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Performance sociali e processi incorporativi di studenti con disabilità nel percorso universitario in Italia: integrazione e accesso alla cultura nell’ateneo pisano.

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Academic year: 2021

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1 Fiammetta Savoia

Corso di Dottorato in Memoria Culturale e Tradizione Europea, Università degli Studi di Pisa Performance sociali e processi incorporativi di studenti con disabilità nel percorso universitario in Italia: integrazione e accesso alla cultura nell’ateneo pisano.

Oggetto della ricerca e presupposti teorici

I soggetti della presente ricerca sono persone con disabilità fisico-sensoriali e le tematiche che mi propongo di indagare sono le pratiche e le interazioni sociali che connotano l’integrazione di questi soggetti nel percorso di studi universitario. In effetti, scelta e svolgimento di un simile percorso può essere, a mio avviso, un focus significativo per due motivi principali: da un punto di vista del vissuto culturale e sociale di giovani con disabilità, in quanto si tratta dell’accesso al massimo grado d’istruzione previsto e dunque ad un eventuale status corrispondente all’interno della nostra società; da un punto di vista scientifico (socio-antropologico, ma anche pedagogico), perché nel nostro paese non sono stati pressoché condotti organici studi qualitativi in merito.

1.

Innanzitutto, per quanto riguarda la concettualizzazione del vissuto di handicap, a partire dagli anni Sessanta, ha preso avvio negli Stati Uniti e in Europa un processo di rivendicazione di specifici diritti da parte di movimenti di persone con disabilità; processo cui si è accompagnato, con gli anni Ottanta, quello di ridefinizione teorico-scientifica della condizione da queste vissuta ad opera dei disability studies, che all’univoco modello medico hanno contrapposto un modello sociale (Ingstad, Whyte, 1995; Ferrucci, 2004; Stiker, 2005; Davis, 2006). Per quest’ultimo la marginalità di chi presenta una menomazione non dipenderebbe più dal deficit organico del singolo, ma da dinamiche socio-culturali, economiche e politiche “mal funzionanti” poste in essere dal contesto.

Il rimando fra questi modelli risalta, d’altronde, in due corrispettive classificazioni: l’una, International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps (ICIDH), adottata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a partire dal 1980; l’altra, proposta nel 1982, in alternativa alla precedente, dal Disabled People’s International (DPI). Allo scopo, infine, di superare ogni ristrettezza dicotomica, nel 2001 l’OMS ha redatto la International Classification of Functioning, Disability and Health, (ICF), che cerca di farsi carico di entrambi gli aspetti nelle loro interconnessioni, focalizzando l’interesse sulla categoria di functioning della persona in particolari condizioni di salute (permanenti o temporanee).

Su questa scia, si è al fine approdati a quell’idea di “integrazione” che vorrebbe consentire a ciascuno di prender parte alla vita sociale nel pieno riconoscimento delle proprie “diverse abilità”1.

1 In effetti, la stessa terminologia utilizzata per riferirsi a dette persone ha seguito un proprio percorso storico.

Innanzitutto, se etimologicamente il termine “handicap” deriva dall’inglese hand in cap- “mano nel cappello”- ad indicare la procedura di sorteggio/penalizzazione della posizione dei cavalli allo starter nelle corse al trotto, esso è poi metaforicamente passato a designare uno “svantaggio” nella “corsa” della vita (Zappaterra, 2003). D’altro canto, il giudizio valoriale che sottende ha visto un superamento del suo uso in favore di “dis-abile”, quale assenza di specifiche capacità che permettono lo svolgimento di un corrispettivo compito; tuttavia, la manifesta accezione negativa di quest’ultimo ha, infine, condotto al conio di “diversamente-abile” o “diversabile”, che vuol porre l’accento sulla peculiari abilità di ciascuno: non più assenza di capacità, ma loro presenza in modo altro rispetto alla norma attesa (Ferrucci, 2004). Ho qui deciso di mantenere il termine “disabilità”, in aderenza con il suo attuale diffuso utilizzo in

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2 D’altro canto, in Italia, già a partire dagli anni Settanta si è assistito all’emanazione di leggi che hanno progressivamente sancito il diritto della persona con disabilità all’integrazione sociale in genere, scolastica come lavorativa (Legge 118/71; Legge 517/77; Legge 270/82; sentenza della Corte Costituzionale 215/87; Legge-quadro 104/92, in cui tale materiale è convogliato; Legge 68/99; Legge 17/99) (Trisciuzzi, 2000; Maragna, Marziale, 2008). Nello specifico la Legge 5 febbraio 1992, n. 104, Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, all’Articolo 12, 2° comma, stabilisce: «è garantito il diritto all’educazione e all’istruzione delle persone handicappate nelle sezioni di scuola materna, nelle classi comuni delle istituzioni di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie»2. Specifica poi al 3° comma: «l’integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione». In tal senso, la nozione di “integrazione”- nonché, secondo la più recente terminologia in uso, di “inclusione”- si fa luogo prolifico di riflessione riguardo a ciò che comporta nel riconoscimento di uguaglianza/differenza. In effetti, si pone qui il problema di portare reale integrazione in società egualitarie come la nostra (Ingstad, Whyte, 1995; 2007). All’interno di quest’ultime, infatti, il diverso viene dichiarato uguale nel momento in cui è autonomo, ma sovente, in questo passaggio, si giunge ad un disconoscimento della differenza e dell’eventuale dipendenza che comporta (Dumont, 1993). Se lo sguardo antropologico si pone negli interstizi fra disposizioni istituzionali e prassi dei soggetti, ecco allora la necessità di riflettere su come nelle nostre società si pervenga all’affermazione di un’uguaglianza che si traduce talvolta in pratiche discoste dalla stessa. Volendo prendere le mosse dall’innegabile diversità di ciascuno, è forse opportuno prospettare un passaggio da un’uguaglianza data per riconoscimento identitario ad un’uguaglianza costruita processualmente. 2.

D’altro canto, rispetto all’esperienza di disabilità in sé, anche l’approdo al suddetto modello sociale risulta pur sempre «improponibile per chi tutti i giorni è alle prese con i limiti inscritti nel proprio corpo» (Ferrucci, 2006, p. 89), laddove, in effetti, i «disability studies hanno cercato di destigmatizzare i corpi disabili solo per omissione» (Snyder, Mitchell, 2001, p. 368). Nel tentativo, quindi, di cogliere un nuovo connubio fra i due poli del biologico e del sociale, si è palesata la necessità di riconsiderare una fenomenologia del vissuto di disabilità. Essa viene a re-impegnare il corpo disabile nell’attiva produzione di significati, laddove assume “valore di nuova intenzionalità comunicativa” in quanto dato solo nello scambio relazionale (Pizza, 1997; Quaranta, 2006).

In continuità con tale approdo, dunque, mi propongo di vagliare i processi di restituzione assertiva ed agentiva di studenti con disabilità, soffermandomi sulle performance sociali che essi quotidianamente mettono in atto nel loro iter in contesto universitario (nelle interazioni con docenti e colleghi, rispetto agli stessi spazi in cui possono muoversi, nonché a strumenti e supporti che hanno a disposizione per effettuare i propri studi) (Perrotta, 2009).

In tal senso, vorrei qui far ricorso da un lato al paradigma incorporativo, laddove finalmente la corporeità (disabile nel nostro caso) si fa più svincolata da costruzioni/costrizioni di contesto e ambito scientifico, come pure di senso comune, nonché con quanto da alcuni dei suoi stessi portatori affermato. Nel contempo, mi riservo una conclusiva rimessa in discussione dello stesso da parte di miei futuri interlocutori.

2 Per una consultazione completa della legge cfr. http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_15.wp?previsiousPage=mg_7_7

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3 maggiormente attiva protagonista della propria storia (Lock, Scheper-Hughes, 2006; Csordas, 1990), dall’altro alle nozioni turneriane di performance artistico-culturale e rito in una loro più vasta accezione sociale, estendendole ad ulteriori contesti (Turner 1986; 1993). In quest’ottica anche l’ambiente accademico può essere considerato un luogo in cui vengono instaurate relazioni secondo modalità, competenze e linguaggi ben definiti; un luogo con una propria scansione rituale data da prassi di comportamento, di esclusione/inclusione, come pure di reciprocità; un luogo con una sua delimitazione spaziale (strutture storiche e nuove costruzioni, talvolta appositamente progettate talaltra riadattate alla funzione universitaria) come pure temporale (Segalen, 2002). Sempre in questo quadro, dunque, gli attori sociali che vi prendono parte, in tal caso con disabilità, pongono in essere performance quotidiane che, tanto più per fisicità divergenti quali quelle disabili, danno sempre nuova forma alla realtà- in tal caso di accesso al sapere universitario- proprio tramite l’interazione (linguistica, visiva, corporea, virtuale) (Duranti, 2001; 2005). Se, infatti, nel rapporto con l’altro, anche se all’interno di un assetto di ruoli noto (quale ad esempio quello fra docente e discente, o fra colleghi di studio), c’è sempre un margine di reazione ignoto, quest’ultimo si paleserà a maggior ragione nelle dinamiche performative che includono persone con disabilità, fino a ingenerare nuovi, e talvolta inattesi, assetti relazionali. Come argomenta Tobin Siebers «tutti i corpi disabili creano […] confusione di lingue- e occhi e mani e altre parti del corpo. […] il corpo disabile cambia il processo della rappresentazione stessa» (Siebers, 2006, p. 173).

È questo apporto significativo che desidero indagare all’interno delle performance sociali di persone con disabilità, presenti nel nostro paese, che intraprendono un percorso di studi universitario, laddove i loro vissuti corporei instaurano una nuova reciprocità trasgressiva del profilo “naturale” suggerito loro. La performance mette inevitabilmente a confronto corpi, che per suo tramite interagiscono e così facendo trasformano realtà esistenti e ne producono altre.

Metodologie che si intendono applicare

Da un punto di vista metodologico, mi propongo di far ricorso tanto alla pratica di osservazione partecipante all’interno dei contesti di ricerca individuati, formali come informali, quanto all’effettuazione di interviste non direttive rivolte ad interlocutori (studenti con disabilità, colleghi di studio, docenti, operatori degli uffici dell’ateneo preposti per le problematiche connesse alla disabilità, tutor ed eventuali volontari) talvolta appositamente prescelti, talaltra contattati nel farsi della ricerca; interviste che sappiano indagare in profondità il vissuto universitario (di studio e relazionale), come pure formativo e familiare in genere, dei soggetti prescelti.

Traendo spunto da quanto suggerito da Leonardo Piasere, riguardo alla pratica etnografica, l’antropologo, calandosi in una nuova dimensione, in qualità di osservatore partecipante, può operare quell’“estensione intenzionale dell’esperienza”, che fa dell’evento etnografico un “esperimento di esperienza” (2002). In effetti, l’etnografo si trova a fare, innanzitutto, esperimenti su sé stesso, sulla propria vita in rapporto a quella dell’altro, immergendosi nel suo campo di ricerca e facendo uso di quell’attenzione fluttuante che costantemente utilizziamo nel nostro quotidiano. Per quel che concerne l’effettuazione delle interviste, intendo procedere dalla messa a fuoco di quei “canovacci di intervista” menzionati da Jean-Pierre Olivier de Sardan che, nello svolgersi degli atti

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4 dialogici, consentono una continua calibrazione e ri-calibrazione delle domande poste in vista di quanto dagli stessi interlocutori, di volta in volta, suggerito (1995). In tal senso, la conduzione dell’intervista risalta quale “pratica aperta”, “ricorsiva”, che si sviluppa all’interno di quella “negoziazione invisibile” fra esigenze di intervistato ed intervistatore.

Se, infine, come già esplicitato, sarà il momento di restituzione assertiva dei soggetti della ricerca, nel farsi generatori di nuove prassi all’interno della loro quotidiana esperienza di studio, ad essere il focus nevralgico dell’indagine, lo stesso vissuto corporeo (loro, come della ricercatrice) può elevarsi a strumento metodologico. È, infatti, nello scambio di detti corpi disabili col contesto studentesco d’appartenenza che nuovi rapporti possono essere costituiti ed elementi di criticità palesati; è nello scambio con la loro “alterità” che lo stesso corpo della ricercatrice può divenire elemento di ricezione del vissuto di cui sono portatori, secondo il parametro della riflettività (Csordas, 2003). In questa prospettiva, i risultati raggiunti potrebbero farsi utili strumenti nell’incontro/scontro con la percezione del senso comune così come con le scelte operate dalle istituzioni (universitarie, nonché scolastiche, sanitarie). Il vissuto dei protagonisti, le loro prassi e le loro voci, possono infatti venire ad interrogare tutte quelle realtà sociali che, pur nel cercare di farsi carico delle loro esigenze, tendono talvolta a non assumere la diretta esperienza degli stessi come imprescindibile chiave di lettura.

L’insieme del materiale in tal modo raccolto sarà da un lato registrato con apposite strumentazioni tecnologiche (tanto di carattere audio, quanto visivo e/o audiovisivo), dall’altro convogliato in un taccuino di appunti la cui stesura accompagnerà l’intero percorso di ricerca. Nel procedere di quest’ultima, mi propongo, inoltre, di raccogliere tutta quella serie di dati quantitativi (tramite uffici universitari preposti, come pure enti ed istituti attivi nel settore) che, in supporto a quelli qualitativi, mi consentano di meglio connotare e comprendere il contesto di vita degli interlocutori e i gradi di libertà con cui gli stessi possono muoversi e collocarsi al suo interno.

L’intero corpus di dati così raccolti verrà, infine, a convergere nella stesura di un testo etnografico in cui, alla luce delle basi teoriche, potrà essere ri-proposto in una specifica ottica interpretativa. Tempi e fasi di realizzazione

Nello svolgimento del presente lavoro intendo procedere, dunque, in un momento iniziale, ad una raccolta di dati e materiale bibliografico sia a partire da quanto prodotto all’interno di disability studies e performance studies, sia tramite la consultazione di specifiche riviste che affrontino il tema della disabilità e dell’integrazione/inclusione educativa e culturale in genere dei soggetti in questione nel nostro paese come in altre realtà euro-americane3. Mi propongo, inoltre, col contributo degli uffici specificamente preposti, di effettuare un primo censimento degli studenti con disabilità o altri disturbi e problematiche che frequentano o meno i corsi universitari e che fanno o meno riferimento agli appositi servizi e sostegni forniti dall’ateneo. A partire da questo quadro complessivo, vorrei, quindi, vagliare l’eventuale disponibilità di adesione alla ricerca da parte dei soggetti che sono entrati in contatto diretto con i suddetti uffici.

3 Di particolare interesse può essere la consultazione delle riviste “HP-Accaparlante”, “Sociologia e politiche sociali”,

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5 A tale definizione del substrato teorico e del terreno di partenza, intendo poi affiancare l’avvio dell’indagine etnografica sul campo, da condursi presso l’Università degli Studi di Pisa secondo due filoni principali.

Da un lato, quello di un’etnografia del vissuto quotidiano di alcuni studenti con disabilità presso l’ateneo pisano, osservandone le performance sociali negli spostamenti all’interno di spazi universitari (aule, uffici, mense), nella fruizione di specifici servizi, nell’utilizzo di apposito sussidi, nell’interazione con docenti e compagni di studio, come pure tutor e personale specializzato: insomma, nell’accesso complessivo al sapere universitario globalmente inteso.

Da un altro, quello della rilevazione delle esperienze di ciascun interlocutore con disabilità che usufruisca dei servizi offerti dal suddetto ateneo e, una volta contattato, si renda disponibile per l’intervista. Le variabili su cui concentrarsi, profondamente interrelate, sono molteplici e concernono quanto predisposto dall’ateneo e quanto fruito dai soggetti in questione. Da una mia prima indagine, risultano avere particolare rilievo, ad esempio, l’effettiva accessibilità a strutture, lezioni e servizi universitari in genere; l’erogazione di servizi appositi per specifiche disabilità; la disponibilità di programmi informatici ed apparecchiature tecnologiche mirate. D’altro canto, manifestano altrettanta importanza la competenza d’uso e la scelta di fruizione dei medesimi da parte degli studenti con disabilità; ciò anche in rapporto ad ulteriori servizi offerti dal più ampio territorio, alla provenienza dei ragazzi (se studenti fuori sede o in sede) e all’età in cui si sono affacciati nel mondo universitario, al precedente percorso educativo effettuato, nonché all’effettiva certificazione del proprio deficit.

Nel complesso, si tratta di assistere a quel processo di configurazione e ri-configurazione continua della realtà tramite l’interazione, che consente di fare ogni sorta di “esperimento di esperienza” attraverso l’agire corporeo, laddove nuove esperienze vengono vissute e precedenti esperienze ricreate. In tal senso, l’incontro fra esperienze corporee diverse si fa luogo privilegiato di attuazione del processo di riflessività/riflettività critica individuale e sociale. Saranno, poi, le interviste in profondità condotte con studenti con disabilità (come pure docenti, tutor, colleghi e personale che opera nel settore) a consentire una meta-rielaborazione del proprio vissuto da parte di ciascun interlocutore, in modo da direzionare pratica etnografica e chiave interpretativa prescelta.

Tale duplice percorso di osservazione partecipante e di raccolta di interviste vuole essere un modo per meglio avvicinare, anche tramite esperienza diretta, il percorso dei soggetti in questione nello svolgimento degli studi universitari. Da un lato, si tratta di rilevare testimonianze ed assistere a ciò che persone con disabilità vengono a costruire nell’interazione col mondo universitario, con i suoi protagonisti come con le strutture che mette a disposizione, con le sue risorse e strumentazioni come con le reali o presunte possibilità di accesso al sapere che esso offre. Dall’altro, si tratta di prender parte attiva ad una simile esperienza di co-evoluzione, come suggerisce Andrea Canevaro (2008), confrontandomi con specifiche modalità corporee di “essere nel mondo” che nelle performance quotidiane possono comportare reciproche ridefinizioni.

A conclusione di questo percorso di ricerca vorrei dedicarmi alla stesura dell’elaborato di tesi sul tema affrontato: corpo disabile/ integrazione universitaria/ performance sociale.

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