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LA FUNZIONE PEDAGOGICA DELLA MAGIA 2

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LA FUNZIONE PEDAGOGICA DELLA MAGIA

FANTASTICO, STRANO, SOPRANNATURALE E

MERAVIGLIOSO

Occuparsi della fiaba implica affrontare la questione della magia, la quale, secondo Sandra Landi, «è una forma di pensiero mitico, un’arte che tende a dominare o travalicare le forze della natura, una sorta di realtà altra legata a un diverso ordine culturale, spesso in contrasto con un mondo in cui contano i dati di fatto, la precisione, la nuda e cruda realtà».1 Questi istanti, capaci di creare fascino, non appartengono alla quotidianità, ma hanno a che fare con il meraviglioso.

Il concetto di meraviglioso è stato affrontato nel 1970 da Tzvetan Todorov nel volume La letteratura fantastica, in cui, come suggerisce il titolo, l’autore si occupa del fantastico, partendo da alcune definizioni di altri autorevoli studiosi. La prima definizione raccoglie i consigli di scrittura, per chi voglia fare esperienza del fantastico, del filosofo e mistico russo Vladimir Solov’ëv:

L’autenticamente fantastico […] non deve mai presentarsi, per così dire, in forma scoperta. Le sue manifestazioni non devono imporre la fede nel senso mistico degli avvenimenti umani, ma piuttosto accennare, alludere ad esso. Nell’autenticamente fantastico rimane sempre una possibilità formale, esteriore, di una spiegazione semplice, basata sui rapporti normali e abituali tra i fenomeni. […] Tutti i singoli particolari devono avere un carattere familiare e solo la connessione del tutto deve accennare a una causalità d’altro tipo.2

Non molto differente è l’opinione dello scrittore inglese di storie fantastiche Montague Rhodes James:

1 CAMBI, LANDI, ROSSI (a cura di) 2010, p. 13. 2 CESERANI 1996, p. 49.

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Dovremmo cercare di fare in modo di essere introdotti nel mondo dei personaggi in forma molto placida; fare in modo di assistere alle loro azioni come se fossero assolutamente quotidiane, non toccate da presagi di nessun genere, apparendo essi contenuti di ciò che li circonda; e in questo ambiente così tranquillo dovremmo fare in modo che la cosa minacciosa [the ominous

thing] facesse capolino d’improvviso, in forma non appariscente all’inizio, e poi

via via più insistente, finché non conquista il proscenio. […] Talora è necessario avere una via d’uscita per una spiegazione naturale, ma dovrei aggiungere: questa porta dovrebbe essere abbastanza stretta da rendere difficile servirsene.3

Spostandosi in ambito francese, pare che Todorov sia rimasto colpito dalla definizione di Pierre-Georges Castex, vero pioniere degli studi sulla letteratura fantastica in Francia:

Il fantastico non va confuso con le storie d’invenzione convenzionali sul tipo delle narrazioni mitologiche o dei racconti delle fate, che implicano un trasferimento della nostra mente [un dépaysement de l’esprit] in un altro mondo. Esso al contrario è caratterizzato da un’intrusione repentina del mistero nel quadro della vita reale; è collegato in genere con gli stati morbosi della coscienza la quale, in fenomeni come quelli dell’incubo o del delirio, proietta davanti a sé le immagini delle sue angosce e dei suoi terrori. «C’era una volta», scriveva Perrault; Hoffmann, invece, non ci trasferisce di colpo in un passato indeterminato; egli descrive le allucinazioni crudelmente presenti di una coscienza disorientata e il cui carattere insolito si stacca in modo sorprendente su uno sfondo di realtà familiare.4

Roger Caillois pone l’accento sul concetto di «rottura» che comporta il fantastico, il quale, allontanandosi dalla razionalità, è presentato come un’esperienza «inammissibile»:

Il fantastico manifesta uno scandalo, una lacerazione, un’irruzione insolita, quasi insopportabile nel mondo della realtà. […] Il fantastico è dunque rottura dell’ordine riconosciuto, irruzione dell’inammissibile all’interno della inalterabile legalità quotidiana, e non sostituzione totale di un universo esclusivamente prodigioso all’universo reale.5

E ancora:

3 Ivi. p. 49-50. 4 Ivi. p. 50. 5 Ibid.

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Il fantastico significa violazione di una regolarità immutabile […]. Il procedimento essenziale del fantastico è l’ apparizione: ciò che non può accadere e che invece succede, in un punto e in un istante preciso, nel cuore di un universo perfettamente individuato e da cui si riteneva a torto che il mistero fosse ormai eternamente bandito. Tutto appare come oggi e come ieri: tranquillo, banale, senza nulla d’insolito, ed ecco che pian piano si insinua o che d’improvviso si manifesta l’inammissibile.6

Ne L’art et la littérature fantastique e ne La seduction de l’étranger, Louis Vax torna sui concetti di «inammissibile» e «indicibile» formulati da Caillois e li sostituisce con quello di «inesplicabile». Inoltre, formula una definizione di fantastico che si basa sul «conflitto» fra «reale» e «possibile» aggiungendo l’idea che il fantastico abbia caratteristiche seducenti.

Per imporsi, il fantastico non deve soltanto fare irruzione nel reale, bisogna che il reale gli tenda le braccia, consenta alla sua seduzione. […] Il fantastico ama presentare, a noi che abitiamo il mondo reale in cui ci troviamo, degli uomini come noi, posti improvvisamente in presenza dell’inesplicabile.7

La definizione di Todorov ha almeno due pregi: la chiarezza e l’interesse che l’ha posta al centro di un dibattito ampio e molto acceso, ma inespugnabile e resistente a molte critiche. Il fantastico per Todorov coincide con la durata dell’esitazione del lettore e del personaggio «i quali [di fronte ad eventi che non si possono spiegare con le leggi del mondo familiare] devono decidere se ciò che percepiscono fa parte o meno del campo della realtà quale essa esiste per l’opinione comune»8. A seguito dell’esitazione c’è una risoluzione che porta al superamento del fantastico:

Non appena si è scelta l’una o l’altra risposta, si abbandona la sfera del fantastico per entrare in quella di un genere simile, lo strano [l’etrange] o il meraviglioso [le merveilleux]. Il fantastico è l’esitazione [l’hésitation] provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale. […]9

6 Ivi. p. 51. 7 Ivi. p. 51.

8 TODOROV 1970, p. 45. 9 CESERANI 1996, p. 52.

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Con questa definizione, Todorov non solo definisce il fantastico, ma delinea altri due generi: lo strano e il meraviglioso, dei quali propone ulteriori distinzioni.

Strano puro Fantastico strano meraviglioso Fantastico Meraviglioso puro

Nello schema, il fantastico puro sarebbe rappresentato dalla linea mediana, quella che separa il fantastico-strano dal fantastico-meraviglioso e che rappresenterebbe, anche fisicamente, la natura di frontiera fra i due campi vicini. Di queste quattro categorie si approfondisce l’ultima, ovvero il meraviglioso puro, nel quale «gli elementi soprannaturali non provocano nessuna reazione particolare, né sui personaggi, né nel lettore implicito», perché «non è un atteggiamento verso gli avvenimenti narrati a caratterizzare il meraviglioso, bensì la natura stessa di quegli avvenimenti».10 Inoltre, per definire al meglio il meraviglioso puro, Todorov elimina diversi tipi di racconto, nei quali al soprannaturale è data una spiegazione razionale: il meraviglioso iperbolico (i fenomeni naturali hanno dimensioni eccezionali rispetto all’usuale); il soprannaturale esotico (avvenimenti soprannaturali non sono presentati come tali); il soprannaturale strumentale (compaiono gadgets irrealizzabili all’epoca, ma perfettamente possibili) e infine il soprannaturale scientifico (il soprannaturale è spiegato in maniera razionale, ma sulla base di leggi che la scienza contemporanea non riconosce).

Il volume di recente pubblicazione, intitolato Il soprannaturale letterario. Storia,

logica e forme chiarisce il punto di vista di Francesco Orlando su tale argomento.

Egli recupera la categoria di fantastico definita da Todorov, a partire dalla definizione di Caillois:

Il fiabesco è un universo meraviglioso che si affianca al mondo reale senza sconvolgerlo e senza distruggerne la coerenza. Il fantastico invece rivela uno

scandalo, una lacerazione, un’irruzione insolita, quasi insopportabile nel

mondo reale.11

10 TODOROV 1970, p. 57. 11 ORLANDO 2017, p. 3.

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Secondo Orlando, diversamente da quanto avviene nelle fiabe, dove i personaggi si inoltrano in spazi e dimensioni in cui tutto è possibile, nella letteratura fantastica l’ambientazione, i personaggi e la gestione del racconto sono identici ad una qualsiasi storia realistica. Affinché si manifesti il fantastico è necessario uno scandalo all’interno del contesto quotidiano. Caillois ritiene che l’insorgere del fantastico dipenda dall’affermazione dell’illuminismo, dopo il quale «risulta più arduo rendere credibile un meraviglioso dove può succedere di tutto».12 Il fantastico si basa sul compromesso fra concezione razionale della realtà e il sospetto che la ragione non basti a spiegare tutti i fenomeni:

è come se una porta su un mistero non del tutto esorcizzato si aprisse ogni tanto facendo irrompere qualcosa di prodigioso, a condizione però che essa si richiuda subito e rimanga in dubbio se si sia veramente aperta o no. In poche parole, il fantastico presuppone l’illuminismo.13

Orlando riconosce che uno dei grandi meriti di Caillois prima e di Todorov poi sia stato definire in maniera rigorosa uno statuto del soprannaturale letterario, il quale caratterizza un determinato periodo storico e un insieme definito e circoscritto di testi, ricchi di regole ben precise, volte a evocare un mondo soprannaturale: per Orlando, «la presenza del soprannaturale corrisponde innanzitutto alla presenza di regole».14 Inoltre, le regole predisposte dall’autore sono legittimate dalla loro stessa presenza e si fanno valere in un ambito che è immaginario due volte: «nei temi soprannaturali […] e nella fictio letteraria di cui i temi fanno parte».15 Il soprannaturale di cui parla Orlando non può né sostituire, né modificare totalmente la realtà, ma può solo intervenire su di essa per cambiarla in parte e nei limiti determinati. Egli non si occupa di generi, così come di magia e fate, ecco perché si ritiene opportuno ritornare sul testo di Todorov.

Anche nelle fiabe le regole sono fondamentali, infatti, Todorov prosegue con l’analisi dell’allegoria. La favola, secondo lo studioso, è il genere che più si avvicina

12 Ivi. p. 4. 13 Ibid. 14 Ivi. 17. 15 Ivi. 18.

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all’allegoria pura, «in cui il senso primo delle parole tende a cancellarsi completamente»16. I racconti di fate, spesso, si avvicinano molto alle favole, così come ci mostra Perrault nella fiaba Enrichetto dal Ciuffo, nella quale il senso allegorico è esplicitato al massimo. È la storia di un principe intelligente, ma molto brutto, e di una principessa tanto bella quanto sciocca. Entrambi hanno il potere di rendere simili a se stessi le persone che ritengono degne: così il principe rende intelligente la principessa e un anno dopo la principessa accorda al principe la bellezza. È evidente che ci troviamo di fronte ad avvenimenti soprannaturali, che all’interno del racconto, come Perrault suggerisce, assumono un significato allegorico.

La Principessa non aveva ancora finito di pronunciare queste parole che Enrichetto dal Ciuffo apparve ai suoi occhi il più bell’uomo della terra, il più aitante e simpatico che mai si sia visto. Alcuni assicurano che non furono per nulla gl’incantesimi della fata ad agire, ma che sola l’amore operò tale metamorfosi. Dicono che la Principessa, avendo riflettuto sulla perseveranza dimostrata dal suo innamorato, sulla discrezione di lui e tutte le belle qualità del suo cuore e della sua mente, non vide più la deformità del suo corpo, né la bruttezza del suo viso: la gobba che lo deturpava le parve soltanto la schiena rotonda dell’uomo che bonariamente si tiene un po’ curvo; nel mentre che, fino a quel momento le era parso ch’egli fosse orribilmente zoppo, le sembrò adesso che avesse un’andatura un po’ buttata da una parte, non priva di grazia e che le piaceva moltissimo.17

E per non lasciare spazio a equivoci, Perrault aggiunge una “morale” alla fine del racconto:

Ciò che si vede in questo scrittarello

Non è un racconto in aria, ma verità patente. In quel che amiamo tutto è buono e bello, tutto quello che amiamo è intelligente.18

L’allegoria è presente anche negli altri racconti di Perrault e l’autore ne è consapevole, dal momento che nella prefazione alla sua raccolta si sofferma sul problema del senso allegorico, elemento che considera essenziale. C’è da aggiungere

16 Ibid.

17 PERRAULT 1957, p. 50. 18 Ivi. p. 51

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altresì, che secondo Todorov, il lettore ha tutto il diritto di non preoccuparsi del senso allegorico indicato dall’autore e quindi di leggere il testo, scoprendovi un senso del tutto diverso.

I critici che si sono occupati di studiare le classificazioni di Todorov trovano il suo schema troppo astratto, sistematico ed hegeliano, e considerano queste caratteristiche un difetto; tuttavia, grazie alla struttura dialettica, la classificazione accoglie una grande quantità di elementi contraddittori. Un importante studioso italiano, Remo Ceserani, nel fantastico19, si è occupato della definizione del fantastico partendo dalle teorie di Todorov. Egli nota che lo schema proposto dal suo predecessore presentava aspetti problematici, che sembravano non lasciare spazio all’elemento intermedio del fantastico, il quale era ridotto ad «un momento quasi virtuale».20 Il fantastico rischia così di ridursi a un «crinale»: o si cade da una parte o si cade dall’altra, per risolversi poi o nel meraviglioso o nello strano.

Inoltre alla luce dello squilibrio fra le categorie, Todorov stesso propone di suddividere lo schema in cinque categorie diverse fra loro per tipo di discorso narrativo: Meraviglioso Meraviglioso- fantastico Fantastico Fantastico-strano Strano

Lucio Lugnani muove, però, diverse obiezioni che possono riassumersi in tre punti: le due categorie del meraviglioso e dello strano sono «non simmetriche e non omogenee […] e neppure reciprocamente esclusive»; le due categorie non sono «adeguate a definire dei generi letterari», dal momento che lo strano «è caratterizzato da una semantica esclusivamente contrastiva (rispetto a ciò che si ritiene normale) e il meraviglioso, come accettazione del sovrannaturale, è caratteristico di molti generi letterari diversi fra loro; infine Todorov crea «dissimmetria ed eterogeneità fra le categorie, caratterizzando l’una attraverso le emozioni che suscita nei personaggi e

19 CESERANI 1996. 20 Ivi. p. 59.

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nel lettore e l’altra attraverso la natura degli eventi che narra».21 Nel corso della sua analisi, Lugnani propone a sua volta una definizione più sottile e flessibile, che ha il pregio di prendere come punto di riferimento non la realtà, il naturale o il sovrannaturale, bensì il «paradigma di realtà»22, cioè un elemento anch’esso culturale e convenzionale:

[…] Il racconto del reale, cioè il realistico, è il polo oppositivo fondamentale dello strano, del meraviglioso e del fantastico, ossia dei racconti dello scarto. […] È proprio il rapporto con il realistico a consentire di stabilire e approfondire la differenza tra fantastico e strano e fra questi e il meraviglioso. […] A fronte del realistico come racconto del reale nei limiti e nel rispetto del paradigma di realtà, lo strano è il racconto d’uno scarto apparente o riducibile del reale rispetto al paradigma, il fantastico è il racconto d’uno scarto non riducibile del reale e d’una lacerazione del paradigma, ma il meraviglioso potrebbe essere il racconto dello scarto paradigmatico natura/sovranatura. […] Come lo strano e il meraviglioso, il realistico e il surrealistico non designano generi narrativi né classi specifiche di racconti, ma al più categorie modali del raccontare.23

Molti studiosi, fra i quali Witold Ostrowski, Andrzei Zgorzelski, T.E. Apter, Kathryn Hume, Kathleen Spencer, ritengono poco esaustive le definizioni che tendono a sostituire la sottile differenza fra le cinque categorie di Todorov (il meraviglioso, il meraviglioso-fantastico, il fantastico, il fantastico-strano e lo strano) o le cinque di Lugnani (il realistico, il fantastico, il meraviglioso, lo strano e il surrealistico), così tendono o separare nettamente solo due categorie: realistico da un lato e fantastico e meraviglioso, mescolati fra loro, dall’altro.

Tuttavia l’analisi di Cesarani si spinge al limite, proponendo le posizioni estreme, e «forse proprio per questo interessanti», di Marcel Schneider e Pierre Mabille. I due

21 LUGNANI, Per una delimitazione, in Ceserani et al., La narrazione fantastica, pp. 41-42.

22 «L’uomo domina (o per meglio dire percepisce e interpreta, cioè conosce) la realtà attraverso la

scienza delle leggi che la regolano e della causalità che la determina, ed anche attraverso una griglia assiologica di valori distribuita ad abbracciare il reale e ad ordinare e giustificare i comportamenti umani in rapporto alla realtà e agli altri uomini. Scienza (come insieme di cognizioni) e assiologia mutano evidentemente nel tempo e nello spazio. Il loro insieme determinato nel tempo e nello spazio costituisce ciò che si può chiamare paradigma di realtà e, in pratica, l’uomo non ha altra realtà al di fuori del suo paradigma di realtà. È uno scarto rispetto a quest’ultimo che le storie strane, fantastiche e meravigliose narrativizzano». Ceserani riporta, inoltre, la definizione di realtà data dal fisico David Bohm: «la parola “realtà” è derivata dalle radici “cosa” (res) e “pensare (revi). “Realtà” significa “tutto ciò che si può pensare“. Il che non significa “tutto ciò che è”. Nessuna idea può afferrare la “verità” nel senso di “ciò che è”»; citato in NANDORFY 1991, p. 99-112.

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studiosi considerano il fantastico una forma letteraria inferiore al meraviglioso, e considerano quest’ultimo la vera salvezza che può venire dal mondo della letteratura. Schneider, infatti, scrive che «solo il favoloso, il meraviglioso e il fiabesco sono apparentati con il fantastico» 24 e André Breton, padre del surrealismo, nell’introduzione al libro sul meraviglioso di Mabille si esprime così:

Il meraviglioso, nulla è riuscito a definirlo meglio che in opposizione al «fantastico», il quale tende, ahimè, sempre più a soppiantarlo presso i nostri contemporanei. Il fatto è che il fantastico appartiene sempre al dominio della finzione senza conseguenze, mentre il meraviglioso splende sulla punta estrema del movimento vitale e impegna l’affettività nella sua incertezza.25

Una posizione più complessa e articolata è quella di Rosemary Jackson, la cui spiegazione del fantastico è psicanalitica e sociologia. Il fantastico è una forma di linguaggio dell’inconscio e una forma di opposizione sociale sovversiva che si pone contro all’ideologia dominante del periodo storico in cui si manifesta. Per la Jackson il fantastico non affonda le sue radici nel soprannaturale, ma

presenta un mondo naturale rovesciato in qualcosa di strano, qualcosa di «altro». Diviene «domestico», umanizzato, abbandonando le esplorazioni trascendentali per le trascrizioni della condizione umana. […]

A differenza dei mondi secondari del meraviglioso, che costruiscono delle realtà alternative, i mondi in ombra del fantastico non costruiscono nulla. Essi sono vuoti, svuotati, dissolventi. La loro vuotezza rende nullo il mondo visibile, pieno, arrotondato, tridimensionale disegnando in esso delle assenze, delle ombre senza oggetti. Lungi dal soddisfare i desideri, questi spazi perpetuano il desiderio insistendo su un’assenza, una mancanza, il non visto, il non visibile.26

Più equilibrata è la posizione di Irène Bessière che, nel tentativo di dare una definizione, si ispira agli studi di Jolles, applicando l’idea della «controforma» al fantastico:

Utilizzando la terminologia di Sartre, il racconto del meraviglioso è non-tetico, cioè esso non enuncia la realtà di ciò che rappresenta. Il «c’era una volta» ci distacca da qualsiasi attualità e ci introduce in un universo autonomo e irreale,

24 SCHNEIDER 1964.

25 BRETON prefazione a Le miroir du merveilleux di Mabille, 1962, p. 16- 26 JACKSON 1988, p. 17 e 45.

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esplicitamente dato come tale. Al contrario, la narrazione fantastica è tetica; essa enuncia la realtà di ciò che rappresenta: condizione stessa della narrazione che istituisce il gioco del nulla e del troppo, del negativo e del positivo. Ma siccome quella realtà è un’ipotesi falsa, essa non può assumere un’esistenza apparente se non attraverso l’affermazione di un testimone che dichiara di aver visto degli avvenimenti strani e che, per voler confermare la loro verità, si trova prigioniero della propria stessa incertezza poiché non trova nessuna causa soddisfacente. […] La narrazione fantastica non sembra quindi essere la «linea di spartizione tra lo strano e il meraviglioso», come sostiene Todorov, ma è piuttosto, per via della falsità oscurata, il luogo di convergenza della narrazione tetica (romanzo dei realia) e di quella non tetica (meraviglioso, fiaba di magia). […] Il fantastico non deriva da una semplice divisione della psiche fra ragione e immaginazione, liberazione dell’una e costruzione della’altra, ma dalla polivalenza dei segni intellettuali e culturali, che esso si applica a figurare. […] il fantastico mette in scena la distanza costante del soggetto dal reale e per questo esso è sempre collegato con le teorie sulla conoscenza e con le credenze di un’epoca. […] il fantastico segna la misura del reale attraverso la smisura. Lo scetticismo che solo traccia l’intimità della sragione è l’ingrediente obbligato dell’immaginabile.27

Dunque, alla luce di tutte queste posizioni, si può concordare con Ceserani, quando ritiene che il fantastico, una volta considerato una controforma o un modo, risulta essere una presenza persistente nella letteratura della modernità. I racconti fantastici ci pongono di fronte al dilemma: se credere o non credere. Dall’altra parte, i racconti meravigliosi realizzano quest’unione impossibile e mostrano al lettore un universo soprannaturale che non fa sorgere dubbi.

LA FUNZIONE EDIFICANTE DELLA MAGIA NELLA FIABA

Nel linguaggio comune la parola magia serve a connotare eventi non comuni che si verificano fuori dall’ordine naturale, in modo improvviso e inaspettato. Si usa la formula «come per magia», quando un certo episodio suscita sorpresa, meraviglia e spavento e l’effetto dei racconti magici è lo stesso. La magia è l’elemento fondamentale della narrazione fiabesca, poiché si radica in quel mondo arcaico che trova nel magico la sua espressione e rappresentazione più efficace. Sebbene questo legame sembri essersi spezzato, delegittimato e reso estraneo al tempo della scienza, della tecnica e della razionalità, tuttavia possiamo parlare di costante ritorno del

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magico. Nel mondo arcaico, popolato da sciamani e da maghi, il pensiero magico ha agito ed ha avuto molto peso; ma ci si potrebbe chiedere quale sia il motivo del suo continuo ritorno e a quali esigenze risponda.

Secondo Franco Cambi, la magia ricorre e ritorna nella fiaba «per ansia, nostalgia, difficoltà di distacco dai paradigmi del passato. Ritorna in forma di mito che dialetticamente integra e contesta il modello illuministico della ragione».28 La magia nella fiaba è sia attività di dominio individuale, sia modello culturale, perché assume i connotati del pensiero pre-scientifico. Il pensiero magico-mistico e mitico che si trova alla base del mondo selvaggio e arcaico, si evolve verso la costruzione di un pensiero nuovo, quello del logos (pensiero teorico e razionale), e dell’episteme, (sapere rigoroso e organico); logos ed episteme determinano il passaggio dalla fiaba popolare a quella d’autore. L’autore moderno si cala intenzionalmente in una dimensione culturale lontana, ancora viva e centrale, e la riattiva all’interno delle sue fiabe.

Al magico è assegnato il ruolo del superamento del reale, di creazione di effetti estranei al senso comune, di portatore di trasformazioni radicali e immediate, vicine, ad un tempo, ad un pensiero/azione produttivo-senza-mediazioni e a un’istanza di possibilità per attese e speranze, in modo da garantirne di colpo la realizzazione. La magia è stile di pensiero e “logico” e psico-logico al tempo stesso. Anche nella fiaba, che ne è lo specchio integrale e organico.29

L’elemento magico è uno strumento utile al soggetto per sviluppare la propria forza e per condurlo alla vittoria. Nella fiaba popolare, da Perrault a Calvino, si manifesta il ruolo salvifico della magia, la quale entra a far parte dell’esperienza vitale del protagonista e della stessa affermazione di sé. Nella fiaba d’autore la funzione del magico è più sfumata, ambigua e sfaccettata; questi aspetti sono evidenti, soprattutto, in Alice nel paese delle meraviglie di Carroll, dove il magico ironizza su se stesso: Dodgson, uomo logico e matematico, gioca col magico per dissolvere i principi del magico stesso, portandoli agli estremi, irretendoli in un processo di sogno e d’ironia.

28 CAMBI 1999, p. 27. 29 Ivi, p. 31.

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Come la fiaba, anche l’elemento magico è cambiato nei secoli: da cultura di base nella fiaba popolare diventa sviluppo del meraviglioso nella fiaba colta, per farsi sguardo sul fantastico e superamento del senso comune nella fiaba d’autore. Le fiabe stesse ci mostrano che, nel primo caso la magia fa parte della cultura popolare, nel secondo, serve a creare e ad affermare un mondo parallelo, sognato o inventato, il quale, pur mantenendo dei legami con la cultura popolare, serve a dare sfogo all’immaginazione; il magico costruisce, quindi, un universo “altro”, in cui il meraviglioso, il fantastico e l’impossibile sono protagonisti. Nel terzo e ultimo caso la magia diventa «fattore di un mélange assai più complesso»30, in un mondo narrativo ora realistico ora fantastico, in cui la magia guarda al passato, sia per garantire forza espressiva al racconto, sia per recuperare modelli che, una volta rinnovati, vengono proiettati nel futuro.

Grazie alla magia, la fiaba svolge il compito di rassicurare e consolare il bambino, assumendo per lui la stessa funzione che la fede ha per l’adulto. Come la fede, la magia propone possibilità che si allontanano dal reale osservabile e si proiettano in visioni di una realtà più confortante con prospettive di vita più alte, senza le quali la vita dell’uomo rimarrebbe appiattita sugli aspetti materiali. Secondo Paolo Borin:

La magia ci fornisce una chiave di lettura della realtà e ci aiuta ad immaginare una realtà possibile. […] L’utopia contenuta nella magia ci supporta nel nostro elevarci, attraverso un processo conoscitivo sostenuto e alimentato dalla creatività.31

Lo studioso ritiene inoltre che con le ninna nanne ogni popolo abbia fornito al bambino uno strumento di consolazione e lo abbia incoraggiato a servirsi del fantastico e del magico, per elaborare forme di conoscenza più vicine alla propria intimità. A proposito delle ninna nanne, Federico García Lorca ci ricorda che esse consolano tanto il bambino che le ascolta, quanto l’adulto che le canta.

30 Ivi, p. 32. 31 BORIN, p. 59.

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Dentro il clima creato dalle fate, occorre immettere due ritmi: quello fisico della culla o della sedia, e quello cerebrale della melodia. La madre organizza questi due ritmi, per il corpo e per l’udito, con cadenze diverse e diversi silenzi, combinandoli sino alla conquista del tono giusto da ammaliare il bambino.32

Borin, inoltre, attraverso la lezione del filosofo Eugen Fink, considera il gioco uno strumento fondamentale per la crescita del bambino, nel quale la memoria si lega strettamente alle «prospettive magicamente immaginate»33. Nel gioco si sprigiona la felicità del creare: tutte le strade sono aperte e illimitate; infatti, l’uomo può trascendere se stesso viaggiando fuori da ogni situazione fissata e, immergendosi nel fondo vitale delle possibilità originali, può ricominciare sempre dall’inizio, senza il peso della sua storia. Le possibilità, però, sono giocate su un doppio significato: l’uomo si realizza scegliendo se stesso tra mille possibilità e grazie alle sue decisioni, libere e personali, determina la sua individualità.

Il linguaggio della fiaba è simbolico e il bambino ne è consapevole, poiché la fiaba è costruita in modo tale da rendere evidente che i fatti narrati non hanno a che fare con la realtà. I luoghi e le persone coinvolti nel racconto sono fantastici, ma diventano importanti grazie al significato simbolico che il bambino collega a fatti reali.

“C’era una volta,” “In un certo paese,” “Mille anni fa, o forse più,” “Al tempo che gli animali parlavano ancora,” “Una volta, in un vecchio castello nel cuore di un vasto e fitto bosco”: inizi del genere suggeriscono che quanto segue non si riferisce al luogo e all’epoca che noi conosciamo. Quest’indeterminatezza voluta all’inizio delle fiabe simboleggia che stiamo per lasciare il mondo concreto della realtà di tutti i giorni. Antichi manieri, oscure caverne, stanze chiuse a cui è vietato l’accesso, foreste impenetrabili, suggeriscono tutti che qualcosa che di regola è nascosto verrà rivelato, mentre la frase “tanto tempo fa” indica che saremo portati a conoscenza di fatti quanto mai remoti.34

Secondo Bettheleim, la fiaba passa rapidamente da un inizio semplice e realistico a un susseguirsi di eventi fantastici, nei quali è coinvolto il protagonista. Il passaggio dalla realtà alla fantasia non altera il processo della storia, perché il bambino, dopo aver viaggiato in mondi meravigliosi, è ricondotto alla realtà, che appare adesso più rassicurante. Ciò insegna al bambino che viaggiare con la fantasia, in un mondo

32 Ivi. p. 60. 33 Ibid.

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magico e meraviglioso, non è dannoso, purché non si rimanga prigionieri in esso. Alla fine della storia, l’eroe torna ad una realtà felice e priva di magia, ma più forte e in grado di affrontare la vita.

Le storie che si avvicinano maggiormente alla realtà, i cui luoghi non si discostano molto da quelli in cui vive il bambino, i cui personaggi, anziché re, regine, boscaioli, sono simili ai genitori tendono a confondere il bambino circa quello che è reale e quello che non lo è. Queste storie allargano la frattura fra la vita interiore e quella esteriore, causando un incolmabile impoverimento, che con il passare degli anni potrebbe determinare una separazione dalla realtà. Le fiabe offrono al bambino la possibilità di esternare le proprie pressioni interiori, grazie alla gamma di personaggi proposti.

Mostrano al bambino come può dar corpo si suoi desideri distruttivi in un solo personaggio, ricevere desiderate soddisfazioni da un altro, identificarsi con un terzo, avere attaccamenti ideali con un quarto e così via, a seconda dei suoi bisogni del momento.35

Pur presentando un tipo di svolgimento estraneo ai meccanismi della sua mente, le storie vere sul mondo reale possono fornire importanti informazioni al bambino, sebbene non lo arricchiscano, non forniscano niente alla sua psiche; sono utili, infatti, tanto le storie vere quanto le fiabe, perché le prime consentono lo sviluppo razionale della personalità, mentre le seconde si occupano dello sviluppo emotivo.

Bettelheim spiega che, se ogni tappa della crescita del bambino non è rispettata, ma anzi, il loro susseguirsi è accelerato, può capitare che il fanciullo cresca con la convinzione che la vita non possa essere vissuta in maniera realistici; le esigenze magiche e fantastiche del bambino, non rispettate e assecondate durante l’infanzia, riemergono in modo rovinoso quando quest’ultimo è ormai un adulto.

Molti giovani che oggi cercano di evadere in sogni indotti dalla droga, oppure diventano adepti di qualche guru, credono nell’astrologia, praticano la “magia nera”, o in qualche altro modo fuggono dalla realtà in fantasticherie intorno ad

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esperienze magiche che dovrebbero cambiare in meglio la loro vita, furono prematuramente costretti a vedere la realtà con occhi d’adulto.36

Nel corso della storia, l’uomo si è servito di proiezioni infantili per dare risposte alle proprie domande e alle proprie insicurezze. Con il passare del tempo, grazie al progresso sociale, scientifico e tecnologico, l’uomo si è sentito sempre più al sicuro nel mondo e nel suo intimo, ed ha ritenuto di poter mettere in discussione la validità delle proprie proiezioni infantili, per lasciare spazio alle spiegazioni razionali. «Questo processo [però] è tutt’altro che immune da anomalie. Quando sopravvengono periodi di tensione e di penuria l’uomo torna a cercare conforto nella nozione “infantile” che lui e il luogo dove dimora siano il centro dell’universo».37 Più una persona si sente al sicuro nel mondo, meno ha bisogno di attingere a spiegazioni mitiche o soluzioni da fiaba per rispondere ai problemi della vita.

Bambini, fiabe e magia

L’illustre psicologo infantile Bruno Bettelheim, nel Mondo incantato38, scrive: Nulla può essere in grado di arricchire e di divertire sia bambini sia adulti quanto la fiaba popolare. Certo, a livello manifesto le fiabe hanno poco da insegnare circa le specifiche condizioni della vita nella moderna società di massa; queste storie furono inventate molto tempo prima del suo avvento. Ma esse possono essere più istruttive e rivelatrici circa i problemi interiori degli esseri umani e le giuste soluzioni alle loro difficoltà in qualsiasi società, di qualsiasi altro tipo di storia alla portata della comprensione del bambino.39

Il bambino deve essere guidato a trarre un senso coerente dal tumulto dei suoi sentimenti, per fare chiarezza in una vita che spesso gli appare sconcertante.

Egli ha bisogno d’idee sul modo di dare ordine alla sua casa interiore, per poter creare su tale base l’ordine nella sua vita. Ha bisogno […] di un’educazione morale che sottilmente, e soltanto per induzione, gli indichi i vantaggi del comportamento morale, non mediante concetti etici astratti ma mediante quanto

36 Ivi. p. 53. 37 Ibid.

38 BETTELHEIM 1976. 39 Ivi. p. 11.

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gli appare tangibilmente giusto e quindi di significato riconoscibile. Il bambino trova questo tipo di significato attraverso le fiabe.40

Queste storie svolgono due funzioni fondamentali: forniscono messaggi importanti alla mente conscia, preconscia e subconscia dell’individuo, e si occupano di problemi umani universali, soprattutto di quelli che preoccupano la mente del bambino; parlano al suo Io e lo aiutano nello sviluppo placando pressioni preconsce e inconsce. Per il bambino, le fiabe popolari sono più soddisfacenti delle altre storie dell’infanzia, perché, partendo dalla fase psicologica ed emotiva in cui il bambino realmente si trova, offrono soluzioni, temporanee o definitive, alle difficoltà. La forma e la struttura delle fiabe fanno sì che il bambino possa strutturare i propri sogni ad occhi aperti, in modo tale da migliorare la direzione della propria vita.

Bettelheim fa notare che molti genitori preferiscono allontanare dai propri figli ciò che può provocare loro turbamento: ansie informi e senza nome, fantasie caotiche, colleriche e perfino violente; tuttavia, fornire alimenti unilaterali alla mente del bambino, provoca un dannoso sviluppo unilaterale, poiché la realtà, in cui il bambino vive e cresce, non sempre è rosea.

C’è un diffuso rifiuto a permettere al bambino di sapere che gran parte degli inconvenienti della vita sono dovuti alla nostra stessa natura: alla propensione di tutti gli uomini ad agire in modo aggressivo, asociale, egoistico, spinti dall’ira e dall’ansia. Noi vogliamo invece far credere ai nostri bambini che tutti gli uomini sono intrinsecamente buoni; ma i bambini sanno che loro stessi non sono buoni, e spesso, anche quando lo sono, preferirebbero non esserlo. Ciò contraddice quanto viene loro detto dai genitori, e quindi rende il bambino un mostro ai suoi stessi occhi.41

Sebbene l’atteggiamento comune ritenga che il lato oscuro dell’uomo non esista, Bettelheim spiega che la psicanalisi nasce dalla necessità dell’uomo di gestire proprio questo aspeto; secondo Freud «soltanto lottando coraggiosamente contro quelle che sembrano difficoltà insuperabili l’uomo può riuscire a trovare un significato alla sua esistenza»42 e questo è il messaggio fondamentale che le fiabe

40 Ibid. 41 Ivi. p. 13. 42 Ibid.

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trasmettono al bambino. Questo, posto di fronte ai principali problemi umani, è spinto ad affrontarli, fornendo suggerimenti in forma simbolica.

Nelle fiabe le situazioni sono semplificate, rese chiare e concise, così come i personaggi, i quali, sono resi tipici. Attraverso l’eliminazione di tutti i particolari, il male e la virtù sono onnipresenti come nella realtà. Questo dualismo pone il problema morale e richiede una lotta, affinché possa essere risolto. Durante i tentativi di risoluzione, il male ha spesso le sue attrattive e, temporaneamente, può avere la meglio; tuttavia «la convinzione che il delitto non paga è un deterrente molto più efficace, ed è per questo che nelle fiabe la persona cattiva è sempre perdente»43. La virtù, di per sé, non esercita alcuna attrattiva morale sul bambino, è l’eroe, in quanto vincitore, a spingere il bambino ad identificarsi con lui. Grazie a questa identificazione il fanciullo immagina di sopportare con l’eroe tutte le prove e le difficoltà e di trionfare con lui, quando la virtù conduce alla vittoria. Il bambino compie questa identificazione da solo, definendo così il suo senso morale, non in base ad una scelta fra bene e male, bensì secondo la risposta alla domanda: Come, chi, voglio essere; il bambino, infatti, proiettando tutto se stesso in un solo personaggio, decide se stare dalla parte del bene, vincitore, o dalla parte del male, perdente. A tal proposito, Bettelheim scrive:

Il succo di queste fiabe non è la morale, ma piuttosto la fiducia di poter riuscire. […] la fiaba […] prende molto sul serio le ansie e i dilemmi esistenziali e s’ispira direttamente ad essi [ed offre] soluzioni in modi che il bambino può afferrare in base al proprio livello intellettivo.44

La fiaba permette al bambino di conoscersi perché favorisce lo sviluppo della sua personalità, lo istruisce e lo diverte attraverso un linguaggio su misura e, essendo prima di tutto un’opera d’immaginazione, esercita su di lui un forte impatto, che va ben oltre la ricchezza e la profondità di qualsiasi accurata interpretazione.

Affinché un bambino possa trarre giovamento dalla fiaba è necessario che la ascolti molte volte, per riuscire a integrare l’atteggiamento ottimistico della storia nella propria esperienza del mondo; così, dopo ripetute ascolti dello stesso racconto e dopo aver ricavato da quest’ultimo le risposte alle proprie domande inconsce, il bambino

43 Ivi. p. 14. 44 Ivi. p. 16.

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è pronto a drammatizzare gli eroi della sua fiaba preferita. L’ascolto ripetuto e l’immedesimazione forniscono benefici effetti di esteriorizzazione solo se il bambino rimane inconsapevole delle pressioni inconsce offerte dalle fiabe.

L’eroe della fiaba ha un corpo che può compiere imprese miracolose. Identificandosi con lui, ogni bambino può compensare nella fantasia e mediante l’identificazione tutte le inadeguatezze, reali o immaginarie, del proprio corpo. Egli può fantasticare di essere anche lui in grado, come l’eroe, di arrampicarsi fino al cielo, sconfiggere giganti, mutare d’aspetto, diventare la persona più forte o più bella: insomma, di avere un corpo che possa essere e fare tutto quello che il bambino vorrebbe. Una volta che i suoi più arditi desideri di grandezza sono stati così soddisfatti nella fantasia, il bambino può essere maggiormente in pace col proprio corpo come esso è nella realtà. La fiaba proietta addirittura quest’accettazione della realtà a beneficio del bambino, perché mentre la storia presenta nel suo svolgimento straordinarie trasfigurazioni del corpo dell’eroe, al termine della lotta egli ridiventa un semplice mortale. Alla fine della fiaba non sentiamo più parlare della sovrumana bellezza o forza dell’eroe. […] Una volta che l’eroe della fiaba ha conseguito la sua vera identità alla fine della storia (e con tale identità la sicurezza interiore circa se stesso, il suo corpo, la sua vita, la sua posizione nella società), egli è felice di essere così com’è, e non più atipico sotto nessun punto di vista.45

La fiaba è tanto importante per il bambino, perché parte dalla condizione in cui il bambino si trova e in cui rimarrebbe bloccato se la storia non fornisse tutti gli strumenti in grado di aiutarlo. La fantasia, infatti, colma le lacune di una conoscenza ancora frammentaria dovuta alla giovane età; il bambino inizia le proprie produzioni fantastiche con alcuni frammenti di realtà, osservati in maniera più o meno corretta, i quali provocano in lui bisogni o preoccupazioni tali da coinvolgerlo completamente. Talvolta può accadere che le cose si mescolino, al punto da diventare inscindibili; riordinarle è necessario, affinché il bambino possa tornare alla realtà, rafforzato dall’incursione nella fantasia. Le fiabe, grazie al loro svolgimento, creano ordine rispetto all’approccio con la mentalità infantile e aiutano il bambino a guardare con chiarezza la realtà attraverso la fantasia. Iniziano solitamente in maniera realistica, ma problematica, e coinvolgono lo stato d’animo del bambino per far luce sulla sua condizione psicologica, per esempio su alcune delle sue paure (essere trascurato oppure abbandonato etc.). L’inserimento della situazione fisica, invece, rimane escluso: nessun bambino, infatti, è obbligato a sedere nella cenere o è abbandonato in

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un bosco come Hansel e Gretel. Questo «perché un’analogia fisica sarebbe troppo allarmante per il bambino, e ‘colpirebbe troppo vicino a casa per poter dare conforto’»,46 quando confortare è proprio uno degli obiettivi della fiaba.

L’attualità del magico fiabesco

Uno degli interrogativi tuttora insoluti è perché il magico della fiaba ci parli ancora oggi; a questa domanda Freud avrebbe risposto, che la fantasia e la realtà si compenetrano nella soddisfazione del desiderio, poiché la prima risponde al principio del piacere e la seconda al principio di realtà. Sono i «desideri insoddisfatti le forze motrici della fantasia, e ogni singola fantasia è un appagamento di desiderio, una correzione della realtà che ci lascia insoddisfatti».47 Fin dal 1907, infatti, Freud inizia a paragonare il rapporto fantasia-realtà nel bambino a quello dell’artista nella fase della creazione letteraria; entrambi creano mondi fantastici che oltre ad essere presi molto sul serio, sono anche caricati di aspettative affettive, pur nella consapevolezza della loro netta separazione dalla realtà.

Dobbiamo aspettare gli anni Trenta del secolo scorso, perché Lev Semënovic Vygotskij fondi sulla realtà il valore dell’immaginazione e della creatività. Egli definisce immaginazione e fantasia tutto ciò che è irreale, cioè

che non si accorda con la realtà delle cose e che, perciò, non può avere alcun valore pratico. La verità è che l’immaginazione, in quanto fondamento d’ogni attività creativa si manifesta in tutti […] gli aspetti della vita culturale, rendendo possibile la creatività artistica, scientifica e tecnica. In questo senso, tutto ciò che ci circonda e che è stato creato dall’uomo […] è per intero […] un prodotto dell’immaginazione umana.48

Prosegue scrivendo che

46 Ivi. p. 63.

47 PAOLI 2015, p. 178. 48 VYGOTSKIJ 1972, p. 23.

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Ogni creazione dell’immaginazione si compone sempre di elementi presi dalla realtà e già inseriti nell’esperienza passata dell’individuo [… che] fornisce il materiale di cui si compongono le costruzioni della fantasia.49

Se le esperienze di un individuo sono ricche e varie, allora l’attività creatrice della sua immaginazione sarà più efficace; il meccanismo dell’immaginazione tende a percorrere strade già percorse, lasciandosi ispirare dall’esperienza storica e sociale altrui. Affrontando la questione dell’immaginazione creativa, Vygotskij afferma che «alla radice della creatività sta sempre un’insufficienza di adattamento, dalla quale derivano le esigenze, le tendenze o i desideri».50

Ciò si collega con il trinomio desiderio-immaginazione-magia di Freud, secondo cui «con la loro capacità di rappresentare, in modo fantastico e realistico al tempo stesso le fondamentali pulsioni che muovono l’agire umano, sembra essere il dispositivo più efficace per mostrare le potenzialità di questa triade. È indubbio che questa caratteristica conferisca al genere fiabesco la possibilità di essere una ‘spiegazione generale della vita’51»52; il desiderio muove tutti i racconti, perché alimentando l’immaginazione, attraversa l’esperienza magica e trasfigura la realtà.

Dal punto di vista psicologico, la magia è stata definita come credenza nell’efficacia di gesti, pratiche e rituali volti ad esercitare un controllo sulla natura fisica e psichica degli individui, i quali sono concentrati in maniera esclusiva sui propri bisogni e desideri:

I motivi che spingono ad esercitare la magia sono facilmente riconoscibile: sono i desideri dell’uomo […] l’uomo primitivo ha una straordinaria fiducia nel potere dei propri desideri. In fondo tutto ciò che egli realizza per via magica deve accadere soltanto perché egli lo vuole.53

In questo fenomeno è ravvisabile «una sopravvalutazione generale dei processi psichici», tanto che «il principio che regge la magia […] è quello della ‘onnipotenza

49 Ibid. 50 Ivi. p. 48.

51 CALVINO 1988, p. 19.

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dei pensieri’»54; per questo lo psicanalista Serge Tisseron definisce questa pratica

assimilazione egocentrica. Lo studioso francese si è occupato della «nascita

dell’atteggiamento immaginatorio riproponendo il concetto di ‘stato di soddisfazione allucinatorio’ delle prime esperienze del neonato, una sorta di consolazione e di appagamento dei desideri per via allucinatoria, a cui fa seguito la costruzione della cosiddetta ‘illusione di onnipotenza’, per la quale il bambino ‘è incoraggiato a credere che non solo le sue rappresentazioni corrispondono al mondo reale, ma che [egli] avrebbe anche la possibilità, immaginando le cose, di farle succedere per davvero’. E più avanti l’autore definisce l’immaginazione come potere di mettere l’immaginario, che è dell’ordine della realtà interiore, al servizio di una trasformazione dell’ambiente circostante».55

L’assimilazione egocentrica di cui parla Tisseron caratterizza anche il lavoro di un altro celebre studioso, Jean Piaget, al quale dobbiamo, tra le altre cose, un’approfondita classificazione del pensiero magico infantile. Egli ne rintraccia l’origine nella partecipazione, «ovvero nel rapporto che il pensiero primitivo percepisce fra due fenomeni, sebbene tra di essi non esista alcun legame reale; la magia sarebbe, di conseguenza, l’uso che l’individuo crede di poter fare di tali rapporti in funzione di modifica della realtà».56 Secondo Piaget la mente infantile ha caratteri magici, è animistica, simbolica e pre-scientifica e quindi in grado di riattivare lo stile cognitivo del mondo arcaico. Le sue ricerche, inoltre, hanno rilevato la centralità di questa disposizione nella mente infantile, la quale, secondo Franco Cambi, dimostrerebbe l’esistenza del bambino mago, ipotizzato dai romantici, e spiegherebbe «il fascino che la magia e il racconto magico, e quindi la fiaba, continuano ad esercitare […] sulla mente infantile e sulla personalità del bambino».57 Secondo Bettelheim il bambino proietta i propri bisogni e le proprie ansie in quel mondo magico e arcaico; «le figure della fiaba entificano questi stati mentali facendoli passare dall’inconscio al conscio. E la magia interpreta il bisogno di aiuto, di sicurezza, di potenza, di rassicurazione e di affermazione di sé».58

54 Ivi. p. 59. 55 PONTEGOBBI in TISSERON 2006, pp. 15 e 21. 56 PONTEGOBBI 2010, p. 104 57 CAMBI 2010, p. 34. 58 Ibid.

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Per quanto riguarda gli adulti è fondamentale la posizione di Jung, il quale ritiene che nella fiaba parlino gli archetipi dell’inconscio collettivo e si definiscano le figure di questo inconscio, connesse, tanto all’istinto di vita, quanto all’istinto di morte. Ecco perché anche l’adulto legge appassionatamente quella fiaba che gli parla del suo lontano mondo originario, culturale e psichico.

Anche la magia è un elemento importante dal momento che risponde a diverse esigenze, toccando corde che stanno alla base della psichicità collettiva e individuale: è strumento di potenza, è bisogno di metamorfosi ed è superamento dei limiti del reale.

Allora, nella magia della fiaba ogni lettore ritrova un elemento del proprio inconscio, ritrova aspetti (mai sopiti, mai cancellati, come rivela la storia della cultura) originari della mente, attiva processi di superamento del reale qui e ora, con i suoi limiti, con le sue povertà, ecc. e può attivare un processo capace di pensare l’ulteriore, il diverso, legittimando lo sforzo costruttivo e interpretativo della fantasia.59

Secondo Franco Cambi, le fiabe sono un alimento fondamentale per la nostra mente e la nostra immaginazione, in esse la magia diventa possibilità di un pensiero altro, perché tiene aperta la porta del possibile e del “non ancora” per nutrire la speranza.

FANTASIA E REALTÀ IN J.R.R. TOLKIEN

Nel volume Albero e foglia, edito in Italia nel 1988, è incluso il saggio Sulle

fiabe (On the fairy-stories), in cui Tolkien espone la sua idea sul ruolo che la fantasia

assume nella sua produzione, coniando il termine “sub-creazione”: «noi uomini creiamo nella misura e in modo derivato, in quanto a nostra volta siamo stati creati, e per di più a immagine e somiglianza di Dio».60 Il narratore, creando un mito e popolando il mondo di elfi, nani ed altre creature fantastiche, realizza il progetto di Dio e riflette un minuscolo frammento della sua creazione. Per Tolkien, infatti, esistono due tipi di mondi interconnessi fra loro: il mondo primario, cioè il mondo

59 Ivi. p. 35. 60 TOLKIEN 1988.

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reale, in cui viviamo la nostra quotidianità, e il mondo secondario, che abbraccia universi immaginari; la fantasia, dunque, non incarna solo la missione primaria dell’artista, ma ha, inoltre, la facoltà di conferire alla storia narrata «l’intima consistenza della realtà, che provoca o favorisce la credenza secondaria».61 Per rendere più comprensibile il ruolo della fantasia e del racconto fantastico Tolkien si serve di tre metafore: la fantasia è evasione, consolazione e ristoro. È evasione quando ci accostiamo ad essa come chi compie «un’evasione dal carcere», in senso positivo precisa l’autore, perché «chi getta come un’accusa, questa che dovrebbe essere una lode, commette un errore insincero, accomunando la santa fuga del guerriero alla diserzione del guerriero»; è consolazione, quando si parla di «trascendimento delle innumerevoli limitazioni sperimentate dagli esseri umani lungo il loro cammino; infatti le buone fiabe offrono la più grande consolazione: la possibilità di fuggire dalla morte». Nei racconti fiabeschi sono presenti le risposte alle aspirazioni profonde dell’anima umana, che sono soddisfatte dalle «buone storie». È ristoro quando la fantasia ci permette di ritrovare «una visione chiara della realtà», per «vedere le cose come siamo destinati a vederle».

Al vertice dell’impalcatura creativa di Tolkien c’è quello che l’autore definisce «il dono più bello che uno scrittore possa mettere nelle mani del suo lettore:

l’Eu-catastrofe, la consolazione del lieto fine, l’improvviso capovolgimento gioioso».62 Il racconto eu-catastrofico è la vera essenza delle fiabe e la loro funzione più elevata, coincide con il lieto fine, ma è distinto dall’idea del finale perfetto. Esso deve condurre ad una conclusione finale che sia coerente con le condizioni poste dalla trama della storia. La svolta gioiosa degli eventi, che si verifica quando tutte le speranze sembrano essere svanite, è in grado di provocare la commozione del lettore solo quando la sua intima esperienza di vita incontra un racconto emozionante (l’Evangelium), perché «permette una fugace visione della gioia al di là delle mura del mondo, acuta come un dolore».

Quelle fiabe non sono filastrocche per bambini, ma contengono una guarigione poetica di molte realtà elementari, sia umane che cosmiche intimamente connesse con i profondi desideri umani.63

61 Ibid. 62 Ibid. 63 Ibid.

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Infatti, secondo Tolkien la fantasia è un’attività umana naturale, che non si contrappone alla razionalità e alla scienza, ma piuttosto «più acuta e chiara è la ragione, e migliori fantasie produrrà».64

Verlyn Flieger una studiosa americana specialista in mitologia comparata, si è occupata a lungo dell’opera di Tolkien ed ha riconosciuto all’autore il merito di aver dato una definizione della propria fantasia, piuttosto che della fantasia in generale. Alla base dell’immaginazione fantastica dell’autore ci sono i concetti di sub-creazione, mondo secondario e intima consistenza della realtà; tuttavia, secondo la Flieger, è fondamentale ricondurre tali concetti ai loro corrispettivi, ossia alla creazione primaria, al mondo reale e alla realtà esterna, la cui consistenza è il tratto distintivo. Alla luce del «paese delle meraviglie» di Carroll, Tolkien ritiene che la fantasia sia un’attività razionale che si modella a partire dal mondo primario e dalla realtà:

Probabilmente […] ogni subcreatore desidera in qualche misura essere un vero creatore, o spera di tracciare un disegno sulla realtà: spera che le peculiari qualità di questo mondo secondario, [la Terra di Mezzo], siano derivate dalla realtà […].

La particolare qualità della “gioia” nella Fantasia ben riuscita può quindi essere spiegata come un improvviso rivolgere lo sguardo alla realtà o verità sottesa.65

Se lo scrittore è un artigiano onesto, sarà arduo il riconoscimento della verità nascosta, perché ci sono alcune realtà sottostanti tutt’altro che gioiose, ma, dal momento che il mondo secondario riflette il mondo primario, è necessario riconoscerle.

Per Tolkien la fantasia ci permette di fuggire in un mondo che non è il nostro, altrimenti non la chiameremmo tale. La stranezza che si presenta alla nostra immaginazione ci fa desiderare la fuga, che non è altro che la ragione per cui leggiamo il fantastico. L’abilità del creatore del mondo secondario si manifesta nel mantenere l’equilibrio fra fantasia e realtà: conduce alla fuga e allo stesso tempo alla verità sottostante.

64 Ibid.

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Il fantastico in Tolkien è al tempo stesso attraente e potente non a causa della sua fantasia, ma della sua realtà, perché il suo mondo ci mostra che le cose stanno “così” nel nostro stesso mondo.66

Flieger, infatti, sostiene che, alla luce della lunghezza del racconto di Tolkien, gli elementi magici e fantastici non siano molti, anzi, la maggior parte sono facilmente riconducibili alla realtà; gli elfi e gli orchi, per esempio, sono creature indubbiamente fantastiche, tuttavia si allontanano dalle tradizionali descrizioni fiabesche e, nell’immaginario tolkeniano, assumono tratti sempre più umani: così come gli elfi sono lo specchio della parte più nobile e migliore degli uomini, allo stesso tempo gli orchi mostrano il nostro lato più deprecabile.

Il pane elfico è un altro elemento che ad una prima interpretazione potrebbe sembrarci fantastico, ma in realtà non lo è; il fatto che «un morso [tenga] un viaggiatore sulle sue gambe per una giornata di lunga fatica» è indubbiamente un’immagine iperbolica, ma oltre a questo non sembra una caratteristica in grado di renderlo eccezionale, dal momento che è comune a qualsiasi tipo di pane. Inoltre, della corda elfica, calata da Sam giù dalla roccia di fronte a Frodo, si dice:

L’oscurità sembrò levarsi dagli occhi di Frodo, oppure la sua vista stava ritornando. Poteva vedere la grigia linea mentre arrivava calando, e pensò che avesse un vago splendore argenteo.67

La corda in sé non è altro che una normale corda, ma il lettore può leggerci una delle possibilità elencate dall’autore, sebbene egli non conferisca alcuna caratteristica soprannaturale a quest’ultima.

Infine Flieger si occupa dell’analisi dell’artefatto magico che dà il titolo all’intera opera: l’anello. La funzione primaria di quest’ultimo, intorno alla quale ruota l’intera storia, ossia la capacità di comandare obbedienza, di conferire potere assoluto, di comandare gli eserciti e influenzare le guerre, è proprio ciò che non vediamo fare mai all’anello, se non al momento della sua distruzione. Vediamo piuttosto la sua capacità di far sparire le persone, evidente ne Lo Hobbit, ma sempre più labile nel

66 FLIEGER 1947. 67 TOLKIEN 1955.

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Signore degli anelli, perché progressivamente diventa «la metafora di uno stato

psicologico ed erosione dell’essere morale e spirituale»; la funzione secondaria, ma più evidente dell’anello, è la perversione morale.

Dunque, il genio di Tolkien sta nell’aver convinto il lettore del potere primario dell’anello senza mai mostrarlo veramente. Ciò che viene reso visibile è invece la reazione dei personaggi quando lo desiderano o ne entrano in possesso.

GIANNI RODARI E IL MITO DELL’INFANZIA

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Dopo aver preso in considerazione diversi punti di vista, è giunto il momento di passare la parola a coloro che, grazie alla loro vicinanza-distanza rispetto alla pedagogia, hanno guardato al mondo infantile con uno sguardo nuovo ed inedito. Le ricerche di Collodi, De Amicis e Rodari sono state mosse dalla simpatia verso il mondo infantile, che, connessa al loro ruolo di letterati ed educatori, ha prodotto tre prospettive interpretative dell’infanzia, volte a sottolineare la radicale alterità di quest’ultima, la sua specificità antropologica e il suo ruolo inquietante all’interno di ogni vita. Collodi ha guardato alle antinomie dell’infanzia e l’ha interpretata come “tragedia”, De Amicis, invece, ha colto il nesso che lega l’infanzia e la società ed ha interpretato la fanciullezza come strutturata dall’ideologia, anche se poi ha definito quest’ultima nella sua specificità, come “cuore”, cioè bontà, fraternità e uguaglianza; infine, Rodari ha letto l’infanzia come un’età creativa, dotata di propri valori anche etico-politici, connessi all’uguaglianza-giustizia e quindi rivolti a promuovere una nuova realtà antropologica ed una nuova convivenza sociale. Tra le tre letture si è scelto di soffermarsi su quella di Gianni Rodari, dal momento che all’interno delle sue ricerche la creatività assume un ruolo centrale.

Gianni Rodari è stato una personalità poliedrica: poeta, scrittore per l’infanzia, giornalista, e ancora, educatore, pedagogista, teorico della fantasia, ma soprattutto, secondo Franco Cambi, un intellettuale sui generis, perché ha «assunto una certa funzione di guida spirituale nella società moderna» ed ha rappresentato «la voce

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della ragione, dell’illuminismo, e della critica sociale, assumendo così «la funzione essenziale di criticare i poteri esistenti, in vista di un determinato valore di umanità che ha sostituito progressivamente gli antichi valori trascendenti».69 Lo scrittore piemontese è stato, inoltre, un intellettuale marxista, legato alla tradizione gramsciana, che interpreta in termini nuovi il ruolo dell’intellettuale: Rodari ha visto il suo status come quello di un «intellettuale organico»;

[Cioè] integrato all’interno della classe storicamente in ascesa e proiettata a realizzare un incremento della ragione dentro la società […] ed in essa operante per costruire l’egemonia, che passa, prima che attraverso lo scontro e la vittoria politica, attraverso la cultura, le idee e la «coscienza di classe.70

In questa prospettiva, il ruolo dell’intellettuale è soggetto a radicali cambiamenti, poiché, colui che si definisce tale, non è più semplice educatore, bensì ideologo critico e politico che, inserito nel partito del proletariato, non è solo un portavoce, ma un militante cosciente del travaglio politico a cui è sottoposto.

Rodari, quindi, va riconosciuto come un intellettuale di tipo gramsciano, intriso di “marxismo occidentale”, inserito dialetticamente nella cultura del “partito”, quindi come una figura di intellettuale organico e critico ad un tempo […], caratterizzato da una fedeltà profonda alla propria «scelta ideologica», ma anche da una sensibile libertà di ricerca.71

L’esperienza della Resistenza si salda in Rodari alla scelta comunista, che considera il «partito dei lavoratori» il vero rappresentante di quei valori che lui stesso ritiene fondamentali: il riscatto umano e l’emancipazione sociale e politica delle masse. Da quel momento Rodari, pur essendo un intellettuale «di partito», sarà molto ricettivo al nuovo, ai mutamenti della società e della cultura, senza perdere di vista i valori antropologici universali e l’impegno al servizio dell’uomo.

Nel corso degli anni Sessanta, la base gramsciana di Rodari si salda a nuove istanze teoriche:

69 KÖNIG 1964, p. 183-184. 70 CAMBI 1985, p. 119-120. 71 Ibid.

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Al tronco di una solida e sicura formazione politica di natura marxista va ad innestarsi una vivace e intelligente attenzione alla cultura nuova che a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta fa conoscere in Italia i termini più recenti della ricerca nel campo delle scienze linguistiche e delle comunicazioni di massa, della psicologia e psicanalisi, dell’antropologia.72

Nel Rodari maturo emerge un’urgenza culturale che ha un preciso peso politico. In primo luogo è evidente l’esigenza di dialogo (del tutto estranea al marxismo di lotta tipico della Resistenza) e di appello a tutti gli uomini, affinché si avvii una lotta all’alienazione e all’ingiustizia, e un richiamo al valore dell’utopia fondamentale per non perdere di vista il senso profondo della realtà stessa. All’interno del rinnovamento della teoria marxista, Rodari introduce il tema già romantico della creatività e della divergenza, guardando ad una teoria della mente, che ruoti intorno alla «fantasia», la quale diventerà il tema fondamentale delle ricerche del decennio successivo. Parallelamente, sul piano della teoria generale, pone l’accento sull’utopia, ossia sulla necessità di pensare il diverso, per comprendere realmente il presente e per agire in esso in modo autenticamente dialettico.

Questo marxismo rodariano trova la sua esplicitazione più complessa e adeguata nell’ambito della riflessione pedagogica che ha accompagnato costantemente, ma più sensibilmente negli ultimi decenni, il suo lavoro creativo, poetico e letterario. Esiste, infatti, una pedagogia di Rodari e quindi un suo ruolo non marginale all’interno della tradizione pedagogica marxista, in particolare italiana, ovvero «una pedagogia intrecciata con i dibattiti teorico-educativi contemporanei, consapevole della complessa «dialettica» che viene a costituire l’educazione […] attenta al potenziamento della libertà e dell’emancipazione».73 Si tratta, dunque, di una pedagogia politica, ma non ideologica, che trova il proprio fulcro nel problema della creatività.

L’«immagine d’infanzia», che egli ci ha consegnato attraverso i suoi scritti creativi o di teorico della letteratura per l’infanzia, si colloca tra creatività e impegno, tra fantasia ed emancipazione e ci offre un modello dialettico per interpretare la profondità della vita infantile, consegnando alla pedagogia e all’antropologia un nuovo strumento per comprendere l’uomo. Il fanciullo rodariano si alterna tra gioco

72 DE LUCA 1982, p. XVI. 73 CAMBI 1985, p. 125.

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ed impegno, vive una complessa dialettica tra questi momenti, che lo spinge da un lato verso la fruizione, la liberazione fantastica, il godimento della creatività, dall’altro verso un preciso sentimento etico-sociale, fondato sull’uguaglianza, sulla giustizia e sul desiderio di emancipazione. Ma se il primo aspetto è del tutto spontaneo nel bambino, il secondo si plasma attraverso il contatto sociale, la partecipazione e la solidarietà, che si sviluppano all’interno di un gruppo sociale democratico e implicano un’opera di educazione e la nascita di una coscienza politica. Sebbene gioco ed impegno sembrino inconciliabili, fra loro si rintracciano un legame, poiché «la mente liberata e divergente risulta capace di decollare rispetto all’ideologia e di avvertire, attraverso il gioco, i principi della solidarietà e dell’uguaglianza. Così, tra fantasia e coscienza etico-sociale esiste una simmetria profonda e un’integrazione.

L’atteggiamento di Rodari nei confronti dell’infanzia si colloca a metà fra rispetto e storicizzazione; tuttavia non c’è oscillazione fra i due poli, ma un collegamento dialettico:

Ogni fanciullo reale, storico è, prima di tutto, un fanciullo e porta in sé un patrimonio di esperienze che gli sono tipiche e che risultano comuni ad ogni soggetto della specie, specialmente ad un certo livello di evoluzione culturale. Il «bambino del bambino», come egli lo chiama, è, già in sé, una struttura dialettica, un intreccio, complesso ma non confuso, di alcuni caratteri stabili, se pure differenziati tra loro.74

Le peculiarità del bambino si formano intorno al binomio gioco-creatività e impegno etico sociale, attraverso il quale il fanciullo sviluppa un’intensa dialettica interiore fra liberazione e socializzazione, come prototipo dell’«uomo nuovo» ipotizzato da Rodari, che vuole rivedere il proprio modo di essere e quindi di esistere, di lavorare e di agire. Alla base di questo cambiamento c’è la saldatura fra gioco, coscienza etica e utopia presente nel bambino, e quindi nell’uomo del futuro. L’infanzia diventa terreno per comprendere e sperimentare la nascita di quell’«uomo nuovo», che non decolla soltanto attraverso i meccanismi economici o le proposte rivoluzionarie. In

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