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Capitolo I Eziologia del dialogo interreligioso 1.1 Contesto sociale multiculturale.

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Capitolo I

Eziologia del dialogo interreligioso

1.1 Contesto sociale multiculturale.

Viviamo in una società multiculturale, multietnica e multi - religiosa: si tratta di una realtà di fatto con cui si deve inevitabilmente fare i conti1, anche se questa condizione è ancora talvolta presentata come novità assoluta degli ultimi decenni, come una sorta di questione di emergenza, su cui sono state costruite politiche di sicurezza, campagne mediatiche di strumentalizzazione, riferimenti culturali e sociali all'insegna della paura e del pericolo.

I fattori che hanno determinato questa situazione sono certamente diversi, e vanno dall'imposizione di un'economia globale allo sviluppo delle tecnologie, dall'evoluzione dei mass media all'aumento esponenziale del fenomeno dell'immigrazione.

Per quanto riguarda l'ultimo fattore elencato, è importante sottolineare che tale fenomeno interessava già il nostro paese, come altri, costituendo le migrazioni un dato costante dell'identità, non solo italiana, ma più in generale europea2. In tal senso, si tratta di recuperare memoria storica, a partire dalla quale poter auspicabilmente cercare di comprendere le ragioni profonde di tale fenomeno, per meglio gestirne le problematiche connesse.

1 P. Consorti, Pluralismo religioso: reazione giuridica multiculturalista e

proposta interculturale, in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”

(rivista telematica www.statoechiese.it), 2007, p. 1.

2 P. Consorti, Conflitti, mediazione e diritto interculturale, Pisa University Press, Pisa, 2013, p. 25.

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La recente cronaca quotidiana ci fa sempre più conoscere la realtà tragica dell'immigrazione: il Mediterraneo si è trasformato in una distesa di corpi di uomini e donne che guardano all'Europa “come un approdo salvifico in termini di qualità di vita o di occasione di impiego”3. Molti di loro sono morti, nella consapevolezza di rischiare la propria vita, con la speranza di fuggire dalla fame, dalla guerra, dalla totale assenza di garanzie dei diritti fondamentali nei loro paesi di provenienza. Chi è riuscito ad arrivare e chi anche oggi arriva e resta nel nostro Paese porta con sé un bagaglio interiore complesso e vario, composto da una serie di libertà, proprie di ogni uomo.

Tra queste certamente rientra la libertà di religione e di culto, uno dei diritti primari e inviolabili dell'uomo. La nostra Costituzione la sancisce all'articolo 19, tra i principi fondanti dell'ordinamento: “Tutti4 hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”, da leggere in coordinamento con l'articolo 2, a garanzia dello sviluppo della personalità del singolo, dal momento che l'esperienza di fede fa parte del processo di crescita dell'uomo5. La sua attuazione si coniuga, allo stesso tempo, con il disposto dell'articolo 3 che pone la condizione di uguaglianza sostanziale, 3 B. Salvarani, Vocabolario minimo del dialogo interreligioso, EDB, Bologna, 2008, p. 11.

4 Si presti attenzione alla terminologia utilizzata dai padri costituenti: non si limita questo diritto ai cittadini, ma a “Tutti”, cioè ad ogni uomo, cittadino o meno che sia.

5 Sui concetti di libertà religiosa e di laicità si ritornerà più avanti, qui ci si limita a precisare l'importanza del fatto che oggetto della tutela costituzionale è il diritto di esprimere atteggiamenti consoni alla propria coscienza, che sia religiosa, areligiosa o irreligiosa, e di comportarsi conseguentemente a ciò (libertà da e libertà di).

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riconoscendo la pari dignità sociale e l'uguaglianza davanti alla legge, “senza distinzioni di religione, sesso, razza, lingua, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”.

L'esercizio del diritto di libertà religiosa permea così profondamente la trama sociale da incidere sul concetto identitario del corpo sociale, i cui confini tradizionali vengono trasformati anche dallo sviluppo del pluralismo religioso. L'intera società attuale deve fare i conti con l'esperienza religiosa di intere comunità o di singoli gruppi, non potendo più considerarla una dimensione relegabile al privato della coscienza dei fedeli. Lo Stato non può restare indifferente alle convinzioni di fede, ai credo dei suoi cittadini, e le scelte che in tale ambito è chiamato ad operare rivestono un particolare valore sia per la garanzia che deve essere offerta concretamente nell'attuazione della libertà di religione e di culto, sia per i delicati aspetti collegati alla gestione del fenomeno migratorio.

Il Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione (Ministero dell'Interno), attraverso il lavoro della Direzione Centrale degli affari dei culti, ha seguito la dinamica delle nuove presenze religiose manifestatesi sul territorio nazionale, anche in concomitanza con l'intensificarsi del fenomeno migratorio che ha caratterizzato l'ultimo ventennio6. Fin dal 1995 la Direzione ha costituito un Osservatorio per raccogliere annualmente le risultanze delle analisi svolte dalle Prefetture sui territori di competenza, per il tramite dei Consigli territoriali per l'immigrazione. Dall'inizio del 2011 si è messa in 6 Religioni, dialogo, integrazione. Vademecum a cura del Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione, Direzione Centrale degli Affari di Culto, Ministero dell'Interno, 2013. Sulla ripartizione di competenze in materia di libertà religiosa si tornerà più avanti.

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evidenza una considerevole presenza di enti religiosi, circa 3.300, operanti sia come associazioni di fatto che come enti di culto dotati di propria personalità giuridica ed afferenti alle confessioni religiose maggiormente rappresentative (ebraica, protestante - tra cui sono compresi valdesi, Assemblee di Dio in Italia, avventisti, battisti, luterani, ecc. - ortodossa, islamica, buddhista, induista, sikh, baha'i, confessioni dei mormoni e Testimoni di Geova). La rilevazione compiuta ha evidenziato un incremento degli enti di culto diversi dal cattolico, che appare tanto più consistente ove si osservi che nel 1997 ne risultavano presenti non più di 500.

La pluralità di presenze religiose, collegata ai diversi gruppi etnici, ha disegnato uno scenario estremamente differenziato, che conferma come l'Italia sia diventata, in modo strutturale, un paese multiculturale, multietnico e multi-religioso.

Si riportano di seguito i risultati della stima per il 2011.

“Stima appartenenze religiose degli immigrati regolarmente presenti sul territorio italiano (31.12.2011)”

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Cristiani 2.702.000 53,9 Induisti 131.000 2,6 *Ortodos si 1.483.000 29,6 Buddhisti 97.000 1,9 *Cattolic i

960.000 19,2 Altre trad. religiose orientali 69.000 1,4 *Protesta nti 223.000 4,4 Religioni tradizionali 51.000 1 Altri Cristiani 36.000 0,7 Atei / Agnostici 215.000 4,3 Musulma ni 1.651.000 32,9 Altri 88.000 1,9

Ebrei 7.000 0,1 Totale (stima) 5.011.000 100,00

FONTE: Centro Studi e Ricerche IDOS. Elaborazioni su fonti varie

La stima riguarda i solo immigrati regolari, per la necessità di disporre di informazioni certe circa la loro provenienza nazionale.

I paesi di origine più rappresentati in ciascuno dei gruppi religiosi considerati sono:

• Romania, Ucraina, Moldavia, Macedonia e Albania tra gli ortodossi

• Filippine, Polonia, Ecuador, Perù, Albania, Romania, Macedonia, Brasile, Francia, Repubblica Dominicana, Croazia e Colombia tra i cattolici

• Romania, Germania, Regno Unito, Ghana, Nigeria, Perù, 5

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Filippine e Brasile tra i protestanti

• Marocco, Albania, Tunisia, Senegal, Pakistan, Bangladesh, Macedonia, Algeria, Kosovo tra i musulmani.

La difficoltà di quantificare con precisione è legata anche al fatto che c'è in tutta Europa, ma anche in Italia, una vasta area della “credenza senza appartenenza (believing without belonging, secondo la formula di Grace Davie)”, ovvero la fiducia crescente in una qualche entità trascendente, abbinata però a una sfiducia assoluta nei confronti delle varie istituzioni7, per cui risulta molto difficile individuare indicatori di appartenenza omogenei per ciascuna delle religioni presenti in Italia.

Il panorama multi–religioso, che si è venuto progressivamente accentuando in Italia a seguito dell'immigrazione, è lo specchio dello spiccato policentrismo che caratterizza le origini nazionali dei migranti presenti, i quali provengono da pressoché tutti i paesi del mondo. Il presente studio mette in risalto come, data la particolare visibilità nello spazio pubblico (e la particolare esposizione mediatica) dell'islam e il vivace dibattito che si accende intorno al progressivo insediamento di comunità musulmane in Italia, dalla metà del XX secolo si siano gradualmente inserite nel cuore dell'Europa, con numeri sempre più rilevanti a seguito delle migrazioni di massa. Nonostante una tale “anzianità migratoria” e la numerosità dei suoi fedeli e dei suoi luoghi di culto, si riscontra ciclicamente una forte avversione popolare e politica, con tratti discriminatori.

7 Cfr. Salvarani, p. 10.

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Focalizzando l'attenzione sul contesto comunitario, si stima una significativa presenza musulmana sull'intero territorio dell'Unione e, in particolare, nei grandi paesi di immigrazione:

• circa 4,1 milioni in Germania (numero che si avvicina ai 4,4 milioni degli USA)

• 3,9 milioni in Francia • 1,7 milioni nel Regno Unito

In Italia, tra i circa 5 milioni di immigrati regolari i musulmani incidono per circa un terzo (1.651.000). Considerando congiuntamente l'intero universo cristiano (cattolici, ortodossi, evangelici e altri gruppi) rappresentano, quindi, la seconda collettività religiosa nel paese, con una consistenza che si è andata rafforzando innanzitutto con l'aumentare dell'immigrazione.

Di seguito si riportano mappe relative alla distribuzione delle diverse comunità religiose sul territorio italiano.

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FONTE: Le religioni nell'Italia che cambia, Pace E., pp. 13 ss.

Il pluralismo culturale, etico e religioso nel quale ci troviamo a vivere pone a contatto con elementi di diversità che costituiscono spesso una fonte di conflitto, nella fattispecie di conflitti identitari. Contrariamente a quanto si possa percepire superficialmente, il conflitto non 19

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costituisce esclusivamente un male da prevenire e combattere, quanto un'opportunità di crescita.

Il conflitto è una dimensione ineliminabile, un elemento fisiologico della vita sociale, rispetto al quale è necessario eseguire un'opera di prevenzione della violenza. Tratto comune di ogni conflitto è la contraddizione tra due punti di vista, entrambi riconoscibili come veri. Il nodo della questione non consiste semplicemente nel combattere la posizione di chi esprime un'impostazione diversa dalla propria, ma nel saper mettere in relazione i due punti di vista attraverso la logica della comunicazione8, in modo da trovare soluzioni in grado di soddisfare le ragioni di tutti.

L'esperienza migratoria può essere letta come un'opportunità per riconoscere e valorizzare le diverse appartenenze religiose come forza di pace.

Per descrivere la dimensione del conflitto si può efficacemente ricorrere alla metafora dell'iceberg9: il ghiaccio visibile è solo la parte finale di un'enorme massa sommersa sotto l'acqua. Per analizzare il conflitto è necessario scoprire “cosa c'è sotto”, prenderne consapevolezza e conoscenza. Quest'opera di immersione pone in evidenza una progressiva estensione dello sviluppo dei conflitti sociali di carattere etnico, culturale o religioso, riconducibili specialmente ai fenomeni migratori. Con le migrazioni nascono nuove identità: le identità religiose e culturali non sono dati puri, ma il frutto di relazioni e dell'intreccio di popoli. La ricerca di definizioni identitarie esaustive si risolve nel collocare le persone dentro schemi prefissati, cosicché 8 Sul ruolo della comunicazione interculturale si tornerà al paragrafo 1.5. 9 Cfr. Consorti, Conflitti, mediazione e diritto interculturale, p. 11.

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l'idea di un'identità unica e immutabile è diventata fonte di violenza. L'Italia è un buon esempio di questo complesso processo in atto: gli stranieri sono ormai presenze costanti, individui che cercano uno spazio per sé e per le proprie famiglie. Sia le grandi città che i piccoli centri hanno cambiato fisionomia: fioriscono i quartieri multietnici e cresce la seconda generazione (i figli nati in Italia da genitori stranieri). Si deve riscontrare, però, come si stia assistendo nel nostro Paese, così come nel resto d'Europa, a un cambiamento di attitudine verso il diverso, nonostante la millenaria propensione europea verso altri mondi. Lo straniero, Alter, è diventato fonte di disagio e malessere, paura, sospetto e diffidenza. “Compare all'improvviso, incomprensibile nella sua lingua, con un diverso concetto di educazione, nel cliché spesso sporco, denutrito, senza istruzione, senza un'identità sicura, senza documenti, senza un permesso formale, senza sapere come mantenersi, senza tanta voglia di assimilarsi e lavorare sodo. Per di più non viene da solo, porta pure la sua famiglia, diffonde subdolamente una religione fondamentalista, sostiene il terrorismo, progetta inconsciamente la distruzione della cultura, la frammentazione di ciò che è sempre stato e sempre dovrebbe essere.”10 Questi sono alcuni degli stereotipi e dei pregiudizi che si riscontrano nell'affrontare tale tipo di conflitti. Il molteplice viene valutato negativamente, in nome di un'unità identitaria, asserita come valore incondizionato supremo. Le semplificazioni portano, così, a sclerotizzare le impressioni, scelta certamente meno dispendiosa e faticosa rispetto a quella di analizzare la parte non visibile del conflitto. L'altro finisce per apparire come un nemico, un “intruso autoinvitato che senza scrupoli mina una presunta 10 S. Gianfaldoni, In-contri. Percorsi possibili di comunicazione

interculturale e dialogo interreligioso, Tipografia Editrice Pisana, Pisa, 2010,

p. 30.

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integrità e uniformità, capace di cambiare vecchi quadri di riferimento e destrutturare rassicuranti orizzonti valoriali, ma anche interi sistemi di significato dati a lungo per certi”11. E' questa la logica vinci – perdi / torto – ragione, con cui si tende a risolvere la contraddizione tra le differenti posizioni in conflitto.

All'affermazione di tale logica ha contribuito la corrente di pensiero riconducibile alla teoria dello “scontro di civiltà – clash of civilizations” di Samuel P. Huntington, secondo cui, finita la contrapposizione USA – URSS e terminato il dominio della sovranità statale, le guerre non sarebbero più state combattute dagli Stati, ma dalle maggiori aree culturali in cui l'autore immaginava diviso il mondo, in particolare tra le culture non occidentali, quella islamica e slavo – ortodossa, contro quella occidentale. Nonostante la profezia dello scontro tra civiltà, immaginata per il 2010, non si sia avverata è risultata vincente la preoccupazione per un'avanzata anti-occidentale dell'islamismo come “clash of civilizations” per eccellenza. Questa visione non ammette la declinazione in modo pluralistico delle civiltà considerate, ma dipinge un Occidente e un Oriente come poli inconciliabilmente opposti. Come detto più volte, la società multiculturale è una realtà di fatto, da cui non si può prescindere: esistono identità plurali e meticce, prodotte da incontri e scontri che, a loro volta, hanno generato identità complesse difficilmente catalogabili in schemi prefissati.

Si può cominciare a comprendere come dato ineliminabile di tale tipo di conflitti sia la complessità. Il pericolo di aderire ad una visione conservativa e difensiva è l'irrigidimento delle posizioni, il rischio di cadere in visioni razziste e discriminanti, e di percepire come un 11 Cfr. Gianfaldoni, p. 51.

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disvalore la differenza. Il dato della complessità aiuta a considerare che Alter non è necessariamente un selvaggio primitivo, incomprensibile e problematico, ma è “come me” e contemporaneamente “diverso da me”12, che più che essere tollerato (concetto che solo apparentemente indica un'accettazione, ma richiama alla presenza di Alter come peso da sopportare), è necessario rispettarlo13, attraverso un lavoro di educazione verso l'altro.

Nel campo dei conflitti culturali e religiosi si pone l'obiettivo di gestione più che di soluzione degli stessi. Esplorando la parte non visibile, in relazione a quella percepibile, si trasforma il conflitto in un luogo di incontro, capace di alimentare un dialogo. Il presupposto da cui partire è sorprendentemente l'assunto che hanno ragione tutte le parti: si tratta di abbandonare definitivamente la logica vinci / perdi, torto / ragione per accogliere l'idea dell'incontro (in – contra: relazione), piuttosto che quella dello scontro (ex – contra: opposizione, rifiuto). Lo scopo è privare questi conflitti della loro carica violenta e distruttiva ed esplorare le prospettive possibili fra mondi diversi, come strumenti di comprensione e avvicinamento. Non c'è la pretesa esclusivista di eliminare i punti di vista né di annullare le particolarità. E' un venir fuori, che implica una riflessione seria sulle proprie posizioni, a favore di un processo di identificazione: l'incontro e il dialogo con l'altro permettono di conoscersi e riconoscersi sia come individui che come collettività in cui si vive.

12 Cfr. Gianfaldoni, p. 43.

13 Non si tratta di un concetto di buonismo paternalistico, ma dell'atteggiamento costruttivo e dell'apertura verso l'altro, concetti facilmente riconducibili agli articoli 2 e 3 della nostra carta costituzionale.

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1.2. Ruolo del diritto e nella fattispecie del diritto

ecclesiastico nel contesto multiculturale.

Introdotto il contesto sociale in cui il mondo globalizzato si trova a vivere, ci si può porre l'interrogativo su quale ruolo abbia in esso il diritto e, di conseguenza, quello del giurista.

Il diritto ragiona in termini prevalentemente imperativi e coercitivi: per questo i conflitti che nascono e si alimentano dalla coesistenza di società plurali appaiono spesso impermeabili alle sue dinamiche interne. Inoltre il settore giuridico si presenta con forte ritardo rispetto alle altre scienze sociali, stretto nel proprio carattere prescrittivo. Ma accanto al diritto propriamente formale, c'è anche quello materiale, frutto di legami relazionali, come avviene, appunto, nelle comunità sociali caratterizzate da un'appartenenza culturale o religiosa14.

La contrapposizione identitaria (diversità) crea nel mondo del diritto e nei suoi operatori un fraintendimento, definibile choc giuridico15. Nel caso in cui, ad esempio, il marito musulmano pretendesse di educare la figlia secondo la propria religione, mentre la moglie cattolica vorrebbe educarla secondo la propria fede, il diritto offrirebbe la soluzione in grado di definire i termini giuridici della questione, ma non adatta ad intervenire nel merito del conflitto. Il giudice imporrebbe ai genitori di trovare un accordo nell'interesse del minore, ma di fatto i genitori continuerebbero a discutere, sostenendo le proprie ragioni, proponendo 14 E' questa la premessa che Consorti ritiene necessaria per spiegare il nesso fra conflitti e diritto in Conflitti, mediazione, diritto interculturale, Pisa University Press, Pisa, 2013, p. 9.

15 Cfr. Consorti, Conflitti, mediazione, diritto interculturale, p. 18.

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l'una e l'altra educazione religiosa come la migliore per l'interesse della figlia. La soluzione giuridica non è efficace perché “non esplora la parte sommersa dell'iceberg”: il diritto finisce così per mostrarsi come fenomeno prevalentemente istituzionale, lontano dalla vita sociale. Si definisce una frattura tra le leggi, che si limitano ad esprimere il potere che le impone, e gli operatori giuridici che hanno il compito di interpretarle e applicarle, in modo da rispondere alle domande provenienti dalla società multiculturale. L'ordinamento giuridico propone regole che devono rispondere ad istanze plurali che spesso si adattano male alle esigenze espresse da singoli gruppi o singole persone, ma è incapace di tutelarne le diversità (nonostante la distinzione fra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale). Il carattere rigido del diritto di fronte ad adattamenti imposti dall'evoluzione sociale rileva una certa resistenza ad entrare nel vivo dei meccanismi proposti dalle società multiculturali.

Regole, concetti, significati che sembravano chiari ed univoci perdono valore davanti alla realtà plurale e multiculturale. Si ricorre allo schema conflittuale del “noi” contrapposto al “voi”, a consolidazione della percezione dell'altro come qualcosa di diverso, lontano, estraneo e, dunque, pericoloso. Questa percezione delle persone e dei gruppi come soggettività contrapposte è frutto di una cultura giuridica che configura il sistema di regolamentazione dei diritti in chiave di liti fra le parti, a garanzia di una convivenza sicura e ordinata. Lo choc giuridico impedisce di usare con efficacia il diritto nei conflitti culturali perché al giurista mancano gli strumenti per indagare la parte sommersa dell'iceberg: vede la punta attraverso le regole astratte e generali che ha a disposizione, ma il conflitto resta. Quindi questo estraniamento del giurista davanti ai conflitti culturali ha il duplice significato di un diritto che resta estraneo e che diventa altro da sé.

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Le identità plurali possono essere comprese e apprezzate con la logica del decentramento, espressione tecnica che indica la presa di coscienza dei propri valori, comportamenti e pensieri attraverso il confronto con quelli degli altri, non a partire dalla valorizzazione dei propri, ma verificandoli nello specchio dell'altro; emergono, così, le identità. Nel caso dei conflitti culturali “hanno ragione tutti”. A tal proposito è importante la comprensione dell'altro come chiave che apre la porta del dialogo, affinché si possa convivere senza necessariamente ricorrere alla violenza.

Lo scambio interculturale e interreligioso fra “noi” e Alter è prima di tutto uno scambio tra persone, tra individui, tra culture vive. Per quanto possa apparire una riflessione banale, è errore concreto quello di idealizzare l'incontro tra religioni ad un livello puramente astratto e metafisico16.

Ecco, dunque, che viene in rilievo il ruolo del diritto ecclesiastico. “L'ecclesiasticista dispone di strumenti che gli consentono di assumere tali problemi odierni nella logica della garanzia dei diritti di libertà. E ha quindi la responsabilità di valutare il comportamento del legislatore e, più in generale, di chi produce diritto, verificando se è rispettato il principio di laicità (..). Garantire la sicurezza dei cittadini è importante. Ma perché sia garantita effettivamente bisogna intraprendere uno sforzo culturale e operativo di natura laica; nella consapevolezza che la sicurezza è principalmente frutto di giustizia e garanzia dei diritti umani, prima che conseguenza di politiche di ordine pubblico e decoro

16 Cfr. Salvarani, p. 53.

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urbano”17.

L'impostazione che si adotta in questa trattazione è propria del diritto interculturale, che non si interessa esclusivamente delle differenze religiose, ma che guarda anche a quelle culturali, radicate nella dimensione religiosa/spirituale. Esso si sostiene sulla prassi del decentramento: “comprendere le differenze permette di conoscere meglio se stessi, aiuta ad analizzare le pulsioni conflittuali e a trasformarle in un'energia positiva che esclude il ricorso alla violenza e (..) costituisce un risultato positivo”18. E' inoltre “capace di elaborare un vocabolario – le parole, le categorie, i concetti19 – per poter superare le barriere della differenza culturale e supportare i processi di integrazione propri appunto di una democrazia cosmopolita”20.

Infine, un contributo essenziale è fornito anche dal diritto comparato delle religioni in relazione alle “dinamiche interne delle società complesse, nelle soluzioni da suggerire dinnanzi ai problemi derivanti dall'accentuato policentrismo etico e morale”21. Una società religiosamente plurale pone la questione di assicurare ai soggetti portatori di queste identità adeguati spazi di autonomia e strutture di organizzazione, senza però innescare un processo di frammentazione che vanifichi ogni possibilità di dialogo e di convivenza tra i soggetti collettivi che esprimono identità differenti e senza schiacciare i diritti individuali sotto il peso dei diritti collettivi o di gruppo”. Un risultato di questo tipo è raggiungibile attraverso “un complesso meccanismo di bilanciamenti e accomodamenti che richiede non soltanto la 17 P. Consorti in Diritto e religione, Laterza, Roma, 2010, p. 185.

18 Cfr. Consorti, Conflitti, mediazione e diritto interculturale, p. 178. 19 Tali concetti sono analizzati al paragrafo seguente 1.3.

20 Così S. Ferrari in Introduzione al diritto comparato delle religioni, Il Mulino (Itinerari), Bologna, 2012, p. 19.

21 Cfr. Ferrari, pp. 20 – 21.

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conoscenza dei diversi diritti religiosi, ma anche la capacità di compararne i contenuti e di verificarna la compatibilità con l'ordinamento giuridico statale.”22

1.3 Multicultura, multiculturalismo, intercultura.

Si ritiene necessario precisare il significato di alcuni concetti incontrati, che vengono erroneamente considerati equivalenti e che tali non sono.

Multicultura è uno stato di fatto, una realtà concreta, un dato sociale

oggettivo che descrive una situazione “universale”: viviamo in una società multiculturale.

Multiculturalismo indica le tesi espresse per risolvere le questioni

problematiche emergenti dalle società multiculturali, proteggendo i diritti delle minoranze. L'attenzione è volta a tutelare l’altro mantenendolo “diverso” attraverso la valorizzazione delle differenze e la cristallizzazione delle identità, assimilazione anziché integrazione. Vengono fornite delle risposte all' enigma multiculturale23 in termini di problema, soprattutto in termini di sicurezza sociale. Gli interessi in gioco vengono soppesati, ponendo le richieste delle minoranze in dialogo con le esigenze della maggioranza. Esempio del multiculturalismo giuridico è nel nostro Paese è la normativa in tema di condizione giuridica dello straniero.24

22 Cfr. Ferrari, p. 21.

23 Questa formula è di G. Baumann, L'enigma multiculturale. Stati, etnie,

religioni, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 7: “Per risolvere l'enigma, bisogna

ripensare il significato di nazionalità o stato-nazione, identità etnica o appartenenza etnica, e religione come base di cultura”.

24 La disciplina giuridica dell'immigrazione degli ultimi decenni si è andata 28

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Intercultura è concetto ricorrente nelle scienze sociali, di recente

utilizzo nel settore giuridico. E' stato inizialmente utilizzato in ambito pedagogico per indicare l'approccio relazionale che la scuola avrebbe dovuto avere per sostenere l'interazione tra alunni immigrati e non. Si desume, quindi, come l'intercultura si pone come alternativa al multiculturalismo. Punti centrali dell'approccio interculturale sono l'incontro e il dialogo, quindi di fondo vi è una forte istanza valoriale all'educazione alla pace, alla non violenza, all'antirazzismo. L'approccio relazionale richiamato ha come elemento caratterizzante il metodo del dialogo. Il giurista interculturale può dare un contributo creativo per gestire i conflitti delle società multiculturali, imparando l'arte di ascoltare e la capacità di dialogare.

Emerge, dunque, anche nell'ambito giuridico l'importanza della conoscenza e della comprensione dell'altro come chiave per aprire le porte del dialogo che consenta di convivere, gestendo i conflitti senza usare necessariamente la violenza.

Il diritto è chiamato a trovare “regole idonee ad assicurare non solo caratterizzando per la forma della sanatoria come risolutiva di una situazione di emergenza: legge 30 dicembre 1986 n. 943 (“legge Foschi”), legge 28 febbraio 1990 n. 39 (“legge Martelli”); inseguito è stato accolto lo schema della regolamentazione dei flussi migratori: legge 6 marzo 1998 n. 40 (“legge Turco – Napolitano”, che distingue gli stranieri in due gruppi, tra chi è provvisto di regolare permesso di soggiorno e coloro che, non avendo o avendo perso il titolo a risiedere in Italia, sono destinati all'espulsione), legge 30 luglio 2002 n. 189 (“legge Bossi – Fini”, che vincola la durata del permesso di lavoro a quella del rapporto di lavoro). Nel complesso queste regole mostrano un'impostazione multiculturalista, nonostante l'apparente ricerca di regole che consentano un'efficace integrazione dello straniero. Si accoglie l'idea della distinzione tra un'immigrazione “buona” e una “cattiva”, l'una che porta in Italia forza lavoro a basso costo, l'altra che mettere a rischio l'identità europea.

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una coesistenza, ma una convivenza giusta e pacifica”25. Si va a ricercare, dunque, un nesso di compatibilità tra regole nate in contesti diversi fra loro e la pretesa di riconoscimento di identità “altre”.

1.4 Dall'ottica multiculturalista all'ottica interculturale.

Di fronte all'esperienza di culture altre, le reazioni possibili del cittadino “autoctono” sono molteplici26, non facilmente riconducibili tra gli estremi netti dell'apertura e della chiusura.

Fra le più diffuse certamente rientra quella del sentirsi vittima in pericolo di sopravvivenza. Ci si chiude e si esclude Alter, ci si rifugia in costruzioni stereotipate e in semplificazioni, spesso sull'onda di propagande politiche. Si ritorna al concetto di “scontri di civiltà”27. Conseguentemente si ha un irrigidimento delle posizioni e la percezione della differenza come disvalore.

Un'altra soluzione prospettabile, per quanto apparentemente legittima e innocua, è quella dell'assimilazione28: l'autoctono pretende che Alter si assimili, si confonda nella cultura in cui si è insediato, perdendo pian piano quella identità che si porta dietro.

25 Cfr. Consorti, Pluralismo religioso: reazione giuridica multiculturalista e

proposta interculturale, p. 1.

26 Cfr. Gianfaldoni, p. 52. 27 Si rinvia a p. 10

28 Si ritiene che tale prospettiva sia stata assunta nei documenti “Libro

bianco sul dialogo interculturale” e “Carta dei valori per la cittadinanza e l'integrazione”, che verranno analizzati nel capitolo 2.

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La via più difficile e faticosa, e per di più decisamente rischiosa, è quella di mettersi in comunicazione con l'altro. “Possono emergere paure pericolosamente soffocate sul nascere, possono aprirsi “falle” nel sistema dei valori, possono rafforzarsi lontani dubbi sopiti, desideri repressi, emozioni forti che aumentano il senso di instabilità personale e collettiva. Decidere di essere disponibili verso l'altro, “aprirsi”, mettere in gioco le proprie convinzioni, esporsi a sollecitazioni e stimolazioni, potrebbe avere conseguenze non previste, sconosciute, difficilmente controllabili”. L'istinto di protezione porta ad alzare le barriere e a chiudere la comunicazione, individui e intere comunità, spaventate dalla novità, posizionano confini, sia visibili29 che invisibili, per poi passare a forme di vera e propria esclusione, trascurando elementari forme di accoglienza, fino a mettere in discussione principi costituzionali.

Non si tratta di accogliere posizioni paternalistiche o ingenue, ma di affrontare queste paure in modo costruttivo e privo di strumentalizzazioni.

“Il multiculturalismo costituisce un ostacolo alla costruzione di un modello giuridico interculturale, che guarda al meticciato – alla contaminazione culturale- come una realtà accettabile e non come uno scandalo senza riparo”30. L'impostazione multiculturalista fa emergere le insicurezze che derivano dal mettere in discussione i principi e valori della società cui si appartiene. Quella occidentale si presenta intimorita dall'elemento della diversità come reale minaccia a valori e 29 Si pensi, da ultimo, al muro costruito in tempi record tra luglio e agosto 2015 tra Ungheria e Serbia: 175 km di lunghezza per bloccare il massiccio flusso di migranti in arrivo in Ungheria dalla regione balcanica.

30 Cfr. Consorti, Pluralismo religioso: reazione giuridica multiculturalista e

proposta interculturale, p. 17 .

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principi già in crisi: le differenze vengono riconosciute ma collocate in schemi mentali e giuridici che non si toccano mai. Affiora, così, l'incapacità di rendere tali valori come realmente universali, nella pretesa di guardare agli altri come persone e gruppi ugualmente liberi e portatori di eguale dignità. Con riferimento alle questioni religiose, ne deriva l'impossibilità di approcciarsi alle altre religioni come possibili portatrici di altrettante verità e conseguentemente di ammettere possibili variazioni del principio di laicità.

Nell'ordinamento costituzionale europeo si è affermato un diritto alla

sicurezza, andatosi ad accentuare dopo l'11 settembre 2001. Il bisogno

di sicurezza viene a porsi come caratteristica delle società occidentali, che cercano politiche di sicurezza pubblica a tutela dei conflitti sociali, nell'idea che sia criterio guida del proprio agire, rischiando, però, di far sempre più emergere la necessità di difendersi per paura di contaminarsi.

La sfida per l'ordinamento giuridico è quella di confidare nella forza dei principi di fondo che ne costituiscono il pilastro per affrontare e accogliere principi, valori e condotte identitarie di diversa matrice. Il criterio, dunque, più che la sicurezza pubblica, dovrebbe essere il rispetto della Costituzione e delle leggi che ne garantiscono la piena attuazione, criterio “sufficientemente forte per avviare dinamiche interculturali senza dar luogo a conflitti talvolta prodotti da irrigidimenti eccessivi che estremizzano differenze persino marginali, e che tendono ad inchiodare Alter in stereotipi che nemmeno gli appartengono”31.

31 Cfr. Consorti, Pluralismo religioso: reazione giuridica multiculturalista e

proposta interculturale, p. 19.

(33)

Un punto su cui si ritiene di dover insistere, per quanto scontato, ma evidentemente non chiaro, è che “bisognerebbe riconoscere in Alter un soggetto dotato come noi di dignità umana, portatore dei nostri stessi diritti inviolabili: giuridicamente uguale a noi ed egualmente libero davanti alla legge”32. Alla base, dunque, di un atteggiamento giuridicamente interculturale si possono collocare i principi costituzionali e la sovranità della legge, il loro rispetto e ovviamente la loro applicazione, per poter escludere elementi di diversità contrastanti con tali principi e per poter accogliere quelli compatibili, o quanto meno ragionevoli. L'obiettivo auspicabile è quello di una forma giuridica di democrazia partecipata e cosmopolita, che porti a ripensare lo spazio pubblico come occasione di condivisione di esperienze differenti, attraverso “meccanismi di confronto narrativo e relazionale accessibili a tutti”33.

1.5 Dialogo: come?

Tornando alla metafora dell'iceberg precedentemente illustrata, dobbiamo ora soffermarci all'analisi dei modelli di gestione del conflitto e della diversità.

Abbiamo già notato come la punta estrema dell'iceberg, quella che spunta in superficie, sia data dalle posizioni contrapposte degli attori, dei protagonisti del conflitto. Il lavoro di analisi cui si è auspicato comporta di venire a contatto con la parte sommersa dell'iceberg, in cui si trovano gli interessi, i bisogni, le emozioni, i valori, la cultura, le identità, le immagini di sé delle parti in conflitto. Sarà possibile 32Cfr. Consorti, Pluralismo religioso: reazione giuridica multiculturalista e

proposta interculturale, p. 19.

33 Cfr. Consorti, Conflitti, mediazione e diritto interculturale, p. 175.

(34)

realizzare quest'opera da sommozzatore attraverso l'ascolto attivo, che consiste nel capire i punti di vista altrui, o almeno nel cercare di farlo. Il passaggio successivo che consente di andare sempre più in profondità fino a trasformare il conflitto è il dialogo non violento, che non pretende di annullare l'altro e non ricorre all'uso della violenza, che farebbe escalare il conflitto stesso. Attraverso queste due pratiche si arriva a soluzioni creative, non predeterminate. “Nell'approccio interculturale la gestione e la trasformazione dei conflitti culturali non ha soluzioni rigide: gli esiti dell'incontro vanno costruiti, provando e riprovando, fino a trovare soluzioni condivise, efficaci, sostenibili, e magari anche belle”34.

Si prenderanno in considerazione due metodi di gestione del conflitto: il “metodo Trascend” elaborato da Johan Galtung35 e il “modello equivalenza (Maggiore – minore)” studiato da Pat Patfoort36.

Il metodo Trascend prende vita da alcuni punti fondamentali dell'insegnamento gandhiano:

Punto 1: Non temere mai il dialogo: nelle sue lotte Gandhi

dialogava con chiunque.

Punto 2: Non temere mai il conflitto: è un'opportunità piuttosto che un pericolo: per Gandhi un conflitto era una sfida a

34 P. Consorti, Conflitti, mediazione e diritto interculturale, Pisa University Press, Pisa, 2013, p. 95.

35 J. Galtung (1930), sociologo e matematico norvegese, è considerato l'iniziatore della peace research in ambito accademico; suo punto di riferimento costante è l'etica politica della nonviolenza di Gandhi.

36 P. Patfoort (1949), antropologa e biologa belga, ha studiato a lungo in conflitti, giungendo ad elaborare un modello teorico di riferimento, anch'esso improntato alla prassi non violenta.

(35)

conoscersi reciprocamente, non restando indifferenti all'altro. Il conflitto, dunque, non viene considerato come sinonimo di violenza né di guerra ma come condizione esistenziale ineliminabile caratterizzante tutti gli essere umani, che può sfociare sia in crescita creativa e costruttiva di tutte le parti coinvolte sia in una situazione negativa e distruttiva.

Tratto caratteristico di questa scuola di pensiero è il concetto di trasformazione nonviolenta dei conflitti, con cui si mette in rilievo la natura relazionale dinamica e mutevole del conflitto. Galtung utilizza per descrivere il conflitto la metafora del triangolo37.

COMPORTAMENTO B A C ATTEGGIAMENTO CONTRADDIZIONE

37 L'analisi dei modelli di gestione del conflitto di seguito presentati risulta essere quella presa in considerazione da P. Consorti in Conflitti, mediazione e

diritto interculturale, Pisa University Press, Pisa, 2013, pp 95 ss.

(36)

A ciascun vertice A, B, C corrisponde un aspetto caratteristico che contribuisce a definirlo.

− A: atteggiamenti, attitudini, ciò che sta dentro i singoli attori, anche a livello inconscio

− B: comportamento, ciò che sta fuori dagli attori, che è visibile e manifesto

− C: contraddizione, scopi, incompatibilità, riguardanti la relazione tra gli attori

A ciascuno di essi fa corrispondere il vertice di un altro triangolo, quello della nonviolenza.

COMPORTAMENTO = DIALOGO

ATTEGGIAMENTO = EMPATIA CONTRADDIZIONE = CREATIVITÀ

− A: al vertice degli atteggiamenti corrisponde l'empatia, cioè la capacità di mettersi nei panni dell'altro, di sentirne e percepirne 36

(37)

le emozioni, di “vedere dentro”

− B: al vertice del comportamento corrispondono non violenza nelle azioni (indispensabile per evitare la deriva del conflitto verso comportamenti violenti) e dialogo nella comunicazione (strumento per indagare ciò che avviene all'esterno degli attori sociali nella forma di comportamenti manifesti)

− C: al vertice della contraddizione corrisponde la creatività, necessaria per far emergere soluzioni non predeterminate e rigide, che consentano a tutti gli attori di realizzare pienamente i loro obiettivi.

Galtung ricorre al “paradigma del medico” per descrivere questa trasformazione del conflitto: vi è una diagnosi, una prognosi e una terapia (DPT).

La “diagnosi” consiste nel processo di conoscenza del conflitto: l'operatore di pace, attraverso l'uso del triangolo ABC e il dialogo tra le parti, analizza e comprende il conflitto secondo la percezione delle stesse parti. Successivamente, sempre attraverso il dialogo, comunica a ciascuna parte la percezione altrui del conflitto, intervento che risulta molto utile quando gli attori non sono in grado di capirsi.

Con la “prognosi” si esplora il passato attraverso un'anamnesi di come si sono svolti gli eventi e di come si sarebbero potuti svolgere se gli attori si fossero comportati diversamente. Di seguito le previsioni fatte vengono utilizzate come strumento di dissuasione prevenzione della violenza.

Infine vi è la “terapia”, in cui risulta imprescindibile la creatività, al fine di uscire da paradigmi dominanti e progettare un futuro non vincolato al passato. Per realizzare questo obiettivo è necessario un 37

(38)

atteggiamento empatico: la capacità di entrare in relazione con altre persone permette di “ammorbidire” gli atteggiamenti, predisponendo a un dialogo via via più profondo e autentico. Il dialogo, dunque, risulta lo strumento principale a disposizione dell'operatore di pace (“mediatore”): attraverso esso si può gradualmente scoprire l'altro, per giungere a livelli più alti di comprensione, che permettano di costruire ponti tra posizioni contraddittorie apparentemente inconciliabili.

Galtung pone l'accento sulla creatività alla ricerca di soluzioni sovraordinate che permettano di realizzare gli obiettivi di tutte le parti. Trascendenza è, quindi, intesa come cambio di paradigma, uscita da schemi prestabiliti, capacità di vedere oltre.

Il modello Equivalenza parte dal presupposto che ciascuno prova a presentare la propria caratteristica o il proprio comportamento come migliore rispetto a quello degli altri, tentando di aver ragione, di dominare, di vincere.

Ciascuna parte, quindi, prova a mettersi in posizione M, collocando l'altra in posizione m. Ne derivano tre meccanismi di violenza, come si evince dallo schema seguente:

1- la violenza contro la persona che per prima si è collocata nella posizione M, cioè l'escalazione della violenza

2- la violenza nei confronti di un terzo, cioè la catena della violenza 3- la violenza contro se stessi, cioè l'interiorizzazione della violenza.

(39)

Il modello M – m è la radice della violenza. Ciò che spinge a voler uscire dalla posizione minore è l'istinto di autoprotezione o di sopravvivenza: la necessità di difendere se stessi è connaturata all'essere umano. La via più semplice è apparentemente quella del modello M-m, ma esiste un altro modo per uscire da questa situazione di partenza con due differenti punti di vista: il modello Equivalenza o

E. Questo risponde ugualmente all'istinto di protezione dell'uomo, ma

permette di uscire dalla posizione minore, di difendere se stessi, senza attaccare.

(40)

Il modello M-m si basa su argomenti (positivi, negativi, distruttivi) che ciascuna parte porta all'altra per avere ragione e vincere. Il modello Equivalenza, invece, fa riferimento a fondamenti (motivazioni, bisogni, sentimenti, interessi, obiettivi), attraverso la cui esplorazione si ha la possibilità di capire il conflitto in profondità, anziché rimanere in superficie.

Il modello M-m propone solo due possibilità di soluzione al conflitto (la ragione sta dalla mia parte o dall'altra), mentre il modello E innumerevoli, create attraverso la comprensione e il rispetto di tutti i fondamenti delle parti coinvolte nel conflitto.

Il dialogo, dunque, è elemento caratterizzante questi due modelli. L'invito al dialogo è sicuramente impegnativo e comporta difficoltà di percorso. L'etimologia della parola, “dia (fra)” e “logos (discorso)”, fa riferimento a un ragionamento fra due entità che decidono di ascoltarsi, di porsi su uno stesso piano di dignità. Dialogo è, dunque, volontà di incontro e abbandono di un approccio inutilmente dogmatico. Non c'è la pretesa di eliminare i punti di vista, di annullare le particolarità e di procedere a un'assimilazione che sradichi gli aspetti più controversi, 40

(41)

ma una riflessione seria sulle proprie posizioni,a favore del processo di identificazione. Si può sostenere, dunque, che il dialogo comporti un rafforzamento importante sia per l'individuo che per la collettività di cui fa parte, nello sforzo di autodefinirsi e riconoscersi.

In questo contesto di società multiculturale è, dunque, di primaria importanza mettere “in comunicazione” le persone e i gruppi culturalmente in conflitto.

Per comunicazione interculturale38 si indica “l'atto volontario, programmato e consapevole di scambiare messaggi per un determinato scopo”. Si intende coinvolgere interlocutori che interagiscano in un terreno di condivisione e nella pratica dell'ascolto. Ai fini di una relazione interculturale e interreligiosa costruttiva risulta fondamentale una formazione tipicamente comunicativa di operatori ed educatori in grado di gestire le nuove problematiche, che fungano da mediatori tra “noi” e “loro”.

Il presupposto necessario per effettuare quest'opera dialogica è dato innanzitutto dalla disponibilità delle parti a confrontarsi e a voler dialogare. E' necessario considerare Alter come interlocutore, sì differente, ma non inferiore né inadeguato.

La prospettiva da assumere è quella di lungo termine, nella consapevolezza che il dialogo va avviato, alimentato e conservato. Per quanto importante sia l'esperienza acquisita sul campo, si rivela altrettanto rilevante acquisire sempre nuove informazioni e conoscenze, anche in considerazione dal dato della multidisciplinarietà in cui si opera.

38 Cfr. Gianfaldoni, p. 93.

(42)

Si può stilare un elenco39 di principi di riferimento per un proficuo dialogo interculturale e interreligioso:

1. favorire una corretta informazione; 2. aumentare le capacità di ascolto;

3. approfondire la cultura e il credo di appartenenza; 4. assumere un atteggiamento positivo verso il dialogo; 5. stigmatizzare il fondamentalismo;

6. partire dal microcosmo;

7. non indulgere nella relativizzazione;

8. non pretendere di anestetizzare l'elemento religioso; 9. sostenere la reciprocità;

10. mantenere il dialogo costante.

Per la costruzione di una “pedagogia del dialogo interreligioso”40 occorrerà, quindi, tenere presenti alcune considerazioni.

Innanzitutto per pedagogia del dialogo si intende un metodo capace di rispetto nell'ascolto reciproco e di mediazione nelle oggettive differenze caratterizzanti le religioni.

Il dialogo interreligioso deve maturare nella consapevolezza che chi dialoga non è un'entità astratta, ma donne e uomini. Bisogna, dunque, creare occasioni di incontro in ambienti che ne favoriscano il contatto 39 Cfr. Gianfaldoni, p. 135.

40 Tale formula è riconducibile sia a B. Salvarani, che nel suo Vocabolario

minimo del dialogo interreligioso fornisce importanti punti di riflessione

sull'educazione all'incontro tra fedi (di seguito la riflessione su “Come formarsi al dialogo” p. 53), sia a M. Salani in I fondamenti del dialogo

interreligioso, p. 301.

(43)

effettivo. L'incontro tra culture religiose è sempre un incontro tra persone, che esprimono una storia, uno stato d'animo e una particolare situazione esistenziale che ne determinino il comportamento a prescindere dall'appartenenza culturale.

Occorre una buona conoscenza reciproca degli interlocutori coinvolti: conoscenza intellettuale, dei testi e dei documenti ufficiali delle Chiese e delle religioni, ma anche umana, a partire da un atteggiamento sincero di ascolto delle narrazioni altrui.

Il dialogo, è, dunque la risposta privilegiata per la società multireligiosa e multietnica di oggi per poter riconoscere le differenze e farle divenire risorsa e punto di partenza per la costruzione di un ponte tra persone, istituzioni religiose e istituzioni civili.

1.6 Dialogo interreligioso, laicità e pace.

La prospettiva auspicabile è quella del dialogo laico41 caratterizzato dalla volontà di non convertire necessariamente l'interlocutore (“Dialogue is dialogue, and not a way to convert!”42), ma di collocarlo in una dinamica di confronto continua. Ciascuno può esporre le proprie ragioni in modo da suscitare curiosità e desiderio di approfondimento, ma non devono essere proposte come verità assolute. La molteplicità delle prospettive implica che “comprendere le verità altrui è ugualmente necessario, anche quando oltrepassano l'ambito della 41 P. Consorti, Dialogo interreligioso e laicità in “Diritti, tolleranza, memoria. Una città per la pace”, Pisa University Press, Pisa, 2005, p. 274. 42 P. Consorti, Inter-religious dialogue: a secular challenge, in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale» (rivista telematica www.statoechiese.it), 2007, p. 4.

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nostra verità d'insieme, e sono contraddittorie rispetto ad essa”43. Muovendo dalle proprie convinzioni, nel confronto con l'altro, esse possono rafforzarsi, dando così luogo a una discussione feconda in grado di far maturare una maggiore consapevolezza delle rispettive posizioni attraverso l'apporto di nuove idee. Questo dialogo, in un clima di collaborazione, contribuisce alla costruzione della pace.

Non soffermandosi eccessivamente sul concetto di laicità (esso stesso caratterizzato da una natura conflittuale, oggetto di diatribe dottrinali e di fraintendimenti ideologici), si può semplicemente concepirla come “necessità di assicurare a ciascuna opzione religiosa (e ovviamente anche areligiosa o irreligiosa) eguale diritto di cittadinanza”44. E', dunque, attributo naturale del pluralismo religioso [..], che tuttavia si

attiva soprattutto in fattispecie marginali, con un forte valore simbolico, ma scarsamente rappresentative dei problemi reali.

Dato che la costruzione della pace avviene anche attraverso il dialogo fra le religioni, da questo dialogo non può restare escluso l'elemento laico, anche in riferimento all'ordinamento giuridico. Lo Stato è laico quando dimostra la “capacità di far convivere le diverse opzioni personali mettendole democraticamente in dialogo”. Laicità, dunque, non come mera neutralità, ma come strumento per promuovere i bisogni della coscienza personale.

In tale “metodo”, caratterizzante il dialogo, giocano un ruolo speciale gli Stati, come interlocutori laici. In questo senso la laicità svolge un ruolo attivo nella costruzione della pace.

43 F. Calogero, Filosofia del dialogo, Edizioni di comunità, Milano, 1962, p. 174.

44 Dialogo interreligioso e laicità in Diritti, tolleranza, memoria. Una città

per la pace, Consorti P., p. 282.

(45)

Sul piano giuridico occorre, quindi, riconsiderare il peso del fattore religioso come elemento determinante delle società contemporanee. “Detto fattore non è eliminabile dai testi giuridici [..], ma va tenuto presente come uno degli elementi che condizionano l'agire delle persone sia in senso individuale che istituzionale”45. Il pericolo si nasconde nell'indifferenza verso il fenomeno religioso, che induce, chi si riconosce in una fede, a reclamare, talvolta attraverso l'uso della violenza, il proprio spazio.

Tale riconsiderazione si è concretizzata in una risoluzione dell'Assemblea generale dell'ONU del 20 ottobre 2010 che ha istituito la World interfaith harmony week46 nella prima settimana di febbraio di ogni anno. Vengono proposte una serie di azioni tese allo sviluppo del dialogo interreligioso tra i popoli e tra i diversi fedeli e tra questi e i non credenti all'interno di singole realtà locali. L'idea, ancora una volta, è quella che il “diverso” non sia più visto come tale e talora come nemico, ma che si sviluppi una reale azione di comunicazione interculturale (“..recognizing the imperative need for dialogue among different faiths and religions in enhancing mutual understandings, harmony and cooperation among people..”). Questa iniziativa pone l'accento sulla religiosità delle popolazioni, dimostrando come essa condizioni stili di vita scelte economiche, decisioni politiche e opzioni giuridiche.

45 A. Fucillo, Pace interreligiosa: alcuni spunti di riflessione a margine

della World interfaith harmony week ed il possibile ruolo del diritto, in

“Stato, Chiese e pluralismo confessionale” (Rivista telematica www.statoechiese.it), 2011, p. 2 ss.

46 www.worldinterfaithharmonyweek.com (consultato il 21/06/2016).

(46)

La costruzione di un lessico giuridico laico, quindi, risulta la sfida necessaria per arginare fondamentalismi e contribuire effettivamente alla convivenza interreligiosa come conseguenza della raggiunta pace sociale. Il diritto, dunque, deve avere la capacità di costruire una griglia giuridica che offra strumenti laici utilizzabili come modelli di risoluzione delle più differenti istanze di giustizia, guidando verso il confronto, l'accordo, la gestione negoziata (preventiva o risolutrice) di qualsiasi controversia a base religiosa, utilizzando anche gli strumenti del diritto positivo.

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