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Voto plurimo e voto maggiorato in societa' per azioni

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Academic year: 2021

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INDICE

1. I principi e la loro tenuta all’interno dell’ordinamento: profili storici ed

economici

1.1.Introduzione……….4

1.2.I principi in prospettiva storica……….………..….5

1.3.Il voto plurimo Italia: tra prassi statutaria e riflessione dottrinale; uno sguardo al di là dei confini nazionali……….10

1.3.1. L’esperienza rancese e tedesca………..…11

1.4.Il fenomeno italiano tra prassi statutaria e riflessione dottrinale…………...20

1.5.I progetti………....32

1.6.Il codice civile del 1942……….…34

1.7.La riforma del 2003………...40

1.8.La riflessione economica e l’interesse dell’UE……….54

1.8.1. Le considerazioni teoriche e gli studi empirici………..54

1.8.2. L’interesse europeo………61

1.9. La riforma del 2014 e le sue ricadute sui principi………...……….65

1.10. Conclusioni………...69

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2.1. Introduzione………..77

2.2. L’articolo 2351 comma quarto c.c. e il nuovo articolo 212 Disposizioni Attuative al codice civile………...………79

2.3. Le società quotate e la maggiorazione del voto………...….81

2.3.1. L’articolo 127 quinquies TUF………...83

2.3.2. L’articolo 127 sexies TUF: le azioni a voto plurimo………..……...87

2.3.3. Ulteriori modifiche al Testo Unico della Finanza……….89

2.4. Il Regolamento Emittenti……….…….…94

2.4.1. Le consultazioni e gli esiti……….…95

2.4.2. Le modifiche al Regolamento………95

2.4.2.1. L’elenco……….…….96

2.4.2.2. La trasparenza degli assetti proprietari e i patti parasociali……97

2.4.2.3. L’offerta pubblica di acquisto……….99

2.5. Il Provvedimento Congiunto Banca d’Italia – Consob………...101

2.6. Conclusioni………105

3. Autonomia privata e tutela delle minoranze: un giudizio sulla riforma 3.1 Introduzione………...106

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3.2 Le azioni a voto plurimo tra dato letterale e impatto sulla disciplina: uno

strumento flessibile……….…………...107

3.2.1. Condizioni e termini………..………….107

3.2.2. Azioni a voto plurimo limitate a particolari argomenti……..………111

3.2.3. Voto plurimo decimale………..……….113

3.2.4. Il rapporto tra azioni a voto plurimo e capitale………..114

3.2.5. Il procedimento di emissione……….…116

3.2.5.1.Il diritto di recesso……….….121

3.2.6. L’impatto sulla disciplina assembleare…………...125

3.2.7. Voto divergente, pegno e usufrutto………..……..128

3.3. La maggiorazione di voto……….129

3.3.1. L’introduzione della clausola e il recesso……….………….130

3.3.2. Il contenuto inderogabile della clausola e l’elenco: spazi di autonomia statutaria residuali………...134

3.3.3. Rinuncia, perdita e conservazione……….……….139

3.3.3.1. Casi problematici di cessione……….………...142

3.3.3.2. Cessione e record date………..……….143

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3.3.5. Effetti sui quorum e su altri diritti……….………….146

3.3.6. Rapporto tra azioni a voto plurimo e maggiorazione……….…147

3.3.7. Strumenti opachi: OPA e trasparenza………....148

3.3.8. Controllo azionario e tutela delle minoranze……….151

3.4. Conclusioni…….………..152

Bibliografia...159

I principi e la loro tenuta all’interno

dell’ordinamento: profili storici ed economici

1.1.Introduzione

Il decreto legge n. 91/2014, anche detto “Decreto Competitività” e successivamente convertito tramite legge n. 116/2014, introduce all’interno del sistema italiano due nuovi meccanismi di attribuzione del diritto di voto all’azione: il voto plurimo, previsto

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dall’art. 2351 comma quarto c.c. ed appositamente ideato per trovare spazio all’interno delle società c.d. “chiuse”, e il voto maggiorato ex art. 127 quinquies e sexies del Testo Unico della Finanza (TUF), un voto doppio che premia il socio che abbia mantenuto la sua partecipazione in società quotata per almeno 24 mesi.

Questo capitolo si concentra sull’analisi delle implicazioni sistematiche di tale innovazione ed in particolare su ciò che tale novella legislativa comporta in relazione alla tenuta del principio capitalistico e del principio one share - one vote che, considerati per lungo tempo pilastro dell’intera disciplina, parrebbero ora perdere di significato e importanza. Una più specifica analisi di tipo storico, economico e comparato si rende perciò necessaria quale strumento di comprensione della riforma nel suo complesso, alla ricerca di una interpretazione che permetta non solo di garantire un’armonia all’interno della disciplina, ma che consenta anche di valutare come l’introduzione di tali meccanismi si collochi all’interno di un quadro più ampio di riforma e di una riflessione giuridica italiana quanto europea che getta le sue basi lontano nel passato.

Se quindi la contestualizzazione sistematica costituisce il primo passo per una più profonda comprensione della novella legislativa, una tale coscienza può essere derivata solo tramite un riflessione che abbracci anche l’evoluzione dei principi a cui si fa riferimento, interrogandosi sulla loro imperatività e cogenza alla luce di un sistema in continua evoluzione. Per questi motivi, il capitolo segue una impostazione storica che permetterà di comprendere e contestualizzare i principi in un quadro evolutivo dove voto plurimo e voto maggiorato costituiscono solo l’ennesima breccia in un sistema che si trova innanzi ad un bivio, diviso tra la necessità di dare risposta ad istanze di tipo

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economico e l’imperativo primo di ogni sistema di diritto, ovvero la sua coerenza interna.

1.2.I principi in prospettiva storica

Il principio capitalistico e il principio one share - one vote possono essere considerati come principi logicamente interdipendenti dal momento che, se il primo incarna la correlazione tra rischio e potere in relazione alla partecipazione azionaria intesa nel suo complesso, il secondo altro non è che la sua traslitterazione in tema di diritto di voto, dove quella stessa proporzionalità viene ricercata tra partecipazione al rischio e potere di voto esercitabile in sede assembleare1.

Questi due principi seguono però un percorso evolutivo differente: mentre la correlazione potere - rischio connota già i primi fenomeni associativi caratterizzati da una struttura capitalistica2, il principio one share - one vote è ben lungi dallo svilupparsi contestualmente alla nascita delle prime società per azioni3. Nella East India Company ad esempio, tanto quanto nelle prime compagnie tedesche, francesi e olandesi, l’attribuzione del diritto di voto alla singola partecipazione sociale non può considerarsi prerogativa indefettibile della partecipazione stessa, ma solo elemento eventuale, preferendosi attribuire il voto solo ai maggiori azionisti4. Anche in Italia tale principio non trova spazio nelle società commerciali nate antecedentemente al Code de Commerce del 1807 e successivamente, anche quando si postula a monte la necessaria 1 Analogamente M. BIONE, Il principio della corrispondenza tra potere e rischio e le azioni a voto

plurimo: noterelle sul tema, in Giur. Comm., fasc. 2, 2015, pag. 266

2 G. FERRI, Potere e responsabilità nell’evoluzione delle società per azioni, in Riv. Soc., 1956, pag. 37. 3 G.P. LA SALA, Principio capitalistico e voto non proporzionale nella società per azioni, Torino, 2011, pag. 3

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corrispondenza tra rischio e potere, questa non trova conferma in relazione al diritto di voto, ambito in cui la proporzionalità viene ad essere temperata tramite l’introduzione di tetti massimi o scaglionamenti5.

Se il principio capitalistico segue pedissequamente lo sviluppo del fenomeno societario, potendo identificarsi sin dagli albori come un tratto distintivo del tipo, il principio one share - one vote, per contro, si afferma all’interno degli ordinamenti europei di civil law, tanto quanto negli ordinamenti di common law (nello specifico America e Regno Unito) solo sul finire del XIX secolo, quando lo sviluppo dei mercati azionari porta il legislatore a dar maggior rilievo alla partecipazione azionaria piuttosto che alla figura del socio, al legame economico piuttosto che a quello personalistico6.

Nel sistema italiano, il codice del commercio del 1882 rappresentò un’importante tappa per lo sviluppo dei principi in esame: per quanto non espressamente codificati, la vigenza di tali principi è desumibile dalla lettura del combinato disposto degli artt. 157 e 164. L’art. 164, disponendo che “le azioni devono essere di uguale valore e conferiscono ai loro possessori uguali diritti”, positivizzava il principio di uguaglianza tra le azioni ammettendo però, accanto a tale regime, che l’atto costitutivo possa derogare a tale disposto creando azioni privilegiate, identificando in chiusura il limite massimo entro il quale tale autonomia statutaria potesse esplicarsi: “salvo però ad ogni azionista il diritto di voto nelle assemblee generali”. La proposizione poneva in correlazione il voto alla persona dell’azionista, rivelando come nella società di capitali di allora sopravvivesse ancora un certo intuitus personae, e che consacrava

5 P.G. JAEGER, Il voto “divergente” nella società per azioni, in Quaderni di Giurisprudenza commerciale, Volume 5, 1976, pag. 37.

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l’attribuzione del diritto di voto all’azionista come principio indiscutibile, volendo il legislatore evitare che diventasse privilegio di pochi “il diritto più naturale e legittimo di tutti coloro che conferiscono le proprie cose a scopo comune”7.

La disciplina del diritto di voto veniva poi ad arricchirsi mediante il disposto dell’art. 157: “ogni socio ha un voto ed ogni azionista ha un voto fino a cinque azioni da lui possedute. L’azionista che possiede più di cinque azioni e sino a cento azioni ha un voto ogni cinque azioni e per quelle che possiede oltre il limite di cento ha un voto ogni venticinque azioni”. Il legislatore identificava come modello legale il voto scalare, considerato strumento idoneo a limitare il potere dei grandi azionisti senza disincentivare l’afflusso di capitali, ammettendo però che, anche in questo contesto, l’atto costitutivo potesse disporre diversamente. Pur ribadendo in prima battuta quanto affermato dall’art. 164, l’art. 157 derogava espressamente al principio, rimettendo allo statuto la possibilità di regolare il rapporto tra numero di azioni possedute e voti dei quali l’azionista poteva disporre.

In un sistema dove l’autonomia statutaria può spaziare dal principio capitalistico puro al voto pro capite, il principio one share - one vote e il principio capitalistico vengono chiaramente ad assumere una diversa portata: pur non potendosi identificare il primo come principio cogente, il secondo viene indirettamente ad affermarsi quanto meno sotto traccia dal momento che colui che ha investito nella società non potrà mai essere privato del diritto di voto, dovendo necessariamente partecipare alla formazione della volontà sociale8. Ciò comporta, quale ulteriore conseguenza logica, che la partecipazione sociale, intesa come partecipazione al rischio, non possa essere

7 Sono le parole usate all’interno della Relazione Mancini e richiamate in C. VIVANTE, Trattato di

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completamente svincolata dalla partecipazione alla vita sociale che trova nel diritto di voto, come diritto amministrativo primo, la sua massima esplicazione9. La conclusione appena esposta può dirsi inoltre corroborata da argomentazioni che, trascendendo dalla lettera degli articoli analizzati, guardano al fenomeno della società anonima nel suo complesso e, in particolare, alle motivazioni che hanno portato il legislatore a tipizzare l’anonima in modo assolutamente differente rispetto agli altri tipi societari.

Considerata la società anonima come “espressione massima della necessità di concentramento delle forze capitalistiche per il compimento delle grandi imprese finanziarie e industriali”10, si può affermare che questa nacque per far sì che le fortune individuali e familiari potessero arricchirsi grazie a nuovi avventori, una realtà dove il singolo avesse la possibilità di cedere agevolmente la propria partecipazione in modo tale da poter indirizzare un suo futuro investimento verso realtà maggiormente redditizie11. La creazione di una società dotata di personalità giuridica, e di conseguenza di un patrimonio sociale autonomo a cui la società stessa possa attingere allo scopo di finanziare la sua attività, diventano mezzo di ricerca dell’utile per quei soci che, volendo investire denaro alla ricerca di altro denaro, troveranno la loro soddisfazione nei diritti patrimoniali che vantano nei confronti della società12. La loro partecipazione è perciò anche partecipazione al rischio, rischio di perdere integralmente il conferimento, di non ricavare l’utile atteso, un aspetto per così dire mitigato dall’esistenza di diritti 8 Si parla di un principio di correlazione potere rischio già “evidente in forma embrionale” in M. MAROCCHI, Sull’attualità della correlazione tra potere e rischio nella s.p.a riformata, in Contr. e

Impr., 2014, 1, 222.

9 Ibidem.

10 G. FRE’, Le azioni a voto plurimo, in Riv. Dir. Comm., 1926, I, pag. 121. 11 Ibidem.

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amministrativi tramite i quali il socio può concorrere alla formazione della volontà sociale e definire quindi l’orientamento dell’agire societario13.

Il diritto di voto come diritto individuale dell’azionista si contestualizza, all’interno del tipo societario disciplinato dal codice del commercio del 1882, come un diritto strettamente inerente la qualità di socio, un diritto insopprimibile, non cedibile e irrinunciabile che questi acquista “in compenso” al suo conferimento14: la partecipazione alla formazione del capitale sociale si atteggia, sul piano organizzativo, come partecipazione alla formazione della volontà sociale e il voto diventa “condizione e mezzo con cui la volontà della società si può formare”15.

Il socio può, tramite l’espressione del suo voto e insieme agli altri, “determinare nell’ente un modo di volere rispondente a ciò che pare al socio migliore”16, istallandosi sul punto quella che è la naturale dialettica assembleare dove a trionfare è il volere della maggioranza. Il desiderio del socio di far prevalere la propria volontà o, in altre circostanze, la necessità di aprire la compagine sociale all’avvento di nuovi azionisti senza però voler perdere il controllo della società, conducono gli agenti economici ad immaginare strumenti atti a permettere ad uno o più soggetti di esercitare in assemblea un’influenza maggiore rispetto ad altri17. Sulla scorta di tali considerazioni, nell’apprezzamento tanto delle dinamiche economiche quanto delle regole giuridiche di 13 Ivi, pag. 123.

14 Ibidem.

15 FRE’, op. cit., pag. 125 16 Ivi, pag. 127

17 Sono queste le motivazioni che a detta di G. Frè portano all’emissione delle azioni a voto plurimo, FRE’, op. ult. cit., pagg. 128-130; accanto a tali considerazioni, occorre tenere presente i vantaggi quali la maggiore continuità di indirizzo nella direzione della società e la messa al sicuro di questa da eventuali scalate, elementi che, in relazione al fenomeno francese, vengono evidenziati da P. SRAFFA, Un

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riferimento, si potrà allora facilmente contestualizzare quel discusso fenomeno che caratterizzò l’ordinamento italiano all’inizio degli anni venti del 1900: l’emissione da parte di numerose società di azioni a voto plurimo, azioni cioè che danno al titolare la possibilità di esercitare più di un voto.

1.3.Il voto plurimo Italia: tra prassi statutaria e riflessione dottrinale; uno sguardo al di là dei confini nazionali

Nel biennio compreso tra il 1924 e il 1925, circa una quarantina di società italiane deliberarono l’emissione di più di due milioni di azioni a voto plurimo, sulla scia di un fenomeno che aveva interessato innumerevoli ordinamenti che adottarono tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo sistemi di voto che si discostavano dalla piena proporzionalità, quali Belgio e Inghilterra, e l’Olanda che aveva espressamente legittimato l’emissione di azioni a voto plurimo nel 192918. A questi paesi si contrapponeva l’Austria, dove vigeva un espresso e assoluto divieto di emissione di azioni a voto plurimo19. Se quindi il fenomeno non può dirsi un’esclusiva italiana, è opportuno notare come il ricorso a questo nuovo strumento del diritto azionario sia stato fortemente ispirato dall’utilizzo che di questi si era fatto nell’ordinamento francese e tedesco, tradizionalmente vicini a quello italiano.

1.3.1. L’esperienza francese e tedesca

18 Per i dati temporali del fenomeno italiano si veda FRE’, op. cit., pag. 489; per la comparazione P. SRAFFA, Le azioni a voto plurimo all’estero, in Riv. Dir. Comm.1930, I, 631.

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Riconosciute come espressa categoria azionaria dal paragrafo 252 del codice del commercio tedesco20 ed emesse per la prima volta nel 1910 in Francia21, le azioni a voto plurimo costituivano una risposta legislativa a problematiche economiche e giuridiche particolarmente rilevanti. Se da una parte il regime di piena proporzionalità esponeva gli organizzatori dell’impresa ai “capricci di una maggioranza amorfa composta da una massa continuamente mutevole di azionisti dispersi”22, dall’altra, la crisi economica e la svalutazione monetaria avevano portato le società tedesche, e di conseguenza le società francesi che volevano mantenersi competitive rispetto alle prime, a deliberare continui aumenti di capitale, esponendosi al pericolo che, giungendo tali capitali dall’estero, quei patrimoni industriali nazionali cadessero in mano straniera23. Accanto a tali preoccupazioni si poneva inoltre un fenomeno caratterizzante in modo particolare l’esperienza tedesca ove le banche, trovando nelle società uno “strumento prezioso per impiegare i depositi”24 e quindi un mezzo per raggiungere un vantaggio considerevole, avevano sviluppato la prassi di sottoscrivere la quasi totalità delle azioni all’atto della costituzione della società, sottoscrivevano quasi la totalità delle azioni25. Se da una parte l’istituto bancario si trovava nelle condizioni di sopportare quasi integralmente il rischio, d’altra parte l’ingente conferimento effettuato e l’applicazione del principio di proporzionalità le permettevano di esercitare uno strapotere in sede di assemblea, dove a

20 FRE’, op. cit., pag. 152. 21 Ivi, pag. 134.

22 Ivi, pag. 136. 23 Ivi, pag. 135. 24 Ivi, pag. 131 25 Ibidem.

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prevalere finivano per essere scelte mirate alla conservazione del capitale con il sacrificio dell’aspetto più industriale e finanziario dell’anonima26.

Le difficoltà economiche e la volontà di indebolire il potere della maggioranza fondata sul capitale nell’ottica del mantenimento del dominio della società si tradussero nell’emissione di azioni a voto plurimo a cui si guardava, da una parte, come strumento perfetto per svincolare il consiglio d’amministrazione dalla volontà dell’assemblea e, dall’altra, come soluzione flessibile abbastanza da potersi adattare alle singole realtà sociali27.

La soluzione solleticava inoltre i legislatori stranieri per innumerevoli motivi: facilitava la costituzione e lo sviluppo delle società dal momento che i titolari di imprese più piccole non avrebbero avuto il timore di trasformarle in società commerciali, potendo tramite tali azioni conservarne il dominio; allo stesso modo i piccoli imprenditori non avrebbero esitato a fare ricorso al pubblico di risparmiatori per aumentare il proprio capitale, stimolando così la competizione tra piccole e grandi imprese28. Accanto a tali vantaggi la dottrina non taceva certo l’esistenza di taluni pericoli: tra tutti meritano menzione la creazione di un disincentivo all’attività degli amministratori, nel particolare caso in cui a questi fossero state attribuite le azioni privilegiate, che avrebbero garantito loro il controllo della società in ogni caso; ancora, la tentazione per gli stessi azionisti a 26 Lo stesso si verifica nei casi in cui si voglia salvare una società e per farlo servono nuovi capitali. Se queste sono le preoccupazioni espresse da Frè in relazione al fenomeno bancario, è pur vero che lo strumento delle azioni a voto plurimo veniva ad essere utilizzato anche in altri contesti ad esempio nel caso dell’impresa familiare che voglia ampliarsi o della società che, sull’orlo del fallimento, abbia bisogno di nuovi capitali senza che questo comporti una diluzione del controllo precedentemente detenuto. Tali considerazioni sono prese da G. FRE’, op. cit., pagg. 130 e 132

27 Ivi, pag. 136.

28 G. FRE’, Le azioni a voto plurimo in Francia, in Riv. dir. comm., 1926, I, pag. 210 riportando la posizione dottrinale espressa dal MAZEAUD in H. MAZEAUD, Le vote privilégié dans le société de

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voto plurimo a compiere imprese troppo ardite, forti dell’esiguo investimento compiuto29.

La valutazione delle azioni a voto plurimo non trovava quindi una dottrina concorde né in Francia né in Germania: tra l’assoluta condanna del fenomeno, giustificata sulla base del pericolo di “infeudamento graduale delle industrie di un paese a pochi gruppi finanziari”30, e la sua acclamazione, residuavano quegli autori che, pur guardando al fenomeno con interesse riconoscevano allo stesso tempo la presenza di ostacoli che potevano essere superabili solo grazie ad una accurata ponderazione normativa31. Quale che fosse la posizione adottata, vi era comunque consenso sul atto che le azioni a voto plurimo permettessero di apprezzare il rapido cambiamento che gli ordinamenti in analisi stavano attraversando: si assottigliava la differenza tra azioni e obbligazioni, il tipo società di capitali si avvicinava ai tipi personalistici in ragione del fatto che le azioni a voto plurimo rappresentavano l’entrata all’interno della schema capitalistico di quell’intuitus personae che aveva fino a quel momento caratterizzato, all’interno della coppia oppositiva, le società di persone32.

Se gli ordinamenti in esame certamente legittimavano l’emissione di azioni a voto plurimo33, la disciplina più specifica era invece quasi interamente delegata allo statuto che, accanto alla clausola che prevedesse l’emissione delle azioni così privilegiate, poteva prevedere limitazioni d’esercizio o limitazioni di tempo: in relazione alle prime, 29 Ivi, pag. 213 riportando le contestazioni proposte da un’esponente della dottrina francese dell’epoca, Prof. G. COHENDY.

30 Ibidem.

31 FRE’, op. ult. cit., pag. 210 riportando la posizione dottrinale espressa dal MAZEAUD in H. MAZEAUD, Le vote privilégié dans le société de capitaux, Parigi, 1924.

32 FRE’, op. ult. cit., pag. 211 riportando la posizione dottrinale espressa dal MAZEAUD in H. MAZEAUD, Le vote privilégié dans le société de capitaux, Parigi, 1924

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si prevedeva ad esempio che il voto plurimo potesse essere esercitato solo in determinati casi come per l’elezione dei componenti del consiglio di amministrazione, delibere di modifica dell’atto costitutivo o di scioglimento della società34; per quanto concerne le seconde lo statuto avrebbe potuto prevedere una clausola che disponesse, al decorre di un determinato periodo di tempo, la trasformazione di tali azioni in azioni ordinarie35. Accanto a tali previsioni, non era raro che i soci, per il tramite di un apposito contratto, si impegnassero a vendere quei titoli privilegiati alla società ad una data epoca e ciò al ine di evitare che l’offerta al pubblico di tali azioni inviasse un messaggio negativo al mercato quale il dissesto della società e l’urgente necessità di capitali36.

Era in Germania che la dottrina discuteva, poi, della presenza di limitazioni all’esercizio del diritto che trovassero la loro giustificazione non nello statuto ma sulla lettera nella legge. La problematica dell’uso effettivo del voto plurimo era infatti strettamente collegata al fatto che all’interno del codice tedesco si prevedevano, per l’assunzione di alcune delibere, maggioranze da calcolarsi in base alla partecipazione al capitale e non semplicemente all’ammontare dei voti favorevoli espressi (maggioranza plutocratica)37. Ci si chiedeva, quindi, se in questi casi i soci a voto plurimo potessero esercitare appieno il loro privilegio o se questo dovesse ritenersi sterilizzato sulla base del fatto

33 In Francia si argomentò la tesi a favore dell’emissione delle azioni a voto plurimo nell’art. 34 del codice del commercio francese: si sosteneva cioè che tali strumenti rientrassero nella più ampia categoria delle azioni di priorità; per la Germania la legittimazione era direttamente derivata dal paragrafo 4 art. 252 del codice del commercio tedesco. Cfr. per la Francia G. FRE’, Le azioni a voto plurimo, in Riv. Dir.

Comm., 1926, I, pag. 256 e per la Germania P. SRAFFA, Le azioni a voto plurimo all’estero, in Riv. Dir. Comm.,1930, I, 631.

34 G. FRE’, Le azioni a voto plurimo, in Riv. Dir. Comm., 1926, I, pag. 142.

35 Ivi, pag. 143; al di là delle ipotesi statutarie rimaneva sempre ferma la possibilità per l’assemblea sociale di revocare il privilegio. Cfr. IVI, pag. 173.

36 Ibidem. 37 Ivi, pag. 163.

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che a venire in considerazione non fosse l’influenza esercitabile in assemblea tramite il voto, bensì la partecipazione al capitale. Dottrina prevalente sostenne la sterilizzazione del voto plurimo in relazione a tutte quelle delibere che, in considerazione della loro gravità e quindi della loro importanza per la vita della società, potevano dirsi approvate solo se sostenute da una maggioranza identificata sulla base del capitale38. L’avere riguardo per l’effettiva partecipazione capitalistica comportava certo un appiattimento verso il principio di uguaglianza e proporzionalità, ove l’influenza in assemblea è perfettamente e rigidamente proporzionale all’ammontare del conferimento39. Era pur vero, comunque, che gli azionisti a voto plurimo non potevano dirsi privati in toto del loro privilegio, rimanendo per loro sempre possibile esercitare comunque più di un voto proprio su quegli argomenti che più di altri permettono di esercitare un effettivo controllo sulla società, come l’elezione degli amministratori e dei sindaci40.

Identiche considerazioni venivano estese alle facoltà che il legislatore attribuiva a minoranze qualificate, quali la facoltà di impugnare una delibera assembleare, il diritto ad ottenere la convocazione dell’assemblea generale, la possibilità di chiedere al Tribunale la nomina dei liquidatori. Argomentandosi che solo una minoranza qualificata in relazione alla partecipazione al rischio potesse essere ritenuta avveduta abbastanza da utilizzare tali facoltà in modo cosciente ed efficiente41, si sosteneva che gli azionisti a voto plurimo dovessero vedere ancora una volta sterilizzato il loro privilegio nel rispetto della preponderante importanza data alla partecipazione sociale e più in generale

38 FRE’, op. ult cit., pag. 164. 39 Ivi, pag. 167.

40 Ivi, pag. 171. 41 Ivi, pag. 167.

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all’interesse: anche in questo contesto, era solo una consistente partecipazione al rischio a convincere il legislatore della serietà dell’azione posta in essere dai soci e quindi il voto plurimo, che in ultima analisi finge una partecipazione inferiore rispetto al peso deliberativo esercitabile, non poteva che vedere limitato l’ambito del suo esercizio 42.

Se certo la definizione delle regole e dei limiti a cui le azioni a voto plurimo erano sottoposte permetteva di comprendere la flessibilità dello strumento e di apprezzare come già gli statuti definissero una disciplina atta a limitare le derive negative del fenomeno, una concisa analisi andava riservata anche a tutte quelle condizioni che permettevano alle azioni in esame di raggiungere lo scopo per cui sono state emesse, aspetto che polarizzò infatti l’attenzione della dottrina straniera.

Studi condotti in Francia e Germania tra il 1920 e il 1923 dimostravano come il consiglio di amministrazione, per riuscire a mantenere la direzione della società, non potesse fare appello alle sole azioni a voto plurimo, rendendosi necessario anche il voto favorevole di parte degli azionisti non privilegiati (è pur vero che il disinteresse degli azionisti risparmiatori portava comunque gli azionisti a voto plurimo a imporre la propria volontà molto più facilmente nelle assemblee)43. L’azione a voto plurimo realizzava le proprie potenzialità solo tenuto conto del rapporto con le azioni ordinarie e dei voti da queste espressi e fu da subito chiaro come tale proporzione dovesse essere assicurata anche in caso di delibera di aumento del capitale: solitamente gli statuti prevedevano per questo motivo particolari meccanismi atti a mantenere stabile il rapporto tra azioni ordinarie e privilegiate, ovvero il vote à glissière e il gleitende o

42 G. Frè propone in tale contesto una colorita metafora: “il voto plurimo è invece apparenza e scompare alla fiamma realistica dei più forti interessi sociali” in G. FRE’, op. ult. cit., pag. 167.

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automatische Stimmrecht44. Si noti come, con l’utilizzo di questo meccanismo, i possessori di azioni a voto plurimo mantenevano sempre il loro potere in società, senza sopportare alcun sacrificio finanziario ulteriore, mentre per gli azionisti ordinari il mantenimento dell’influenza in assemblea comportava necessariamente il pagamento di una ulteriore somma di denaro, e quindi l’accaparramento di nuove azioni45.

Perché le azioni a voto plurimo potessero identificarsi come azioni di comando era inoltre necessario che si verificassero determinate condizioni: in primis, che i possessori votassero concordemente in modo tale che l’influenza acquisita tramite caratterizzazione oggettiva dell’azione non venisse a disperdersi in sede di riunione assembleare46, ed in secundis che le azioni permanessero nelle mani degli stessi azionisti a cui erano state attribuite ab initio. La necessità di voto concorde si realizzava talvolta tramite la stipula di patti che si ponevano a latere rispetto al contratto sociale, quali i sindacati di voto (i quali realizzano una nuova figura di collettività, quella che Bonelli definiva come “pluralità unificata”, in un’unione fondata “sulla fiducia reciproca e personale”47), mentre, per quel che concerne i limiti alla trasferibilità, la casistica tedesca e quella francese meritano una considerazione distinta. La legislazione tedesca identificava precisi limiti al trasferimento delle azioni nominative con valore inferiore a 1000 Marchi e delle azioni che imponessero a favore della società l’obbligo di 44 G. FRE’, Le azioni a voto plurimo in Francia, in Riv. Dir. Comm., 1926, I, pag. 207 e G. FRE’, Le

azioni a voto plurimo, in Riv. Dir. Comm., 1926, I, pag. 139; Si tratta di una particolare clausola statutaria

per cui al verificarsi di un aumento di capitale le azioni a voto plurimo mantengano un ammontare totale di voti che mantenga inalterata la proporzione con le azioni ordinarie. In particolare in Germania si discuteva della legittimità di tale meccanismo dal momento che l’amento di capitale finiva in questo modo per costituire un vantaggio solo per gli azionisti a voto plurimo, id est per il gruppo di comando. 45 Ivi, pag. 141.

46 Tale considerazione viene ad essere fatta dal Frè in FRE’, Le azioni a voto plurimo, pag. 144.

47 Ibidem, in merito alla natura giuridica dei sindacati tra azionisti a voto plurimo citando le parole di Bonelli, BONELLI, Comunione e quota, Riv. Dir. Comm. 1923, I, pag. 1.

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prestazioni continuative non in denaro; a tali previsioni si associavano le più varie clausole statutarie che identificassero i soggetti a quali tali azioni potessero o meno essere vendute48. Tutte le limitazioni anzidette erano opponibili ai terzi ed in particolare quelle statutarie potevano essere fatte valere erga omnes quando fossero state portate a conoscenza dei terzi tramite pubblicità49. In Francia, d’altra parte, le clausole di non trasferibilità erano più variegate, a cominciare dalla possibilità di prevedere una clausola di gradimento, ovvero un divieto di trasferimento senza consenso del consiglio di amministrazione, o la previsione di una clausola che attribuisse al consiglio stesso il diritto di acquistare le azioni privilegiate alla stesso prezzo offerto da un compratore esterno o, ancora, il divieto di cedere azioni a voto plurimo a soggetti diversi dagli azionisti della stessa categoria50.

In questo contesto storico - normativo, le azioni a voto plurimo, per quanto peculiari per la loro nominatività e per le condizioni che governavano la loro sottoscrizione e trasferibilità, si risolvevano talvolta in una sorta di inganno per coloro i quali avevano investito nella società. La loro emissione ad un prezzo inferiore, motivata dalla volontà del sottoscrittore di acquisire il comando sulla scorta di un apporto economico esiguo, era associata a conferimenti in natura la cui valutazione, oltre che difficoltosa, finiva per creare un danno agli altri azionisti: sopravvalutare un conferimento di questo tipo avrebbe potuto richiamare l’attenzione di risparmiatori che si sarebbero così trovati in

48 Ivi, pag. 147. 49 Ibidem.

50 G. FRE’, Le azioni a voto plurimo in Francia, in Riv. Dir. Comm., 1926, I, pag. 210 riportando la posizione dottrinale espressa dal MAZEAUD in H. MAZEAUD, Le vote privilégié dans le société de

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balia di un soggetto che, attratto dal profitto ma reso poco prudente dall’esiguo rischio sopportato, avrebbe facilmente potuto compiere scelte ardimentose51.

Appunto in conseguenza della necessità di non insospettire il pubblico di risparmiatori, alle azioni a voto plurimo venivano solitamente ad essere attribuiti diritti patrimoniali inferiori rispetto alle azioni ordinarie rendendo così l’azione stessa perfettamente orientata alla realizzazione dell’interesse vantato dal singolo nell’ottica della sua partecipazione in società: per l’azionista a voto plurimo, l’ottenimento del controllo della società sulla scorta di un diritto di voto potenziato, per l’azionista risparmiatore, la redditività del titolo, che lo ripagava dal punto di vista patrimoniale della perdita di controllo sul piano amministrativo52.

L’esperienza francese e tedesca, così caratterizzata, fu sottoposta ad una durissima critica. I commentatori infatti erano ragionevolmente impensieriti dagli effetti che l’emissione di azioni a voto plurimo aveva causato all’interno delle economie nazionali, arrivando a ritenere che l’uso troppo libero dello strumento, a loro detta eccessivamente alla mercé dell’autonomia statutaria, l’eliminazione dell’ incentivo all’attività degli amministratori, i problemi di organizzazione interna da esse generati e, in ultimo, le ripercussioni sui pilastri normativi dell’anonima, fossero rischi a cui era preferibile che il sistema non si esponesse53.

Le distorsioni causate da tale strumento, specie se associato a meccanismi di gruppo, portarono il legislatore francese ad espungere le azioni a voto plurimo dal sistema nel 1930, impedendo la loro emissione pro futuro ma nulla disponendo in relazione alle 51 FRE’, op. ult. cit, pag. 149.

52 G. FRE’, Le azioni a voto plurimo, in Riv. Dir. Comm., 1926, I, pag.151. 53 P. SRAFFA, op. ult. cit., 631.

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azioni già emesse54. Successivamente tale legge venne ad essere modificata nel 1931 quando, a seguito della presentazione e discussione di innumerevoli progetti, si decise di permettere alla società di attribuire un voto doppio a quelle azioni, nominative e già integralmente liberate all’origine, appartenute ad uno stesso soggetto per almeno due anni dal momento della loro liberazione, le cd loyalty shares55, strumenti che contraddistinguono ancora oggi l’ordinamento francese. Il legislatore tedesco giunse alla stessa conclusione anni dopo: la disposizione che legittimava l’emissione di azioni a voto plurimo è stata infatti abrogata nel 1998 e la sezione 12 dell’Aktien Gesetz, identificando come regime legale la regola one share - one vote, pone un espresso divieto di emissione di azioni a voto plurimo56.

1.4.Il fenomeno italiano tra prassi statutaria e riflessione dottrinale

In Italia, a differenza che in Francia e Germania, il fenomeno dell’emissione di azioni a voto plurimo si caratterizzava per essere stato frutto non di una scelta del legislatore ma di una prassi statutaria che sul piano giuridico ed economico si giustificava sulla base di considerazioni che non differivano eccessivamente dalle risultanze dello studio comparatistico condotto in relazione alla legislazione francese e tedesca.

In un sistema dove centro nevralgico della struttura societaria era l’assemblea e l’organo esecutivo era costantemente in balia di una assemblea potenzialmente in continuo cambiamento, le incertezze dell’industria portarono l’autonomia statutaria a cercare dei

54 VITERBO, Le azioni a voto plurimo in Francia, in Riv. Dir. Comm., 1931, I, pag. 220 e 835. 55 Ad oggi disciplinate dall’art. L225-123 comma 1 del Code de commerce.

56 V. CARIELLO, Azioni a voto potenziato, ‘voti plurimi senza azioni’ e tutela dei soci estranei al

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palliativi atti a dare maggiore sicurezza agli amministratori57. Muovendosi sempre nello spazio concesso dalla legge all’autonomia statutaria, i tentativi di elevare la maggioranza per deliberare l’azione di responsabilità contro gli amministratori, la riduzione dei termini di decadenza per l’impugnativa delle delibere assembleari, la stipula di sindacati di blocco tra azionisti che vincolavano il loro voto ad un fiduciario del Consiglio, si rivelarono soluzioni fallimentari: spinti dalla necessità di reagire ad una incertezza interna alla società, l’attenzione dei soci si spostò dal rafforzamento dell’organo esecutivo alla creazione di azioni che permettessero ad uno o più soggetti di acquisire e conservare il controllo della società, mettendola al sicuro da eventuali scalate e realizzando contestualmente più di un obiettivo58. A ben vedere, le azioni a voto plurimo potevano allora considerarsi come la risposta statutaria all’esigenza di regolare una “assemblea inorganica con un ordinamento capace di farle esercitare una funzione onesta e efficace”59, in ultima analisi lo strumento perfetto per realizzare le mire speculative di alcuni agenti di mercato e per permettere alle Banche, che in questo momento storico avevano fortemente investito nell’industria bellica, di gestire il loro investimento attribuendo loro il potere di condizionare l’indirizzo sociale60.

Il voto plurimo, come già sottolineato dalla dottrina estera, è uno strumento che permette di valutare, sul piano organizzativo, la compresenza nella compagine sociale di

57 C. VIVANTE, I progetti di riforma sul voto plurimo nelle società anonime, in Riv. Dir. Comm, Vol. XXIII, I, pag. 430.

58 T. ASCARELLI - A. ARCANGELI, Il regime della società per azioni con particolare riferimento al

voto plurimo e alla protezione delle minoranze, in Riv. Dir. Comm., 1932, I, 163.

59 VIVANTE, op. ult. cit., pag. 431.

60 A. CABIATI, Il progetto del nuovo codice del commercio e le azioni privilegiate, in Riv. Dir. Comm., 1926, I, pag. 12.

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gruppi di soci che sono economicamente animati da interessi differenti61: accanto ad una massa di azionisti maggiormente interessati al mero utile, ovvero i cosiddetti soci risparmiatori, si trova un “gruppo scelto di azionisti collegati da un comune interesse alle sorti dell’industria… un gruppo di azionisti stabili… ai quali si deve dare una posizione prevalente in assemblea”62, un posizione di controllo che cioè permetta loro di sviluppare un progetto di lungo periodo senza che questo possa essere osteggiato da maggioranze o minoranze in continuo cambiamento63.

Se le azioni a voto plurimo erano azioni di comando e controllo che, come detto, permettevano una maggiore continuità d’indirizzo e direzione della società sottraendola “alla perniciosa influenza degli azionisti che si disinteressano della società”64, i vantaggi ad esse collegati non si fermavano a tali considerazioni. Anche la dottrina italiana aveva cura di sottolineare che il privilegio di voto potesse generare indiscutibili esternalità positive per l’ordinamento quali favorire la trasformazione di imprese familiari in società anonime, incentivare le grandi industrie a realizzare progetti di lungo periodo, rendere maggiormente agevole la raccolta di capitale straniero senza che questo possa impadronirsi della società o anche favorire il recupero di imprese dissestate dal momento che, attratti dal beneficio del voto plurimo, nuovi industriali avrebbero voluto investirci65.

61 T. ASCARELLI, Sul voto plurimo nella società per azioni, in Arch. Giur., 1925, pagg. 142 e 144, l’ Ascarelli richiama qui la letteratura economica (Passow e Adamo Smith)che per prima scinde i soci nelle due categorie riportate; il riferimento si rivela importante anche in considerazione di quel disinteresse che viene ad essere riscontrato nei soci cd risparmiatori e che il fenomeno azionario descritto tenta di arginare. Potrebbe dirsi che tramite la differenziazione si va a riconoscere un interesse particolare all’interno dell’interesse sociale.

62 C. VIVANTE, op. ult. cit., pag. 431. 63 T. ASCARELLI, op. ult cit., pag. 131 64 P. SRAFFA, op. ult. cit..631.

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Le azioni a voto plurimo rappresentavano un fenomeno giuridicamente interessante anche perché permettevano l’accesso dell’intuitus personae nella società anonima di questo periodo storico e costituivano lo strumento di valorizzazione di quel particolare azionista che, non più considerato come semplice ‘sacco di denaro’, assumeva un maggiore peso in considerazione di elementi soggettivi che lo definivano non in quanto azionista ma in quanto individuo-imprenditore, quali il suo lavoro e la sua esperienza66. E se permeavano all’interno della società di capitali per eccellenza elementi che tipologicamente si sarebbero associati alle società di persone, le azioni a voto plurimo rappresentavano inoltre un chiaro ravvicinamento tra azioni e obbligazioni dal momento che ad influenzare il governo della società era un ristretto numero di azionisti, i veri e propri imprenditori della società, mentre la restante parte della compagine sociale, pur avendo sottoscritto parte del capitale, rimaneva sostanzialmente esclusa dal governo della società67.

Le considerazioni appena esposte, specie in relazione all’aspetto personalistico, venivano confermate dall’osservazione empirica del fenomeno che, partendo da un’analisi degli statuti delle società che prevedevano azioni a voto plurimo, aiutava ad identificare le principali caratteristiche da cui l’emissione di tali azioni era connotata. Le azioni a voto plurimo, emesse durante questo periodo storico, attribuivano da cinque a dieci voti (faceva eccezione una sola società dove si attribuivano fino ad un massimo di cinquanta voti) ed erano caratterizzate dalla nominatività68: contestualmente alla creazione delle azioni, lo statuto prevedeva la specificazione dei soggetti a cui esse dovevano essere attribuite, ad esempio i soci fondatori, i promotori, l’accomandatario

66 T. ASCARELLI, op. loc. ult. cit. 67 T. ASCARELLI, op. ult. cit., pag. 141.

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dell’accomandita oggetto di trasformazione in società anonima o un determinato gruppo familiare69. Tacendo nella maggior parte dei casi in merito alla durata del privilegio, l’autonomia statutaria aveva solitamente cura di limitare la trasferibilità tramite una clausola di gradimento e solo in alcuni casi si prevedeva il divieto di trasferimento ad agenti stranieri70. In taluni statuti si prevedeva inoltre che le azioni ordinarie fossero dotate di un privilegio nella ripartizione dei utili, in modo tale da ‘restituire’ in forma di diritto patrimoniale ciò che veniva ad essere in qualche modo tolto in termini amministrativi71.

Il fenomeno così descritto attirò l’attenzione della dottrina che, pur concentrandosi in particolar modo sulla legittimità di tale emissione, preferì dare al dibattito una portata più ampia, andando a identificare quali fossero i riflessi di tale emissione su quelli che venivano ad essere considerati principi fondanti del sistema.

68 Ivi, pag. 148, tale peculiarità delle azioni a voto plurimo viene ad essere considerata da Ascarelli come una linea di tendenza normativa dal momento che le azioni nominative vengono ad essere preferite alle azioni al portatore. Nella contestuale analisi del progetto dell’Associazione Bancaria, si notano due elementi rilevanti caratterizzanti lo strumento: dal punto di vista patrimoniale la postergazione in relazione alla quota di rimborso e l’impossibilità che alle azioni a voto plurimo venga ad essere attribuito un diritto agli utili maggiore rispetto agli azionisti ordinari, dal punto di vista puramente giuridico il venire meno del potenziamento del voto in relazione all’esercizio dell’azione di responsabilità e alla nomina dei sindaci. L’importanza del progetto viene sottolineata anche in A. JANNONI SEBASTIANINI, Azioni a voto plurimo, in Rivista di Politica Economica, 1925, pag. 631.

69 G. FRE’, Le azioni a voto plurimo, in Riv. Dir. Comm, 1926, I, 490. 70 Ibidem.

71 G. FRE’, Le azioni a voto plurimo, in Riv. Dir. Comm, 1926, I, 490; le scelte attuate in sede statutaria per quel che concerne il privilegio nella ripartizione degli utili trovano sostegno in dottrina e in particolare nel pensiero ascarelliano: “riconosciuto infatti che tra azionisti a voto plurimo e azionisti a voto semplice corre una diversità di attribuzioni economiche che è la causa prima dei diversi diritti a loro conferiti, è giocoforza riconoscere come ai maggiori diritti dei possessori di azioni a voto plurimo nei riguardi dell’amministrazione debba corrispondere una maggiore sicurezza degli altri azionisti nella riscossione degli utili: è su questa via solamente, mi sembra, che gli azionisti , praticamente esclusi dall’amministrazione sociale, possono trovare una adeguata garanzia”, in ASCARELLI., op. cit., pag. 150.

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In tema di legittimità, si sostenne che l’emissione delle azioni a voto plurimo potesse considerarsi lecita in forza di quella deroga al principio di uguaglianza azionaria che il legislatore aveva predisposto all’interno dell’art. 16472. Parte della dottrina italiana dell’epoca, suffragata anche da innumerevoli pronunce giurisprudenziali73, giustificava appunto la liceità di tale emissione sulla scorta di una riflessione che aveva negli artt. 164 e 157 la sua base argomentativa, guardandosi cioè le azioni a voto plurimo come azioni privilegiate dove il privilegio, che inizialmente interessava i soli diritti patrimoniali, migrava da tale ambito alla sfera amministrativa74, interessando quindi il diritto di voto. In quest’ottica la derogabilità al principio di uguaglianza prevista ex art. 164 e lo spazio lasciato all’autonomia privata ex art. 157 venivano ad essere intesi in senso ampio: con il solo limite minimo dell’attribuzione al singolo azionista del diritto di voto, ogni disuguaglianza poteva considerarsi lecita, anche quando il diritto di voto veniva ad essere attribuito in senso sovra-proporzionale rispetto alla partecipazione azionaria75.

Tale ricostruzione è stata oggetto di forte critica da parte di quella dottrina maggiormente attenta alle ripercussioni che tali affermazioni avrebbero avuto sull’intero sistema normativo pensato dal legislatore per le società anonime. Contestando dal punto

72 A. SCIALOJA, Il voto plurimo nella società per azioni, in Foro. it., 1925, 757.

73 Innumerevoli le sentenze che, in sede di omologazione dell’atto costitutivo, legittimavano l’argomentazione appena sostenuta: Trib. di Milano del 20 Dicembre 1924 e 31 gennaio 1925, Corte d’appello di Milano del 16 Dicembre 1924, Trib. di Torino febbraio 1925, Trib. di Genova 4 maggio 1925 riportate in A. JANNONI SEBASTIANINI, Azioni a voto plurimo, in Rivista di Politica

Economica, 1925, pagg. 625 – 626.

74 L. MOSSA, Diritto commerciale volume I, Milano, 1937, pag. 195; T. Ascarelli il quale fa rientrare le azioni a voto plurimo all’interno di quelle azioni privilegiate la cui emissione è lecita ex art. 164 appunto nell’ambito delle azioni privilegiate. La stessa ratio giustificativa veniva ad essere seguita dalla dottrina francese precedentemente considerata, in ASCARELLI, op. ult. cit., pag. 135.

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di vista letterale che l’art. 164 facesse espressamente salvo il diritto di voto dall’ambito di deroga al principio di uguaglianza, e riferendo perciò la possibilità di creare azioni differentemente tipizzate sul piano oggettivo ai soli diritti patrimoniali e non anche al diritto di voto, tale dottrina guardava al principio capitalistico come principio essenziale governante l’anonima, la cui deroga non sarebbe potuta giungere fino a negare la funzione organizzativa del capitale sociale ovvero così in là da porsi in contrasto con il principio che “assicura al capitale la parte che ad esso spetta in organismi il cui fondamento si trova nello stesso capitale”76. In altre parole, la deroga statutaria non si sarebbe potuta spingere fino a contraddire quella che era l’intenzione del legislatore, ovvero evitare che si potesse acquisire il dominio della società a fronte di un esiguo apporto a titolo di conferimento, che si potessero cioè creare delle oligarchie all’interno della società77.

L‘inammissibilità delle azioni privilegiate nel voto si sosteneva sulla base di una visione di sistema che guardava a come il legislatore avesse voluto organizzare l’anonima, identificandola come una società di capitali dove “la misura della partecipazione alla formazione della volontà dell’ente è per tutti i soci indistintamente e ugualmente proporzionale alla partecipazione capitalistica dei medesimi”78. Tale affermazione

76 Le parole citate furono pronunciate dal Sen. Lampertico durante una discussione in Senato: cfr. G. FRE’, Le azioni a voto plurimo, in Riv. Dir. Comm, 1926, I, 496.

77 G. FRE’, Le azioni a voto plurimo, in Riv. Dir. Comm, 1926, I, pagg. 495-496; a di T. Ascarelli tale interpretazione mal si concilia con la ratio della disposizione dal momento che questa era stata così pensata appunto per evitare la formazione di oligarchie all’interno della società, identificandosi inoltre l’art. 164 come norma imperativa, T. ASCARELLI, op. ult. cit, pag. 137, lo stesso sostiene A. Jannoni Sebastianini: “Si stabilisce perciò come regola generale la proporzionalità del voto al numero delle azioni possedute ma diminuendo il rapporto di proporzionalità all’aumentare del possesso azionario. Si ottenne infine la possibilità di deroga statutaria. Da ciò si capisce che la volontà del legislatore anche in relazione all’art. 157 è stata assolutamente lontana dall’idea di legittimare un soggetto ad esercitare maggiore influenza a fronte di una minore partecipazione al capitale” in A. JANNONI SEBASTIANINI, Azioni a

voto plurimo, in Rivista di Politica Economica, 1925, pag. 627.

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veniva del resto ad essere suffragata anche da quelle norme dettate in relazione alle maggioranze necessarie per la validità delle delibere assembleari, disciplina in cui il legislatore aveva parametrato il peso deliberativo del socio alla frazione di capitale sottoscritta79. Il rapporto tra conferimento effettuato e potere esercitabile in sede assembleare, inoltre, si irrigidiva maggiormente quando l’assemblea veniva ad essere chiamata a deliberare su argomenti particolarmente rilevanti, in relazione ai quali, secondo l’intendimento del legislatore, “l’unica garanzia della serietà delle deliberazioni … è la partecipazione di una parte cospicua del capitale”80 dal momento che “soltanto il danno economico che può derivare ai soci da una deliberazione inopportuna o da un avventato uso dei diritti ad essi riconosciuti è parso al legislatore una remora efficace all’approvazione di decisioni che possano mettere in serio pericolo la vita dell’ente sociale”81. Pur ammettendo la derogabilità a molte delle previsioni legali, la libertà dei soci si fermava quindi innanzi all’impossibilità di elidere la rilevanza del capitale, conseguenza in cui si risolvevano le azioni a voto plurimo. Riservare queste a determinati soci e permettere loro di governare la società costituiva in questa prospettiva una deroga che andava ben al di là dello spazio di autonomia concesso ai consociati, una rivoluzione interna all’ordinamento societario che non poteva certo argomentarsi sulla base del semplice e riduttivo silenzio della legge82.

Oltre che in relazione al sistema e ai principi lo sostenevano, la dottrina sottolineò inoltre le ripercussioni che l’introduzione di tale strumento avrebbe avuto

79 Ivi, pag. 503. 80 Ibidem. 81 Ibidem.

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sull’assemblea, considerata, come già sottolineato, organo sociale “essenzialissimo”83; le azioni a voto plurimo, infatti, finivano per privarla sostanzialmente di qualsiasi rilevanza. Concepita per permettere l’incontro delle volontà dei singoli, per essere teatro di composizione di interessi eterogenei, in modo tale da permettere la formazione della volontà sociale in ossequio al principio di maggioranza, l’assemblea generale degli azionisti veniva ridotta dalle cosiddette azioni di comando ad una assemblea di categoria dove gli unici soci realmente capaci di influenzare la deliberazione erano gli azionisti a voto plurimo84, mettendo in tal modo in discussione l’intero meccanismo di funzionamento dell’organo assembleare.

La rilevanza delle azioni a voto plurimo nella prassi statutaria e l’interpretazione che le identifica come risposta a problematiche inerenti la società per azioni nel suo complesso portarono la dottrina a sostenere la necessità di un intervento legislativo che limitasse gli abusi da parte del socio dominante85. Quegli stessi elementi che avevano impensierito la dottrina straniera, vengono ad essere sottolineati dagli autori italiani che, accanto ai dubbi già sollevati in tema di legittimità e armonia sistematica, rilevava anche svantaggi più peculiari, quali il favorire l’irresponsabilità degli amministratori e lo snaturamento dell’anonima, che spingevano la dottrina a fare appello ad una normativa più cauta.

Se si accusava il voto plurimo di favorire l’irresponsabilità degli amministratori, era pur vero che tale circostanza non poteva considerarsi conseguenza diretta dell’utilizzo dello strumento: non era infatti scontato o necessario che il voto plurimo venisse ad essere 83 Ibidem.

84 Ibidem.

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attribuito a questi, ma anzi poteva dirsi interesse dei soci stessi che ad esercitare una maggiore influenza in assemblea fossero coloro i quali erano stati maggiormente interessati alla gestione dell’industria sociale86. Una volta riconosciuto il privilegio a tali azionisti, sarebbero stati questi a scegliere gli amministratori con maggiore coscienza e sulla base della loro specifiche attitudine ad incrementare il valore della società87. Svincolare il voto plurimo dalla figura degli amministratori garantiva di evitare l’infeudamento della società: queste non si sarebbero così trasformate in oligarchie e gli azionisti sarebbero stati sempre i soli a valutare l’operato degli amministratori in considerazione dei risultati dell’industria88.

D’altra parte si accusava il voto plurimo di snaturare l’anonima, realtà dove la responsabilità limitata degli azionisti di fronte ai creditori sociali sembrava mal conciliarsi con le azioni a voto plurimo in considerazione del fatto che le decisioni, sostanzialmente prese da alcuni, finivano per proiettarsi sull’intera compagine sociale89. In realtà, la giustificazione del meccanismo di attribuzione del voto poteva trovarsi semplicemente in una delega di taluni dei poteri dell’assemblea a tali azionisti, salvo naturalmente la possibilità di revoca in caso di abusi90. Anche ciò considerato, si concludeva, non vi erano gli estremi per sostenere, come fatto da una parte della dottrina, un avvicinamento tra società in accomandita per azioni e società per azioni,

86 C. VIVANTE, I progetti di riforma sul voto plurimo nelle società anonime, in Riv. Dir. Comm, Vol. XXIII, I, pag. 432 – 433.

87 Ivi, pag. 434. 88 Ivi, pag. 435. 89 Ivi, pag. 434. 90 Ibidem.

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perché in queste ultime continuava a mancare un vincolo espresso per alcuni soci di assumere il ruolo di amministratori (accomandatari)91.

Sempre nella prospettiva di rendere le azioni privilegiate nel voto maggiormente in armonia con i principi dell’anonima, ulteriori questioni su cui la dottrina e i redattori dei progetti in tema di voto plurimo si concentrarono furono la collocazione e la cessazione del privilegio. Per quel che concerne il primo problema, la maggior parte dei progetti elaborati fino a quel momento proponeva una limitazione alla circolazione delle azioni, non ammetteva la quotazione dei titoli privilegiati e subordinava la percezione del dividendo al soddisfacimento delle azioni ordinarie92. La postergazione veniva ad essere utilizzata al fine di garantire la serietà dei conferimenti, elemento che impensieriva notevolmente i detrattori del voto plurimo93. Rilevante è inoltre l’opinione di chi sosteneva, in sede di discussione del progetto sulle azioni a voto plurimo presso il Consiglio Superiore dell’Economia Nazionale, l’assoluta necessità di evitare che queste fossero assegnate alle banche, per evitare che gli interessi finanziari di queste soffocassero le aspirazioni industriali della società94.

In relazione alla cessazione del privilegio, la dottrina italiana, concorde con quella francese e tedesca riportata in precedenza, era pressoché concorde nell’affermare la necessità che il voto plurimo non venisse ad essere esercitato in tutte quelle deliberazioni dove era di primaria importanza valutare accuratamente gli interessi

91 Ibidem. 92 Ivi, pag. 435.

93 Ciò garantiva la percezione del dividendo solo se il conferimento fosse stato sufficientemente remunerativo e perciò la direzione della società abbastanza accorta: C. VIVANTE, op. ult. cit, pag. 435. 94 Vivante non si trova d’accordo con tale opinione dal momento che è a suo dire giusto che la Banca controlli l’impiego dei capitali che ha investito: C. VIVANTE, op. cit., pag. 435.

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dell’intera compagine sociale95. Tale necessità di tutela si ravvisava in particolar modo in relazione a quelle delibere che incidevano fortemente sulla vita della società: lo scioglimento anticipato, il cambiamento dello scopo sociale, la nomina dei liquidatori e le delibere in corso di liquidazione96. Garantendo in tali casi il ritorno alla piena proporzionalità, si sarebbe potuto assicurare la buona amministrazione della società, vantaggio percepibile dal socio in quanto tale indipendentemente dalla categoria di azioni di cui era titolare97. Per motivi analoghi il privilegio non dovrebbe esercitarsi in relazione alla nomina dei sindaci dal momento che questi sono pensati dall’ordinamento per essere organo di controllo tanto della maggioranza quanto della minoranza per cui è necessario che vengano tutti ad avere un pari peso nella loro scelta98.

Tali concetti vennero in gran parte accolti in sede di stesura del progetto approvato dal Consiglio Superiore dell’Economia Nazionale nel 1925 dove in particolare si prevedevano determinate cautele al fine di assicurare i vantaggi ed evitare i pericoli connessi alle azioni a voto plurimo. In particolar modo si stabiliva che l’emissione delle azioni venisse ad essere deliberata in presenza di una maggioranza di capitale qualificata, alle azioni non venissero ad essere attribuiti più di 5 voti ognuna con l’ulteriore e preciso limite che il numero di voti delle azioni a voto plurimo non superasse il 40% del totale dei voti rappresentati dal capitale sociale99. Le azioni così 95 Ibidem.

96 Ivi, pag. 436. 97 Ibidem.

98 Al contrario a detta del Vivante non vi sarebbe contraddizione nel mantenere il voto plurimo quando l’assembla delibera sull’azione di responsabilità degli amministratori e questo principalmente perché gli amministratori verrebbero sostanzialmente ad essere giudicati da un soggetto diverso rispetto a quello che li ha in ultima istanza legittimati ed ha approvato la loro azione fino a quel momento: cfr. C. VIVANTE,

op. ult. cit., pag. 436.

99 Tali furono le regole raccolte a seguito di discussione all’interno del progetto approvato dal Consiglio Superiore dell’Economia Nazionale, riportato integralmente in C. VIVANTE, op. ult. cit., pag. 436.

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tipizzate avrebbero dovuto essere integralmente liberate al momento della loro sottoscrizione, nominative e postergate rispetto alle ordinarie in sede di rimborso, senza la possibilità di partecipare alla distribuzione dei dividendi a condizioni più vantaggiose rispetto alle azioni ordinarie100. Si prevedeva inoltre un ritorno alla proporzionalità e perciò al principio del “un’azione - un voto” in caso di nomina dei sindaci e assemblee convocate dal tribunale, deliberazioni per l’emissione di azioni privilegiate e per il cambiamento dell’oggetto sociale, delibere concernenti la liquidazione della società appunto in considerazione delle obiezioni mosse da parte degli intervenuti in sede di discussione101.

Per quanto i tentativi di formulare una disciplina ponderata per le azioni a voto plurimo potessero certamente considerarsi uno sforzo lodevole, anche in Italia vi era chi non trovava nelle cautele e nella previsione di limiti all’espressione dell’autonomia statutaria una risposta giuridicamente soddisfacente e perciò capace di fare da argine alle distorsioni collegate all’uso dello strumento.

Vi era infatti chi sosteneva che, ad esempio, non avesse alcuna rilevanza che gli azionisti a voto plurimo non percepissero dividendi o che li percepissero in maniera postergata dal momento che l’unico elemento rilevante continuava ad essere l’attribuzione sine die del potere di condizionare l’indirizzo sociale102. In relazione ad una modifica dello statuto che avesse previsto l’emissione di azioni a voto plurimo, era

100 Ibidem.

101 Ibidem: punto 7) del progetto. 102 A. CABIATI, op. cit., pag. 12.

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inoltre ragionevole chiedersi a chi si potesse attribuire quella data decisione, se all’intera compagine sociale o solo da una maggioranza che preesistesse la delibera103.

Tale dottrina si dimostrava inoltre scettica anche in relazione ai paventati vantaggi delle azioni a voto plurimo e in particolare al loro utilizzo per attrarre capitali stranieri senza permettere il passaggio del controllo: in realtà, si sottolineava, queste avrebbero anche potuto generare come effetto speculare l’allontanamento di potenziali investitori i quali, consci dell’impossibilità di acquisire il controllo, avrebbero potuto ritenere non efficiente investire104. Le azioni a voto plurimo, in ultima analisi, non sarebbero idonee secondo tale dottrina ad assicurare il raggiungimento degli obiettivi paventati, andando inoltre a causare innumerevoli problemi collaterali. La mancata tutela degli azionisti risparmiatori e di un incentivo al continuum amministrativo all’interno della società, portano quindi a considerarle come un male maggiore rispetto ai sistemi già escogitati da banche, grandi gruppi finanziari e grandi società quali sindacati, consorzi di azioni idonei al pari dell’istituto in discussione ad evitare scalate ostili105.

1.5.I progetti

Quelle stesse problematiche dell’anonima che avevano portato all’emissione di azioni a voto plurimo furono causa di riflessione sull’intera normativa contenuta nel codice del commercio del 1882. Le forti critiche mosse dalla dottrina e l’appassionata voce di coloro i quali avevano auspicato l’avvento di un legislatore che riscrivesse la disciplina gius-commercialistica condussero la classe politica di successivi decenni a porre la

103 Ivi, pag. 13.

104 A. CABIATI, op. cit., pag. 13. 105 Ivi, pag. 15.

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disciplina al centro della discussione parlamentare, culminata nella redazione di importanti progetti legislativi: il progetto Scialoja-Fani nel 1910, il progetto Vivante nel 1922, il progetto Reale nel 1925 e in ultimo il progetto Asquini nel 1940106.

Se il progetto Scialoja-Fani riprendeva integralmente le scelte compiute dal legislatore del codice del commercio, il progetto Vivante per primo identificava come regola generale quella per cui ogni azione dà diritto ad un voto, lasciandosi a margine la possibilità di deroga da parte dello statuto107. Nella stessa direzione si esprimeva il progetto Reale, e più in particolare il prodotto della sotto commissione D’Amelio, che ribadiva possibilità per lo statuto di derogare al principio generale determinando “il numero di voti spettanti nelle assemblee generali ai soci che posseggono più di una azione”108 precisando, in altra sede, che “in qualunque caso ogni azionista (ha) diritto ad un voto”109. Nello spazio lasciato all’autonomia privata il progetto Reale aveva però cura di identificare un assoluto divieto di emissione di azioni a voto plurimo, optando piuttosto per l’emissione di azioni a voto limitato110. Tali principi, la regola del one share - one vote e lo spazio lasciato all’autonomia privata in relazione al computo scalare, trovarono spazio anche nel progetto Asquini nel 1940 che, per quanto non venga alla luce come codificazione, pone insieme agli altri progetti le basi concettuali per quelle scelte che verranno compiute nel 1942, quando disciplina di ius commune e

106 LA SALA, op. cit., pag. 12.

107 M.BIONE, Il voto multiplo: digressione sul tema, in Giur. Comm., fasc. 5, 2011, pag. 663. 108 Art. 204 del Progetto Reale, 1925.

109 Art. 169 del Progetto Reale, 1925.

110 Si era infatti ritenuto che le azioni a voto limitato costituisse una alternativa migliore e meno pericolosa rispetto alle azioni a voto plurimo pur mettendo al sicuro i soci di comando dal “pericolo di turbamenti delle maggioranze”. Queste le parole usate all’interno della relazione sul progetto e riportate da M.BIONE, op. loc. ult. cit.

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