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(1)43 CAPITOLO II L’AFFIDAMENTO CONDIVISO: CONTENUTO DELL’ISTITUTO ED ANALISI DELLA SUA APPLICAZIONE 2.1 – I diritti del minore L’art

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43 CAPITOLO II

L’AFFIDAMENTO CONDIVISO: CONTENUTO DELL’ISTITUTO ED ANALISI DELLA SUA APPLICAZIONE

2.1 – I diritti del minore

L’art. 337-ter introdotto dal d.lgs. 154/2013 e intitolato «Provvedimenti riguardo ai figli» ha un contenuto pressoché identico a quello che aveva l’art.

155 c.c. prima della recente riforma.

In entrambi gli articoli non è stata dettata una definizione specifica di affidamento condiviso; il suo contenuto deve essere quindi ricavato dalle sue caratteristiche principali che consistono nella «determinazione di un disegno educativo unitario» e in una «regolare frequentazione dei genitori», tale da consentire a ciascuno di assolvere i propri doveri1.

L’art. 337-ter afferma infatti in modo chiaro e perentorio il principio della bigenitorialità (ossia, come detto, la necessaria presenza di entrambi i genitori nella vita del figlio a prescindere dalla fine del rapporto tra i due).

L’aspetto più interessante del contenuto di tale articolo è il fatto che il legislatore ha voluto attribuire al minore la titolarità di un effettivo diritto

1 T. Auletta, Commento sub art. 155, in Commentario del codice civile, a cura di E. Gabrielli, Milano, 2010, p. 678.

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44 soggettivo a questa bigenitorialità; il rapporto genitore-figlio viene quindi collocato sotto una prospettiva diversa, non si guardano più solo i doveri dei genitori verso i figli, ma prioritariamente il diritto del minore di mantenere un rapporto affettivo con entrambi i genitori2.

L’importanza dell’attribuzione di questo diritto in capo al minore è stato riconosciuto a partire dai lavori preparatori della l. 54/2006. L’On. Lucidi, nel corso della seduta tentasi alla Camera dei deputati in data 7 luglio 20053, affermò infatti che:

«In questo testo si ribalta anche la considerazione relativa al diritto e all’interesse del minore, che diventano principi prioritari di orientamento per il giudice. Non si stabilisce più, in primo luogo, quale deve essere la decisione sull’affidamento e, poi, in nome di cosa tali provvedimenti devono essere assunti; ma l’affermazione di un diritto del minore diventa la parola chiave di tutte le disposizioni inerenti l’affidamento dei figli».

A conferma di ciò la l. 54/2006 introdusse nel codice di procedura civile l’art. 709-ter.

Tale norma, oltre ad individuare il giudice competente per la soluzione delle controversie insorte tra i coniugi in ordine all’esercizio della potestà genitoriale, indicava anche le sanzioni civile che il giudice avrebbe potuto applicare nei confronti del genitore che avesse violato il diritto del minore alla

2 In tale senso si sono espressi numerosi autori, tra questi ricordiamo C. Padalino, L’affidamento condiviso dei figli, Torino, 2006, p.3 oppure L. Napolitano in L’affidamento dei minori nei giudizi di separazione e divorzio, Napoli, 2006, p. 26.

3 In Atti Parlamentari, Camera dei deputati, Resoconto Sommario e Stenografico, seduta n.

652, p. 14.

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45 bigenitorialità, in aggiunta alla configurabilità di una responsabilità per danni.

La norma, a cui la recente riforma della filiazione non ha apportato che una modifica terminologica (sostituendo il termine «potestà» con quello di

«responsabilità»), disciplina due tipi di controversie: le liti tra i genitori in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale e l’accertamento di inadempienze e violazioni in ordine alle modalità di affidamento con la conseguente emanazione di sanzioni.

Al secondo comma, l’art. 709-ter c.p.c., prevede quindi che, nel caso in cui il giudice riscontri che il comportamento di uno dei genitori sia caratterizzato da gravi inadempienze in ordine alla sua responsabilità verso i figli, o che abbi posto in essere atti che arrechino pregiudizio al minore o che ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, egli possa, oltre che modificare i provvedimenti già in vigore, comminare altresì delle sanzioni al genitore inadempiente.

Il giudice potrà, in particolare, ammonire in genitore, condannarlo al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria a favore della Cassa delle ammende o, infine, disporre il risarcimento dei danni a favore dell’altro genitore o dei figli.

Potrà quindi essere sanzionato il genitore convivente con la prole che compia atti che ostacolino i rapporti dei figli con l’altro genitore (ad es.

ponendo in essere una continua opera di denigrazione dell’altro genitore), ma potrà essere sanzionato anche il genitore affidatario non convivente che venga meno al dovere di partecipare attivamente alla cura e all’allevamento della prole (ad es. violando le prescrizioni relative al mantenimento economico del

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46 minore; rifiutandosi di incontrarlo; non partecipando ad eventi importanti della sua vita).

Alcuni autori hanno tuttavia affermato che si tratti in qualche modo di diritti “monchi”. Così Bonanzinga, in «La nuova legge sull’affidamento condiviso»4, afferma che: «… se è vero che oggi è espressamente prevista [...]

una tutela risarcitoria in favore del minore, manca, tuttavia, la possibilità per il minore stesso di agire o intervenire in giudizio per chiederne una tutela diretta, neppure nel caso in cui sia ravvisata una situazione di conflitto di interessi tra i genitori».

E Magno, in «Rapporti tra la legge 24 gennaio 2006, n. 54, in materia di affidamento condiviso, e le disposizioni di diritto internazionale applicabili»5, ha affermato che: «il comma 2, n. 2 dell’art. 709-ter prevede che il giudice possa disporre, in caso di gravi inadempienze dei genitori o di loro comportamenti pregiudizievoli verso il figlio, il risarcimento del danno a favore di quest’ultimo: ipotesi assai difficile da realizzare, senza attribuire al minorenne la qualità di parte nel relativo giudizio».

È inoltre rilevabile che, pur essendo condivisibile la finalità punitiva che il legislatore ha voluto attribuire a tali misure risarcitorie, egli non ha poi specificato quali debbano essere per il giudice i criteri di determinazione della somma dovuta.

4 C. Bonanzinga, La nuova legge sull’affido condiviso, Messina, 2006, www.unicostmilano.it;

in L’affidamento condiviso alla luce della l. 54/2006, A. Ceniccola e A. F. Sarracino, Macerata, 2007.

5 G. Magno, L’affidamento condiviso. Rapporti tra la legge 24 gennaio 2006, n. 54, in materia di affidamento condiviso e le disposizioni di diritto internazionale applicabili, p.3; in www.minoriefamiglia.it.

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47 A prescindere dalle critiche che la dottrina ha indirizzato all’efficacia dell’art. 709-ter c.p.c., la giurisprudenza ha negli anni più volte ritenuto applicabili le sanzioni previste da detta norma.

Tra i vari esempi vale la pena ricordare una sentenza, relativamente recente, emessa dal Tribunale di Roma6. Nel caso di specie, considerato che per molti anni uno dei genitori si era astenuto dal versare il contributo economico dovuto per il mantenimento della prole, con la quale, tra l’altro, non aveva mai avuto, per sua personale volontà, contatti di nessun tipo, il giudice ha ritenuto applicabili, nei confronti del genitore inadempiente, le misure punitive e coercitive di cui all’art. 709-ter c.p.c.

Sul punto la sentenza ha stabilito che: «la perdurante violazione da parte del marito, protrattasi, senza soluzione di continuità, sin dalla pronuncia dell’ordinanza presidenziale, dell’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento in favore del figlio, denuncia l’insussistenza di qualsivoglia volontà, da parte di costui, di fronteggiare i bisogni materiali dei propri figli, magari offrendo loro quanto era ed è, comunque, nella sua disponibilità, in quanto l’obbligo di un genitore di provvedere al mantenimento della prole implica il dovere di soddisfare primariamente le esigenze dei figli stessi e, quindi, di anteporre le loro esigenze alle proprie. Pertanto, l’eventuale esiguità del reddito a disposizione non può, comunque, giustificare la totale inadempienza protrattasi, per molti anni, da parte di un genitore, la quale incide, con riferimento ai figli, non solo sul piano strettamente materiale,

6 Trib. Roma, 10 giugno 2011 (Pres. Crescenzi- Est. Galterio), in Il diritto di famiglia e delle persone, vol. XLI, 2012, pp. 298 ss.

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48 impedendo loro la possibilità di sfruttare al meglio le proprie potenzialità formative, ma incide, ancor di più, sotto il profilo morale, essendo sintomatica dell’assoluta inidoneità del genitore a fornire loro il contributo necessario a creare quel clima di serenità indispensabile ad una crescita serena ed equilibrata della prole medesima.

[…] Sussistono i presupposti, in considerazione del grave inadempimento del ricorrente, come sopra accertato, in ordine all’esercizio della potestà genitoriale, costituito dal mancato esercizio del diritto di visita al figlio, protrattosi sin dall’ordinanza presidenziale, per l’applicazione delle sanzioni previste dall’art 709-ter c.p.c.».

La considerazione del minore non come oggetto di contesa tra i due genitori, ma come soggetto di diritti, è da tempo avvenuta anche in campo internazionale.

Un ruolo importante per la modifica di visuale operata nell’ordinamento italiano l’ha sicuramente avuta la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 (e ratificata in Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176).

La Convenzione, all’art. 9 stabilisce infatti: «Gli stati parti debbono rispettare il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi di mantenere una relazione personale e contatti diretti in modo regolare con entrambi i genitori, salvo quando ciò sia contrario all’interesse superiore del fanciullo»

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49 Di recente, la Corte di Strasburgo7 ha affermato che l’inosservanza del diritto di visita si concretizza in un attacco e lesione di valori fondamentali della persona umana, quale il rispetto della sua vita familiare garantito dall’art. 8 della CEDU. La Corte si è espressa con queste parole:

«La tutela accordata dall’art. 8 della CEDU al rispetto della vita familiare implica l’adozione da parte delle autorità nazionali di misure pratiche necessarie ad assicurare al genitore l’esercizio del diritto di visita nei confronti dei figli minori. Tale obbligo va attuato cercando di trovare il corretto equilibrio tra gli interessi e diritti delle persone interessate ed in particolare di quelli superiori del minore. È importante pertanto che le autorità tentino di ottenere la collaborazione delle parti interessate, ricorrendo a misure di tipo coercitivo solo in via residuale e comunque con grande prudenza. Ciò premesso deve considerarsi non conforme al dettato della CEDU un procedimento instaurato davanti ad un’autorità giudiziaria da un genitore non affidatario che aveva visto impedito dall’altro genitore il diritto di visita nei confronti della figlia minore, nel quale le autorità nazionali hanno adottato soltanto misure automatiche e stereotipate, senza cercare seriamente di trovare una soluzione concreta al problema sollevato dal ricorrente, lasciando così consolidarsi una situazione di illegittimità, attesa l’incidenza negativa dell’inutile decorso del tempo sulla privazione dei contatti tra genitore e figlia in età minore».

In ambito internazionale quindi, il diritto del minore alla bigenitorialità era da tempo riconosciuto. Il legislatore della riforma ha quindi puntato ad

7 Corte EDU, 22 novembre 2005, Reigado Ramos c. Portogallo, www.echr.coe.int.

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50 adeguare la normativa interna ai principi espressi da varie norme internazionali.

La regola, ad oggi, è dunque quella dell’affidamento dei figli ad entrambi i genitori, mentre l’eccezione è rappresentata dall’affidamento ad un solo genitore, disciplinato dal combinato disposto degli artt. 337-ter, comma 2, c.c.

e 337-quater.

Il secondo comma dell’art. 337-ter si struttura sulla falsariga del secondo comma del previgente art. 155 c.c., anche se con alcune novità di rilievo.

Viene in particolare ribadito il principio fondamentale che, per realizzare le finalità di cui al primo comma (mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, ricevere cura, educazione, istruzione ed assistenza morale da entrambi e conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale), il giudice deve adottare i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa.

Dunque il giudice della crisi coniugale deve improntare ogni decisione relativa ai figli (non necessariamente minori come vedremo meglio in seguito) in base al loro interesse, prescindendo da qualsiasi pregiudizio circa una minore o maggiore capacità genitoriale, dal lavoro svolto, o non svolto, dalla cerchia delle amicizie e frequentazioni dei genitori stessi.

Esempi di questo atteggiamento delineato dal legislatore sono alcune recenti decisioni giurisprudenziali che, anche in situazioni familiari delicate, hanno comunque optato per forme di affidamento condiviso.

Ha suscitato un certo interesse, prima fra tutte, l’ordinanza emessa dal

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51 Tribunale di Milano in data 27 novembre 2013, che ha optato per l’affidamento condiviso dei figli minori in favore della madre affetta da patologia psichiatrica.

Nel caso di specie il giudice ha sostenuto che non fosse ammissibile ipotizzare una inadeguatezza del genitore solo perché affetto da disturbo bipolare8.

L’autorità giudiziaria, dopo aver accertato che non sussiste pericolo di danno per i minori e che quindi in questo caso l’affidamento condiviso non può considerarsi contrario al loro interesse, ha dato prevalenza al diritto dei minori all’attuazione, anche a seguito di separazione dei genitori, della bigenitorialità.

La malattia mentale, si legge nel provvedimento, non deve comportare automaticamente un giudizio di inidoneità genitoriale.

Supportato dalla collaborazione della coppia, che nel corso del

8Tribunale di Milano, ordinanza 27 novembre 2013 (Est. G. Buffone). L’ordinanza stabilisce che: «All’udienza del 27 novembre 2013, le parti hanno raggiunto un accordo in ordine all’affidamento, il collocamento ed i tempi di frequentazione tra papà e minori.

1.Affidamento condiviso

2.Collocamento prevalente presso la madre 3.Frequentazioni con il padre […]

4.Garanzie. diritto del padre a partecipare al trattamento terapeutico della madre. In caso di rischi, il padre preavvisa eventualmente ricorso di sorveglianza ex art. 337 c.c.

Reputa il Tribuna che l’accordo possa essere recepito.

È vero che la madre accusa un disturbo psichiatrico ed è sottoposta a trattamento terapeutico, teso ad inibire le manifestazioni maniacali, tipiche del disturbo bipolare con cui convive;

tuttavia, non sono emersi elementi concreti per accertare l’effettivo nocumento per i minori o il pericolo di danno per gli stessi.

Mai, la situazione della madre, da quanto è emerso, ha causato un pregiudizio alla prole, grazie anche alla collaborazione attenta del padre.

Ciò vuol dire che non sussistono – allo stato – profili di inidoneità genitoriale.

[…] da ciò consegue che la misura dell’affidamento dei minori – se giustificata per la sola patologia del genitore – costituirebbe non espressione dell’art. 155 c.c., bensì applicazione mera di uno “stigma sociale”. Nel caso in esame, dunque, salvo più approfondito esame nella fase di trattazione, l’accordo viene recepito.»

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52 procedimento è riuscita a giungere ad un accordo preciso e ben studiato circa le responsabilità di ciascun genitore verso i figli, il giudice ha suffragato la volontà dei genitori di conservare, per quanto più possibile, un rapporto continuativo ed equilibrato con i figli, pur nella delicatezza della situazione familiare in esame.

È chiaro quindi che, a partire dall’introduzione dell’affidamento condiviso quale regola in caso di crisi del rapporto coniugale, il giudice dovrà prioritariamente valutare se esiste la possibilità di affidare i figli ad entrambi i genitori, circostanza che si realizzerà a meno che ciò non sia contrario all’interesse dei minori.

Una situazione diversa, ma che dimostra nella stessa misura, la preferenza accordata dai giudici all’affidamento condiviso, è quella riguardante una sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Roma nel 20119.

Questa ha stabilito che ha diritto di ottenere l’affidamento condiviso anche il genitore che ha «difficoltà relazionali» con il minore il quale dichiara espressamente di voler stare con l’altro genitore.

La Corte d’Appello ha infatti respinto il ricorso di un padre che chiedeva l’affidamento esclusivo del figlio, avendo questi manifestato la volontà di non stare con la madre a causa di «difficoltà relazionali» con lei.

Nel caso in oggetto il giudice d’appello ha escluso la possibilità di optare per l’affidamento esclusivo in quanto non risultava provata un’inidoneità del genitore a gestire l’affidamento condiviso, tale da rendere lo stesso pregiudizievole per il minore.

9 Corte d’Appello di Roma, sent. n. 4877/2011, in www.diritto.it.

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53 La Corte ha rilevato, in particolare, come lo stesso minore, pur avendo dichiarato di gradire la permanenza presso il padre e di avere attualmente difficoltà a relazionarsi con la madre, abbia in ogni caso manifestato la sua disponibilità a recarsi da lei due pomeriggi la settimana, con ciò dovendosi intendere l’inesistenza di una irrimediabile conflittualità nei rapporti tra madre e figlio. Nulla è stato rinvenuto, pertanto, che consenta di ritenere pregiudizievole per il minore l’affidamento condiviso (pregiudizio che, si ricorda, è presupposto necessario per decidere di optare per l’affidamento esclusivo), così che, in difetto di tale pregiudizio, la Corte ha ritenuto di non potersi disporre l’affidamento in via esclusiva al padre.

2.2 – Il diritto di visita dei nonni e dei parenti di ciascun ramo genitoriale L’art. 337-ter, come già aveva fatto l’art. 155 dopo la riforma del 2006, riconosce il diritto del minore a mantenere «rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale».

Il legislatore ha infatti recepito l’orientamento giurisprudenziale che ha valorizzato l’interesse del minore a mantenere un rapporto significativo e costante con i nonni (nonché con il resto dei suoi parenti).

Sul punto, soprattutto dopo l’emanazione della l. 54/06, si sono espressi molti stimati autori.

Tra questi Gianfranco Dosi, autore di vari saggi di commento alla nuova disciplina sull’affidamento condiviso, a proposito del diritto in questione, ha

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54 affermato che10:

«La riforma ribadisce e amplia ora il contenuto di questo diritto, estendendolo alla conservazione da parte del minore di rapporti significativi anche con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. Con ciò facendo emergere figure che nella vita quotidiana sono molto importanti, ma che la prassi giuridica della separazione ha sempre negletto se non ignorato del tutto. A differenza di quanto avviene nei tribunali per i minorenni dove sono abbastanza frequenti procedimenti de potestate in cui si reclama il diritto dei minori al rapporto con i nonni».

Anche la giurisprudenza di legittimità si è spesso espressa, con favore, sul punto. È interessante a tal proposito riportare una sentenza della Corte di Cassazione11 che, molti anni prima dell’emanazione della legge sull’affidamento condiviso (la prima, come noto, a riconoscere il diritto dei minori a mantenere rapporti significativi con i parenti di ciascun ramo genitoriale), si è pronunciata su tale diritto.

Nel caso di specie veniva contestata la facoltà di visita e di frequentazione riconosciuta ai nonni paterni (cui era stato consentito di vedere e tenere con sé

10 G. Dosi, L’affidamento condiviso, p.3 ss., www.minoriefamiglia.it

11 Cass. 25 settembre 1998, n. 9606, in Fam. e dir. 1999, p.17.

La Corte in tale occasione affermò che: «il diritto di visita in favore dei nonni non può essere riconosciuto eccezionalmente in presenza di gravissimi motivi che pregiudicano il rapporto con il genitore, ma viceversa esso deve essere negato unicamente quando il rapporto dei nonni con il nipote appare pregiudizievole per il medesimo.

[…] La mancanza di un’espressa previsione di legge non è sufficiente per precludere al giudice di riconoscere e regolamentare tali rapporti ovvero per considerare una tale possibilità solo residuale, in quanto praticabile unicamente in presenza di gravissimi motivi, non potendosi per ciò solo ritenere privi di tutela vincoli che affondano le loro radici nella tradizione familiare la quale trova il suo riconoscimento anche nella Costituzione (art. 29 Cost.)».

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55 il nipote per alcune ore al giorno) nei confronti del minore.

Con tale sentenza la Corte affermò che la facoltà di visita ai nonni era un diritto del minore; tale diritto poteva essere negato solo nel caso in cui da questo rapporto derivasse per il minore stesso un grave pregiudizio.

È quindi vero che, pur non spettando ai nonni (e agli altri parenti) un vero e proprio diritto soggettivo di visita dei nipoti minori, il giudice non può ignorare i legami affettivi del minore stesso con questi soggetti, soprattutto nell’ottica di una sua armonica crescita psicologica e culturale. L’interesse legittimo dei nonni a visitare i minori, ogni volta che venga a coincidere con l’interesse del minore ad instaurare e mantenere costanti, regolari e congrui i rapporti con i propri congiunti diversi dai genitori, trova quindi ad oggi un incondizionato riconoscimento nella previsione di cui al primo comma dell’art. 337-ter.

2.3 – L’affidamento del minore a terzi

L’art. 155 c.c., così come modificato dalla l. 54/2006, non conteneva alcuno specifico riferimento all’affidamento del minore a terzi, una misura a cui invece il giudice è alcune volte costretto a ricorrere quando entrambi i genitori non dimostrano un sufficiente grado di capacità di prendersi cura della crescita dei figli.

La versione dell’art. 155 c.c. precedente alla riforma invece, stabiliva che:

«in ogni caso il giudice può, per gravi motivi, ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona o, nella impossibilità, in un istituto di educazione».

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56 In virtù di tale “dimenticanza” del legislatore, dopo la novella dell’art. 155 c.c. da parte della l. 54/2006, molto si è discusso circa la competenza del tribunale ordinario a disporre tale tipo di affidamento nell’ambito dei procedimenti di separazione; la competenza del tribunale ordinario era infatti rimasta formalmente in vigore solo per i procedimenti di divorzio ex art. 6, ottavo comma, della l. 898/1970, così come novellato dalla l. 184/198312.

Il testo originario dell’art. 6, secondo comma, della l. 898/1970, prevedeva infatti, in caso di divorzio, che in luogo dell’affidamento ad uno dei genitori, il tribunale potesse, per gravi motivi, disporre l’affidamento a terzi.

La l. 74/1987 ha modificato tale articolo, il quale ad oggi dispone, all’ottavo comma, che in caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, il tribunale proceda all’affidamento familiare di cui all’art. 2, l. 184/1983.

Nel silenzio della legge di riforma del 2006, era stato quindi ipotizzato che tale misura, poiché incidente sulla potestà genitoriale, avrebbe potuto essere adottata solo dal tribunale minorile, all’interno di un procedimento ex art. 333 c.c13.

12La l. 184/83, intitolata, dopo l’emanazione della l.149/01 “Diritto del minore ad una famiglia” all’art. 2, i e 2 comma, stabilisce che: «Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto disposti ai sensi dell'articolo 1, è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l'educazione, l'istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno.

Ove non sia possibile l'affidamento nei termini di cui al comma 1, è consentito l'inserimento del minore in una comunità di tipo familiare o, in mancanza, in un istituto di assistenza pubblico o privato, che abbia sede preferibilmente nel luogo più vicino a quello in cui stabilmente risiede il nucleo familiare di provenienza. Per i minori di età inferiore a sei anni l'inserimento può avvenire solo presso una comunità di tipo familiare».

13 In tal senso, nel corso della seduta delle Commissioni riunite 2 Giustizia e Commissione speciale in materia di infanzia e di minori del 20 dicembre 2005, il sen. Bucciero aveva

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57 L’emanazione del d.lgs. 154/2013 ha comportato, come visto, una modifica della norma riguardante l’affidamento condiviso (art. 337-ter) e l’aggiunta, in tale disposizione, di una previsione riguardante l’affidamento familiare.

L’art. 337-ter, al secondo comma, prevede infatti che: «In caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, il giudice procede all’affidamento familiare. […] A tal fine, copia del provvedimento di affidamento è trasmesso, a cura del p.m. al giudice tutelare».

La formale introduzione, nella disciplina dell’affidamento dell’istituto dell’affidamento familiare ha reso di conseguenza pacifico che il tribunale ordinario possa disporre l’affidamento del minore a terzi (e in casi estremi ai Servizi Sociali), nell’ambito del suo generale potere di assumere decisioni nell’esclusivo interesse dei figli, in quanto il tribunale, nel momento in cui interviene sull’affidamento dei figli, è giudice minorile a tutti gli effetti14.

Quindi, in presenza di circostanze concrete (e gravi motivi) che consiglino una soluzione diversa rispetto all’affidamento condiviso e all’affidamento esclusivo, il giudice, proprio in virtù del suo generale potere di adottare «ogni altro provvedimento riguardo alla prole», potrà disporre l’affidamento dei minori ai nonni o comunque a congiunti diversi dai genitori.

sostenuto che: «Ulteriore perplessità deriva dalla mancata previsione dell’ipotesi di affidamento del minore a terzi, qualora entrambi i genitori siano inidonei all’affidamento o non intendano accudire i figli. Nel caso che la coppia intenda separarsi, ma non ritenga di poter accudire i figli, non si comprende - attesa la soppressione del vigente art. 155 – se essa debba rivolgersi prima al Tribunale per i minorenni e poi separarsi al Tribunale ordinario – dopo aver ottenuto dal Tribunale per i minorenni l’affidamento dei figli a terzi – o se la coppia debba ricorrere al Tribunale ordinario per ottenere la separazione e sperare che la giurisprudenza trovi una soluzione, utilizzando lo strumento ermeneutico dell’analogia».

In Atti parlamentari, Senato della Repubblica, Resoconto sommario, seduta n. 21.

14 In merito si veda App. Bologna 16 maggio 2008, in Fam. pers. succ., 2008, 11, p. 943.

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58 Infine, in caso di mancanza di parenti in grado di prendersi cura del minore, il giudice potrà procedere, in applicazione analogica a quanto previsto dall’art. 6, ottavo comma, della l. 898/1970, all’affidamento del minore ad un nucleo diverso da quello naturale, fino ad arrivare, in situazione di emergenza, ai Servizi Sociali.

In passato la giurisprudenza ha riconosciuto la sussistenza dei gravi motivi, idonei a determinare l’affidamento a terzi della prole, solo in ipotesi del tutto residuali: unicamente nel caso in cui entrambi i genitori avessero dimostrato un’assoluta deficienza morale ed una totale inidoneità all’opera di cura e di educazione dei figli.

Va da sé che con il riconoscimento, avvenuto negli ultimi anni, del diritto soggettivo dei figli alla bigenitorialità, la giurisprudenza deve, ad oggi, valutare in modo ancora più rigoroso i presupposti per disporre un tale tipo di affidamento.

La soluzione preferita sarà, di regola, nel caso in cui i genitori risultino inidonei a svolgere validamente la funzione educativa, l’affidamento a stretti parenti del minore (quali i nonni e gli zii)15, anche in ossequio all’intervenuto riconoscimento del diritto del minore, ex art. 337-ter primo comma, di

«conservare rapporti significati con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale».

In caso di impossibilità di affidare il minore ai parenti, il giudice dovrà prendere in considerazione l’affidamento «etero-familiare».

15 Si veda sul punto, tra i vari precedenti la scelta del Tribunale di Vigevano, 18 dicembre 1990, in Dir. Fam., 1992, p. 207.

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59 Con tale tipo di affidamento, il giudice dispone che il figlio venga affidato ad una famiglia (preferibilmente con figli minori) oppure ad una persona singola in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno.

Solo in ultima analisi il giudice può disporre l’inserimento del minore in una comunità di tipo familiare.

Nel caso venga compiuta questa scelta, verrà comunque assegnata al Servizio Sociale la funzione di inserirsi nel rapporto tra il minore e i genitori, ai quali verrà chiesto di tenere un atteggiamento collaborativo: un intervento non sulla famiglia del minore, ma a fianco della stessa, sempre nell’ottica del perseguimento dell’interesse morale e materiale del figlio.

Interessante novità introdotta dall’art. 2, l. 28 marzo 2001, n. 149 alla normativa sull’affidamento dei minori a terzi è stata infine l’imposizione del superamento (entro il 31 dicembre 2006) del ricovero dei minori negli istituti di educazione, con la relativa chiusura dei suddetti istituti.

Tale possibilità che, bisogna comunque ammettere, era adottata soltanto in casi eccezionali, è ad oggi così sostituita con la previsione dell’inserimento del minore in una famiglia e, ove ciò non sia possibile, in una comunità di tipo familiare, caratterizzata da organizzazione e rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia16.

Risulta quindi chiaro che la giurisprudenza ha il compito di muoversi

16 Sul punto si veda L. Lenti, Tutela civile del minore e diritto sociale della famiglia, Milano, 2002, p. 145; in Trattato di diritto e di famiglia, diretto da P. Zatti.

Ma anche il saggio di L. Saviane, La separazione come misura d’amore: il caso dell’affido familiare; in La famiglia tra le generazioni, D. Bramanti, Milano, 2001.

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60 seguendo un ideale “ordine di preferenza” nell’individuare il soggetto a cui affidare il minore e solo nell’ipotesi residuale di mancanza di parenti in grado di prendersene cura, il giudice dovrà disporre, in applicazione analogica dell’art. 6, comma 8, l. 898/70, l’affidamento «etero-familiare».

2.4 – Collocamento e permanenza del minore presso ciascun genitore Ciò detto occorre adesso valutare come si attua concretamente, a norma dell’art. 337-ter, la regola generale dell’affidamento condiviso.

Il terzo comma dell’art. 337-ter stabilisce che «la responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori». Come visto, sotto il vigore della disciplina precedente all’emanazione della legge sull’affidamento condiviso, l’esercizio della potestà era legato al provvedimento di affidamento dei figli; si verificava quindi una vera e propria scissione tra titolarità della potestà (che rimaneva ad entrambi i genitori) ed esercizio di questa (attribuito esclusivamente al genitore affidatario)17.

A seguito dell’emanazione della l. 54/2006 è stato invece previsto che la potestà sia comunque esercitata da entrambi i genitori, a prescindere dalla forma di affidamento adottata dal giudice (sia esso condiviso o monogenitoriale).

Il provvedimento di affidamento dei figli ad oggi quindi, non serve più a stabilire a quale dei due genitori viene attribuito l’esercizio della responsabilità sul figlio, ma soltanto, in mancanza di accordo in tal senso dei

17 C. Padalino, L’affidamento condiviso dei figli,Torino, 2006, p. 43.

(19)

61 genitori, a stabilire la collocazione prevalente del minore ( e i consequenziali provvedimenti economici e sull’assegnazione della casa familiare) e a determinare i tempi e le modalità di permanenza di questi presso ciascun genitore18.

Autorevoli interpreti, a conferma di quanto detto, hanno affermato che:

«Il provvedimento di affidamento della prole ha perso gran parte della sua originaria funzione e si riduce, in definitiva, nella maggior parte dei casi, ad un semplice collocamento del minore, nella direzione di assolvere all’esigenza che la prole abbia un alloggio definitivo e duraturo, e con la prevalente funzione di offrire al giudice il criterio prioritario di scelta nell’assegnazione della casa familiare, nell’interesse dei figli»19.

Il provvedimento di affidamento della prole dovrebbe in sintesi costituire una sorta di statuto, di programma riguardante i tempi e le modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore, ed indicare altresì, le responsabilità assunte da questi ultimi con riferimento ai compiti di cura del minore.

Ancora una volta risulta utile l’esame dei lavori preparatori della l.

54/2006; durante la seduta del 10 marzo 2005, l’Onorevole Paniz così si è espresso in riferimento al potere del giudice di determinare i tempi e le modalità di permanenza dei figli presso ciascun genitore20:

«Il testo in esame non tende ad una ripartizione analitica dei tempi di

18 In tal senso A. Arcieri, L’affidamento condiviso, Milano, 2007, p. 117; e S. Patti e M. G.

Cubeddu, Diritto della famiglia, Milano, 2011, p. 529.

19 A. Bucci, Affidamento e potestà genitoriale: tra tribunale per i minori e tribunale ordinario, alla luce della Legge n.54, 2006, p.2, in www.giustizia.lazio.it.

20 On. Paniz, in Atti parlamentari, Camera dei deputati, Resoconto Sommario e Stenografico, seduta n. 600, 10 marzo 2005.

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62 convivenza del minore con i genitori: nel testo unificato, affidamento ad entrambi i genitori non significa 50 per cento del tempo del figlio con ciascun genitore né 50 per cento delle competenze, né ping-pong tra due case, ma conservazione di effettiva responsabilità genitoriale per entrambi i genitori, con modalità di esercizio della potestà da stabilire caso per caso».

Da quanto detto si può quindi trarre che il giudice potrà anche stabilire ampie permanenze del minore presso l’abitazione del genitore ove verrà materialmente collocato, purché vengano stabiliti tempi di permanenza con l’altro genitore tali da garantire un rapporto continuativo e non meramente saltuario o occasionale; non dovranno inoltre essere disposte ingiustificate limitazioni dell’esercizio della potestà in capo ad uno dei genitori.

2.5 – Gli accordi intervenuti tra i genitori

Il giudice, in base al secondo comma dell’art. 337-ter, «prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori».

Egli ha quindi ampi margini di valutazione della genuinità degli accordi e della loro rispondenza agli interessi del minore. Ciò è confermato anche dal secondo comma dell’art. 158 c.c., il quale stabilisce che il giudice può rifiutare l’omologazione «quando l’accordo dei coniugi relativamente all’affidamento e al mantenimento dei figli è in contrasto con l’interesse di questi».

La formulazione attuale del secondo comma dell’art. 337-ter, identica al secondo comma dell’ormai abrogato art. 155 c.c., è stata oggetto di discussione durante i lavori di approvazione della l. 54/2006.

(21)

63 Il testo originario dell’art. 155 prevedeva infatti questa formulazione: «In particolare il giudice prende atto, se non palesemente contrari all’interesse dei figli, degli accordi intercorsi tra i genitori». Durante la seduta tenutasi alla Camera dei deputati il 7 luglio 2005, venne approvato un subemendamento che ampliava la possibilità di controllo da parte del giudice, sopprimendo la parola «palesemente».

L’importanza dell’attività di controllo del Giudice, sempre nel corso della medesima seduta, venne sottolineata da un interessante intervento dell’Onorevole Lucidi, la quale affermò21:

«Noi introduciamo nel testo, al comma 1, il diritto del minore ad avere e a mantenere i rapporti con entrambi i genitori. Parliamo di un diritto del minore, ma voi sapete che un diritto è tale quando ad esso corrisponde una capacità di farlo valere, di tutelarlo. Al contrario, nel nostro ordinamento il minore non ha capacità processuale: è rappresentato dai suoi genitori e, eventualmente, anche attraverso la valutazione, con senso di prossimità al suo interesse, da parte del giudice. Credo che, proprio nel momento in cui ci proponiamo di aprire una porta nuova nel nostro ordinamento, attraverso la definizione di un preciso diritto del minore, dobbiamo garantire che di tale diritto qualcuno si faccia carico, in quanto diritto a valenza pubblica, in quanto lo Stato si assume la responsabilità di tutelare e promuovere i diritti dell’infanzia […] si tratta di capire se, al di là degli elementi di conflittualità in atto, che non possono impedire di scorgere distintamente l’interesse di cui ci stiamo occupando, vi

21 On. Lucidi, nel corso della seduta della Camera dei deputati del 7 luglio 2005, in Atti parlamentari, Camera dei deputati, Resoconto Sommario e Stenografico.

(22)

64 sia qualche cautela in più da assicurare o sia stata apprestata qualche tutela in meno».

La dottrina si è a lungo interrogata sulla possibilità per i genitori di pattuire un accordo avente ad oggetto l’attribuzione dell’affidamento esclusivo della prole ad uno di essi.

L’opinione prevalente è quella negativa22. Fin dall’esame dei lavori preparatori alla l. 54/2006, si può infatti evincere che la funzione degli

«accordi tra i genitori» è soltanto quella di consentire a questi di stabilire in modo concorde il programma di affidamento condiviso nei confronti del minore; programma che riguarderà quindi i tempi e le modalità di permanenza del minore presso ciascun genitore, la misura di contribuzione al suo mantenimento, i compiti di cura da espletare nei suoi confronti ecc.

Tali accordi non sono e non possono essere quindi strumento di deroga alla regola generale dell’affidamento condiviso.

Tenendo conto di ciò, il giudice potrà prendere atto degli accordi intervenuti tra i genitori, aventi ad oggetto l’attribuzione dell’affidamento esclusivo della prole a uno di essi, soltanto dopo un serio e approfondito esame della fattispecie concreta, qualora riscontri un comprovato pregiudizio al minore derivante dall’applicazione dell’affidamento ad entrambi i genitori.

L’attribuzione dell’affidamento monogenitoriale, anche se la più eclatante,

22 Sul punto si veda Tommaseo, Le disposizioni processuali della legge sull’affidamento condiviso (legge 8 febbraio 2006, n.54), p. 4, in www.giustizia.lazio.it secondo cui: «posto che l’affidamento esclusivo può essere posto solo dal giudice quando accerti che l’affidamento condiviso sia contrario all’interesse del minore, una contrarietà che deve essere oggetto specifico di motivazione (art. 155-bis, comma 1)».

(23)

65 non è la sola ipotesi di accordo intercoso tra i genitori che, in assenza di gravi e comprovati motivi, può risultare contrario agli interessi dei minori.

Accordi che, ad esempio, escludano o limitino immotivatamente il diritto dei figli di frequentare e incontrare i propri nonni, devono considerarsi lesivi dei diritti dei minori, previsti e tutelati dal primo comma dell’art. 337-ter.

In tutti questi casi il giudice dovrà quindi, sempre nell’ottica della tutela dei diritti dei minori, negare validità agli accordi intervenuti tra i genitori e adottare provvedimenti relativi alla prole più idonei alla salvaguardia di un loro sereno sviluppo.

2.6 – Il mantenimento dei figli

L’art. 337-ter, al quarto comma, disciplina le modalità di mantenimento dei figli da parte dei genitori e ricalca, nel suo contenuto, quando già stabilito nell’abrogato art. 155 c.c.

L’obbligo di mantenimento dei figli grava in solido su entrambi i genitori, in proporzione alle rispettive sostanze e capacità reddituali.

A seguito di separazione, stabilisce infatti l’art. 337-ter, entrambi i genitori continuano ad essere obbligati al mantenimento della prole, qualunque sia la forma di affidamento scelta nel caso concreto dal giudice.

Bisogna considerare che prima dell’emanazione della legge sull’affidamento condiviso, l’affidamento monogenitoriale era la forma ordinaria di affidamento prevista dalla legge; ciò di fatto comportava che il tribunale stabilisse la misura e le modalità della prestazione pecuniaria a carico del genitore non affidatario e la corresponsione dell’assegno di

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66 mantenimento direttamente al coniuge affidatario, che in questo modo vantava un credito iure proprio.

La dottrina distingueva inoltre tra mantenimento diretto e mantenimento indiretto del minore. Il genitore affidatario provvedeva al mantenimento diretto, utilizzando sia le proprie risorse sia il contributo ricevuto dall’altro genitore; il genitore non affidatario, invece, provvedeva al mantenimento indiretto, corrispondendo l’assegno di mantenimento al coniuge affidatario.

Problemi sorgevano tuttavia nei periodi in cui la prole viveva presso il genitore non affidatario; in particolare dottrina e giurisprudenza dibattevano se le somme utilizzate dal genitore non affidatario per il mantenimento diretto dei figli durante i periodi di permanenza presso di lui, incidessero sulla misura della prestazione indiretta a cui era tenuto.

Sul punto la giurisprudenza ha modificato nel tempo la propria posizione:

inizialmente la prestazione diretta elargita dal coniuge non affidatario durante i periodi di permanenza presso questi del figlio, lo dispensava dal versamento dell’assegno di mantenimento all’altro coniuge, per il periodo considerato.

Successivamente però la giurisprudenza ha optato per una posizione più mite, propensa alla riduzione proporzionale del contributo indiretto, in considerazione dei maggiori oneri del non affidatario, ma non alla sua completa sospensione.

Merita a questo punto riportare due pronunce della Corte di Cassazione che hanno fatto chiarezza sulla questione.

(25)

67 La prima23, del 1996, ha stabilito che:

«L’obbligo del genitore affidatario di provvedere, pur con il concorso dell’altro ex coniuge, al mantenimento dei figli minori è tendenzialmente illimitato, in quanto l’affidatario medesimo deve permanentemente sopportare le spese generali e di organizzazione domestica anche nei periodi in cui i figli dovrebbero vivere presso il genitore non affidatario, ove questi, per qualsivoglia motivo, non eserciti tale diritto dovere, tenuto conte, altresì, che sarebbe impossibile e estremamente difficile eliminare dette spese in relazione agli indicati periodi.

Ne deriva che il pagamento dell’assegno per i figli non può essere sospeso nei periodi in cui i figli stessi vivano presso il genitore non affidatario, mentre è ammissibile una riduzione proporzionale della misura dello stesso, avuto riguardo ai maggiori oneri sopportati dal non affidatario nei menzionati periodi e dalle corrispondenti minori spese (specialmente per vitto e cure quotidiane) sostenute durante gli stessi dal genitore affidatario».

La seconda pronuncia24, del 2001, ha ribadito lo stesso concetto, affermando in particolare che il genitore non affidatario della prole non può pretendere di sospendere il pagamento dell’assegno nei periodi in cui i figli si trovano presso di lui, periodi in cui, per tanto, egli provvede in modo esclusivo al loro mantenimento. Il contributo per il mantenimento dei figli minori, ha affermato infatti la Corte, non costituisce il mero rimborso delle

23 Cass., 13 dicembre 1996, n. 11138; in Giurisprudenza del diritto di famiglia, M. Bessone, M. Dogliotti, G. Ferrando, 2007, p. 600.

24 Cass., 17 gennaio 2001, n. 566; in www.affidamentocondiviso.it.

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68 spese sostenute dall’assegnatario del contributo nel mese corrispondente, ma rata mensile di un assegno annuale, determinato tenendo conto di ogni altra circostanza emergente dal contesto, in funzione delle esigenze della prole rapportate all’anno.

La legge sull’affidamento condiviso, emanata nel 2006, disciplinava il mantenimento dei figli a seguito della separazione all’art. 155, quarto comma.

Come detto, a seguito dell’emanazione del d.lgs. 154/2013 tale articolo è stato abrogato e sostituito dall’art. 337-ter, che però, al quarto comma, ha un contenuto identico a quello dell’art. 155, quarto comma.

La norma, ed è questa la rilevante differenza rispetto alla disciplina precedente alla legge sull’affidamento condiviso, indica espressamente i parametri da utilizzare ai fini della determinazione della misura del mantenimento.

Stabilisce infatti l’art. 337-ter, quarto comma:

«Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:

1) le attuali esigenze del figlio;

2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;

3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore;

(27)

69 4) le risorse economiche di entrambi i genitori;

5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.

L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice.

Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi».

Con questa formulazione sembra che il legislatore abbia voluto apportare un sostanziale mutamento della prospettiva, passando dal precedente sistema di mantenimento indiretto a quello diretto.

Il legislatore infatti, sulla forma del mantenimento dei figli, nulla specifica, prevedendo soltanto che si tratti di un mantenimento proporzionale al reddito dei genitori. Ove necessario, il coniuge con un reddito superiore, dovrà corrispondere al coniuge economicamente più debole un contributo che assume la veste di un assegno, calcolato in base ai parametri previsti dall’articolo.

Sembrerebbe quindi che, ad oggi, il mantenimento diretto sia la regola, mentre quello indiretto l’eccezione ( come dimostrato dall’inciso “ove necessario”).

Vari autori si sono infatti espressi a favore di tale ipotesi, tra questi giova ricordare la riflessione offerta sul tema da Gilda Ferrando:

«Il tenore letterale della norma, secondo cui il giudice stabilisce, solo “ove

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70 necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità”; la logica della “condivisione nell’affidamento”, e l’analisi di taluni criteri determinativi dell’assegno (i tempi di permanenza dei figli presso ciascun genitore, la valenza dei compiti domestici e la “cura”

assunta da ciascun genitore) depongono a favore dell’impostazione secondo cui il legislatore abbia voluto riferirsi ad una modalità diretta di mantenimento dei figli»25.

La previsione del mantenimento diretto come regola nella ripartizione economica degli oneri gravanti sui genitori separati sembra, tra l’altro, essere strettamente collegata con l’idea alla base della l. 54/2006: in virtù della conservazione del principio di bigenitorialità anche dopo la separazione, poco o nulla dovrebbe cambiare nel rapporto genitori-figli. A ciò consegue che, nel caso in cui i genitori abbiano redditi uguali, il modo con cui far fronte al dovere contributivo verso i figli sia diretto.

Il sistema di mantenimento indiretto quindi, a seguito della riforma del 2006, recepita pienamente anche dalla riforma del 2013, ha assunto una valenza sussidiaria e bilanciatrice dei casi in cui, tenutosi conto dei parametri indicati dall’art, 337-ter, quarto comma, il reddito di uno dei coniugi sia reputato insufficiente dal giudice.

Ciò però può considerarsi valido solo nei casi in cui venga prevista una presenza paritaria dei figli con entrambi i genitori. È vero che ad oggi l’affidamento condiviso è la norma, ma nei casi in cui questo non sia applicabile dovrà essere prevista la corresponsione di un assegno a titolo di

25 G. Ferrando, Trattato di diritto di famiglia; famiglia e matrimonio, 2011, Milano, p. 1714.

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71 mantenimento indiretto.

All’atto pratico quindi, in caso di affidamento condiviso, entrambi i genitori provvederanno direttamente al mantenimento dei figli, senza possibilità di chiedersi vicendevoli rimborsi, a meno che ciò non sia stabilito dal giudice, il quale, disponendo in tal senso, dovrà avere presenti le disparità economiche esistenti tra i coniugi e applicare, ai fini della determinazione del quantum, i parametri indicati dal legislatore.26

In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza. Il Tribunale di Catania27 in una sentenza del 2006 ha infatti stabilito che, considerando il fatto che nel caso si specie il giudice aveva optato per una forma di affidamento condiviso che attribuisse un eguale tempo di permanenza della prole presso i genitori e visto che questi avevano pari potenzialità reddituali, non vi era la necessità di prevedere una forma di mantenimento dell’uno nei confronti dell’altro28.

Ad oggi si parla quindi29, più che di mantenimento indiretto, di mantenimento integrato, indicando, con tale espressione, la funzione appunto integrativa che spesso, nella pratica, l’assegno assume nel supportare il mantenimento diretto dell’altro coniuge.

Ad esempio, in caso di coniugi con redditi diversi, ma con l’attribuzione di

26 G. Ferrando, Trattato di diritto di famiglia; famiglia e matrimonio, 2011, Milano, pp. 1714 e ss.

27 Trib. Catania, 12 luglio 2006, sent. n. 2597, in www.affidamentocondiviso.it.

28 Stabilisce infatti la sentenza: «In tema di mantenimento dei figli minori, laddove i genitori abbiano pari potenzialità reddituali ed il giudice abbia stabilito, durante l’arco della settimana, un paritario periodo di permanenza dei figli con ciascun genitore, non vi è necessità di imporre all’uno o all’altro il versamento di un assegno periodico, fermo restando che ciascun genitore dovrà provvedere al mantenimento diretto nel periodo di rispettiva permanenza e che sarà tenuto al 50% delle spese scolastiche e di vestiario e di quelle per le attività sportive o ricreative cui abbia dato il suo assenso, nonché al 50% di quelle di carattere sanitario».

29 M. Corbi, Assegno di mantenimento, www.altalex.com.

(30)

72 uguali tempi di permanenza dei figli presso di sé, l’esclusivo ricorso al mantenimento diretto provocherebbe un esborso proporzionalmente maggiore in capo al coniuge dotato di minori disponibilità economiche. In questo caso la corresponsione dell’assegno sarà quindi finalizzata alla correzione delle sperequazioni derivanti dal mantenimento diretto.

L’accertamento del diritto di uno dei coniugi a percepire dall’altro l’assegno di mantenimento a favore dei figli dovrà, per il giudice, dividersi in due fasi: nella prima egli sarà chiamato a verificare la somma in astratto dovuta da ciascun genitore a titolo di contributo al mantenimento dei figli, al fine di realizzare il principio di responsabilità secondo le rispettive capacità economiche; nella seconda fase il giudice dovrà determinare in concreto la misura dell’assegno di mantenimento in ragione di un’attenta valutazione dei cinque criteri indicati dall’art. 337-ter.

La valutazione del giudice non dovrà quindi essere il frutto di una proporzione matematica tra i patrimoni di entrambi i genitori, ma dovrà essere il risultato dell’esame di una serie di elementi variabili, di natura personale ed economico-patrimoniale.

Prima di procedere con l’analisi dei singoli elementi di qualificazione dell’assegno, così come previsti dall’art. 337-ter, quarto comma (sui quali deve basarsi la valutazione del giudice), deve premettersi che l’introduzione di tali cinque criteri, ha facilitato l’applicazione di una prassi giurisprudenziale uniforme per quanto riguarda la determinazione del contributo di mantenimento.

(31)

73 Ciò ha permesso ai giudici di effettuare un bilanciamento tra l’interesse del minore a mantenere il preesistente tenore di vita e l’interesse del genitore obbligato a concorrere in misura proporzionale alle proprie capacità economiche.

Bisogna inoltre considerare che la mancata o erronea valutazione, da parte del giudice, di uno di questi cinque criteri, può essere fatta valere dalla parte interessata mediante reclamo alla Corte d’Appello, ex art. 708, c.p.c., quarto comma.

La parte dovrà in questo caso specificare, nell’atto di impugnazione, l’esatta portata degli elementi non valutati dal giudice, prospettando analiticamente come tali elementi avrebbero assunto particolare rilievo ai fini della determinazione del quantum dell’assegno di mantenimento.

2.7 – Analisi dei singoli criteri previsti ai fini della determinazione della misura del mantenimento dei figli

1) Le attuali esigenze del figlio:

L’assegno di mantenimento ha la funzione di consentire al genitore con cui il figlio convive, di poter far fronte alle molteplici esigenze del figlio.

Queste devono essere desunte: «dalle sue precedenti esperienze di vita, dall’ambiente in cui si trova e dalla fascia di reddito in cui la famiglia si colloca, nonché dalle spese ulteriori che il tener conto delle inclinazioni, aspirazioni e capacità particolari, come imposto dall’art. 147 c.c., possa

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74 comportare»30.

Le esigenze del figlio non riguardano quindi il solo obbligo alimentare, ma sono estese anche all’aspetto scolastico, sanitario e sociale del figlio.

D’altra parte, varie pronunce hanno tentato di circoscrivere la portata di questo criterio, che ben si presta a generalizzazioni potenzialmente illimitate.

Più volte è stato infatti ribadita la valenza diseducativa (e quindi non conforme alle esigenze di tutela della prole) della previsione di un assegno di mantenimento in misura eccedente rispetto alle esigenze del minore, anche se non sproporzionata rispetto alle possibilità del genitore obbligato31.

È vero però che la giurisprudenza si è più volte espressa anche in senso contrario, stabilendo che, in contesti familiare con possibilità economiche più elevate, i bisogni dei figli non potranno non risentire del livello economico- sociale in cui si colloca la figura del genitore, comportando di conseguenza la previsione di assegni di mantenimento a loro volta più cospicui32.

Infine, con l’aggiunta dell’aggettivo «attuali» il legislatore ha voluto riferirsi all’età della prole; la quantificazione del contributo cui il genitore è obbligato deve infatti tenere conto che maggiore è l’età del minore, maggiori saranno le esigenze che il genitore sarà tenuto a soddisfare33.

30 Così B. De Filippis, in Trattato breve di diritto di famiglia, Padova, 2002, p. 473.

31 In tal senso Trib. Napoli, 21 luglio 1999, in Giur, nap., 1999, p. 360.

32 La Corte ci Cassazione, con al sentenza n. 18749, del 17 settembre 2004, ha infatti stabilito che: «i bisogni della famiglia, al cui soddisfacimento i coniugi sono tenuti a norma dell’art 143 c.c., non si esauriscono in quelli, minimi, al di sotto dei quali verrebbe in gioco la stessa comunione di vita e la stessa sopravvivenza del gruppo, ma possono avere, nei singoli contesti familiari, un contesto più ampio, soprattutto in quelle situazioni caratterizzate da ampie e diffuse disponibilità patrimoniali dei coniugi, situazioni le quali sono anch’esse riconducibili alla logica della solidarietà coniugale».

33 In tal senso si veda Cass. 22 marzo 2005, n. 6197, in Mass. Giust. Civ., 2005.

(33)

75 Una precisazione è a questo punto doverosa. A seguito della recentissima riforma operata dal d.lgs. 154/2013 il contenuto dell’art. 147 c.c. è stato modificato attraverso un riferimento all’art. 315-bis c.c.

Tale articolo, intitolato «Diritti e doveri del figlio», stabilisce infatti, con particolare riferimento ai diritti dei figli, che:

«Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano».

Dalla formulazione di tale norma è possibile quindi notare come venga riconosciuta maggiore centralità al ruolo del minore, sia nelle relazioni con i genitori che all’interno del processo che può eventualmente riguardarlo; di questo argomento tratterò più diffusamente nel capito quarto.

2) Il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori:

A seguito della separazione personale dei coniugi, la prole ha diritto ad un mantenimento tale da garantirle un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo, per quanto più possibile, a quello goduto in precedenza.

I diritti e i doveri dei genitori verso i figli infatti, non subiscono certo

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76 variazioni a seguito della separazione della coppia; rimane quindi identico l’obbligo di ciascuno dei coniugi di contribuire, in proporzione delle sue capacità, all’assistenza e al mantenimento dei figli.

La misura del contributo dovuto dal genitore onerato deve essere quindi tale, sempre nei limiti del possibile, da assicurare al figlio un tenore di vita analogo a quello goduto durante la convivenza con entrambi i genitori, e non quindi un contributo capace solo di consentirgli un dignitoso mantenimento.

3) I tempi di permanenza presso ciascun genitore:

Fino alla riforma del 2006 la giurisprudenza aveva sempre sostenuto che l’assegno di mantenimento costituisse la ripartizione periodica (in mesi appunto) del contributo al mantenimento per i minori, determinato su base annua34.

Come già visto, veniva quindi escluso che per i periodi trascorsi dai figli presso il genitore non affidatario, questi avesse diritto a non corrispondere l’assegno di mantenimento35.

Con la legge sull’affidamento condiviso l’obiettivo principale che il legislatore (e di conseguenza la giurisprudenza) si sono posti è stato far sì che i tempi di permanenza presso ciascun genitore siano tali da garantire ai minori

34 A tal proposito la Corte di Cassazione, in una sentenza del 2001 ha affermato che: «In tema di separazione personale dei coniugi, deve ritenersi che, in mancanza di diverse disposizioni, il contributo al mantenimento dei figli minori, determinato in una somma fissa mensile in favore del genitore affidatario, non costituisca il mero rimborso delle spese sostenute dal suddetto affidatario nel mese corrispondente, bensì rata mensile di un assegno annuale determinato, tenendo conto di ogni altra circostanza emergente dal contesto, in funzione delle esigenze della prole rapportata all’anno». Cass. 17 gennaio 2001, n. 566, in Rep. Foro.it, 2001.

35 Cass. 11 giugno 1998, n. 5829, in Nuovo diritto, 1998, p. 535.

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77 un rapporto continuativo con i genitori stessi.

In virtù di questo cambiamento di prospettiva rispetto al passato, il giudice, sin dal momento della determinazione del contributo a carico del genitore onerato, dovrà quindi tener conto della durata degli incontri e dei tempi di permanenza della prole presso lo stesso, operando di conseguenza una riduzione proporzionale della somma da corrispondere a titolo di assegno.

4) Le risorse economiche di entrambi i genitori:

Per quanto riguarda le risorse economiche dei genitori, il giudice dovrà considerare, oltre al reddito di ciascuno, tutte le sostanze, i beni e le altre proprietà degli stessi. Verrà quindi valutato il complesso patrimoniale di ciascuno.

Il giudice dovrà valutare inoltre tutti gli oneri economici gravanti sui coniugi (es. l’accollo del pagamento del mutuo, ma anche la perdita del lavoro).

Tra i vari oneri economici gravanti sui genitori, il giudice dovrà in particolare verificare l’ammontare delle spese da questi sostenute per soddisfare le esigenze abitative proprie e dei figli, nell’ipotesi in cu la casa di abitazione non sia di proprietà dei genitori.

L’assegno di mantenimento dovrà quindi essere adeguato in base alle spese di locazione dell’immobile da adibire a casa familiare, in quanto l’obbligo di creare una stabile organizzazione domestica, dove la prole possa crescere in

(36)

78 modo sereno, è un obbligo gravante su entrambi i genitori. 36

5) La valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore:

Tale ultimo criterio impone al giudice di valutare i compiti domestici e di cura assunti da entrambi i genitori nei confronti dei figli, valorizzandoli anche sotto il profilo economico.

Naturalmente, quanto maggiore sarà il tempo trascorso con i figli, tanto maggiori saranno i compiti di cura assunti da ciascun genitore.

Sul punto illustri autori si sono più volte espressi; tra i tanti vale la pena ricordare le parole di M. Finocchiaro che nel suo saggio intitolato Accertamento coatto sui redditi dei coniugi37, ha affermato che:

«Prima facie la pretesa di valutare - dal punto di vista economico - quanto ciascuno dei genitori fa, nell’interesse del proprio figlio, senza ombra di dubbio non per una mercede ma per amore, pare un elemento negativo della riforma, volto a privilegiare gli aspetti mercantili del rapporto, ai danni della madre, che – specie nei primi anni di vita del figlio – è quella più interessata a dette attività. Diversamente, per mio conto, la scelta della novella privilegia anziché punire colei (o colui) che per effetto delle circostanze contingenti deve dedicare più tempo alla cura del minore».

Ad oggi quindi il giudice è tenuto a quantificare il lavoro casalingo e i

36 Sul punto si veda G. Ferrando, Diritto di famiglia, Bologna, 2013, pp. 231 ss., ma anche S.

Patti, M. G. Cubeddu, Diritto di famiglia, Milano, 2011, pp. 539 ss.

37 M. Finocchiaro, Accertamento coatto sui redditi dei coniugi, in Guida al diritto, www.ilsole24ore.com.

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