lato la normativa antitrust, tanto dell’Unione Europea che degli Usa, si risparmia dal definire in modo chiaro e univoco cosa si intendi per impresa. Mentre il diritto civile, commerciale e fiscale non si esime dal dare una definizione chiara d’impresa, occupandosi principalmente di regolare e definire le possibili modalità con cui esercitare l’attività economica e disciplinando, in maniera più o meno profonda, la

11

A.G.C.M., 28 luglio 1995, S.i.l.b./S.i.a.e., Boll., 1995, pag.30; A.G.C.M. 17 dicembre 1998 Consorzio

Risposta/Ente Poste Italiano, Boll., 1998, p. 51.

12

È importante non confondere nel gergo economico-giuridico USA il concetto di company con quello di

corporates. Il termine corporates rappresenta un sottoinsieme della più larga categoria di company. Il

primo indica esclusivamente le società di capitali è gode di una precisa e apposita normativa federale (Model Business Corporation Act), oltre alla normativa dei singoli stati federati, mentre il secondo include qualsiasi tipo di attività di carattere economico, nel senso più ampio del termine.

13 Un esempio è l’intero corpo normativo di Corporate law, una norma volta a regolare solo le società di

capitali. Per una trattazione più estesa dell’argomento: J. Armour, H. Hansmann, R. Kraakman, The

essential elements of corporate law, What is corporate law?, Discussion Paper n. 643 del 7/2009, Harvard

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vita aziendale, il diritto antitrust utilizza l’approccio funzionale per quanto riguarda l'applicazione delle regole di concorrenza e la nozione d’impresa. Tuttavia, entro certi limiti, possiamo considerare sovrapponibile il concetto d’impresa fornito dalle scienze giuridiche in materia antitrust con quello dall’analisi economica, essendo in entrambi i casi concetti molto ampli, tesi a far rientrare in tale categoria un elevato numero di fattispecie.

1.2 Nozione di prezzo e di costo

Il principale metodo di individuazione dei prezzi predatori si basa sul raffronto tra prezzi praticati e costi. L’idea di base considera un prezzo non redditizio, irrazionale e quindi predatorio, in quanto praticato esclusivamente per la propria capacità di escludere il concorrente dal mercato, quello fissato ad un livello inferiore al costo. Questa tecnica di identificazione deve quindi confrontarsi con due problemi strettamente legati:

 fino a che punto un abbassamento dei prezzi può essere spiegata da motivi di tipo allocativo, produttivo, mercatistico o patologico;

 quali sono i costi da prendere in considerazione per operare un corretto raffronto tra prezzo e costo che consenta di capire se esiste, in relazione al periodo temporale scelto, una motivazione razionale al di là dell’esclusione del concorrente.

L’importanza del tema impone un certa familiarità con i vari concetti di prezzo e di costo che la scienza economica ci offre. Tali concetti sono oggetto di studio della microeconomia e della teoria dell’organizzazione industriale.

Il prezzo è il valore economico di un bene o servizio espresso in moneta corrente in un dato tempo e luogo.

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Nel prezzo si concentra tutta l'informazione a disposizione degli agenti economici. Per il compratore il valore è dato dall’insieme dei benefici attesi dall’uso del prodotto, benefici che tradotti in termini monetari costituiscono il limite al di sopra del quale l’acquisto non è conveniente. Per il venditore le decisioni riguardanti i prezzi sono anzitutto orientate dagli obiettivi che si vogliono raggiungere. Per le imprese private il primo obiettivo è vendere i servizi o prodotti a prezzi che generino un livello di domanda sufficiente a conseguire un profitto. Il prezzo sarà fissato con lo scopo di massimizzare i profitti14. Una discesa dei prezzi in un dato mercato può avere alla base spiegazioni di tipo allocativo, ovvero essa può dipendere da un massiccio ingresso di imprese nel mercato e quindi dal crescere della concorrenza effettiva o dal crescere della pressione della concorrenza potenziale. A livello puramente teorico, seguendo il modello proposto da Adam Smith15, si può immaginare che il prezzo si abbassi, in condizioni di concorrenza perfetta, fino al punto in cui il prezzo eguaglia il costo marginale, raggiungendo un punto astratto di equilibrio16.

In altri casi, un abbassamento dei prezzi può dipendere da una maggiore efficienza produttiva, ovvero dal miglioramento delle funzioni produttive delle imprese. Questo miglioramento può dipendere dall’aggiustamento delle dimensioni degli impianti, dall’ottimizzazione delle economie di scala, di scopo, di specializzazione, dai processi di

learning-by-doing17, dallo sfruttamento di nuove tecnologie e dalla razionalizzazione del

14 Per una trattazione più estesa dell’argomento si può vedere qualsiasi manuale di microeconomia (uno

per tutti: N. G. Mankiw, M. P. Taylor, Principi di economia, 5ª Ed., Zanichelli, 2012, Cap. 4).

15

«Il prezzo del monopolio è in ogni occasione il più alto che può essere ottenuto. Il prezzo naturale, o il prezzo della libera concorrenza, è al contrario il più basso che può essere preso, non davvero in ogni occasione, ma per ogni considerevole lasso di tempo. L’uno è in ogni caso il più alto che può essere estratto dai compratori, o che, si ritiene, essi siano disposti a pagare. L’altro è il più basso che i venditori possono comunemente permettersi di tenere, continuando contestualmente nella propria attività». A. Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, Edwin Cannan edition, online at http://www.econlib.org/library/Smith/smWN.html, 1904 [1776].

16

L’impresa in concorrenza perfetta subisce il prezzo: esso è uguale al costo marginale di produzione e, nel lungo periodo, l’entrata e l’uscita nel e dal mercato di nuove imprese fa tendere il profitto economico allo zero, in modo che il prezzo eguagli il costo medio totale. Un’impresa in concorrenza perfetta considera il prezzo del proprio prodotto come dato e sceglie di produrne la quantità che ne garantisce l’uguaglianza con il costo marginale. Per una trattazione più estesa dell’argomento si può vedere qualsiasi manuale di microeconomia (uno per tutti: N. G. Mankiw, M. P. Taylor, Principi di economia, Zanichelli, 2012. Cap. 14).

17

Si tratta delle cosiddette economie di apprendimento. Per una trattazione più estesa dell’argomento si veda: M.C. Sawyer, Introduzione all’economia industriale e dell’impresa, Bologna, 1985, pp. 82-85.

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sistema distributivo. Evidentemente tale dinamica muta i rapporti di forza tra le imprese concorrenti, mettendo alcune in condizione di prevalere sulle altre sulla base di una maggiore efficienza produttiva.18

La discesa dei prezzi, ancora, può trovare giustificazione nelle politiche di marketing seguite dall’impresa ovvero quel complesso di azioni poste in essere dall’impresa per indurre, preservare o modificare i modelli di comportamento degli operatori di mercato allo scopo di ritrarre un vantaggio competitivo. L’obiettivo di tali politiche non è solo quello di aumentare le vendite, ma anche di creare una migliore immagine dell’impresa.19 Lo strumento principale utilizzato dalle politiche di marketing corrisponde proprio nell’utilizzo della ‘leva prezzo’ per raggiungere gli scopi prefissati dall’impresa. Il prezzo è l'unica componente delle variabili del marketing mix che può essere cambiata in poche ore e controllata dall'impresa, esso è un importante strumento di comunicazione: il consumatore infatti può avere delle difficoltà nel valutare la qualità, le caratteristiche, la tecnica di un prodotto, ma il prezzo è sempre un messaggio chiaro e valutabile ed, infine, il consumatore è sempre sensibile al prezzo.

In ultima analisi, la caduta dei prezzi può rappresentare l’effetto di un artificiale degenerazione del processo concorrenziale, magari camuffata sotto le mentite spoglie dei tre casi precedenti e destinato a generare un’anomala alterazione dei rapporti di forza tra i concorrenti o, addirittura, l’estromissione forzata di alcuni di essi dal mercato20.

Il termine costo è privo dell’appropriata capacità descrittiva. La microeconomia individua innanzi tutto quattro categorie: il costo fisso, il costo variabile, il costo totale ed il costo marginale.

I costi fissi sono quelli associati, appunto, ai fattori fissi: non dipendono dal livello dell’output e, in particolare, devono essere sostenuti che l’impresa produca o no. L’affitto degli impianti, ad esempio, è un costo fisso poiché non dipende dal livello di produzione.

18

P. Giudici, I prezzi predatori, Giuffrè, 2000, pp. 31-35.

19

R. Winer, R. Dhar, Marketing Management, Prentice Hall, 2011.

20

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I costi variabili invece mutano in proporzione al livello produttivo: se l’impresa non produce, affronta sempre i costi fissi, ma non sostiene i costi variabili. Un esempio classico è dato dall’energia elettrica necessaria ad alimentare il processo: più la produzione aumenta, più questi costi salgono.

Sommando costi fissi e costi variabili si ottengono i costi totali. Se poi si divide ciascuna di queste tre categorie per la quantità prodotta in un dato momento si ottengono rispettivamente il costo fisso medio, il costo variabile medio ed il costo totale medio21. Il costo marginale rappresenta invece l’incremento dei costi da affrontare per produrre un’unità aggiuntiva di prodotto. Si tratta pertanto di un elemento che si determina per differenza, data dal mutamento dei costi variabili ad un livello di produzione più alto, dato che, per definizione, i costi fissi non cambiano. Per la prima unità di prodotto, il costo marginale equivale, chiaramente, al costo variabile medio. In seguito tra le due misure si registra una differenza, dovuta al fatto che l’efficienza produttiva di un’impresa varia con la scala della sua produzione e che, di solito, i costi medi di produzione scendono sino al raggiungimento di un certo livello di capacità produttiva, per poi risalire in conseguenza dell’incrementato sforzo cui sono sottoposti gli impianti. Sino a quando si sfruttano le economie di scala, pertanto, il costo marginale rimane al di sotto del costo variabile medio. Vi è quindi un punto in cui il costo variabile medio torna a coincidere con il costo marginale22, nel momento in cui la produzione di un pezzo aggiuntivo non modifica la media dei costi variabili. Quando tale media comincia a salire, il costo marginale è superiore al costo medio variabile, siamo in presenza di diseconomie di scala.

21

Per una trattazione dettagliata sul tema si vedano: R. Dorfman, Prezzi e mercati, Bologna, 1968, pp. 51 ss.; H.R. Varian, Microeconomia, Cafoscarina, Venezia, 2007.

22

È il punto d’equilibrio di un mercato perfettamente concorrenziale. Il prezzo del prodotto corrisponde al costo marginale delle imprese, in quanto fino al momento in cui il prezzo è superiore al costo di produzione di un’ulteriore unità di prodotto, l’impresa ha interesse a produrre; oltrepassato tale punto quell’interesse svanisce, perché la relativa parte della produzione verrebbe venduta in perdita, dato che costa più fabbricarla di quanto non si ricavi a venderla. D.W. Carlton, J.M. Perloff, Modern industrial

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Le medesime osservazioni valgono per il rapporto tra costo marginale e costo totale medio che per definizione è più alto del costo variabile medio e che muta al variare del livello di produzione per effetto del mutare di questo.

Tali misure di costo possono poi essere distinte poi in costi di breve e di lungo periodo. Il primo è quello in cui la capacità produttiva rimane invariata, il secondo, invece, è quello in cui essa è destinata a mutare. Si assume comunemente che, in un’ottica di lungo periodo, tutti i costi siano variabili, pertanto si distingue solo tra costo totale e costo marginale.

Un’ulteriore fondamentale, ma talvolta ambigua, distinzione riguarda i costi fissi, che a loro volta possono dividersi in costi recuperabili o evitabili (recoverable o avoidable costs) e in costi irrecuperabili (sunk costs). Questi ultimi sono quei costi che non possono essere più recuperati, neppure con l’integrale cessazione della produzione. Essi dipendono dalla specificità del bene per il quale si è affrontata la spesa e quindi, in definitiva, dalla sua negoziabilità.

Tale distinzione assume particolare rilevanza nella materia oggetto della nostra analisi. I costi irrecuperabili, infatti, determinano un’asimmetria tra aziende già operanti in un settore e altre esterne ad esso, configurandosi rispettivamente come barriere all’uscita o all’entrata23, la struttura finanziaria dell’impresa e, soprattutto, le decisioni attinenti al proseguimento dell’attività o di sua parte: la cessazione dell’attività comporta il risparmio dei costi variabili ed il guadagno dei costi fissi recuperabili; i sunk costs, per contro, una volta affrontati non hanno più influenza sulle decisioni dell’impresa già in attività.24

Un ‘eccessivo’ abbassamento del prezzo può rappresentare, quindi, un primo importante strumento di identificazione di pratiche predatorie poste in essere dalle imprese. Tuttavia la caduta dei prezzi non è necessariamente sintomo di politiche di predatory pricing, ma può derivare da altri motivi esogeni o interni all’impresa. Un

23 Le aziende già attive hanno infatti subito costi (non recuperabili) che costituiscono un deterrente

all’uscita (barriere all’uscita), mentre i potenziali entranti dovranno sostenere costi non recuperabili che ne potrebbero scoraggiare l’ingresso (barriere all’entrata).

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importante aiuto nell’analisi e nella definizione dei prezzi come pedatori può essere fornito dal loro confronto con quelli che sono i costi sostenuti dall’impresa nel processo di produzione. Anche in questo caso, però, è necessario non solo quantificare, ma soprattutto considerare solo alcune tipologie di costi. Infine assumono carattere rilevante ai fini della nostra indagine quelli che sono i sunk costs, ovvero i costi non recuperabile che possono generare delle anomalie nel processo concorrenziale e influire sulle decisioni aziendali.

1.3 Nozione di mercato

L’impresa, quale unità primaria del sistema economico, è immersa in un sistema socio-tecnico di tipo aperto ed opera in stretta simbiosi con un contesto esterno comune a tutte le imprese dello stesso tipo (micro-ambiente) e a tutte le imprese in generale (macro-ambiente). Il contesto generale ove l’impresa svolge le proprie funzioni può essere indicato con il termine sintetico di mercato.

Con il termine mercato si intende non solo il luogo (anche in senso figurato) in cui beni, servizi, denaro, strumenti finanziari ecc., si comprano e si vendono, ma anche l’insieme delle condizioni e delle relazioni tra questi, che rendono possibile lo scambio di prodotti25. Secondo un'altra definizione, più finalistica, il mercato è l'insieme della domanda e dell'offerta, cioè degli acquirenti e dei venditori. Il mercato, quindi, può essere definito in termini micro e macro economici come il punto d’incontro della domanda e dell'offerta. Queste definizioni possono quindi riferirsi ad un luogo fisico, o ad un concetto immateriale.

Nel tempo si sono attribuite crescenti attenzioni allo sviluppo di specifiche branche del mercato, costituenti i mercati specifici per i quali valgano peculiarità funzionali, di andamento e di organizzazione tali da renderli analizzabili individualmente. Si parla

25

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dunque al plurale di mercati, poiché non solo se ne avrà pluralità, sinché persisterà una pluralità di sistemi economici indipendenti, ma anche all'interno stesso di un sistema economico possono individuarsi prevedibili ed analizzabili movimenti dei soggetti economici raggruppabili per categorie di localizzazione, tipologia, modalità ed innumerevoli altre caratteristiche.

Spesso con il termine mercato si indica sommariamente il sistema economico più precisamente definito economia di mercato. L'economia di mercato costituisce un sistema economico in cui i processi di scambio vengono regolati dai mercati tramite il meccanismo dei prezzi. Lo Stato ha il compito di stabilire condizioni quadro tali da garantire la concorrenza tra gli operatori di mercato, limitando però il meno possibile la loro libertà di azione.26

A seconda delle regole imposte al mercato e al comportamento di acquirenti e venditori è possibile distinguere due principali tipologie di mercati: i mercati di concorrenza perfetta e i mercati di concorrenza imperfetta.

I mercati di concorrenza perfetta sono quei mercati in cui vi è un numero di venditori e di acquirenti abbastanza ampio da garantire che nessuno possa individualmente influenzare il mercato e in cui tutti i partecipanti al mercato hanno perfetta informazione sulle caratteristiche e disponibilità dei diversi prodotti. Per le imprese un mercato sarà di concorrenza perfetta se ciascuna di esse ritiene che il prezzo di mercato è indipendente dal proprio livello di produzione. In tal modo l’impresa può vendere la quantità di prodotto che desidera senza modificare il prezzo di mercato. In altre parole, in un mercato perfettamente concorrenziale qualunque sia la quantità di beni o servizi venduti da un’impresa il prezzo di mercato sarà indipendente dalle sue vendite ed ha come unico limite il punto d’incontro tra domanda e offerta27.

Il mercato di concorrenza perfetta è altamente desiderabile perché possiede caratteristiche di benessere che nessun'altra forma di mercato possiede: permette, concretando l’ideale della mano invisibile di Adam Smith, di estrarre tutti i possibili

26

C. De Vincenti, E. Saltari, R. Tilli, Manuale di economia politica, Carocci Editore, 2011, Cap. 8.

27

Per una trattazione più estesa dell’argomento si può vedere qualsiasi manuale di microeconomia (uno per tutti: N. G. Mankiw, M. P. Taylor, Principi di microeconomia, 5ª Ed., Zanichelli, 2012).

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benefici dello scambio, massimizzando per effetto della libera interazione tra compratori e venditori il benessere sociale28 e distribuendo nel lungo periodo ai consumatori tutti i vantaggi di un'innovazione sia di prodotto che di processo.

In posizione diametralmente opposta troviamo i mercati di concorrenza imperfetta, ovvero quei mercati in cui compratori e venditori hanno la capacità di influire sul prezzo di mercato. In altre parole il prezzo di mercato non dipenderà dal libero gioco di offerta e domanda, ma solo un soggetto economico o un gruppo di soggetti economici ha la capacità di imporre un determinato prezzo.

Tra i mercati di concorrenza imperfetta è possibile individuare il mercato monopolistico, l’oligopolio, il monopsonio e l’oligopsonio. Tuttavia queste due ultime forme di mercato, oltre ad essere relativamente rare da incontrare nella realtà sono di scarso interesse per la nostra analisi e quindi in questa sede se ne tralascia la trattazione.

Il monopolio è una forma di mercato caratterizzata dalla presenza di un’unica impresa che fabbrica un prodotto o offre un servizio per il quale non esistono sostituti stretti29.

28 Il concetto di benessere sociale viene usato, generalmente, in economia per esprimere e quantificare i

benefici che gli agenti economici sono in grado di generare attraverso scambi reciproci. Il benessere sociale indica il beneficio generato dallo scambio tra consumatori e produttori nel mercato. Esso viene normalmente calcolato come sommatoria tra i benefici (surplus) ricevuti dai diversi agenti economici: i consumatori (surplus del consumatore) e i produttori (surplus del produttore). Il risultato di queste due grandezze ci dà il surplus totale. Il surplus del consumatore è la differenza positiva fra il prezzo che un individuo è disposto a pagare per ricevere un determinato bene o servizio e il prezzo di mercato dello stesso bene. Il massimo che un consumatore è disposto a pagare viene detto prezzo di riserva. Con riferimento all'intero mercato, per estensione, si chiama surplus del consumatore la somma totale dei surplus individuali. Il surplus del produttore, invece, è la differenza positiva tra il prezzo di un dato bene pagato al produttore ed il prezzo che il produttore sarebbe stato disposto ad accettare per quantità inferiori di quel bene. In generale, il produttore si trova in equilibrio quando il costo marginale è uguale al prezzo. La sua curva di offerta coincide con il tratto crescente della curva del costo marginale; ne segue che, all'aumentare della quantità offerta, il costo marginale aumenta ed il produttore chiede un prezzo via via più elevato. Da queste definizioni segue che, a parità di tutte le altre condizioni, un incremento del prezzo di vendita del bene riduce il surplus del consumatore ed aumenta quello del produttore. Tuttavia spesso l’innalzamento dei profitti delle imprese non compensa perfettamente la perdita subita dai consumatori. Si intuisce quindi che il benessere sociale è massimizzato quando il prezzo raggiunge il livello del costo marginale e si riduce nel caso di allontanamento da quest’ultimo. Per una trattazione più estesa dell’argomento si può vedere qualsiasi manuale di microeconomia (uno per tutti: N. G. Mankiw, Principi di

microeconomia, 5ª Ed. Zanichelli, 2012).

29

La definizione di sostituto stretto, relativamente comprensibile da un punto di vista teorico, è tutt'altro che chiara e scevra da ambiguità quando la si voglia applicare in pratica. Per sciogliere il nodo occorre individuare dei criteri che ci permettano di identificare i sostituti stretti. Un metodo abbastanza plausibile suggerisce di valutare le elasticità incrociate al prezzo dei prodotti: un bene è un sostituto stretto di un altro bene se la sua domanda mostra un elevata elasticità al prezzo dell'altro bene, ovvero se la domanda

(15)

Essendo il monopolista l’unico fabbricante e venditore di un prodotto, esso potrà imporre il prezzo, dato che non vi è concorrenza nel mercato. Il risultato è che il monopolista, nello scopo di massimizzare i propri benefici, imporrà un prezzo più alto di quello che vi sarebbe in un mercato concorrenziale. Le vittime dei monopoli sono i consumatori che dovranno pagare per un prodotto o servizio un prezzo più alto di quello che pagherebbero in un mercato concorrenziale.30

Tuttavia non tutti i mercati monopolistici operano in detrimento al benessere sociale, in quanto in talune situazioni vi sono fattori o ragioni capaci di giustificare economicamente l’esistenza dei monopoli31.

L’oligopolio è una forma o situazione di mercato caratterizzata, di fronte alla concorrenza perfetta tra compratori, dalla presenza di un numero limitato di venditori che offrono prodotti molto simili, se non identici, tra loro. In tali mercati il prezzo dei prodotti o servizi di ciascuna impresa dipende non solo dal proprio livello di produzione ma anche dall’azione dei sui concorrenti.

del bene varia proporzionalmente in modo rilevante rispetto alla variazione proporzionale. Il focus è centrato sulle preferenze del consumatore il quale date quest’ultime ritiene un bene sostituto dell’altro. H.R. Varian, Microeconomia, Cafoscarina, Venezia, 2007, Cap. 24.

30

L’analisi classica dell’ipotesi di monopolio è legata soprattutto al nome di A. Cournot, che per primo espose con rigore matematico la legge del prezzo di monopolio. Il punto di Cournot è detto il punto cui, nella rappresentazione grafica, corrisponde la coppia prezzo-quantità da cui deriva al monopolista il massimo ricavo netto globale. Più la domanda è elastica e più basso sarà il punto di Cournot, ossia il prezzo al quale il monopolista potrà vendere con il massimo vantaggio la quantità prodotta e viceversa, e quindi il monopolio dei beni a domanda poco elastica, come sono in genere quelli di prima necessità, è assai dannoso per il consumatore. Viene meno inoltre la proporzionalità tra prezzo e costo, che è legge fondamentale dell’economicità, e, se la produzione monopolizzata è a costi crescenti e decrescenti, il prezzo di monopolio tenderà a essere maggiore o minore di quel che sarebbe se i costi avessero un andamento costante, e sarà tanto maggiore o tanto minore quanto più rapidamente i costi aumenteranno o diminuiranno. Va poi ricordato che il monopolista può accrescere il suo guadagno, oltre che con la manovra del prezzo unico, con il ricorso alla discriminazione del prezzo, che consiste nell’applicare un prezzo diverso, in genere superiore al prezzo unico, a ciascuna unità prodotta e venduta, sfruttando la diversa capacità di acquisto dei vari gruppi di consumatori, o mediante differenziazioni apparenti o parziali del prodotto o mediante frazionamento dell’offerta nel tempo o nello spazio. Per una trattazione più estesa dell’argomento si può vedere qualsiasi manuale di microeconomia (uno per tutti: N. G. Mankiw, M. P. Taylor, Principi di microeconomia, 5ª Ed., Zanichelli, 2012).

31 È il caso dei monopoli naturali o dei monopoli legali. Nella prima fattispecie il monopolio è giustificato

dal fatto che un’unica impresa sarebbe in grado di produrre a costi inferiori rispetto ad un insieme di piccole imprese. Una tale situazione si verifica quando i costi medi calano all'aumentare della produzione, ad esempio in presenza di rendimenti di scala crescenti: in questi casi, tanto maggiore è la produzione, tanto meno costa produrre ciascuna singola unità. Nel secondo è un tipo di monopolio in cui l'unica impresa monopolista opera sul mercato per disposizione di legge. Le ragioni che spingono lo Stato a dare vita al monopolio legale possono essere diverse.

(16)

Generalmente nei mercati oligopolistici le imprese evitano di concorrere sul prezzo, concentrandosi con maggior energia nella differenziazione del prodotto. Ciononostante gli oligopoli, essendo mercati dominati da un limitato numero di imprese, rendono molto semplice e realistica la formazione di cartelli e di accordi collusivi che finiscono con l’incidere sui prezzi di beni e servizi in modo identico a quanto visto per i mercati di monopolio32.

In questa sede risulta rilevante concentrare l’attenzione sui mercati concorrenziali più o meno perfetti, che si possono generare all’interno di economie di mercato, in netta contrapposizione alle economie pianificate, ovvero quei sistemi economici in cui le principali decisioni economiche non spettano agli imprenditori privati e al gioco della domanda e dell'offerta sul mercato, ma provengono dagli organi statali responsabili della pianificazione economica.

Il mercato di concorrenza perfetta è quello in grado di incrementare (fatte salve alcune ipotesi particolari) il benessere sociale, tutelando allo stesso tempo il consumatore, considerato la parte più debole dei rapporti di mercato. Tuttavia, le ipotesi che abbiamo imposto sono talmente restrittive che sembra difficile poter trovare nel mondo reale un mercato che assomigli in modo preciso all'ideale del mercato perfettamente concorrenziale. E' oramai abbastanza evidente che il mercato di concorrenza perfetta è un mercato ideale. Naturalmente, anche in un'economia di mercato vi è maggiore o minore libertà economica, a seconda che sia più o meno intensa la concorrenza fra le imprese. In particolare, la libertà d'iniziativa risulta profondamente limitata quando su un mercato opera un solo produttore (monopolio) o pochi grandi produttori (oligopolio).

32 Tuttavia diversamente dalle altre forme di mercato, quali la concorrenza perfetta o il monopolio, non

esiste un modello universale di oligopolio. Ciò, almeno in parte, è dovuto all’interdipendenza strategica che caratterizza tale mercato, favorendo così una maggiore varietà di comportamenti che, in buona sostanza, si traducono in diversi modelli di oligopolio. Vi sono, quindi, diversi tipi di oligopolio e svariati comportamenti delle imprese oligopoliste: le imprese possono offrire un prodotto omogeneo oppure differenziato; possono colludere oppure competere. Per una trattazione più dettagliata sull’argomento: D. Fundeberg, J. Tirole, Modelli dinamici di oligopolio, Giuffrè, 1994.

(17)

1.4 Nozione di antitrust

Le origini del diritto antitrust sono essenzialmente anglo-americane. Benché introdotte per la prima volta in Canada, con l'approvazione nel 1889 delle leggi contro gli accordi restrittivi della concorrenza, le origini del diritto antitrust vengono comunemente fatte risalire allo Sherman Antitrust Act approvato dal Congresso USA nel 1890.

In Europa, invece, le prime legislazioni antimonopolistiche compaiono nei principali Paesi solo nel secondo dopoguerra33 e risultano profondamente influenzate dalla tradizione statunitense. Con la costituzione delle comunità europee si ebbe, grazie al pensiero dei padri fondatori secondo cui un ordinamento economico e sociale democratico si fondava su un sistema di mercato concorrenziale, un considerevole incremento delle norme volte a tutelare la concorrenza. Fu così che nel Trattato di Roma, nel 1957, furono disciplinate le fattispecie delle intese restrittive e dell'abuso di posizione dominante.

Dare una definizione di politica o norma antitrust non è qualcosa di semplice: ad una prima analisi possiamo dire che le politiche della concorrenza sono l’insieme di politiche e leggi tese a limitare il potere di mercato esercitato dalle imprese e controllare i comportamenti anticoncorrenziali posti in essere dai soggetti economici. Tuttavia per analizzare meglio e rendere più precisa tala definizione occorre stabilire innanzitutto quale sia l’obiettivo che le autorità garanti della concorrenza dovrebbero perseguire.

Secondo la maggior parte degli economisti le leggi antitrust dovrebbero avere il semplicissimo obiettivo di promuovere l’efficienza.

33 In Francia la disciplina antitrust è stata riformata nel 1986, in Germania e in Gran Bretagna nel 1948, in

Spagna nel 1963. In Italia l'introduzione di una normativa antitrust nazionale avvenne con notevole ritardo sia rispetto agli altri Stati europei, sia rispetto alle comunità europee: solo nel 1990, infatti, fu approvata la legge 10 ottobre 1990, n. 287, recante ‘Norme per la tutela della concorrenza e del mercato’. Questo ritardo è stato generalmente spiegato con il prevalere di fattori istituzionali, politici e culturali che hanno reso a lungo poco favorevole l'atteggiamento prevalente nel nostro Paese verso il mercato, l'iniziativa economica individuale e la concorrenza. Sulla normativa antitrust italiana si veda infra 4.4.

(18)

Alla base di tali politiche vi è l’idea che la concorrenza sia capace di generare risultati economici positivi a livello sociale, ovvero sia in grado di massimizzare il benessere sociale e determinare l’allocazione efficiente delle risorse.

Le norme antitrust dovrebbero, quindi, impedire tutti quei comportamenti tesi a danneggiare la società mediante l’esercizio del potere di mercato o, utilizzando un’espressione a noi nota, l’abuso di posizione dominante. A tal fine le politiche di concorrenza mirano a garantire la libertà d’impresa e la diffusione del potere di mercato evitandone la concentrazione in mano a pochi operatori. Il termine concorrenza assume qui il significato di uguaglianza nelle possibilità di azione economica e il potere di mercato è visto come una minaccia al corretto funzionamento dei mercati.

La legislazione antitrust è rivolta a tutelare anche quegli esiti spontanei del processo concorrenziale nel caso in cui essi si dimostrino ex post anti-concorrenziali, ovvero impedire che i risultati del processo di concorrenza più o meno perfetta possano essere utilizzati per distruggere lo stesso meccanismo concorrenziale nel futuro.34

Una differente corrente di pensiero sostiene che il reale obiettivo di queste normative non è l’efficienza, ma che queste leggi siano approvate per favorire certi gruppi e danneggiarne altri. Ad esempio, alcuni affermano che sono concepite per aiutare le piccole imprese nella competizione con le grandi, indipendentemente dall’aumento dell’efficienza.

In particolare, le politiche antitrust contro la discriminazione di prezzo, risponderebbero alle pressioni politiche esercitate da molte piccole imprese che si lamentano della capacità delle multinazionali di assicurarsi prezzi più bassi negli approvvigionamenti35. Un trattamento favorevole delle piccole imprese non contrasta necessariamente con l’obiettivo del benessere sociale ed economico, a condizione che esso si limiti a

34

Ad esempio, è possibile che un’impresa, una volta raggiunta per merito una posizione di potere di mercato, cerchi di proteggersi dalla pressione concorrenziale esercitata dalla possibilità di ingresso di nuove rivali nel mercato. Obiettivo della politica antitrust deve essere quello di evitare che ciò avvenga. In altre parole, le politiche antitrust accettano che la concorrenza sul libero mercato generi vincitori e vinti, portando all’espulsione dallo stesso delle imprese meno efficienti, ma allo stesso tempo vuole ostacolare quei comportamenti in cui si abusa delle possibilità offerte dal libero mercato. N. Giocoli, Impresa,

concorrenza, regole, Giappichelli, 2009, pp. 58-59.

35

F. Denozza, Antitrust leggi antimonopolistiche e tutela dei consumatori nella CEE e negli USA, Il Mulino Bologna, 1988.

(19)

proteggere tali imprese dall’abuso di quelle più grandi36. Malgrado ciò, bisogna prestare molta attenzione nell’intervenire a sostegno di imprese più piccole, si rischia infatti di creare degli effetti negativi ai fini della massimizzazione del benessere, le norme antitrust potrebbero infatti mantenere artificialmente in vita imprese non efficienti, con ovvie conseguenza ai fini della fissazione dei prezzi e del benessere dei consumatori. È opportuno, quindi, ricordare che compito delle politiche concorrenziali è difendere la concorrenza, e non i concorrenti, punendo le pratiche abusive e illecite, ma lasciando alle imprese più efficienti la possibilità di sottrarre quote di mercato a quelle meno virtuose.

Un’ulteriore motivo volto a giustificare e legittimare determinate politiche a favore della concorrenza, in particolar modo in ambito UE, è quello di facilitare la creazione di un mercato unico tra Paesi facenti parte di organizzazioni o accordi multilaterali. Sin dai primi trattati europei sono state introdotte norme sovranazionali volte a disciplinare i comportamenti delle imprese. Tuttavia, alcune di queste norme hanno prodotto effetti inaspettati e contrari a quanto ci si proponeva: norme come il divieto di praticare prezzi differenti nei vari Paesi membri dell’Unione Europea, ad esempio, hanno comportato che alcune imprese che praticavano prezzi elevati per i loro prodotti in Paesi dove i consumatori avevano una disponibilità a pagare più elevata, pur di non abbassare i propri prezzi, hanno deciso di non esportare tali prodotti, restringendo di fatto il mercato.

Al contrario in talune situazioni la normativa sulla concorrenza è applicata con meno rigore al fine di favorire la crescita dimensionale delle imprese nazionali, per renderle più competitive e consentire loro di affrontare con maggiore probabilità di successo la concorrenza delle imprese straniere.

Le normative antitrust sono spesso influenzate non solo da motivazioni di carattere economico ma anche da motivazioni di carattere sociale e politico che di volta in volta hanno rivestito particolare rilevanza nei vari Paesi ed epoche storiche o, in altri casi,

36

W. S. Comanor, Vertical Price Fixing, Vertical Market Restrictions, and the New Antitrust Policy, Harvard Law Review, 1985.

(20)

siano stati inseriti in più vasti progetti politici, rispondendo, a seconda della situazione socio-politica-economica, ad obiettivi molto diversi tra loro.37

Più in generale, tra le componenti non economiche che hanno contribuito alla storia dell’antitrust un posto importante è occupato dalla convinzione che esista un nesso tra mantenimento delle libertà economiche e quelle politiche, e che una eccessiva concentrazione del potere nelle mani di poche, grandi imprese, possa costituire una minaccia per la stessa democrazia.

Un ulteriore obiettivo è sicuramente quello di garantire equità negli scambi tra imprese e consumatori, obbligando le imprese a comportarsi in modo da tenere in considerazione anche gli interessi di quest’ultimi, nonché dei loro concorrenti. I concetti di equità sono numerosi, ma in linea generale una distribuzione del reddito o della ricchezza viene considerata equa se essa assicura uguaglianza delle opportunità o delle posizioni finali per i membri di un collettività38. Tuttavia gli obiettivi di equità dovrebbero essere prerogativa di appositi programmi di redistribuzione e non fine ultimo delle autorità antitrust.

Anche in situazioni di forte crisi, disagio o tensione sociale, le politiche antitrust possono trovare come giustificazione ragioni di carattere sociale. La normativa antitrust, ad esempio, è stata applicata in maniera meno rigorosa negli anni della ‘Grande Depressione’ negli Stati Uniti d’America, in quanto si riteneva che alcuni accordi sui prezzi avrebbero evitato alle imprese il fallimento, scongiurando così l’aggravamento della disoccupazione. Una accettazione generalizzata di accordi collusivi in situazioni di crisi rischia però di proteggere imprese inefficienti a danno dei consumatori.

Vi sono infine ragioni ambientali atte a giustificare le norme antitrust. Ad esempio può essere concessa alle imprese la possibilità di stipulare accordi restrittivi, dai quali però derivino vantaggi per la collettività in termini di tutela ambientale39. In una recente decisione, ad esempio, la Commissione U.E. ha approvato un accordo tra produttori e

37

G. Ghedini, S. Hassan, Diritto industriale e della concorrenza nella CEE con cenni alla normativa antitrust

italiana, Milano, 1991.

38

G.F. Cartei, Servizi sociali e regole di concorrenza, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, Anno 2007.

39

(21)

importatori di lavatrici, che rappresentano più del 95% delle vendite di tale bene in Europa; l’intesa ha come obiettivo quello di abbandonare la produzione/importazione delle lavatrici meno efficienti da un punto di vista energetico. L’accordo ovviamente rimuove una dimensione lungo la quale le imprese possono competere, tuttavia la Commissione ha ritenuto che in definitiva l’accordo avrebbe portato dei benefici all’intera collettività in termini ambientali, e di risparmio per i consumatori nel medio/lungo termine.40

In conclusione, le politiche antitrust hanno perseguito, a seconda delle condizioni economiche e socio-politiche, obbiettivi di diversa natura quali l’equità o l’avvantaggiare determinati gruppi e categorie nei confronti di altre, o che hanno trovato giustificazione in ragioni di carattere sociale, politico, ambientale e in accordi e progetti internazionali. Dal punto di vista dell’analisi economica, tuttavia, appare naturale identificare l’obiettivo fondamentale nella massimizzazione del benessere sociale economico, ma, come abbiamo visto, gli obiettivi possono essere di carattere differente e a volte sfumano in vere e proprie prese di posizione, riconducibili più ad una ragione politica che economica.

L’opinione secondo cui il principio guida delle leggi antitrust dovrebbe essere l’efficienza, anziché il prelievo di risorse da un gruppo per concederle a un altro gruppo, è sempre più accettato da giuristi e accademici. Il fascino di un’affermazione così semplice è che

40 Nel gennaio 2000 il Consiglio Europeo dei Produttori di Apparecchi Domestici (CECED) ha notificato alla

Commissione U.E. un’intesa volta a ridurre l’impatto ambientale derivante dal consumo di energia elettrica collegato all’utilizzo di lavatrici. All’accordo aveva aderito la quasi totalità dei produttori e importatori di lavatrici a uso domestico operanti nello Spazio economico europeo, i quali si erano impegnati, in particolare, a cessare la produzione e l’importazione di lavatrici caratterizzate da un minore grado di efficienza energetica. Le società aderenti all’accordo si erano inoltre impegnate a promuovere lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie e delle tecniche di risparmio energetico e ad aumentare le informazioni ai consumatori riguardo alle modalità più razionali ed ecologiche di utilizzo delle lavatrici. La Commissione ha ritenuto che, sebbene l’accordo fosse tale da incidere in misura sensibile sulla concorrenza e sul commercio intracomunitario, le condizioni di cui al paragrafo 3 dell’articolo 81 fossero nondimeno soddisfatte, con particolare riferimento ai benefici netti derivanti per i consumatori dalla disponibilità di prodotti più efficienti e tecnologicamente più avanzati, nonché dalla riduzione dei consumi energetici e delle emissioni inquinanti connesse alla generazione di energia elettrica. La Commissione ha rilevato inoltre che l’accordo non avrebbe determinato l’eliminazione della concorrenza tra le parti relativamente ai prezzi e alle caratteristiche generali dei prodotti, né avrebbe in ogni caso precluso le importazioni da parte di terzi.

(22)

fornisce un orientamento più chiaro su ciò che dovrebbe essere una politica antitrust rispetto all’orientamento alternativo di aiutare i gruppi ‘meritevoli’.

Anche se si accetta l’idea che lo scopo delle leggi antitrust sia di promuovere l’efficienza, gli economisti spesso hanno difficoltà a stabilire quali pratiche determinino un comportamento inefficiente.

Esigere che le autorità antitrust applichino sofisticate analisi economiche per valutare il comportamento può non essere realistico: esse devono spesso affrontare problemi economici con i quali gli economisti stessi non si sono ancora cimentati. Le autorità non possono concedersi il lusso di prendersi tutto il tempo necessario per risolvere un problema anche se non possono ignorare le conoscenze cui si è giunti in economia. Di conseguenza, le controversie legali sono più complesse perché l’analisi economica è spesso al centro del procedimento giudiziario.41

1.5 Nozione di impresa dominante

Se consideriamo che la preoccupazione fondamentale del diritto antitrust è raggiungere il massimo benessere sociale e proteggere l’interesse dei consumatori, allora, diventa abbastanza chiaro il motivo per il quale il concetto di potere di mercato gioca un ruolo importante.

Se la struttura del mercato non offre possibilità alle imprese di danneggiare i consumatori42 nell’intento di massimizzare i propri profitti, non vi sarà alcun interesse da parte del legislatore a mettere in discussione e punire il comportamento delle imprese, dato che sarà lo stesso mercato (concorrenziale) a rappresentare la migliore cura verso gli sforzi delle imprese orientati in tale direzione.

Occorre quindi stabilire, prima ancora di determinare se una certa condotta da parte di un’impresa costituisce un illecito, se esiste un sufficiente potere di mercato detenuto

41 D. W. Carlton, J. M. Perloff, Organizzazione Aziendale, The McGraw-Hill, 2005, pp. 592 ss. 42

Ricordiamo che più il mercato si avvicina alla concorrenza perfetta tanto meno le imprese hanno la possibilità di attuare politiche che diminuiscano il benessere dei consumatori e il benessere sociale in generale, in quanto nessuna impresa è in grado di influenzare il prezzo. Si veda Infra paragrafo 1.3.

(23)

dall’impresa. Se tale potere di mercato che pone l’impresa in posizione dominante non sussiste, l’indagine non ha ragione di andare avanti, anche a fronte di un comportamento apparentemente illecito.

A tal fine occorre definire i criteri per poter stabilire quando un’impresa gode di posizione dominante.

L’art. 102 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea non contiene la definizione di posizione dominante, ma si limita a stabilire che «È incompatibile con il mercato interno e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo».43

Allo stesso modo di quanto detto per la nozione di impresa44, la mancanza, volontaria o frutto di una dimenticanza45, da parte del legislatore europeo di una definizione precisa nella redazione della normativa costringe gli interpreti ad individuare i parametri per identificare il concetto e stabilire se un’impresa si trovi in posizione dominante o no. La prima definizione ufficiale, per quanto concerne la giurisprudenza, la troviamo nella decisione della Commissione U.E. relativa al caso Continental Can (1971)46, la quale in sostanza afferma che vi è una posizione dominante quando un’impresa ha una libertà di comportamento tale che le consente di non tener conto dei concorrenti, degli acquirenti o dei fornitori. Il problema viene affrontato concretamente nel caso Sirena (1971)47: in

43

Art. 102 Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea.

44

Si veda Supra paragrafo 1.1.

45 Occorre precisare che in molte situazioni il legislatore volontariamente utilizza concetti giuridici a

contenuto indeterminato. L’utilizzo di concetti giuridici indeterminati attiene ad una particolare tecnica legislativa nella quale, per individuare il fatto produttivo di effetti giuridici, la norma non descrive il fatto stesso in maniera tassativa ed esaustiva, fissandone direttamente tutti i termini mediante riferimenti determinati ed univoci, ma rinvia, per la sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa, all’integrazione dell’interprete, mediante l’utilizzo di concetti indeterminati che vanno completati e specificati con elementi o criteri extragiuridici. In tal caso il legislatore, a causa della forte discrezionalità tecnica della materia avrebbe potuto voler lasciare un certo margine di valutazione e definizione di tale concetto alle autorità indipendenti (di natura evidentemente più tecnica). Per una trattazione più dettagliata dei concetti giuridici a contenuto indeterminato si veda F. Cintioli, Tecnica e processo amministrativo, Dir. Proc. Amm., 2004, pp. 983 ss.

46

Commissione UE, 9 novembre 1971, Continental Can Company, in G.U.C.E., n. L7, 1972, p. 25.

47

(24)

tale sentenza la Corte di Giustizia U.E. supera la concezione di posizione dominante in riferimento alla capacità di adottare comportamenti indipendenti nei confronti di terzi soggetti proposta dalla Commissione e subordina, per la prima volta, l’esistenza di una posizione dominante alla capacità di ostacolare una concorrenza effettiva nel mercato in questione. Solo nelle sentenza relative al caso Metro (1977)48, al caso United Brands (1978)49 e al caso Michelin (1981)50 i due elementi vengono finalmente considerati congiuntamente: «La posizione dominante *…+ corrisponde ad una posizione di potenza economica grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato in questione» e «ha la possibilità di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei concorrenti, dei clienti e, in ultima analisi, dei consumatori».

Secondo tale definizione, la posizione dominante dipenderebbe da quanto le azioni di un’impresa sono condizionate dal comportamento altrui. Ciò non risulta un elemento discriminatorio sufficientemente oggettivo, in quanto in realtà nessuna impresa, neppure se dotata di un enorme potere di mercato, agisce in modo davvero indipendente dai propri rivali e clienti. Anche il monopolista non è davvero indipendente rispetto alla domanda di mercato.51 Infine, tale definizione risulta illusoria e di scarsa utilità pratica nel momento in cui si cerca concretamente di valutare l’esistenza o meno del requisito in esame. Essa, infatti, si limita a riconoscere l’essenza della posizione dominante nella potenza economica, senza dare alcuna indicazione sulle condizioni che ne implicano l’esistenza. Dire che si è in presenza di una posizione dominante quando l’impresa è in grado di ostacolare una concorrenza effettiva o di tenere comportamenti indipendenti, significa scambiare l’effetto con la causa e lasciare sostanzialmente insoluto il problema.

Anche nella legislazione USA incontriamo problemi del tutto simili a quanto visto un ambito europeo. Parimenti a quanto previsto per Trattato di Funzionamento dell’Unione

48 Corte di Giustizia, 25 ottobre 1977, Metro/Commissione, in Raccolta, 1977, p. 1875. 49

Corte di Giustizia, 14 febbraio 1978, C-27/76, United Brands/Commissione, in Raccolta, 1978, p. 207.

50

Corte di Giustizia, 9 novembre 1983, Michelin/Commissione, in Raccolta, 1983, p. 3461.

51

(25)

Europea, le norme federali statunitensi52 volte ad impedire gli abusi risultanti della concentrazione del potere di mercato da parte delle imprese, si preoccupano di punire i comportamenti anticoncorrenziali in detrazione del benessere sociale senza fornire, seppur facendone riferimento, una definizione chiara e unisona di posizione dominante. Da qui l’esigenza tanto negli Stati Uniti d’America quanto nell’Unione Europea (e in ambito nazionale italiano)53 di colmare questa lacuna attraverso le metodologie elaborate dalle scienze economiche nel tentativo di misurare il potere di mercato di un’impresa, in quanto solo il ragionamento economico è in grado di fornire gli strumenti necessari per valutare l’effettività della concorrenza. Ciò significa che gli stessi principi economici sono ugualmente validi per il diritto antitrust europeo e per quello di altre giurisdizioni, come quella statunitense o degli stessi Paesi membri.

A questo scopo risulta preliminare l’individuazione del mercato rilevante, in quanto gli indicatori di matrice economica (quali ad esempio le quote di mercato detenute dalle imprese o il grado di concentrazione dell'offerta) per avere un senso devono necessariamente essere individuati rispetto a un mercato. In altre parole è indispensabile nell’esaminare gli indicatori e i criteri che portano all’individuazione di un’impresa dominante definire il contesto economico di riferimento.

In tale valutazione esso gioca un ruolo decisivo; il potere di un’impresa risulta infatti, in sostanza, inversamente proporzionale all’ampiezza del mercato considerato: più è estesa la definizione di quest’ultimo, minore risulterà il potere relativo dell’impresa in esame.

Il primo utilizzo dell'espressione ‘mercato rilevante’ risale a una pronuncia della Corte Suprema degli Stati Uniti del 194854. Già in quella circostanza la Corte riconobbe la difficoltà di stabilire una regola per identificare quali aree o quali prodotti siano in concorrenza tra loro. Circa un decennio più tardi con il caso Brown Shoe (1962)55 la Corte

52 Con norme federali, in questo caso, si fa riferimento principalmente allo Sherman Act del 1980, al

Clayton Act del 1914, al Federal Trade Commission Act del 1914 e al Robinson-Patman Act del 1936.

53

Nel nostro Paese la nozione di posizione dominante è stata ripresa fedelmente da quella comunitaria, attraverso il richiamo letterale al caso United Brands. Si veda: http://www.agcm.it/concorrenza-competenza/abuso-di-posizione-dominante.html.

54

United States vs Columbia Steel Co., 334 U.S. 495 (1948).

55

(26)

Suprema elaborò un elenco lungo e particolareggiato di criteri da utilizzare per definire i mercati. Questo elenco stabiliva che «i confini di mercato possono essere determinati esaminando indicatori specifici come il fatto che il mercato venga riconosciuto, da parte dell’industria o del pubblico, come un’entità economica distinta, in funzione delle caratteristiche e degli impieghi particolari del prodotto, dell’unicità degli impianti produttivi, dei clienti e dei prezzi, della sensibilità alle variazioni di prezzo e dell’impiego di venditori specializzati». L’applicazione di questo elenco di criteri non ha facilitato tuttavia la definizione di mercato rilevante ai fini dei procedimenti antitrust.

Ampia parte dei problemi a questo riguardo deriva dal fatto, evidenziato dai teorici della concorrenza monopolistica, che nella maggior parte dei casi ci si trova in presenza di prodotti differenziati, caratterizzati da rapporti di sostituibilità imperfetta.

In molti casi, su una nozione di mercato rilevante incentrata su criteri economici hanno prevalso nozioni non dotate di un fondamento economico, basate su indizi di tipo descrittivo quali le peculiarità delle caratteristiche e degli usi dei prodotti, che consentivano ampi margini di arbitrarietà nelle decisioni. Tuttavia la relazione tra mercato rilevante e potere di mercato, sostenuta nelle Merger Guidelines statunitensi del 1982, del 1984 e del 1992 si basa su criteri economici.56 Tali criteri di definizione di mercato rilevante sono stati esplicitamente affermati anche in Europa dalla Commissione e derivano dalla combinazione del mercato del prodotto e del mercato geografico definiti come segue57:

 il mercato del prodotto rilevante comprende tutti i prodotti e/o servizi che sono considerati intercambiabili o sostituibili dal consumatore, in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell'uso al quale sono destinati;

 il mercato geografico rilevante comprende l'area in cui le imprese interessate forniscono o acquistano prodotti o servizi, nella quale le condizioni di

56

Per una trattazione più dettagliata dell’argomento: G. Bruzzone, L'individuazione del mercato rilevante

nella tutela della concorrenza, in Temi e problemi, a cura Autorità garante della concorrenza e del

mercato, giugno 1995.

57

I criteri di definizione del mercato rilevante sono gli stessi sia in ambito U.E. che U.S.A. Si può vedere: Comunicazione della Commissione, CE 97/C 372/03 per l’esperienza U.E. e H. C. Black, Black’s law

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