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DELLE GHIACCIAIE, TUTELA

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Academic year: 2021

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APPENDICE

LA MUSEALIZZAZIONE

DELLE GHIACCIAIE, TUTELA

E VALORIZZAZIONE

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A.1 CONSERVARE PER VALORIZZARE

L’I.C.O.M. - International Council of Museum1

- definisce “il museo un‟istituzione

permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. È aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali ed immateriali dell‟umanità e del suo ambiente; le acquisisce, le conserva, le comunica e, soprattutto, le espone e fini di studio, educazione e diletto”.

In altri termini, il museo deve tutelare l’esistente per far conoscere i suoi contenuti al grande pubblico: protezione e promozione sono dunque i due servizi che i musei offrono alla comunità ed entrambi si articolano in un numero amplissimo di attività. Se la protezione comprende tutte le azioni mirate al mantenimento e al ripristino dell’integrità del bene, la promozione all’opposto li espone, poiché include tutte le azioni che avvicinano il visitatore ai beni soddisfacendo le sue ricerche, dal semplice diletto alla ricerca scientifica.

Come sempre la virtù sta nel mezzo: un museo è in equilibrio quando riesce a realizzare un convincente compromesso tra fruibilità e conservazione.

Il recupero dei segni e delle strutture legate alla cultura materiale del passato rientra nel dovere di conservazione di una memoria demo-etno-antropologica, che nel caso del presente lavoro di tesi si intende in stretto rapporto con argomenti legati all'archeologia industriale. Il lavoro di conservazione è un tema che fino a tempi relativamente recenti non ha ottenuto l'attenzione meritata, ma che, pur lentamente, sta iniziando a imporsi a vari livelli in diversi organi ed amministrazioni pubbliche, su sollecitazione di una cultura più attenta e lungimirante. Poiché questi edifici sono legati a un passato ormai irripetibile, possono essere considerati monumenti non nell'accezione più aulica del termine, ma nel significato ormai condiviso di bene culturale, che si configura come testimonianza avente valore di civiltà2 e in quanto tale merita di essere valorizzato e musealizzato.

In questo capitolo si illustrano alcune realtà che rappresentano esempi positivi di recupero di beni archeologici come le ghiacciaie, sia come sito produttivo sia come

1 I.C.O.M. organismo internazionale non governativa, con sede presso l’UNESCO di Parigi. Dal 1948

coordina i musei di tutto il mondo.

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storia di un patrimonio industriale collettivo. La ghiacciaia è solo una parte di un micro-sistema che comprende anche il laghetto di produzione, i canali di presa e scarico delle acque e le opere relative, appartenenti a loro volta al più generale sistema dello sfruttamento idrico. Nonostante ciò, le ghiacciaie meritano di essere conservate nella loro totalità poiché sono legate alla storia del territorio, ma soprattutto agli uomini che vi hanno vissuto; lo studio di tali siti, inoltre, pone sempre nuovi interrogativi di tipo scientifico, metodologico operativo, normativo ed etico in merito al recupero, alla conservazione e al restauro.

Nel linguaggio verbale si tende a usare il termine “conservare” con il significato di perpetuare il bene culturale, eseguendo mirati e limitati interventi senza alterarne lo stato; tale intento è tuttavia velleitario in quanto ogni intervento comporta sempre un’ alterazione per quanto lieve; viceversa, il vocabolo “restaurare” richiama la volontà di rimettere a nuovo un manufatto, poiché gli interventi necessariamente tendono a privarlo almeno in parte dell’identità primitiva per cui è nato. Se dunque conservare può apparire nell'immediato più accettabile, perché legato ad un rigoroso rispetto dei dati storici documentari, il restauro finisce invece per dipendere troppo da soggettivi e mutevoli aspetti formali ed artistici. Dobbiamo quindi vedere le due discipline in una dialettica di interazione e non irrimediabilmente contrapposte tra loro.

Il contrasto conservazione/restauro appare nuovamente improprio anche sotto l'aspetto giuridico-amministrativo nella politica di tutela, dato che la conservazione si pone a livello organizzativo e il restauro nella fase metodologica del lavoro, legato cioè alla pratica. Non è sempre necessario un intervento diretto su un manufatto per garantirne la conservazione, ma qualora l’intervento sia necessario, l’obbiettivo del restauro è quello di valutare, oltre alle necessità puramente estetiche, anche le esigenze di autenticità documentaria (preservando rigorosamente i valori storici), finalizzate alla reintegrazione di una compromessa espressione culturale. All’interno della disciplina del restauro rientra il problema della destinazione d’uso, la quale non necessariamente dovrà essere quella originaria (anche se questo sarà preferibile, quando sia possibile), ma quanto più compatibile e rispettosa della realtà materiale e della dignità del bene.

La crescente complessità nello sviluppo economico-sociale del territorio italiano e il cambiamento del quadro istituzionale con la modifica del Titolo V della Costituzione3,

3

Riformato con la l. Cost. 3/2001 dando piena attuazione all’Art. 5 della Costituzione italiana, che riconosce le autonomie locali (comuni, città metropolitane, province e regioni) quali enti esponenziali

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hanno portato ad aggiornare anche le norme riguardanti la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico nazionale, risalenti alla riforma Bottai del 19394, successivamente integrata nel Testo Unico sui beni culturali5. A fronte di tale esigenza e in conformità con l’art. 9 della Costituzione, il Consiglio dei Ministri ha approvato nel 2004 il Codice dei beni culturali e del paesaggio6: una decisa semplificazione legislativa in merito alla normativa in materia, che fornisce uno strumento unico per difendere e promuovere il tesoro degli italiani, coinvolgendo gli Enti Locali.

Tutti i detentori o possessori (pubblici e privati, Enti Ecclesiastici o Enti Morali) di beni culturali sono tenuti a rispettare l’art. 30 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, facendosi garanti della sicurezza e della conservazione dei beni in loro appartenenza.

A.2 IDENTITÀ TERRITORIALE ED ECOMUSEI

La collaborazione fra pubblico e privato nel recupero delle aree produttive in abbandono trova nell’Ecomuseo o Museo del Territorio una valida e innovativa alternativa al processo di musealizzazione classica, maturando modelli finalizzati alla conservazione e valorizzazione del patrimonio industriale: un nuovo modo di lavoro, che sembra essere una soluzione efficace anche in Italia quando si pensa a nuove destinazioni di un bene archeologico industriale, diverso dal solito e spesso statico museo etnografico.

In tutto il territorio nazionale infatti si sta sviluppando una museologia fatta di piccole realtà, destinate ad accogliere la testimonianza della cultura materiale e gli oggetti un tempo d’uso comune, il cui significato e l’ utilità sono oggi persi. Sono musei legati ad un limitato territorio, volti a raccontare e ricordare le proprie radici e la propria identità, e non pensati per creare business culturale.

delle popolazioni residenti in un determinato territorio e tenuti a farsi carico dei loro bisogni. L’azione di governo si svolge a livello inferiore e quanto più vicino ai cittadini. Il Titolo V è stato soggetto a numerosi cambiamenti, quasi sempre in un'ottica federalista, che quindi spostava i poteri, decentrandoli dallo Stato alle regioni.

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Corpus legislativo fondato sulla l. 1089/1939 che regolamenta la Tutela delle cose di interesse artistico

e storico e la l. 1497/1939 sulla Protezione delle bellezze naturali.

5 D.Lgs. del 29 ottobre 1999, n. 490, cosiddetto proprio per la funzione di assorbimento e attuazione di

tutta la precedente disomogenea normativa in materia di tutela del patrimonio.

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Il termine ecomuseo è stato coniato in Francia nel 1971 e da qui ha avuto largo seguito. Il concetto nasce dalla convinzione che i componenti di una comunità o territorio dovrebbero essere soggetti attivi e non passivi (ovvero soggetti che compiono azioni imposte da governi centralizzati) nel processo di identificazione, promozione e tutela della propria memoria storica. Solamente nel 2013 l’Italia ha iniziato ad adeguarsi a questo concetto. In quell’anno infatti l’Italia ha firmato e ratificato la Convenzione di

Faro7, impegnandosi a promuovere un processo di valorizzazione partecipativo, fondato sulla sinergia fra pubbliche istituzioni, cittadini privati ed associazioni che “attribuiscono valore a degli aspetti specifici dell‟eredità culturale e che desiderano,

nell‟ambito di un‟azione pubblica, sostenerla e trasmetterla alle generazioni future”8

.

Una politica governativa di accentramento nella gestione del patrimonio tende infatti ad appiattire le differenze culturali, senza riconoscere che le diversità non sono causa di divisione, ma punti di forza per la cultura italiana; è comunque indubbio che la riscoperta e la valorizzazione da parte delle comunità locali di una propria identità non deve sostituire l’identità nazionale, che deve essere integrata dalla consapevolezza di appartenere ad una realtà locale.

Dal museo all‟aperto al museo aperto

Un ecomuseo non è una semplice esposizione di oggetti, né un percorso di visita, ma è il modo che una comunità sceglie per rappresentarsi e presentarsi a chi non la conosce. Non è sottile la differenza che sussiste tra un qualsiasi tipo di museo demo-etno-antropologico ed un ecomuseo. Il primo è un museo tradizionale, ampiamente storicizzato negli studi demologici, che si rivolge ad un pubblico esponendo una collezione all’interno di un edificio. Questo restituisce la memoria dei luoghi storici e della cultura di una comunità mediante strategie di rappresentazione folkloristica del territorio e delle sue tipicità. Un ecomuseo invece nasce “dal basso”, è concepito e costruito sul territorio e di quel territorio ne è espressione culturale. Generalmente, un ecomuseo si compone di uno spazio fisico in cui esporre la propria collezione (oggetti

7

Convenzione quadro del Consiglio d‟Europa sul valore dell‟eredità culturale per la società del 27 ottobre 2005, n°199, entrata in vigore il 1 Giugno 2011. Ultima nata fra le convenzioni culturali internazionali, non vuole sovrapporsi alle normative legislative esistenti nei vari Paesi dell’Unione Europea ma le integra, credendo fermamente nella partecipazione dei cittadini e delle comunità per far accrescere la consapevolezza del valore del patrimonio culturale ed il suo contributo al benessere e alla qualità della vita.

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di interesse etnografico e storico) e di un sistema di percorsi che si diramano nel territorio, espressione di una cultura non limitabile ad uno spazio chiuso, ma articolata in diverse altre forme (laboratori, passeggiate tra sentieri, festa di paese...). La formula del museo open-air non si può applicare né in ogni circostanza, né alle grandi aree urbanizzate. Anche in queste ultime tuttavia la cultura può giocare un ruolo fondamentale nel sostegno allo sviluppo, favorendo l’integrazione e riducendo le occasioni di conflitto etnico.

Gli obiettivi dell’ecomuseo sono molteplici:

o coinvolgere tutte le istituzioni pubbliche e private preposte alla cura del patrimonio culturale, come espressione democratica di partecipazione nella condivisione delle scelte e delle azioni da intraprendere;

o riconoscere il ruolo fondamentale dell’associazionismo, poiché intorno all’ecomuseo si forma nel tempo un gruppo di collaboratori e di volontari, variegato per quel che concerne l’età, l’estrazione sociale e le competenze professionali, ma concorde nella disponibilità a collaborare per amore della propria terra;

o integrare l’attività di ricerca scientifica ai saperi locali, in una vera e propria operazione di antropologia d’emergenza, che permette di raccogliere e salvare un patrimonio di testimonianze di grande valore storico e culturale;

o cercare di ricreare un contatto andato progressivamente perduto tra le giovani generazioni e la terra, mediante attività didattiche educative legate a quest’ultima. Un ecomuseo ha quindi bisogno di tempo per lavorare e per stabilire dei rapporti di reciproca fiducia con le persone, gli enti, le organizzazioni e associazioni che abitano un territorio; è un lavoro intenso che va a stabilire una trama di relazioni, che sono la premessa per una valorizzazione del territorio condivisa e non imposta. Appare ovvio che un ecomuseo sia lo specchio di una comunità in grado di esprimere un livello di maturità nella gestione e nella promozione del proprio patrimonio culturale, che accoglie ed accompagna l’ospite di passaggio in un percorso di conoscenza e di scambio culturale.

Permane comunque la difficoltà nel far rientrare questa nuova tipologia di musei in uno schema fisso poiché, essendo la realtà dell’ecomuseo così strettamente legata al territorio, ogni luogo ha la propria voce e il proprio modo di farla sentire.

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In Italia non esiste una legge nazionale in materia, tuttavia un ecomuseo, per potersi definire tale, deve possedere alcuni requisiti definiti dall’IRES (Istituto per le Ricerche Economiche e Sociali)9. Il compito di questo istituto è individuare, anche tramite analisi comparata di esperienze nelle diverse regioni italiane ed europee, criteri che consentano una distribuzione delle risorse disponibili funzionali allo sviluppo socio-economico, quasi sempre legati a una valorizzazione turistica. Un ecomuseo però richiede soprattutto un codice etico, fondato sull’idea di patrimonio culturale come «bene comune» e sul raggiungimento del benessere collettivo come obiettivo primario.

Nel nostro Paese gli ecomusei avrebbero un gran margine di sviluppo, ma gran parte delle potenzialità di questa forma museale risulta ancora inespressa. Come in ogni campo però, se da un lato c’è chi fatica a cogliere le opportunità, dall’altro esistono diversi esempi virtuosi. Un caso emblematico è rappresentato dal Piemonte che per primo, nel 1995, ha promosso una legge in materia di ecomusei10 allo scopo di istituire una rete eco museale provinciale. Su questa scia, a partire dalla Convenzione Europea

del Paesaggio (Firenze 2000)11, altre regioni italiane hanno aperto le porte a questa

forma museale12 e nel 2003, al primo congresso nazionale italiano degli ecomusei, tenuto a Biella, si faceva il punto in merito a tali esperienze, sino ad arrivare al 2009 ad una proposta di legge-quadro13. Tuttavia in Italia erano in corso già intorno alla fine degli anni Ottanta significativi fenomeni di forte valore ecomuseale, di cui un esempio su tutti è rappresentato dall’Ecomuseo della Montagna Pistoiese, in Toscana14

.

Per concludere, come già precedentemente accennato, il fatto di entrare a far parte di un ecomuseo si configura anche come nuova acquisizione di un bene culturale per un modello di sviluppo turistico sostenibile e durevole.

9 www.ires.it

10 L. R. del 14 marzo 1995 n.31 sulla « Istituzione di Ecomusei nel Piemonte » e L.R. del 17 agosto 1998,

n.23, recante « Modifiche alla legge regionale 14 marzo 1995, n.31 ».

11

Riconosce la qualità e la diversità dei paesaggi europei che costituiscono una risorsa comune per la cui salvaguardia, gestione e pianificazione di tutti i paesaggi europei.

12 Un primo contributo su scala nazionale, sul quadro normativo regionale in tema di ecomusei lo

troviamo in M. Maggi, C. A. Dondona, Le leggi per gli ecomusei. Prime esperienze e cantieri in atto,

Ires Piemonte, Torino 2006.

13 Si veda Atti parlamentari, Camera dei Deputati, XVI Legislatura, Disegni di Legge e relazioni,

Legge-quadro sugli ecomusei, Proposta di Legge n.2804 del 14 ottobre 2009.

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A.3 L’ECOMUSEO DELLLA MONTAGNA PISTOIESE.

IL COMPARTO DELLA MADONNINA

Nella ricognizione svolta per questo lavoro di tesi, ho potuto osservare come tra gli abitanti dell’appennino pistoiese il ricordo di un tempo passato sia ancora vivo, e che proprio dall’esigenza di conservare e tramandare il patrimonio di conoscenze e tradizioni della popolazione della montagna è nato questo ecomuseo. Quest’esigenza è stata fortemente sentita “dal basso”, tant’è che la nascita di questa importante realtà pistoiese deriva dal grande interesse e dall’impegno della popolazione locale nel concretizzare nella formula dell’ecomuseo questa azione di recupero della memoria. Il sistema dell’Ecomuseo della Montagna Pistoiese ha realizzato interventi strutturali di conservazione e valorizzazione del patrimonio materiale locale in situ, ben visibili a tutti, configurandosi come unico in Italia, concluso nelle sue linee generali e stabilmente aperto ai visitatori. Diversamente dai cugini europei, questo Ecomuseo non si presenta come un parco tematico o un’area circoscritta dove ricostruire artificialmente edifici e strutture del passato, ma ha operato ed opera tuttora come strumento per leggere il territorio. Attivo dal 1990, si tratta di un insieme organizzato di sei itinerari tematici completamente all’aria aperta, che permettono di conoscere la Montagna Pistoiese attraverso i segni del rapporto fra uomo e ambiente lasciati durante secoli di storia. L’itinerario più conosciuto è quello del ghiaccio, che consente di ripercorrere la storia della produzione del ghiaccio naturale sviluppatasi lungo la valle del fiume Reno, dalla località Le Piastre, a 761 metri s.l.m., fino a Pracchia, a 617 metri s.l.m (Carta A.1). Il percorso si articola in tre tappe: una camminata fino alle Sorgenti del Reno presso Prunetta, una passeggiata lungo il fiume Reno da Le Piastre verso la Ghiacciaia della

Madonnina alla scoperta del funzionamento di una ghiacciaia, e la visita al Polo didattico del Ghiaccio di Pracchia, che approfondisce quanto visto a Le Piastre (Carta

A.1).

Nel 2001 è stato restaurato l'intero comparto15, comprensivo di calle, gore (con relative chiuse) e laghetti nel quale è situata la ghiacciaia della Madonnina, il cui nome deriva

15

L’intero progetto è stato realizzato nell’ambito del Programma di Sviluppo Rurale dal Comune di Pistoia e finanziato con fondi europei, statali e regionali, anche grazie alla collaborazione della Provincia di Pistoia.

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dalla statuetta sacra di Maria posta sull’edicola ricavata nella struttura accanto alla porta di scarico del ghiaccio, su via Modenese (Figg. A.1-3). L’intero sistema è collegato operativamente al polo didattico ed espositivo del ghiaccio nel comune di Pracchia, dove vengono effettuate interessanti dimostrazioni pratiche sulla produzione del ghiaccio. C ar ta A. 1 . R ap p resen tazio n e c ar to g raf ica d ei sei iti n er ar i te m atici. ( fo n te www .ec o m u seo p t.it)

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Figura A.1. Lavori di recupero della Ghiacciaia della Madonnina. (foto archivio Palazzo Achilli,1990)

Figura A.3. Apertura di scarico del ghiaccio, lato di via Modenese. Nell’edicole la statuina della Ma-donnina da cui il nome della ghiacciaia.

Figura A.2. Ghiacciaia della Madonnina come si presenta oggi, vista dal pelago.

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Il recupero delle strutture presenti nel comparto produttivo del ghiaccio della Madonnina a Le Piastre ha portato la ghiacciaia maggiore a una nuova funzione didattico-educativa, valorizzata tramite aperture con visite guidate e allestimenti interni che propongono la storia del ghiaccio con i suoi strumenti e le sue attrezzature del lavoro.

Dal 2011 l’Associazione Ecomuseo della Montagna Pistoiese, con sede in Palazzo Achilli a Gavinara (PT), gestisce tutto il sistema ecomuseale. Il Palazzo, oltre ad avere funzione di punto informativo per il visitatore, dispone di spazi espositivi per mostre temporanee e vi trovano posto il Centro Naturalistico Archeologico dell‟Appennino

Pistoiese, il Centro di documentazione Mario Olla e l‟Archivio sonoro delle tradizioni orali della montagna pistoiese, per dar voce a manufatti, documenti e testimonianze

orali ancora vivi nel ricordo della gente (Fig. A.4).

Ritengo importante e interessante la possibilità di affiancare la valorizzazione di questa realtà con la scelta di ulteriori e impegnative attività di conoscenza della montagna toscana, come escursioni o uscite in mountain bike, in grado di attrarre un pubblico adulto. Un esempio è l’Ecomuseo Trekking, un percorso a sentiero che si snoda per circa 9 km collegando Le Piastre a Pontepetri ricalcando in parte il tracciato storico della Via Romea Nonantolana. È possibile percorrere l’itinerario liberamente o con una guida ambientale escursionistica, che descriverà gli aspetti naturalistici: il percorso è corredato da cartellonistica bilingue, che permette di scoprire alcune importanti testimonianze dell'attività produttiva del ghiaccio (Carta A.2).

Ultimo di nascita è l’Ecomuseo Mountain Bike Experience, partito a settembre 2017, che consiste in un insieme di cinque anelli di percorso differenziati per difficoltà (di cui soltanto due per ora aperti) che coprono tutta la montagna da Abetone fino a San Buca (Carta A.3). Ogni tracciato è inoltre segnato da cartelli che riportano il QR code per scaricare la mappa GPS.

Il progetto ecomuseale potrà quindi sviluppare nel futuro prossimo questi temi in chiave prettamente di vero laboratorio didattico all’aria aperta.

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C ar ta A. 3 . R ap p resen taz io n e ca rto gr af ica dei cin qu e per co rs i d ell’ E co m us eo Mo un ta in B ik e E xp er ien ce . ( fo nte www .ec om us eo pt.it)

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Figura A.4. Poesia sul ghiaccio di Primo Begliomini, poeta di Vivaio frazione di Le Piastre, Pistoia. Esempio di documentazione della memoria locale. (su gentile concessione di una guida dell’Associazione Ecomuseo della Montagna Pistoiese che mi ha accompagnato alla visita del comparto del ghiaccio della

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A.4 ALTRE FORME DI MUSEI DEL TERRITORIO IN ITALIA.

IL MUSEO ERGOLOGICO

In Italia, la valorizzazione del patrimonio territoriale e delle comunità locali ha seguito vie diverse rispetto ad altre aree d’Europa (come ad esempio in Francia): per questo motivo avrebbe poco senso limitare questo studio ai soli ecomusei ufficialmente riconosciuti. Esistono infatti molti musei interessati alla valorizzazione territoriale, che presentano caratteristiche analoghe agli ecomusei, sebbene non abbiano la stessa denominazione. Un esempio è costituito dai musei ergologici, appartenenti alla classe dei musei etnografici territoriali, in quanto il loro obbiettivo è descrivere come la cultura materiale della popolazione locale sia stata applicata allo sfruttamento dell’ambiente al fine del sostentamento. Più nello specifico, questi musei analizzano il metodo di lavoro dell’uomo nei confronti del territorio, l’abitazione, il vestiario, gli ornamenti, nonché le tecniche di produzione.

Il Nord Italia risulta l’area dove si concentrano maggiormente i musei ergologici. Al primo posto vi è il Piemonte, poiché, come accennato in precedenza, è stata la prima regione a riconoscere legislativamente (accanto agli ecomusei) anche tale forma museale; a seguire troviamo Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Questa concentrazione è facilmente spiegabile dal fatto che nel Nord Italia è avvenuto un distacco più radicale dal mondo agricolo tradizionale a favore di quello industriale. Il fatto che esista un così gran numero di questo tipo di musei, è probabilmente espressione del bisogno di recupero delle proprie radici e dei propri valori, ritenuti minacciati dall’omologazione derivante dalla cultura industriale.

I musei ergologici del territorio si configurano come un tradizionale museo concepito in uno spazio fisico, all’interno del quale si propone al visitatore un’esposizione di oggetti inerenti l’attività artigianale svolta un tempo nell’edificio che ospita il museo stesso. Un ergomuseo non presenta gli stessi obiettivi dell’ecomuseo, poiché non implica percorsi tematici nel territorio circostante: la sua funzione primaria è quella di luogo di ricerca e documentazione, tramite un approccio scientifico. A questi scopi va aggiunta la necessità di far conoscere il proprio patrimonio collettivo, formato soprattutto da utensili e arnesi di uso quotidiano, privi di un reale valore economico poiché fatti in materiale povero, ma che in una società contemporanea, necessitano di spiegazioni per

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essere apprezzati e goduti nella loro totale pienezza. Fondamentale ma complesso è l’aspetto comunicativo, poiché se da un lato non bisogna appesantire il museo con un eccesso di verbosità, dall’altro quest’ultimo non deve essere il classico contenitore di oggetti. Necessario è saper coniugare sapientemente la correttezza linguistico-tecnica con semplicità espositiva, tenendo conto che l’eccessiva precisione di tecnicismi non spiegati potrebbero rendere difficile il dialogo tra i manufatti esposti ed il fruitore, portando nei casi peggiori ad allontanare irrimediabilmente quest’ultimo.

Agli ergomusei sono stati attribuite funzioni simili a quelle proprie dei mezzi di comunicazione di massa: devono saper intrattenere, informare, divertire, educare, rendere familiare e accessibile ciò che altrimenti risulterebbe estraneo. In quest’ottica gli ergomusei diventano un luogo di elaborazione creativa, di stimolo di emozioni e comunicazione attraverso i sensi, attraverso i quali si punta a far riscoprire l’identità locale.

A.4.1 UN ESEMPIO DI MUSEO ERGOLOGICO, “LA GIASSÀRA DEI CARCERERI” DI CERRO VERONESE (VR)

Il museo La Giassàra, istituito nel 1990 in contrada Carcereri di Cerro Veronese, a 737 metri s.l.m., è uno dei pochi musei etnografici in Veneto a essere incentrato sugli aspetti ergologici nell’areale prealpino. È situato nel Parco Naturale Regionale della Lessinia, un vero e proprio museo en plein air di immenso valore naturalistico ed antropico: l’area è infatti un altopiano esteso per oltre 100 km² a Nord di Verona, tra la Val d’Adige ad Ovest e la provincia di Vicenza ad Est.

Nel vasto territorio si individua la presenza di una grande varietà di ambienti, nel quale lo sfruttamento del suolo è iniziato già nella Protostoria con attività legate all’agricoltura e alla pastorizia (presenze umane risalenti a circa 35 mila anni fa sono testimoniate nella Grotta di Fumane). La fase storica più importante è però quella altomedievale, che vede giungere dall’area bavaro-tirolese comunità germaniche, i Cimbri. Queste nuove popolazioni diedero vita a insediamenti stabili nella fascia di media montagna, le contrade, e a strutture connesse con l’alpeggio nell’alta Lessinia, le caratteristiche malghe. Data la natura carsica del terreno, i Cimbri hanno saputo mitigare l’apparente aridità dell’altopiano creando centinaia di laghetti (le pozze) per la raccolta di acqua piovana da utilizzare per abbeverare il bestiame all’alpeggio e talvolta,

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per raccogliere in inverno il ghiaccio formato dall’acqua congelata. Tra i fabbricati e manufatti che distinguono una malga, immancabile è la giassàra (ghiacciaia) collocata sempre nei pressi dalla pozza nella quale il ghiaccio raccolto (ma anche la neve a quote più elevate) veniva stivato (Fig. A.5). Sono ghiacciaie molto piccole, a forma di botte, ricoperte da una falsa cupola; quest’ultima era sormontata da uno spesso strato di terra su cui cresceva la cotica erbosa che garantiva un maggior isolamento termico. Un’unica apertura permetteva lo stoccaggio e l’estrazione del ghiaccio durante la stagione estiva, utilizzato prevalentemente per le attività casearie.

Prima dell’insediamento dei Cimbri l’altopiano era spopolato, ricoperto da estese foreste di faggio e castagno a cui si associano a quote più elevate l’abete bianco e l’abete rosso; l’economia di questo popolo era dunque basata sulla lavorazione del legno, sulla produzione del carbone vegetale nonché sulla produzione e commercio del ghiaccio naturale. In particolare nella zona centrale del Parco, lungo la dorsale Cerro-Bosco Chiesanuova e nel territorio di Sant’Anna d’Alfaedo, si individua la maggior concentrazione di ghiacciaie, pregevoli edifici rurali in pietra locale (Pietra di Prun e Rosso Ammonitico) della tradizione cimbra, in condizioni più o meno buone di conservazione. Cerro V.se con le sue ventisette ghiacciaie, aveva nel suo territorio la più alta densità di questi depositi.

Per i proprietari di una ghiacciaia, la vendita del ghiaccio era un introito importante così come lo era per i proprietari dei carri, i caretèri, poiché significava lavoro sicuro sino all’estate avanzata: una nuova occupazione quindi, che si affiancava a quella dell’allevatore, tanto redditizia da far coniare il detto “Na giassàra mantien „na

fameja” ovvero “una ghiacciaia mantiene una famiglia”.

Tuttavia oggi si è concordi nel pensare che gli introiti derivanti dalla vendita non fossero di per sé sufficienti al mantenimento di un nucleo familiare, ma più che altro questa attività economica era da intendersi come una valida integrazione al bilancio familiare. Il carattere stagionale della produzione del ghiaccio naturale, da novembre a

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febbraio, ha permesso di inserire perfettamente tale produzione in alternanza con le attività agricole e silvo-pastorale. Questa fonte di reddito però, rimase in tutta la Lessinia sempre un’appendice dell’economia contadina, coprendo parzialmente le perdite di guadagno dal commercio delle risorse naturali (selci da acciarino e legname), ormai depauperate poiché sfruttate sin dalla preistoria.

Già dai tempi degli Scaligeri, ai montanari era imposta la fornitura del ghiaccio alla città: a tal proposito era indispensabile possedere, affiggendola al carro, una licenza speciale rilasciata dal comune, indicante se si trattava di ghiaccio per uso domestico o commerciale.

A partire dal XIX secolo si assiste nella Lessinia centrale alla costruzione di nuove ghiacciaie soprattutto in prossimità delle strade, che permettevano di raggiungere facilmente i paesi della bassa pianura veronese e mantovana e di favorire i commerci con le città. Prende così avvio la presenza delle ghiacciaie cosiddette “commerciali”, differenziate per forma e struttura dalle originarie ghiacciaie di malga di alta montagna, che soppiantano i covoli (grotte) naturali che in tempi antichi fungevano da neviere. Il commercio di questo prodotto in Lessinia è stato molto fiorente fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando venne istituita l’Azienda Municipalizzata di Verona per la produzione industriale del ghiaccio, con grave danno per i ghiacciaioli.

La Giassàra dei Carcereri a Cerro è un tipico esempio di ghiacciaia “commerciale”

ipogea, per la quale è stato realizzato un museo ergologico; ha il pregio non solo di presentare una ghiacciaia perfettamente recuperata ma permette al visitatore di entrare all’interno e scendere fino alla parte più bassa, avendo modo di apprezzare sia la funzione che la bellezza del manufatto. Lungo la scala di discesa infatti, vi sono spiegazioni e illustrazioni delle diverse fasi dell’attività svolta dai giassarói, cioè coloro che lavoravano in questi siti di produzione (Fig. A6).

La ghiacciaia possedeva una capienza massima di 500 mᵌ di ghiaccio ed è strutturalmente la più completa: prossima alla pozza dove si estraeva il ghiaccio creata artificialmente (oggi non più in grado di trattenere l’acqua essendo mancata la manutenzione), si compone di un edificio in pietra locale interrato di 13 metri, a pianta circolare e sezione troncoconica (Ø maggiore di 8 mt), coperto con tetto circolare a doppio spiovente in lastre di Prun, sostenuto da grosse travi in legno (Figg. A.7-9).

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Figura A.6. La moderna scala appositamente aggiunta all’immobile per scendere all’interno della ghiacciaia. Alle pareti sono appesi pannelli didattici ed attrezzi usati per il mestiere.

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Le modalità di raccolta, taglio e stoccaggio del ghiaccio, presentava criteri funzionali e distributivi uguali alle ghiacciaie dell’areale appenninico.

Il ghiaccio tagliato veniva immagazzinato all’interno della ghiacciaia utilizzando un apertura (bocára) posta a livello del terreno (Fig. A.10) orientata verso la pozza, mentre un inconsueto portico protegge una seconda finestra adoperata per estrarre i blocchi dalla ghiacciaia (Fig. A.11). Con l’aiuto di un argano (fusel) posto sotto il portico, si facevano salire una ad una le lastre direttamente alla finestra di scarico, orientata verso strada per facilitare l’arrivo e il carico delle carrette, originali carri molto lunghi e stretti rivestiti di lamiera (Schema A.1). Iniziava poi il viaggio notturno verso le “poste” di scarico nella città e nei paesi di pianura.

Figura A.10. a) apertura di carico dei blocchi di ghiaccio tagliati nella pozza (attualmente an-che porta d’entrata per la visita alla ghiacciaia); b) interno porta.

a

b

Figura A.11. Porticato esterno a protezione dell’apertura di levata del ghiaccio.

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Di questa attività rimangono soltanto qualche giassàra qua e là (ma più spesso ruderi) ed il suo ricordo nelle persone più anziane, che l'hanno praticata. Come per molti di questi manufatti, l’incuria dell’uomo e il tempo avevano reso il complesso della ghiacciaia dei Carcereri ormai quasi irrecuperabile. Nel 1990 l’amministrazione comunale di Cerro Veronese ritenne opportuno e appropriato acquistarla e restaurarla nei suoi elementi fondamentali (pozza-deposito-portico) conferendole dignità storica. Il ripristino è stato condotto nel rispetto delle forme originarie, garantendo una corretta lettura del sistema produttivo, con l’intento di conservare insieme al manufatto una testimonianza della vita e delle attività umane dell’Altopiano.

Questo museo si caratterizza inoltre per avere un comitato di gestione stabile e permanente, in grado di gestire economicamente i finanziamenti comunali, destinandoli a progetti, eventi e supporti che riguardano le attività di chi fa volontariato perché, come detto in precedenza, la maggior parte di questi piccoli musei vive del volontariato e della forza di pochi appassionati. Grazie alla valorizzazione questo sito è divenuto oggi un importante punto didattico esplicativo di una attività produttiva del passato.

Schema A.1. Schema di prelievo dei blocchi di ghiaccio con l’ausilio dell’argano. Una squadra di quattro uomini era sufficiente per svolgere le operazioni di carico delle carrette: far passare la corda attorno alla lastra, sollevare con l’argano la lastra, tirare la lastra fino alla parte posteriore del carro e sistemare la lastra sul carro.

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