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La disuguaglianza «negata»: strategie di promozione e di difesa sociale nel Salento settecentesco

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Academic year: 2021

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e di difesa sociale nel Salento settecentesco

GIUSEPPEPOLI 1. Premessa

La disuguaglianza nella distribuzione delle risorse economiche è un feno-meno che ha contraddistinto la storia dell’umanità da quando questa si è orga-nizzata in società aventi forme istituzionali. Non è il caso di scomodare filoso-fi e scienziati politici per avere conferma di questa affermazione: «Perché un pensatore di nome Russò scrive che da quando un uomo, tanti secoli fa, disse “questo è mio! e costruì recinti intorno a un campo gli uomini divennero disu-guali”»1. Senza inseguire utopie e ideali astratti di palingenesi egualitarie, la

questione è di un’evidenza incontestabile e si ripropone con maggiore o mino-re consapevolezza ogni qualvolta la spemino-requazione socioeconomica tende ad accentuarsi. Per ovviare agli aspetti divenuti talvolta insopportabili e per miti-gare le ineguaglianze più macroscopiche sono avvenute proteste, ribellioni, sommosse, rivolte ecc. di differente tenore ed efficacia che, quasi sempre, so-no sfociate in manifestazioni cruente senza ottenere i risultati sperati. Solo in qualche caso si sono avute risposte più incisive di tipo rivoluzionario, ma non meno violente, che, comunque, hanno solo aggiornato sotto altra forma e con altri protagonisti le disparità precedenti. Non è questa la sede per un’analisi approfondita di tali questioni che richiedono maggiore spazio e più dettagliati riferimenti concreti.

L’accentuarsi delle disuguaglianze negli ultimi anni ha suscitato le attenzio-ni dei mass media e le riflessioattenzio-ni di economisti e politici più sensibili a questi temi. Lo segnalano, pur nella loro controversa efficacia, le proposte con le quali si vorrebbero mitigare le difficoltà che la crisi ha accentuato mediante una casi-stica di provvedimenti di diversa efficacia e destinazione sociale che vanno dal reddito di cittadinanza, al reddito di base, al reddito minimo garantito, al reddi-to di inclusione ecc.

Itinerari di ricerca storica, XXX - 2016, numero 2 (nuova serie)

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Uno degli effetti della disuguaglianza consiste nella accentuata polarizzazio-ne della distribuziopolarizzazio-ne del reddito e dei proventi economici. Secondo gli esperti esisterebbe, anzi, un rapporto molto stretto tra le attuali difficoltà in cui versano i paesi del mondo occidentale e le rinnovate asimmetrie sociali riemerse in ma-niera così marcata negli ultimi decenni2. Senza entrare nel merito di questioni

molto complesse, è evidente che la riduzione delle differenze nella distribuzio-ne del reddito o della ricchezza può contribuire al miglioramento dell’economia o, in alternativa, ad un suo sostanziale peggioramento. La crisi degli ultimi anni ha determinato un sensibile incremento della povertà cui si è sovrapposto un peggioramento degli standard e degli stili di vita dei ceti intermedi che univer-salmente vengono ritenuti i più idonei a sostenere la domanda di beni e servizi. Di conseguenza, le accentuate disparità degli ultimi anni concorrono ad aggra-vare piuttosto che a risolvere la congiuntura negativa in atto.

Gli scritti degli economisti «moderni» e contemporanei sono densi di rifles-sioni su questi temi in relazione ai momenti storici di loro diretta esperienza. Da Tommaso Moro a Juan Luis Vives, dal marchese di Condorcet a Thomas Paine e ad Abramo Lincoln, la schiera dei pensatori sensibili a questi argomenti si allunga ad economisti e filosofi del Novecento come Bertrand Russel, Milton Friedman, Jhon Kenneth Galbraith, James Tobin giungendo fino ad economisti e politici recentemente assurti agli onori della cronaca come Yanis Varoufakis.

Per restare in ambiti cronologici e geografici attinenti all’Età moderna, an-che nelle opere degli illuministi meridionali, con esplicito richiamo alla specifi-cità di alcuni contesti o alla sopravvivenza di determinati istituti giuridici e pra-tiche consuetudinarie, si sottolinea l’esigenza di modificare gli assetti più tradi-zionali ed obsoleti dell’antico regime. Le loro analisi, finalizzate a stigmatizza-re l’insostenibilità delle spestigmatizza-requazioni socioeconomiche allora esistenti, si scontrano con una realtà antropologicamente «assuefatta» ai condizionamenti consolidati da secoli. Confrontando quest’ultima con le loro proposte, emerge lo scarto tra l’urgenza dei problemi da risolvere e i tentativi escogitati dai sin-goli per inserirsi tra gli spazi che le strutture coeve riservavano loro su scala lo-cale. Per alleviare quelle difficoltà erano state create numerose istituzioni stenziali che le ricerche sulla diffusa presenza dei poveri e delle categorie assi-milabili ha messo opportunamente in evidenza.

2. La distribuzione del reddito

Ma la disuguaglianza sociale aveva e ha mille sfaccettature sicché erano al-trettanto varie le strategie escogitate per porvi rimedio. Per comprendere la

2 Una riflessione su questi temi con numerose soluzioni per evitare che la divaricazione dei

redditi si accentui ulteriormente è stata proposta da alcuni economisti come T. PIKETTY, Il capita-le nel XXI secolo, Milano, Bompiani, 2014; B. MILANOVIC, Chi ha e chi non ha. Storie di disu-guaglianze, Bologna, Il Mulino, 2014; A.B. ATKINSON, Disuguaglianza. Che cosa si può fare?,

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mentalità e la tendenza dell’epoca, risultano interessanti alcune soluzioni prati-cate nel passato che, senza alcuna pretesa di sovvertimento dell’esistente, han-no contribuito, anzi, a consolidare quegli equilibri sociali. In questa prospettiva si concentrerà l’attenzione sulle iniziative intraprese da su taluni esponenti delle stratificazioni intermedie per essere accreditati tra i ranghi del patriziato cittadi-no e sui modelli comportamentali escogitati da individui di estrazione contadi-na. Il tutto, sullo sfondo della società salentina della seconda metà del Settecen-to, in un periodo in cui si rivelano più accentuati e più insopportabili quei divari sociali e diventa più stringente l’esigenza di porvi rimedio.

Le indagini sull’articolazione socio-professionale e sulla relativa distribu-zione delle risorse patrimoniali evidenziano con sufficienti elementi di riscon-tro i livelli della disuguaglianza sociale ed economica esistenti nei secoli pre-cedenti. Una opportunità in questa direzione è data dall’utilizzazione delle «collettive» dei catasti onciari che consentono di esaminare la distribuzione del reddito a metà Settecento e di individuare le differenze socioeconomiche che caratterizzano le diverse segmentazioni territoriali del Mezzogiorno sette-centesco. Lo spazio riservatomi in questa occasione e l’obiettivo di questo contributo non consentono di illustrare con molti dettagli i criteri adottati per l’uso di questa fonte3. Pertanto mi limito a fornire soltanto alcune essenziali

informazioni, rinviando alla bibliografia sull’argomento ulteriori approfondi-menti conoscitivi4.

Il reddito imponibile accatastato per le singole categorie fiscali (cittadini,

vedove e vergini in capillis, cittadini assenti, persone ed enti ecclesiastici citta-dini e forestieri abitanti e non abitanti laici ecc.) e sintetizzato nelle «collettive

generali delle once» permette, infatti, di individuare la specifica connotazione sociale degli appartenenti a queste generiche rubriche. Al loro interno si

rintrac-3 La storiografia sulle fonti fiscali è sterminata: una sua semplice elencazione risulterebbe

molto prolissa e rischierebbe qualche inevitabile omissione. Per tutti si rinvia alla sempre interes-sante sintesi di R. ZANGHERI, Catasti e storia della proprietà terriera, Torino, Einaudi, 1980 e,

per l’Italia meridionale, ai volumi curati da A. PLACANICA, Il Mezzogiorno settecentesco attraver-so i catasti onciari. Aspetti e problemi della catastazione borbonica, vol. I, Napoli, Edizioni

Scientifiche Italiane, 1983 e ID., Territorio e società, Atti del convegno di studi, Salerno 10-12

aprile 1984, vol. II, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1986.

4 Sul catasto onciario e sull’utilizzazione delle «collettive» si veda di P. VILLANI, Il catasto onciario e il sistema tributario, in ID., Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Roma-Bari,

Later-za, 1973, pp. 105-153. In particolare: la «distinzione nella collettiva tra once dei vari gruppi citta-dini e once dei forestieri (o esteri) abitanti e non abitanti può fornire alcuni elementi di giudizio sulla situazione sociale. I comuni nei quali la maggior parte delle terre e delle altre fonti di reddi-to era nelle mani dei forestieri godevano cerreddi-to di scarsa aureddi-tonomia […]. Si può anche argomenta-re che non esistesse colà una numerosa borghesia terriera e che la popolazione fosse costituita quasi esclusivamente da contadini e artigiani che potessero contare sullo scarso reddito del pro-prio lavoro» (ivi, p. 123). Per un’applicazione di quelle indicazioni in area pugliese cfr. G. POLI, La distribuzione del reddito e l’articolazione sociale, in ID. (a cura di), Quadri territoriali, equili-bri sociali e mercato nella Puglia del Settecento, Galatina (LE), Congedo Editore, 1987, pp.

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cia tutto l’universo sociale dell’antico regime: dai numerosi «bracciali» (termi-ne ge(termi-nerico col quale vengono indicati i contadini, con o senza terra, o coloro che svolgono attività manuali della più svariata tipologia) agli esponenti dei ceti intermedi (artigiani, venditori al minuto, piccoli proprietari ecc.), dai rappresen-tanti della borghesia locale (proprietari fondiari, elementi dell’intermediazione mercantile e delle professioni liberali) ai viventi civilmente o nobilmente», ai membri dell’aristocrazia urbana, fino ai componenti del ceto ecclesiastico e a qualche feudatario, tassato per i beni burgensatici di sua pertinenza.

Per esempio, all’interno della categoria fiscale dei «cittadini» si possono ri-trovare, tra gli altri, quei soggetti che, per intraprendenza e dinamismo, si di-stinguono rispetto alla massa dei contribuenti e concorrono ad imprimere a una maggiore vivacità economica ad alcune aree rispetto ad altre5. Pur

sottolinean-do che la distribuzione del reddito resta un metro molto grezzo per misurare le differenze sociali e le disparità economiche (oggi come nel passato) ritengo che, con le opportune decodificazioni, esso consente di individuare le disparità esistenti e, soprattutto, di rapportarle a ben precisi protagonisti6.

La numerosità dei contribuenti inclusi nella categoria fiscale dei «cittadini», pur nella sua genericità, consente di affrontare un’analisi sulla ripartizione del reddito al suo interno e in contrapposizione ad altri contribuenti e protagonisti del mondo settecentesco meridionale. Per questi motivi sono stati adottati alcu-ni indicatori econometrici che, sulla base della loro maggior o minore rilevanza, consentono di verificare dove esistessero condizioni di una più evidente artico-lazione socioeconomica e dove invece, quest’ultime trovavano difficoltà a ma-nifestarsi nell’ambito delle singole comunità esaminate e delle rispettive zone di appartenenza. In questa prospettiva sono stati presi in considerazione i

se-5Riprendendo il suggerimento proposto da Pasquale Villani (Il catasto onciario e il sistema tributario, cit. ) in una sua indagine sul Principato Citra e se ne sono approfondite le indicazioni

sulla base di un’analisi dei dati presenti nella documentazione di metà Settecento. Il tutto, nella sottintesa consapevolezza che quei dati fotografano la realtà settecentesca nei suoi decenni cen-trali e rappresentano il risultato finale di processi di lungo periodo costruitisi nel corso dell’Età moderna. Essi consegnano, da un lato, l’istantanea di alcuni fenomeni che a quella data hanno raggiunto la loro espressione più matura e, dall’altro, permettono di intravedere aspetti che tendo-no ad emergere ed a farsi strada nell’ambito dei più tradizionali rapporti sociali ed ecotendo-nomici pre-senti nella società di antico regime. Più esplicitamente, essi consentono di cogliere, per esempio, la dimensione assunta dal patrimonio ecclesiastico dopo la lunga accumulazione in gran parte de-terminata dalla diffusione della mentalità postridentina, ma, contemporaneamente, danno la pos-sibilità di individuare quegli elementi sociali di estrazione intermedia, che lentamente costituisco-no quello strato di borghesia, al suo intercostituisco-no molto composito, la cui affermazione maturerà nel corso de secolo successivo.

6 E ciò, nonostante il parere discordante col quale è stata accolta, dagli studiosi inclini alle

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guenti parametri: l’ammontare complessivo dell’imponibile accatastato alla ca-tegoria dei «cittadini»; la scomposizione di quest’ultimo in classi di ampiezza; la quantità di imponibile medio per fuoco fiscale; l’incidenza dell’«industria» sul totale dell’imponibile7.

L’imponibile accatastato ai «cittadini» è, innanzitutto, indicativo del peso economico che una collettività può avere nei confronti di altri contribuenti tra-dizionalmente più provvisti di risorse economiche, come quelli di estrazione ec-clesiastica e feudale. Una percentuale consistente di once spettanti ai «cittadini» può significare la presenza e la formazione di patrimoni di una certa rilevanza e, quindi, di nuclei di estrazione borghese che, più o meno incisivamente, si stanno affermando a livello locale. Ovviamente, le cose mutano di segno dove i dati esprimono una diversa ripartizione della ricchezza e questa si presenta più sfavorevole nei confronti dei «cittadini». In questi casi vanno presi in conside-razione i redditi del comparto ecclesiastico e di altre categorie fiscali, come, ad esempio, i forestieri abitanti e non abitanti laici. All’interno di queste ultime è possibile identificare gli esponenti della feudalità, il cui maggiore o minore pe-so economico si ripercuote inevitabilmente sulla presenza e la formazione di nuclei di borghesia e di ceti sociali più dinamici8.

A questa indispensabile premessa sul significato da attribuire alle once dei «cittadini» e alla loro funzione è opportuno aggiungere che si tratta in ogni ca-so di un dato molto parziale e che la sua valenza ermeneutica ha bica-sogno di es-sere ulteriormente approfondita. Ordinando l’imponibile dei «cittadini» in classi di ampiezza e confrontando questo dato tra le diverse comunità, oltre che al loro interno (per individuare quelle in cui esso risulta più basso o più elevato in termini percentuali rispetto al reddito delle altre categorie fiscali), si ottengono risultati interessanti su scala provinciale. Essi, però, hanno bisogno di ulteriori integrazioni per accertare l’effettivo significato di quelle percentua-li e le loro ricadute sulla compagine sociale che le esprime. La precarietà so-cioeconomica della popolazione di ampie zone pugliesi non è verificabile sol-tanto sulla base della disponibilità di qualche modestissimo introito di natura immobiliare e non, quanto sulla scorta dell’imponibile medio per fuoco, che costituisce un più oggettivo termine di raffronto per valutare le condizioni dei ceti rurali a metà Settecento.

7Per opportuni riscontri in merito a questi parametri si veda G. POLILa distribuzione del red-dito, cit.

8 È altrettanto inconfutabile che una quota rilevante dell’imponibile registrato a favore della

componente ecclesiastica permette di affrontare un’analisi sulla sua incidenza nella società di an-tico regime e di verificare la validità della polemica anticuriale contro il peso della manomorta. Per qualsiasi riferimento su questi temi mi permetto di mandare al mio contributo su La presenza

economica della Chiesa nell’Italia meridionale durante l’Età moderna, in R. DIPIETRA, F. LANDI

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Un altro elemento interessante per la valutazione dell’imponibile è dato dal-la sua scomposizione interna in funzione deldal-la quota derivante dalle once dell’«industria» rispetto al totale di quelle attribuite ai «cittadini». Se l’«indu-stria» è costituita dai proventi da lavoro dei componenti maschi della famiglia settecentesca è consequenziale che, dove essa contribuisce in maniera più rile-vante a formare le entrate familiari, lì vi siano minori opportunità di afferma-zione per figure o gruppi di estraafferma-zione borghese e, quindi, più accentuate forme di sperequazione nella distribuzione del reddito e dei beni. Tutto il contrario, lo-gicamente, si verifica dove, l’«industria» incide meno nella composizione com-plessiva del reddito. L’approfondimento dell’analisi statistica rivela che ad una quantità più contenuta dell’«industria» corrisponde nei singoli centri un reddito medio più alto e viceversa, secondo quanto si desume dall’indice di correlazio-ne tra queste due variabili che risulta altamente significativo (r= -0,7219)9. Dai

dati così elaborati, la realtà pugliese svela situazioni socioeconomiche piuttosto diversificate anche all’interno delle singole province.

Già evidente mediante l’analisi particolareggiata dell’incidenza

dell’indu-stria nelle tre province, questo fenomeno diventa ancora più chiaro

analiz-zando l’entità dei redditi medi su scala geografica. Alla concentrazione, in Terra d’Otranto, di molti centri con un’elevata incidenza dell’industria corri-sponde un imponibile medio per fuoco, a livello provinciale, pari ad appena 33 once, inferiore alla media [delle tre province] e notevolmente più basso rispetto ai valori accertati per Terra di Bari e Capitanata10.

È significativa la coincidenza tra il modesto livello dell’imponibile medio della Piana salentina (27-28 once) e della Piana salentina centrale (33 once) con la percentuale dell’imponibile accatastato per i «cittadini» di queste due zone. I valori decisamente più bassi verificati attraverso l’analisi incrociata tra l’impo-nibile spettante a questi contribuenti e i redditi medi per fuoco fiscale confer-mano la rilevante sperequazione nella distribuzione delle risorse di queste zone e, più in generale, di tutta la Terra d’Otranto. In cinque zone su otto, l’imponibi-le medio è, infatti, inferiore, a quello medio dell’imponibi-le tre province pugliesi.

La precarietà delle popolazione emerge attraverso l’analisi dei singoli centri. La polarizzazione dei redditi tra le diverse componenti sociali è riscontrabile at-traverso la verifica empirica dei dati. È sufficiente osservare i valori medi molto bassi dell’imponibile dei «cittadini» per valutare il disagio in cui versano, a metà Settecento, la maggior parte degli abitanti salentini. Si aggiunga che nel 50 per cento delle località esaminate gli appartenenti a questa stessa categoria fiscale presentano un imponibile inferiore alla media provinciale. Ciò vale

so-9L’indice di correlazione di Pearson o di Bravais-Pearson varia da -1 a +1. Se l’indice è

infe-riore allo zero le due variabili risultano inversamente correlate, oppure correlate negativamente. Se è pari a 0 significa che c’è equa distribuzione, se tende ad 1 significa che c’è la tendenza ad una sperequazione che è più marcata con l’avvicinarsi a 1 di questo indice.

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prattutto per alcuni centri dell’area intorno al capoluogo dove si raggiungono punte minime di 10 once per fuoco a Monteroni, di 17 once a Cavallino, di 18 once a Leverano, di 21 once a Carmiano. Né si tratta di casi isolati perché an-che altrove è possibile scoprire quote molto più basse come quelle appena indi-cate. La casistica comprende una numerosa campionatura di comunità ubicate in altre zone come la Piana di Nardò e Gallipoli, la Piana salentina centrale, la Piana di Otranto e la zona del Capo. Questi dati, infine, vanno integrati dai ri-sultati riguardanti l’incidenza dell’«industria» che, nei centri delle zone appena menzionate, si attesta su valori piuttosto alti rispetto all’imponibile dichiarato. Il tutto a conferma del ruolo prioritario svolto dal reddito da lavoro piuttosto che dalla disponibilità di altri cespiti patrimoniali.

3. I tentativi di promozione sociale della borghesia

Dietro tali indicazioni numeriche si nasconde la società di Terra d’Otranto con le caratteristiche comportamentali dei suoi ceti. Così è possibile osservare da un lato l’ambizione nobiliare che pervade alcuni soggetti e dall’altro le for-me di difesa escogitate da altri per proteggersi dalle eventuali difficoltà della vi-ta. Alla fine del Settecento questa realtà è descritta con attenta partecipazione dai contemporanei. Le loro espressioni sono un’incontrovertibile testimonianza sui costumi e sulla mentalità prevalenti nella zona. Parlando di Lecce, Galanti afferma che: «La nobiltà è numerosa ma oziosa [e, per di più è] dedita a’ diver-timenti e scarsa di fortune»11. Egli, inoltre, sottolinea quanto sia diffusa

l’aspi-razione alla promozione sociale e all’inserimento tra i ranghi del patriziato, ag-giungendo: «Qui la nobiltà è una malattia che ha infettate tutte le persone. Tutti vogliono essere nobili, essere trattati di eccellenza […]»12.

È la mania di nobiltà a determinare la propensione a forme di scalata sociale cui si contrappongono rifiuti e chiusure altrettanto ostinati da parte di coloro che ritengono di essere «contaminati» da nuove aggregazioni. In questa dimen-sione interpretativa rientrano le allegazioni forensi compilate nella seconda metà del Settecento a favore e contro le pretese di ascrizione al ceto patrizio avanzate da alcuni rappresentanti di estrazione borghese.

A Gallipoli, per esempio, devono essere ritenuti nobili solo coloro che «vi-vono con decoro, e Civiltà, e che siano Persone probe ed oneste, e che si mantengono anche colle rendite de’ proprj effetti, requisiti tassativamente ri-chiesti dalle Sovrane risoluzioni per essere ammessi all’ascrizione del primo

11G.M. GALANTI, Giornale della penisola salentina, f. 16. Il documento fa parte del Giornale di viaggio, tuttora inedito, di Giuseppe Maria Galanti relativo alle Provincie della Puglia (Daunia, Peucezia e Japigia). I materiali sui quali si fondano le notizie riportate nel testo, già conservati

nell’Archivio privato di casa Galanti a Santa Croce del Sannio, si trovano ora nell’Archivio di Sta-to di Campobasso. Cfr. A. PLACANICA, D. GALDI, Libri e manoscritti di Giuseppe Maria Galanti. Il fondo di Santa Croce del Sannio, Lancusi (Sa), Edizioni Gutenberg, 1998, pp. 132-133.

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Ceto»13. Utilizzando il linguaggio usato nel testo, era ritenuta «una evidente

sconcezza, che si frameschiassero con i benestanti, ch’eran tutti fregiati di an-tica Nobiltà, i Medici, ed i Notaj, persone di bassa estrazione, e di mestiere abietto». Perciò era considerata una difficoltà insuperabile «riempir [il primo ceto] di benestanti Dottori di Legge, e di medicina, e Notaj», mentre era con-suetudine

della Città di Gallipoli, che il Sindaco a’ tenor de’ Privileggi si ele[gge]sse sempre del primo Ceto, e della più luminosa Nobiltà, [onde] era incompati-bile, che si includessero nel primo Ceto medici, e Notaj, [i] quali potrebbero come ascritti al primo Ceto aspirare un giorno al Sindacato, ed altre Cariche addette alla sola Nobiltà, che se ne trovava in un tranquillo, ed invariabile possesso, e ne aveva giusto titolo.

Per di più – si aggiunge –, gli aspiranti al patriziato non sono neanche in possesso di «Diplomi Reali di Nobiltà» e condividono per lo più «un’origine oscura» che non esclude lo svolgimento di «officij plebei». Pertanto, essi sono accomunati dal «Legittimo Ostacolo a’ poter avere alcuna ingerenza negli affari universali», anche perché alcuni di loro non sono neanche nati a Gallipoli.

D’altro canto, gli esponenti della borghesia che aspirano ad essere integrati tra le file dell’aristocrazia, avvalendosi delle opere di alcuni giuristi della prima Età moderna come Andrea Tiraquello14, fanno notare che tra i membri della

no-biltà locale sono compresi individui di estrazione popolare o discendenti da fa-miglie «mercantili [che] esercitano [ancora] la mercatura», attività considerata «direttamente opposta alla Nobiltà». Lo avvalora un’indagine nominativa riser-vata a questi personaggi dalla quale si apprende che Don Giuseppe Francesco Coppola, uno dei più «animosi zelanti dell’ideata Nobiltà, discendeva per linea retta da Antonio Coppola, da cui nacque Giuseppe Francesco Suo Avo [il quale] nell’anno 1642, e 43» era impiegato presso un altro mercante.

Tra i richiedenti l’ascrizione al primo ceto di Gallipoli figurano anche don Carlo Vanalese («discendente per linea retta da un mercante olandese venuto a stabilirsi in Gallipoli per causa di mercatura, com’è noto a tutti»; don Salvatore d’Aprile «Mercante d’ogli, e di Baccalà, come [certificano i] riveli in dogana»; don Filippo Coppola; don Michele Martina; don Antonio Camaldari che con al-tri soci esercita da molti anni la «publica mercatura nella Piazza di Gallipoli, come [si evince] dai loro manifesti esistenti nella Regia Dogana di Gallipoli»;

13 Così recita un’allegazione forense a favore di alcuni elementi della borghesia locale

con-servata nella Biblioteca Provinciale di Lecce, Sezione manoscritti, Vol. 11, doc. 42, Memoria per

l’avvocato di Napoli contro le pretese dei Nobili [di Gallipoli]. Il documento ripropone brani di

una vertenza precedente usati per confutare le affermazioni di segno contrario avanzate dai nobi-li. Quando non diversamente indicato le citazioni riportate nel testo sono tratte da questo docu-mento. Sull’argomento cfr. S. BARBAGALLO, Società e patriziato a Gallipoli nel Settecento,

Gala-tina (LE), Congedo Editore, 2001, pp. 105 e sgg.

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don Carlo Leuzzi, anch’egli negoziante «di oglio come [appare dai] suoi mani-festi in Dogana, e [dal] Catastuolo dell’Università»; don Pietro Raimondo mer-cante «di Tavole, e legnami come dai manifesti in Dogana, benche fatti sotto al-tro nome». A causa del loro diretto coinvolgimento in attività che implicano la necessità di svolgere un lavoro per vivere, costoro, alla stessa stregua dei medi-ci e dei loro discendenti, non possono aspirare alle cariche medi-cittadine riservate al patriziato locale. Le loro professioni sono incompatibili con il rango richiesto per fare parte a pieno titolo del ceto nobiliare gallipolino. Come per i mercanti, segue un esemplificativo elenco nominativo di alcuni medici per i quali si pre-clude un’eventuale mobilità sociale e si ribadisce, ancora una volta, sulla scorta dell’autorevole parere del giurista cinquecentesco, menzionato sopra, che devo-no essere esclusi «dalla Nobiltà [anche] li pubblicani, ed i loro discendenti, che sempre inter sordidos abiectos, infames, et preterea male moratos abiti sunt». Anche per questi esattori fiscali o arrendatori di imposte segue un elenco nomi-nativo di individui che devono essere esclusi da incarichi amministrativi, in questo caso non senza una reale giustificazione, per motivi di incompatibilità, a causa del loro coinvolgimento in attività direttamente riguardanti la riscossione delle imposizioni fiscali o perché indebitati con l’Università.

A riprova dell’inadeguatezza delle loro pretese e della vaghezza della loro aspirazione alla promozione cetuale, l’estensore di una precedente memoria fensiva dei nobili non disdegna di fare i conti in tasca ad alcuni di loro per di-mostrare l’inadeguatezza di tali rivendicazioni. A proposito di tale don France-sco Pantaleo, uno dei richiedenti l’aggregazione al patriziato, si sottolinea che egli è

debitore, e litigante con l’Università [e, pertanto,] deve esser tenuto lungi dal-l’officii universali, tanto più [perché] è persona povera, essendo tassato nella Tassa annua del General Catasto per ducati dieceotto, e mezzo di rendita, cioè oncie 61 2/

3, e come povero è persona, che ha cagionati delle gravi turbolenze

nel Parlamento, e specialmente nell’anno 1754 in tempo del governo del Barone Don Giovanni Battista Marchitelli, a’ ricorso del quale fu processato dalla Regia Udienza di tumulto cagionato nel Parlamento, e con Real dispaccio fu’ carcerato per più mesi.

Tale don Giulio Papatodero, un altro di questi postulanti, «è tassato nel Ca-tastuolo dell’anno corrente per l’annua rendita di ducati venti e grana cinquan-ta; onde come povero, che non può mantenersi decentemente colle sue rendite deve esser escluso dalle cariche universali». Analoga condizione economica denuncia don Carlo Vanalest (qui menzionato secondo la forma originaria del suo cognome, a conferma delle sue ascendenze familiari di chiara derivazione olandese, ormai italianizzate in Vanalese) il quale «va’ tassato nell’annuo Ca-tastuolo per oncie 63 di beni propri, vale a dire per l’annua rendita di ducati dieceotto, e grana novanta, che non bastano a poter vivere senza qualche estra-neo sussidio».

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questi ultimi i richiedenti l’ascrizione al patriziato ritengono di potere essere considerati nobili e di potere aspirare a tale riconoscimento per una sorta di ere-dità immateriale ricevuta dai loro avi, per avere questi ultimi ricoperto l’ufficio o l’incarico di sindaco. Il ragionamento di costoro si basa su una sorta di silgismo: se quell’ufficio è una prerogativa dei nobili e delle loro famiglie ed i lo-ro antenati sono stati insigniti di quella dignità, non si spiega perché la stessa non possa essere riconosciuta anche ai loro discendenti. Sotto la denominazione di nobile vanno compresi i «Nobili viventi, e gli onesti borghesi, perché [rifa-cendosi a una giurisprudenza consolidata] Nobilium appellatione ad haec

ve-niunt honestae personae Nobiliter viventes»15. Infatti

Don Filippo Coppola nell’anno 1750 esercitava publica mercatura di olj con Camaldari, e Compagni, ed era Sindaco. Il fu Andrea Vanaleste Nipote di un mercadante olandese fu’ fatto tempo è Sindaco senza niuna opposizione. Don Carlo Leuzzi nel 1755 benche publico Negoziante di olio fu’ nominato, ed incluso Sindaco. Don Antonio Camaldari, […] fu’ nominato, ed incluso Sindico. Don Giuseppe Francesco Coppola benché discendente da Antonio Coppola negoziante nomine alieno, e con provisione, e poi morto decotto, nell’anno 1753 fu’ eletto Sindaco, non solamente senza opposizione, ma à viva voce, et nemine discrepante.

Se gli individui appena menzionati, malgrado non fossero «dotati di generosa Nobiltà, perché ò mercadanti o discendenti da mercadanti sono stati [comunque] eletti Sindaci senza nessuna opposizione», non si ravvisano i motivi che ostano al riconoscimento di uno status sociale cui essi appartengono di fatto. Secondo il ra-gionamento del loro difensore, per esercitare la carica di sindaco di Gallipoli è sufficiente che la persona da eleggere sia un «Nobile vivente, e non occupata in mestieri manuali, per poter più liberamente vacare al Governo del Publico».

Come si deduce dal caso appena riportato, relativo a Gallipoli, e come comprovano altre vertenze del genere riscontrabili un po’ dovunque, l’aspira-zione alla partecipal’aspira-zione al governo cittadino, pur con giustificazioni diverse, costituisce una forma di vertenzialità diffusa in quegli anni nel Mezzogiorno settecentesco16. A Gallipoli, più che altrove, in adesione alla mentalità diffusa

in tutto il Salento, si tratta di una aspirazione di mobilità che non intende mini-mamente scalfire gli equilibri sociali esistenti. La richiesta dei borghesi galli-polini è finalizzata soltanto ad una cooptazione e ad un inserimento tra i ranghi del patriziato urbano senza alcuna intenzione di mutamenti di altra natura. Gli esponenti della mercatura, delle professioni liberali o gli arrendatori di impo-ste statali non hanno alcuna presunzione di mutare l’establishment socioecono-mico nel quale sono organicamente inseriti. Il loro obiettivo è soltanto quello

15Pervengono a queste cariche con l’appellativo di nobili le persone oneste che vivono

nobil-mente.

16Per un’esemplificazione analoga promossa da alcuni esponenti della borghesia tranese nel

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di condividere un nuovo rango sociale senza alcuna alterazione degli equilibri esistenti. Essi non hanno una coscienza o una consapevolezza di ceto autono-mo, con interessi e obiettivi diversi da quelli dell’aristocrazia. La mentalità collettiva che guida i loro comportamenti è tutta chiusa nel contesto tradizio-nale del periodo e dell’area geografica di appartenenza. Supporre che essi pos-sano avere altre prospettive di vita significherebbe inserire valutazioni non aderenti alla realtà in cui vivono e considerare il loro operato con un metro di giudizio diverso rispetto al mondo nel quale essi sono organicamente inseriti e del quale fanno parte. Del resto, la valenza sociale della borghesia salentina e, soprattutto, di quella mercantile è considerata del tutto irrilevante dai contem-poranei.

A Lecce, per esempio, «non vi sono negozianti che in piccolissimo nume-ro», il che si ripercuote negativamente sulle condizioni economiche generali di quella collettività, contribuendo «a rendere maggiormente povera la città»17.

In-fatti gli esponenti leccesi di questa categoria sono poco numerosi rispetto a quelli provenienti da altre zone del Regno di Napoli, specialmente dalla costie-ra amalfitana e sorrentina. Più semplicemente, i mercanti della zona fungono da «agenti di altri negozianti di Napoli, Livorno ecc.»18, riproponendo così la

ca-renza di una imprenditoria locale in un settore particolarmente strategico dell’e-conomia locale e nell’ambito dell’organizzazione economica provinciale.

Sotto questa angolazione Gallipoli, il principale centro dell’esportazione olivicola salentina, rappresenta un caso paradigmatico. Qui, i «nobili disde-gnano il negozio e cercano di vivere a spese dell’Università», talché ne deriva «una cattiva idea degli abitanti di questa città dal vedere che ad eccezione d’un solo tutti i suoi negozianti sono stranieri»19. A tal proposito sarebbe

op-portuno che

Gallipoli come una picciola popolazione, o come città di commercio esige-rebbe che il mestiere di negoziante vi fusse onorato. Ma vi si è stabilito lo spirito di nobiltà che avendo diviso l’ordine de’ cittadini in tre classi, vi si è introdotta l’animosità e la divisione. La prima classe vien composta di per-sone che vogliono tenersi per patrizie e non per commercianti20.

Le lucide annotazioni di Galanti si sommano a quelle emerse in precedenza dalle richieste di aggregazione al patriziato avanzate dagli esponenti della bor-ghesia locale. Esse forniscono un’ulteriore immagine del quadro negativo che contraddistingue non solo l’economia locale ma, soprattutto, il comportamento e la mentalità di coloro che ne dovrebbero sostenere le sorti. Tra l’altro, Galli-poli, pur essendo la «prima città del Regno per commercio marittimo attivo»21,

17G.M. GALANTI, Giornale della penisola salentina, f. 16. 18Ibidem.

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non ha un porto adeguato alle necessità del suo traffico mercantile. Eppure sta-zionano quasi sempre da «20 a 30 bastimenti di diverse nazioni settentrionali nella sua spiaggia che dicesi porto»22 i quali, spesso, vanno incontro a naufragi

per effetto dei venti sciroccali e del basso fondale.

La scarsa attenzione per il miglioramento e l’adeguamento della infrastruttu-ra portuale si coniuga con il limitato interesse per le innovazioni tecnologiche da introdurre nella trasformazione della produzione olivicola. I «circa 50 trap-peti sotterranei»23, esistenti a Gallipoli sono un ulteriore indizio di una

menta-lità chiusa ad ogni novità, come rivela il rifiuto di adottare il «trappeto a giorno alla genovese»24, di cui parlano gli esperti25, che altrove sta riscuotendo qualche

successo tra gli operatori economici26.

Per fare una comparazione, intorno a quello stesso periodo, la favorevole congiuntura economica e la versatilità con la quale i baresi accettano le novità tecnologiche coeve consentono a Bari la diffusione di forme comportamentali ispirate ad una sorta «di confidente uguaglianza fra le classi, un poco curarsi di titoli senz’autorità; effetto questo di vita commerciale: il che se può dispiacere i teneri delle prerogative di nobiltà, agli altri non dispiace»27. Tutto il contrario di

quanto si riscontra nell’area salentina, dove il disinteresse per le attività produt-tive si coniuga con una salda adesione ad una mentalità «signorile» che, come una «malattia», coinvolge a vario titolo tutti gli strati sociali. Dunque non ci si deve meravigliare del permanere di una conflittualità anacronistica, affidata alle schermaglie giuridiche degli esperti di diritto piuttosto che ad una più esplicita dialettica sociale.

4. Tra nubilato e celibato forzato:i tentativi di autodifesa sociale

Il più incisivo radicamento delle istituzioni di antico regime nella zona spie-ga la persistenza di queste incrostazioni mentali che in forma diversa influenza-no altri segmenti della società locale. In un contesto con divari sociali così evi-denti, la presenza ecclesiastica contribuisce ad allargare il solco che divide i po-chi ricpo-chi dai molti poveri. In questa ottica vanno intese le affermazioni galan-tiane sul numero «eccedente» delle istituzioni e delle comunità religiose in area salentina. Tra l’altro, solo nel capoluogo si contano trentadue monasteri. La lo-ro diffusione sul territorio contribuisce a rendere «spopolata e misera» la città,

22Ibidem. 23Ivi, f. 23. 24Ibidem.

25D. GRIMALDI, Piano di riforma per la pubblica economia delle provincie del Regno di Na-poli, NaNa-poli, Presso Giuseppe Maria Porcelli, 1780, pp. 120 e sgg.

26A. CARRINO, B. SALVEMINI, Trasformazione tecnologica e innovazione sociale: Pierre Ravanas e l’olio del Mezzogiorno d’Italia fra ‘700 e ‘800, in «Quaderni storici», 2003, n. 113, pp. 499-550.

27 G. PETRONI, Della storia di Bari dagli antichi tempi sino all’anno 1856, Napoli, Fibreno,

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sicché a Lecce si vedono «moltissimi mendicanti fra moltissimo lusso e moltis-simo ozio»28.

Nonostante i divieti introdotti dal governo napoletano in materia ecclesiasti-ca, finalizzati a ridimensionare o a limitare il numero dei monasteri e l’entità del loro patrimonio, la permanenza di istituti tipici dell’antico regime come il maggiorascato non consente di fare molti progressi in questo settore. Anzi, ac-cade il contrario e i comportamenti mathusiani vengono adottati anche dai ceti subalterni come strategia a difesa della sopravvivenza familiare. In questa di-mensione va interpretata l’esistenza di «moltissime monache di casa o siano Bizzoche»29 rintracciate da Galanti «specialmente in S. Pietro in Galatina

[do-ve] hanno le loro adunanze colla loro Priora»30.

Tale consuetudine ha una larga diffusione tra le famiglie contadine della pe-nisola salentina. Oltre che a Galatina essa è diffusa in diverse località come Ortelle, Spongano, Poggiardo, Marittima ecc. (tra la Piana di Otranto e la zona del Capo) dove i parametri della distribuzione del reddito e dell’elevata inci-denza dell’«industria» evidenziano condizioni di maggiore precarietà econo-mica. A Poggiardo oltre l’89% dei contribuenti non supera singolarmente le 50 once di reddito. Anche se costoro detengono poco più del 65% dell’imponibile accatastato per tutta a comunità, l’incidenza del reddito da lavoro (l’«indu-stria») sul reddito copre per alcune fasce di contribuenti l’82 e il 66% dell’am-montare dell’imponibile, a conferma del ruolo decisivo svolto dal salario nella formazione delle loro risorse economiche. Analoghe percentuali si possono ri-petere per Ortelle dove oltre il 77% degli iscritti a ruolo sono inclusi nelle fa-sce di reddito inferiori a 50 once che, in questo caso, si suddividono una quota pari ad appena il 51% del reddito dell’intera comunità, ma presentano un’inci-denza del reddito da lavoro compresa tra il 75 e il 55%. Nella stessa casistica rientra Spongano con l’85% dei contribuenti, inseriti nelle stratificazioni più basse della distribuzione della ricchezza, che si ripartiscono meno del 44% delle once di tutta la comunità, sulle quali l’incidenza dell’«industria» oscilla tra il 63 e il 51%31.

Per difendersi da questa insicurezza sistemica i ceti meno abbienti escogita-no alcuni stratagemmi per far fronte alle difficoltà quotidiane dalle quali soescogita-no angustiati. Essi ripropongono, in una forma adatta alla loro modesta condizione sociale, le più note strategie familiari adottate dai ceti aristocratici. Quel celiba-to e nubilaceliba-to forzaceliba-to che evoca i freni preventivi di malthusiana memoria con i

28G.M. GALANTI, Giornale della penisola salentina, f. 16. 29Ivi, f. 17 v.

30Ibidem. Sul diffuso fenomeno delle monache di casa o «bizzoche» nella penisola salentina

per tutto il Settecento si veda L. PALUMBO, Il massaro zio prete e la bizzoca. Comunità rurali del Salento a metà Settecento, Galatina (LE), Congedo Editore, 1989.

31Per questi dati cfr. ivi, pp. 17, 63 e 72. La campionatura e comunque molto più ampia e la

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quali le stratificazioni più elevate della società si adeguano alle consuetudini cetuali della società di antico regime, per gli strati più modesti diventano una necessità inevitabile. Per la nobiltà si tratta di salvaguardare il rango, l’onore, la reputazione, la considerazione della casata. Per gli altri strati sociali e, soprat-tutto, per i ceti subalterni (meno garantiti sotto il profilo economico) le finalità sono di ben altra natura: più contingenti ed insopprimibili, perché connesse, in qualche caso, con la sopravvivenza personale. Sono le difficoltà della vita quo-tidiana a determinare un certo tipo di risposte, anche in relazione alle caratteri-stiche di quella economia rurale. Nel Mezzogiorno moderno, l’accentuata con-centrazione della terra o il frazionamento, talvolta, parossistico della proprietà e del possesso fondiario, la sistemazione monoculturale degli assetti produttivi o le forme di sfruttamento promiscuo e/o di tendenziale specializzazione intensi-va della superficie agraria, impongono soluzioni molto contrastanti tra loro. Es-se sono il risultato degli aspetti prevalenti in cui è organizzata l’economia rurale a livello locale e variano tra forme di solidarietà familiare, spesso forzata, e comportamenti di esplicita indifferenza, imposti dagli impedimenti oggettivi o dalle opportunità esistenti sul piano occupazionale e perseguibili individual-mente sul territorio. Anche in questi casi, le diverse strategie adottate derivano dalle relazioni che si instauravano in ambito parentale tra genitori, figli, fratelli e sorelle o altri congiunti, mediante la pratica del nubilato e del celibato forzato. Sono nuclei di contadini o di modesti massari con patrimoni di piccole dimen-sioni, costituiti da qualche tomolo di terra a seminativo, a vigneto, ad oliveto ecc. e con una produzione destinata essenzialmente all’autoconsumo domestico o ad alimentare il ristretto mercato del circondario.

Le monache bizzoche citate da Galanti per Galatina e ritrovate in altre co-munità salentine non costituiscono soltanto un fenomeno di carattere religioso e vocazionale. Esse nascondono una verità più complessa collegabile alle oggetti-ve ristrettezze economiche dei ceti contadini locali e alla impossibilità di costi-tuire una dote per evitare un eccessivo frazionamento fondiario. Ne derivano forme di convivenza tra famiglie composte da due fratelli con le rispettive mo-gli, al cui interno la sorella nubile dei primi rimane zitella, ma trova una qual-che opportunità di sopravvivenza personale. In altri casi la convivenza implica la presenza di un fratello prete che, per di più, può consentire forme di esenzio-ne fiscale mediante l’intestazioesenzio-ne del patrimonio familiare. In tal modo, soprat-tutto la terra è preservata da eventuali frazionamenti e tutti vivono «in communi et indiviso» o in «in società perfetta» contribuendo al buon andamento della ca-sa, anche in virtù di qualche economia di scala che, in questo modo, inevitabil-mente si riesce a realizzare.

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la differenza che alla bizzocca si poteva tutt’al più riservare la cosiddetta le-gittima e non bisognava comunque assegnare una dote monastica32.

Mentre il «sacerdote [assicura] alla famiglia i proventi della sua attività di culto», la bizzoca, invece, rinunciando al matrimonio, «non [pone] problemi di dote e di corredo ed [assume] il ruolo di serva fedele, sottomessa al padre o al fratello»33. Sulla vita familiare di queste bizzoche si possono ipotizzare molte

congetture, comprese quelle relative ai rapporti con le cognate che non sempre saranno stati idilliaci. Tuttavia è evidente che, pur fra le inevitabili amarezze della vita quotidiana, questa scelta si presenta come una soluzione comunemen-te adottata nel Basso Salento per evitare la precarietà di una condizione non au-tosufficiente.

Per i ceti sociali di estrazione contadina essa diventa una sostanziale accetta-zione di quella realtà che viene recepita come un dato inalterabile rispetto al quale è possibile reagire soltanto mediante forme di integrazione e di collabora-zione parentale. Per costoro la mobilità sociale è solo una aspiracollabora-zione onirica che ciascuno coltiva nella consapevolezza delle difficoltà oggettive a perseguire e raggiungere una progressione sociale verticale.

È appena il caso di rammentare che in Terra d’Otranto come nelle altre pro-vince meridionali «il mestiere di agricoltore non è considerato, né onorato, on-de appena un contadino fa un poco di fortuna» spera di diventare, «notajo o dottore, [mentre] il negoziante vuol divenir nobile»34. Anzi in alcune località –

aggiunge Galanti – «l’ingiuria maggiore che si possa dire ad uno è chiamarlo contadino»35.

I dati statistici sulla distribuzione del reddito di queste zone sono emblemati-ci delle asimmetrie soemblemati-ciali esistenti e delle difficoltà più generali che coinvolgo-no la maggior parte della popolazione salentina. La rarefazione dei ceti inter-medi e la loro tendenza a volere emulare i comportamenti dei ceti nobiliari, fino alla cooptazione tra i ranghi del patriziato urbano, ribadiscono l’influenza di una mentalità che si ripercuoterà inevitabilmente sul ritardo col quale l’area sa-lentina si presenterà sulla scena dei cambiamenti che si profilano all’orizzonte del secolo successivo. Il contenzioso sui diritti feudali che, dopo l’abolizione di quel sistema, darà luogo in questa provincia ad una vertenzialità maggiore di quella riscontrabile altrove, costituisce una indubbia dimostrazione della per-manenza del passato alla stregua dei comportamenti e delle forme organizzative tradizionali accennate nelle pagine precedenti.

32L. PALUMBO, op. cit., p. 54. 33Ibidem.

34 Su questa diffusa mentalità dei contadini meridionali, le stesse considerazioni vengono

espresse da un altro contemporaneo: «Appena alcuni acquistano qualche agio, che destinano i lo-ro figli alle plo-rofessioni di dottore, di medico o di notaio» (G. PALMIERI, Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli e altri scritti 1787-1792, a cura di A.M. Fusco,

Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 42).

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Le conseguenze di questi impedimenti e il peso che essi continuano ad avere sono testimoniati dallo stato in cui versano ampie zone del territorio salentino dove il paludismo e la malaria, lo spopolamento delle campagne36 e altre

diffi-coltà influiscono negativamente sull’economia e sulle condizioni della sua po-polazione. Anche questi sono problemi che, per esempio, non possono essere disgiunti dalla sperequazione delle risorse economiche in questa come in altri contesti meridionali. Qui la rarefazione di quei ceti borghesi, che altrove, pur con tutti i loro limiti, contribuiscono a mettere in discussione o, quanto meno, a svecchiare gli aspetti più tradizionali della società meridionale, è fondamentale per comprendere gli sviluppi ottocenteschi dell’area salentina.

36C. SALERNI, Riflessioni sull’economia della provincia d’Otranto (1782) con altri documen-ti, illustrazioni e facsimili, a cura di V. Zacchino, Lecce, Centro di Studi Salentini, 1996, pp. 51 e

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